News UCIPEM n. 951 – 26 febbraio 2023

News UCIPEM n. 951 – 26 febbraio 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in www.settimananews.it/chiesa/cosa-dietro-gli-abusi-nella-chiesa

accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

CONTRIBUTI ANCHE PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA

02 DON PAOLO LIGGERI                     Deportato

03                                                          Ideatore e fondatore dei consultori familiari di ispirazione cristiana

05 ABUSI                                               I gesuiti fanno i conti con il caso Rupnik, ma non fino in fondo

06                                                          Caso Rupnik, la linea sottile

09 BIBBIA                                              Pensare la vita con la Bibbia

12 CENTR0 GIOVANI COPPIE            “Grammatica dell’inaspettato”

12 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA    Newsletter CISF – n. 07, 22 febbraio 2023

14 DALLA NAVATA                              1° Domenica di Quaresima

14                                                           Commento

14 RELIGIONE                                       Oltre le religioni /4. Verso una teologia “integrale”

17                                                          A proposito del post-teismo

20 RIFLESSIONI                                     Perché il cristiano non sceglie la setta

20 SINODO                                           Dall’America all’Australia la richiesta di una Chiesa accogliente e libera dai pregiudizi

22 VESCOVO (il), IL PASTORE           L’ultimo scritto di Martini riproposto con il commento del Papa

Don PAOLO LIGGERI

Deportato

Paolo Liggeri nacque ad Augusta (Siracusa) il 12 agosto 1911 in una Sicilia non ancora raggiunta da quella industrializzazione che stava proiettando l’Italia tra le maggiori potenze economiche del continente europeo. La vocazione di Don Liggeri si manifestò intorno ai ventuno anni; infatti, in concomitanza con la prima missione della Compagnia di San Paolo sull’isola rimase «contagiato» da quella «dinamica e originale comunità spirituale» tanto da decidere di esplicare il suo ministero presbiteriale all’interno della Compagnia, ereditaria di quella lunga e proficua tradizione di «cristianesimo sociale» propria del cardinal Andrea Carlo Ferrari, fondatore della stessa Compagnia.

                Fu ordinato sacerdote nella compagnia di San Paolo a Milano nel gennaio 1935, nello stesso periodo nominato Assistente all’Opera Cardinal Ferrari a Milano e, infine, nel settembre ’43 fondatore e direttore del centro di ricovero «La Casa». Situato nel pensionato di Via Mercalli, attiguo alla Casa Madre della Compagnia di San Paolo, il ricovero offrì rifugio agli sfollati dei bombardamenti, ospitò giovani renitenti alla leva repubblichina, perseguitati politici e razziali, organizzò spedizioni di espatrio clandestino per ebrei e antifascisti e, con l’appoggio di Radio Vaticana, si occupò della registrazione e dell’invio di più di 171.200 messaggi ai famigliari di militari civili internati o dispersi. In questo periodo Don Liggeri intrattenne stretti rapporti con i cardinali Ildefonso Schuster di Milano e Maurilio Fossati di Torino i quali gli raccomandarono numerose famiglie ebree da nascondere o aiutare nella fuga dall’Italia.

                Il 24 marzo ’44 alcuni agenti dell’U.P.I. (Ufficio Politico Investigativo), accompagnati dal maresciallo delle SS Karl Koch, fecero irruzione nell’Istituto arrestando Don Liggeri e i 14 ebrei presenti in quel momento; dopo un breve interrogatorio, tutti assieme furono trasferiti nel braccio IV del carcere di San Vittore. Don Liggeri fu accusato di aver fornito aiuto a persone di fede ebraica e renitenti alla leva. Nel giugno ’44 venne trasferito nel campo di transito di Fossoli. Nel luglio ’44 invece a Bolzano per poi, a fine agosto, essere trasferito Mauthausen e poi nel sottocampo di Gusen. Infine, nel dicembre ’44 a Dachau dove erano presenti ventimila internati di cui ben 1.400 preti di differenti nazionalità (All’interno del campo erano rappresentate 142 diocesi, di cui 18 italiane, e 48 Congregazioni Religiose). Don Liggeri, classificato come Priester (sacerdote), fu assegnato alla baracca n. 26 dove erano presenti tra gli altri don Carlo Manziana, futuro Vescovo di Crema, Don Mauro Bonzi e Padre Giannantonio Agosti. Don Liggeri e alcuni dei suoi compagni di prigionia furono liberati il 29 aprile 1945 dall’esercito americano.

https://deportati.it/static/pdf/TR/2009/4-5/6-13.pdf

                Al suo ritorno a Milano fu nominato Vicario generale della Compagnia di San Paolo e riprese la direzione dell’Istituto «La Casa» che, a partire dal 1948, divenne il primo Consultorio familiare d’Italia, con quasi trent’anni di anticipo rispetto alla legge istitutiva (In Italia i consultori familiari saranno istituti con la legge n. 405 del 29 luglio 1975). L’Istituto «La Casa» continua ancora oggi la missione originaria di aiuto alla persona e alla famiglia. (Dal 1948 ad oggi l’Istituto La Casa è impegnato a rispondere ai bisogni relazionali emergenti della persona, della coppia e della famiglia, attraverso i propri servizi: Consultorio familiare accreditato Regione Lombardia, Adozione internazionale, DSA disturbi specifici dell’apprendimento. L’obiettivo permane quello di offrire una vera e propria “casa” simbolica per promuovere il valore della famiglia, accogliere il suo disagio e offrire servizi di supporto cfr. www.istitutolacasa.it).

                Don Liggeri ebbe modo di parlare della propria vicenda nel maggio 1967, quando venne convocato presso il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano che stava raccogliendo testimonianze riguardanti il processo all’ufficiale delle SS Friedrich Bosshammer, capo della sezione IV-B-4 della RSHA, responsabile della deportazione ebraica italiana di stanza a Verona, di cui si stava occupando il Tribunale di Dortmund (1964-1969) e del Tribunale di Berlino (1970-1973).

                La più importante ed estesa testimonianza della sua prigionia nei campi nazisti fu raccolta in “Triangolo Rosso”, opera autobiografica che si trasforma in resoconto giornaliero della sua esperienza concentrazionaria. Morì a Milano il 2 settembre del 1996.

Milano Archivio storico diocesano. 7 agosto 2019

Fondazione dei consultori familiari

Confesso che quando, nel 1948, annunciai alla stampa di Milano l’ideazione e la realizzazione di un consultorio, destinato alla soluzione dei problemi del matrimonio e della famiglia, non immaginavo affatto che un giorno, in Italia, sarebbe sorta una vera e propria “questione” dei consultori. A distanza di trentadue anni dalla fondazione di quel primo consultorio italiano, frutto evidente di una particolare sensibilità di un gruppo privato di esperti, per la vitalità delle famiglie, è stata approvata, in Italia, una legge-quadro sui consultori familiari, seguita, faticosamente e oltre i termini previsti, da leggo regionali, intese a stabilirne localmente le norme applicative. Sembrerebbe uno sviluppo semplice e perfino ovvio di una legislazione e di una regolamentazione dei consultori. Il risultato, invece, come vedremo, è stato assurdamente confusionario e contraddittorio, probabilmente perché, già a livello di formulazione della legge-quadro, erano carenti le informazioni e le documentazioni e si è proceduto, piuttosto, alla insegna della improvvisazione, da una parte, e di un’ansia di predominanza ideologica, dall’altra, ad opera di vari partiti e movimenti politici.

1. Un po’ di storia

Credo che Sia utile, a questo punto, per maggiore chiarezza, che io riferisca che cosa intendevo realizzare, quando organizzai il primo consultorio in Italia.

Dopo le incursioni aeree che avevano semidistrutto Milano, nell’agosto del 1943, nel generale sfollamento di uomini e di iniziative avvertii come un dovere che qualcuno rimanesse nella città devastata, in soccorso di coloro che non avevano la possibilità di cercare riparo altrove. Così, con un gruppo ridottissimo di generosi collaboratori, e quasi per rivalsa alle innumerevoli case distrutte, fondai l’Istituto “La Casa”, un modestissimo centro di iniziative di emergenza a favore di colori che erano rimasti privi di risorse e, a volte, delle stesse suppellettili essenziali, i cosiddetti “sinistrati”. Soccorsi, sia pure inadeguati, vennero organizzati dall’amministrazione pubblica (un posto per dormire, piccole somme di denaro, ecc.); ma poi fummo ben presto in grado di organizzare, in locali rabberciati di uno stabile sconquassato dai bombardamenti, mense a presso ridottissimo e, perfino, un pasto caldo quotidiano e gratuito per cinquecento “sinistrati”. Come siamo riusciti, a distanza di decenni non saprei spiegarlo se non con il fatto Milano è “grande” soprattutto quando si scatenano le sciagure. Ben presto le iniziative di soccorso (anche spicciolo) si moltiplicarono e così finimmo con l’occuparci anche di profughi dalla zona di combattimenti, di prigionieri alleati, fuggiti dai campi di concentramento in seguito alla confusione che seguì all’armistizio dell’8 settembre, di perseguitati politici e razziali. Molti vennero accompagnati oltre il confine con la Svizzera.

Ma un giorno, nel marzo del 1944, venni arrestato e poi deportato nei campi nazisti di concentramento di Mauthausen, Gusen e infine Dachau. Quando, al temine della guerra, prodigiosamente sopravvissuto, tornai a Milano, ebbi la consolazione di riscontrare che nel frattempo i miei collaboratori avevano continuato generosamente e rischiosamente a prodigarsi. Ma avvertii ben presto che l’Istituto “La Casa”, pur non abbandonando del tutto l’attività assistenziale tradizionale, doveva inoltrarsi in un programma nuovo e più specifico di attività a sostegno della famiglia.

C’era, in quegli anni dell’immediato dopoguerra, un gran vociferare per la “ricostruzione” del Paese: “Ebbene – mi dissi – noi ci dedicheremo alla ricostruzione della famiglia”. Sorsero così varie iniziative, per quel tempo insolite: pubblicazioni specifiche, editoriali e periodiche, corsi di preparazione al matrimonio, corsi di riorientamento per sposi e genitori, un consultorio prematrimoniale e matrimoniale per le difficoltà critiche che possono insorgere nella preparazione al matrimonio e lungo il corso della vita coniugale.

Ecco, l’idea del consultorio scaturiva da una serie di iniziative, specificatamente orientate all’aiuto della famiglia, le quali ci avevano fatto approfondire l’osservazione di situazioni problematiche, e istanze, più o meno esplicite, che richiedevano un organismo particolarmente qualificato, che le accogliesse e le esaminasse, in modo da chiarire ed evidenziare la soluzione migliore, caso per caso. La lunga guerra, con tutti gli imprevisti sfaldamenti fisici e psichici, gli sfollamenti, i viaggi pendolari in carri-bestiame, le interminabili prigionie di molti militari, gli internamenti nei campi nazisti di concentramento, la logorante assenza di notizie dei propri familiari, il bisogno di aiuto di ogni genere, e soprattutto, il senso incombente di precarietà della vita, che induceva a una considerazione di precarietà di altri valori, anche affettivi, anche morali, in realtà aveva seminato bombe rompenti e incendiarie, non meno disastrose di quelle materiali, nel vivo del tessuto familiare. I bollettini militari le ignoravano, la stampa ancora non se n’era resa conto, tranne a livello di cronaca nera, ma le famiglie sconquassate o pericolanti, a un osservatore attento, si manifestavano numerose come gli edifici sinistrati, sui quali si concentrava e si esauriva l’impegno nazionale della ricostruzione. Il 15 febbraio del 1948, quando annunciai al pubblico milanese che l’Istituto “La Casa” istitutiva un consultorio di quel genere, la stampa (a cominciare da quella quotidiana) mostrò subito vivo interesse, come se si fosse squarciato un velo che nascondeva una problematica sociale, diffusa e dolente. Ricordo che le prime persone che giunsero al consultorio si riferivano a un giornale o venivano addirittura con il giornale sul quale avevano letto la notizia, quasi per scusarsi di chiedere un aiuto così insolito di cui da tempo sentivano il bisogno.

L’intuizione, quindi, si era rivelata immediatamente corrispondente a una richiesta mia e reale, anche se secondo un tradizionale costume italiano (oggi molto attenuato), tacita e dissimulata. Ma un conforto inaspettato e, potrei dire, lusinghiero, mi venne attraverso un congresso dell’Unione internazionale degli Organismi Familiari (con sede a Parigi), che si svolse a Roma nel settembre del 1949. In quella occasione, in cui ebbi modo di presentare le iniziative dell’Istituto “La Casa” di Milano, a contatto con illustri esperti della problematica familiare, poteri constatare che in America e in parecchie altre nazioni europee ci si era già avviati o ci si avviava a realizzazioni analoghe. Tipico l’esempio dell’Inghilterra, dove, per iniziativa privata, erano già sorti molti consultori per arginare l’ondata crescente dei divorzi, che allarmava lo Stato, come una minaccia di disfacimento sociale.

Nel giro di pochi anni, sorsero altri consultori in Italia, con i medesimi intendimenti e sempre per iniziativa di persone sensibili e volenterose, senza riconoscimenti, né aiuti di nessuna sorta. Sono questi consultori, i quali nel 1968 si raggrupparono sotto la sigla UCIPEM (Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali), che, a mio parere, hanno focalizzato un bisogno sociale di primaria e fondamentale importanza per la solidità e la vitalità della famiglia, dedicandosi con mezzi idonei ad affrontare soprattutto i problemi critici della coppia in formazione o già formata. Altri esperimenti, già effettuati, o che saranno effettuati, come i consultori destinati alla distribuzione degli anticoncezionali, all’assistenza all’aborto, a una presunta educazione (che sarebbe più esatta denominare “istruzione” o “informazione”) sessuale, ma che in definitiva si riducono a una piatta e irrazionale anticoncezionalità, ritengo – come dirò ancora in seguito – che siano da considerare “periferici” ed eludenti la problematica centrale e basilare della crisi della famiglia.

       “don Paolo Liggeri, nostro fondatore, verrà riconosciuto tra i nuovi Giusti nella cerimonia in occasione della Giornata europea dei Giusti che quest’anno ha come tema: “Salvare l’umano nell’uomo. I Giusti e la responsabilità personale”. A Milano la posa delle nuove targhe si svolgerà il 3 marzo 2023 alle ore 10 presso il Giardino dei Giusti sito al Monte Stella (via Cimabue, MM1 QT8).

Durante la cerimonia è prevista la consegna delle pergamene in onore dei Giusti segnalati dalla società civile tra i quali don Paolo Liggeri “che dopo i bombardamenti su Milano del 1943 creò il centro di assistenza La Casa organizzando la fuga di ebrei e antifascisti”.

Oltre alle istituzioni e associazioni milanesi, sarà presente una delegazione della giunta comunale e un gruppo di studenti di Augusta, città natale di don Paolo.

                               Istituto la casa  – Milano              20 febbraio 2023

https://it.gariwo.net/giornata-dei-giusti/giornata-dei-giusti-2023-25636.html

www.comune.milano.it/-/giornata-dei-giusti-2023.-salvare-l-umano-nell-uomo.-i-giusti-e-la-responsabilita-personale

ABUSI

I gesuiti fanno i conti con il caso Rupnik, ma non fino in fondo

Quindici nuove testimonianze di violenze – sessuali, spirituali e di coscienza – compiute nell’arco di più di trent’anni a carico di Marko Rupnik, il noto gesuita al centro di uno scandalo dallo scorso dicembre per abusi. È quanto emerge da un comunicato della Dir, la Delegazione per le case e opere interprovinciali romane della Compagnia di Gesù, che dà conto del lavoro del team referente costituito proprio per accogliere le vittime del gesuita. Il numero esatto delle persone sentite è invece esplicitato dal superiore maggiore di Rupnik, padre

Johan Verschueren, su Repubblica e Associated Press, testate scelte dai gesuiti come uniche interlocutrici per i primi commenti sul report, al posto della conferenza stampa annunciata in un primo momento.

Le restrizioni. Ecco cosa sappiamo. In attesa di un ulteriore approfondimento sulla fondatezza e la gravità delle accuse, Rupnik non potrà accettare ulteriori incarichi come artista, «in modo particolare nei confronti di strutture religiose, chiese, istituzioni, oratori e cappelle, case di esercizi o spiritualità». Una restrizione che si aggiunge alla proibizione di lasciare il Lazio e ai divieti già in vigore (almeno formalmente) di officiare messa, celebrare sacramenti e parlare in pubblico. Sulla base di queste nuove testimonianze, il cui grado di credibilità è stato definito «molto alto», padre Verschueren ha però già dichiarato che intende promuovere un procedimento interno alla Compagnia sull’operato di Rupnik. Sul profilo della giustizia civile, tutto invece sarebbe prescritto: «La natura delle denunce pervenute tende a escludere la rilevanza penale, di fronte alla autorità giudiziaria italiana, dei comportamenti di padre Rupnik», si legge infatti nella comunicazione dei gesuiti. Ben diversa è la rilevanza da un punto di vista canonico, e qui si apre il ventaglio delle possibilità per il futuro sacerdotale di Rupnik: l’inchiesta potrebbe portare a provvedimenti disciplinari di diverso tipo, dalle limitazioni al suo ministero fino alle dimissioni dalla Compagnia. Molto dipende anche dall’atteggiamento dell’accusato e dalle sue intenzioni di ravvedimento, come sottolinea Verschueren: per ora Rupnik, se pur invitato a presentarsi, si è sempre sottratto al confronto con il suo superiore, ma ora dovrà «fornire la propria versione dei fatti».

Cosa manca. Il caso Rupnik, che da mesi tiene sulla graticola Compagnia di Gesù, curia romana e Vaticano, è dunque a una nuova svolta o siamo di fronte all’ennesima cortina di fumo? Il comunicato dei gesuiti, al netto delle dichiarazioni di solidarietà nei confronti delle vittime e dei “mai più”, non è chiaro e omette alcuni fatti importanti. Innanzitutto non nomina né la scomunica latæ sententiæ (poi subito rimessa) in cui Rupnik è incorso nel 2020 per “assoluzione del complice in confessione”, né il procedimento ecclesiastico al Dicastero per la dottrina della fede per abusi su alcune suore, concluso nel 2022 con la prescrizione dei fatti. Rupnik emerge dalla nota dei gesuiti come uno che non ha alle spalle uno “storico” di procedimenti ecclesiastici anche gravi: il Dir si limita infatti a constatare che non ci sarebbe il sospetto di «un delitto più grave contro il sacramento della penitenza» (quindi assoluzione di una persona con cui ha avuto un rapporto sessuale, per esempio) e dunque non ci sarebbero gli estremi per un trasferimento del nuovo dossier al Dicastero per la dottrina della fede. Padre Verschueren su Ap si è addirittura detto «”sollevato” dal fatto che il Dicastero non sarà coinvolto, data la sua precedente decisione di non rinunciare alla prescrizione del caso del 2021».

Lapidario il commento di Italy Church Too, il coordinamento contro gli abusi nella Chiesa nato un anno fa: «Si tratta di misure insufficienti e tardive – dice la referente, Ludovica Eugenio i gesuiti parlano di restrizioni che si aggiungono a quelle già in vigore ma che, come sappiamo, non sono mai state osservate da Rupnik, che ha continuato fino a dicembre a muoversi e a lavorare indisturbato. Inoltre se, come pare dal comunicato, Rupnik non si è ancora pentito, perché gli è stata tolta la scomunica nel 2020? Infine: perché il papa si ostina a non togliere la prescrizione e non riapre un nuovo procedimento ecclesiastico, visto che siamo di fronte ad almeno una ventina di vittime?».

Le domande senza risposta, come si vede, restano molte, compresa l’incognita su come verranno risarcite le vittime. Così come resta da indagare la rete di complicità che ha sostenuto e continua a sostenere il gesuita, a partire da chi ha provveduto a rimettere la scomunica (il papa, in un’intervista ad Ap, ha detto di non sapere nulla) fino a chi gli ha permesso di “sorvolare” sulle restrizioni imposte dalla Compagnia. Protezioni e amicizie che resistono solide anche oggi e che hanno permesso a un parterre di personalità ecclesiastiche e non – il cardinale Matteo Zuppi in primis – di ritrovarsi nella Basilica di San Giovanni Bosco a Roma, lo scorso 14 febbraio, a presentare “L’arte della buona battaglia”, l’ultimo libro di don Fabio Rosini, in cui Rupnik viene definito “maestro” e “profeta”.

 In bella vista la copertina con un mosaico del gesuita e in tutta la serata, fra elogi e consigli spirituali, nemmeno una parola sull’imbarazzante indagine per abusi in corso.

Federica Tourn   “Domani”  22 febbraio 2023

www.editorialedomani.it/fatti/rupnik-rapporto-dir-fkbu9wr5

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202302/230222tourn.pdf

Caso Rupnik, la linea sottile

Il caso del gesuita Ivan Marko Rupnik, prete artista, noto punto di riferimento internazionale, culturale e spirituale per chiunque abbia vissuto una vita ecclesialmente impegnata negli ultimi trent’anni, sembrerebbe togliere ogni dubbio a chi volesse ancora credere che gli abusi spirituali, di potere e sessuali nella Chiesa siano solo casi eccezionali. Il caso mostra che il sistema non ha al suo interno strumenti di guarigione per le malattie che contribuisce a creare. Lo shock che il caso ha comportato dell’opinione pubblica cattolica non è dovuto solo all’esemplarità del prete, al numero di vittime, all’ambito degli abusi, ma anche al silenzio complice della struttura. Occorre denunciare la particolare difficoltà che in questi casi le vittime si trovano ad affrontare, una difficoltà raddoppiata in ambito cattolico rispetto all’ambito sociale, per la posizione (ontologica) degli abusatori, per la valutazione (moralizzante) della materia sessuale, per la posizione (funzionale) delle donne, per la mancanza di una vera istanza di appello alla giustizia.

Ma occorre anche indicare cosa contribuisce a formare e consolidare tali strutture di peccato e a renderle così invulnerabili ad una guarigione.

  1. il nodo del rapporto tra maschilità e potere. Il primo e più grave problema è il nodo tra maschilità e potere, aggravato nella chiesa cattolica dal fatto che, secondo una certa concezione dell’ordine sacro, l’investitura di tale potere sacro trasformerebbe i candidati, tutti maschi, rendendoli di un livello ontologicamente superiore a tutti gli altri credenti. Questa interpretazione, oltre a convincere di una fondamentale distinzione in classi – senza «ascensore sociale» per le donne – riveste alcuni maschi di un potere quasi divino, assieme ad una aspettativa su di loro smisurata e indebita per qualsiasi essere umano. I candidati sembrano così costretti a compensare tale indegnità o nutrendo un ego smisurato o utilizzando il ruolo per compensare e coprire identità altrimenti fragili. Si tratta comunque di rendersi impermeabili ad un certo senso di inadeguatezza, vuoi appellandosi alla dottrina che tutti siamo peccatori, vuoi imparando l’arte della doppiezza. All’idea di avere qualità e poteri del tutto speciali purtroppo contribuisce anche certa complicità del resto dei credenti abituati all’idea che qualcuno debba pensare o dirigere per loro la loro vita. È difficile tuttavia evitare la tentazione di iniziare a sentirsi davvero «qualcuno», se la retorica della vocazione, se le strutture di formazione, se la posizione nella vita ecclesiale si strutturano attorno a te come ad un caso speciale, importante se non addirittura superiore.

Chi è un caso speciale può permettersi di porsi in modo speciale anche di fronte alla legge, che è per tutti, non per i pochi, oppure impara a doversi difendere dalle troppe regole imposte. In un caso o nell’altro cresce l’idea di impunibilità. E impunibili risultano davvero, per quella strana convergenza cattolica tra la necessità di non poterli sostituire qualora risultino inadeguati a livello intellettuale, culturale, morale o istituzionale, e la legge del Vangelo che condanna il peccato ma non il peccatore. Ripetute esperienze di impunibilità convincono queste persone di essere davvero superiori alle altre, tali da poter aggirare le condanne, di gestire le situazioni e le persone a modo loro, potendo avere comunque un accesso privilegiato alle stanze in cui le decisioni – anche su di loro – si prendono e convinti che Chiesa e Dio li perdonano e che anzi il peccato li renderà persone perfino migliori. Così anche gli errori, i peccati e le stranezze di questa parte di esseri umani, sono valutabili in modo del tutto eccezionale, particolare, differente rispetto a quello della comune umanità.

  • la selezione dei candidati. È chiaro che il secondo problema collegato al primo è la (non) selezione dei candidati. Arrivano oggi a chiedere l’ordine pochi sparuti ragazzi provenienti dal piccolo mondo antico Europeo scristianizzato, spesso con personalità fragili e problematiche, impaurite dalla complessità della società, che trovano nella Chiesa cattolica l’ultimo baluardo di una identità (maschile) dove ci si può continuare ad illudere di avere ancora rilevanza senza mettere in discussione i nodi del patriarcato (tra i quali quello tra potere e maschilità e tra maschilità ed eterosessualità). Numeri più consistenti vengono dal Nuovo Mondo occidentale dell’America del Nord: spesso mossi da una ricerca identitaria di posizioni cattoliche rigide, radicali e conservatrici. Il numero più consistente è chiaramente quello che viene dai Paesi dove il cristianesimo paga il prezzo della sua associazione al colonialismo. Per questi ragazzi diventare prete significa accedere finalmente a quel mondo di ricchezza, potere, cultura, insomma riscatto. II vescovi hanno una infinita necessità di candidati e si limitano a portare avanti questo Titanic con la fretta di imporre mani anche oltre ogni buon senso (nonostante tutto, ancora presente tra certi formatori di Seminari). Ma questi stessi selezionatori, come del resto tutte le cariche ecclesiali le quali non possono essere dissociate dall’ordine, sono persone prestate a competenze e professionalità che nonostante la buona volontà non possono essere fornite solo per opera dello Spirito Santo.
  • Un terzo problema strutturale deriva dal fatto che la Chiesa vive su scivolamenti di piani. Immaginiamoci una sorta di piramide: la teologia – una certa idea di Dio – determina l’antropologia (una certa idea di persona e di relazioni umane) sulla quale poggia l’ecclesiologia (l’idea dei rapporti tra credenti) che determinano istituzioni, sacramenti, fino al diritto canonico, gli stili di vita e infine una certa spiritualità che viene incarnata e vissuta dai singoli.

Avviene che i piani di questa piramide non siano più allineati e ne risente la punta. La Chiesa ha teoricamente assunto un modello antropologico nuovo, dove per esempio la sessualità è considerata originaria alla costituzione umana, la dignità della donna è proclamata pari a quella del maschio etc.. Eppure il piano delle istituzioni e degli stili di vita appaiono ancora derivanti da modelli antropologi arcaici, per esempio da un modello nel quale la sessualità è considerata secondaria e unicamente funzionale alla procreazione o dove la donna è secondaria e funzionale. Ora i nostri contemporanei, compresi quelli che diventano preti, sono convinti che la sessualità e l’affettività siano positive e completino la loro vita, anche quella spirituale. I singoli quindi non sentono contradditoria l’esperienza di una relazione affettiva con quella dovuta al loro stato (i preti fanno solo una promessa di celibato, ricordano), così non capiscono perché se la dovrebbero negare personalmente, preferendo nasconderla pubblicamente.

4.il linguaggio patriarcale. Un quarto problema è sul livello del linguaggio. Il linguaggio ecclesiale e spirituale è un linguaggio fortemente affettivo. Padri, fratelli, amore, famiglia. Il linguaggio familiare ha monopolizzato altri tipi di immaginario pur presente nei testi sacri (straniero, accoglienza, ospitalità; acqua, luce, parola, dialogo, ascolto etc). L’uso di queste metafore diventa letterale in alcuni casi. Il modello che tuttavia soggiace a questo linguaggio affettivo è quello della famiglia patriarcale. Dio che è amore diventa sostanzialmente un grande padre sul modello patriarcale con potere di vita (e di morte) sui propri figli a cui chiede obbedienza e sottomissione. Il credente si uniforma a questa struttura culturale ancestrale e gerarchica ed è ricondotto a riprodurne e riviverne le dinamiche anche inconsapevolmente, a tratti in modo letterale, ora nell’ebbrezza del sentirsi accolto, amato e parte di una grande famiglia, ora esercitando o subendo le dinamiche e le azioni concrete di un tale potere al quale deve dimostrare fuor di metafora appartenenza e sottomissione. Abbati e abbadesse (perché il patriarcato è agito anche da donne), padri (spirituali) e madri/gne offrono il loro affetto vitale in un legame «sacro» finché si riconosce loro anche quel potere (divino). Qualora li si metta in discussione si subisce la stessa sorte che quei modelli prevedevano: morte sociale, isolamento, perdita di riconoscimento. Insomma il linguaggio dell’amore ripropone anche le relazioni affettive e sessuali tipiche del modello patriarcale. Così l’ambito religioso che già di per sé tocca le corde dell’erotico, con il suo ché di follia, mania, oblatività e dedizione, si impasta di relazioni affettive il cui meccanismo interiore suona talvolta incestuoso, omosessuale, poliamoroso, nonostante tutte le rettifiche di una rigida morale vittoriana esterna. Tali parole non possono non agire profondamente nella struttura spirituale e nelle relazioni ecclesiali, fino a informarla di convinzioni inconsapevoli e di desideri innominabili. Laddove tali contraddizioni si vivono in modo acritico ecco che la scissione interiore è già lì.

L’elenco dovrebbe continuare almeno con il riferimento alla ferita che certi abusi spirituali infliggono sul simbolico religioso delle vittime. È una ferita che ha conseguenze non solo a livello di appartenenza ecclesiale, ma che lede la capacità stessa di attribuire fiducia e senso alla vita, perché tocca appunto il religioso.

schizofrenie interiori. Questi aspetti evidenziano come la struttura clericale porti i singoli a necessarie schizofrenie interiori. I piani scivolosi della piramide non permettono la coerenza psichica del singolo. La casa divisa al suo interno non può reggersi (Mt 3,25). Ma certi crolli avvengono senza vistose precipitazioni. Il caso Rupnik ci sciocca perché ci siamo illusi che lui, artista davvero, intelligente davvero, motivato davvero, preparato davvero, non poteva essere toccato da un simile contagio. Ma se è così, allora ci sono milioni di altri crolli anonimi, quotidiani: sono crolli interiori, di personalità disturbate che vanno avanti indisturbate o senza disturbare, di schizofrenie spirituali che provocano sofferenze nascoste, di scissioni morali che gridano vendetta solo davanti a Dio. Sono i tanti mattoni sbriciolati di una costruzione che non può che crollare. Certo, come in ogni struttura di peccato, la responsabilità del singolo appare perfino limitata. Quando si diventa parti del meccanismo di una tale struttura non è facile per il singolo accorgersi dove inizi il piano inclinato, come ci si ritrovi in certe situazioni, come si inizi ad agirle e a perpetrarle. «C’è una linea sottile tra tacere e subire, tra la noia e il piacere, tra star fermi e subire, tra il tuo bene e il tuo male, tra aspettare e scoppiare, tra restare e partire», cantava Ligabue. C’è sempre spazio però per la domanda alla propria coscienza: «Cosa pensi di fare, da che parte vuoi

stare?»

Selene Zorzi, già monaca benedettina “Rocca”n. 4, 15 febbraio 2023

www.rocca.cittadella.org/rocca/allegati/982/ZORZI.pdf

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202302/230223zorzi.pdf

BIBBIA

Pensare la vita con la Bibbia

Non sono una teologa di professione. Lo dichiaro subito per onorare il lavoro di quelle figure accademiche che fanno volare alto il pensiero, con anni di studio e di confronti serrati. Alla loro produzione attingo e il più delle volte mi stupisco della ricchezza delle chiavi di lettura proposte, delle intuizioni che danno avvio a costruzioni raffinate. Dovrò pagare il debito che ho nei loro confronti, io che sono una teologa di seconda mano! Queste righe sono un po’ come la prima rata, versata con un senso di gratitudine per il prestito ottenuto; e segnata dall’intenzione di mostrare che quel credito accordato non è stato vano. Se mi chiedessero quale tipo di teologia sento più mia, non saprei rispondere. Mi appassiona il procedere sistematico di un Karl Barth e l’ermeneutica del sospetto di Elisabeth Schüssler Fiorenza, le domande esistenziali di Paul Tillich e quelle politiche di Dorothee Sölle. Colgo le differenze di pensiero ma sento il conflitto delle interpretazioni come espressione legittima, persino necessaria, di una verità sempre più grande che le teologie provano a scorgere da diversi punti di osservazione.

la Bibbia, uno spazio di discussione. Non è così già nel mondo plurale delle Scritture ebraico-cristiane? È proprio al mondo delle Scritture che sono ricondotta dalle diverse produzioni teologiche. Ed è nell’abitare quel mondo che sento l’esigenza di dare forma ad un pensiero teologico. Non saprei stare diversamente nel mondo delle narrazioni bibliche, a meno di ridurle a repertorio di frasi religiose a cui attingere a seconda dei gusti e dei bisogni personali. Come dire: se sei solo una turista nel mondo della Bibbia, non ti serve la teologia: ti basta scattare qualche foto e comprare dei souvenir. Ma se quel mondo decidi di abitarlo, allora è impossibile eliminare il pensiero, a beneficio del solo sentimento. Nell’agorà delle Scritture, prendono la parola i diversi personaggi e autori, insieme a lettrici e lettori delle diverse epoche storiche. Non è un talk show che punta all’audience: lì si pongono questioni di vita e di morte. E su quei nodi si apre il dibattito. La Bibbia è una grande discussione! Quando leggiamo un libro di narrativa, la nostra attenzione è rivolta ai diversi personaggi e alla trama del racconto. Lo stesso avviene per la Bibbia.

un personaggio «tortuoso». Ma si potrebbe anche pensare che il Libro stesso è un personaggio. Sfuggente, misterioso, come lo sconosciuto che lotta con Giacobbe presso il fiume Yabbok (Genesi 32). Per me è un racconto specchio, una scena che ha la forza di restituire l’intera narrazione biblica. Nell’accidentato percorso esistenziale, pieno di imbrogli fatti e subìti, di situazioni fuori controllo con esiti imprevedibili, Giacobbe, uno dei personaggi biblici più complessi, deve affrontare il fratello Esaù, a cui aveva sottratto vent’anni prima la primogenitura. Si trova a vivere quel particolare momento in cui i nodi giungono al pettine. E con essi la paura di non riuscire a scioglierli. I conflitti sono ingrediente fisso di ogni vita – per Giacobbe persino prima del venire messo al mondo – ma alcuni conflitti sono più decisivi di altri, fanno da spartiacque. Qui Giacobbe subisce un terremoto esistenziale; la paura ha il sopravvento e la lotta che ne segue mostra i tratti di una seduta psicanalitica. Non è chiaro con chi lotti Giacobbe. Noi ci chiediamo se sia un uomo o se sia Dio: vi è come una sovrapposizione tra l’esperienza del divino e l’esperienza dell’umano, come, del resto, in tutta la Scrittura. Una lotta che Giacobbe vince, senza per questo risolvere la sua angoscia. La paura, che permane anche dopo essere stato dichiarato vincitore, lo spinge ad adottare una strategia di retroguardia: manda avanti prima i doni per ingraziarsi il fratello e solo alla fine gli va incontro di persona. Il nome Giacobbe significa «tortuoso»; e qui tutto è tortuoso: il patriarca, Dio, il racconto. Tortuosa, in realtà, è la vita e, dunque, anche quel mistero che ne è la fonte e che noi chiamiamo Dio, insieme alla narrazione plurale che attesta la relazione. Tortuosa e dunque soggetta a discussione, sottoposta ad interrogazione.

chi è davvero il benedetto? Contraddittoria, a tratti paradossale, è la vicenda dei due «fratelli coltelli». Il narratore, che precedentemente ha messo in scena un Esaù che ha rinunciato alla sua primogenitura, per disprezzo; e poi un Esaù che non ha potuto avere la benedizione perché gli è stata letteralmente rubata con l’inganno; ora, mette in scena un Esaù che, sorprendentemente, non è un uomo astioso, ma una persona riconciliata e benedetta, pieno di figli e figlie, e tanto bestiame; un uomo disponibile ad andare incontro al fratello: gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia. Giacobbe, invece, continua ad ingannarlo, non fidandosi del cambiamento espresso nell’incontro. Colui che non si è potuto appoggiare sulle stampelle della benedizione divina sembra aver camminato nella vita con più serenità. Esaù è un uomo risolto, riconciliato prima ancora che con il fratello, con se stesso. Mentre Giacobbe, nonostante la benedizione e il confronto con il messaggero divino, è ancora incapace di parlare la lingua della fiducia e della lealtà. Alla fine del percorso: chi tra i due è davvero il benedetto?

la Bibbia domanda di essere pensata. Questa scena tortuosa, per certi versi contraddittoria – come, del resto, è contraddittoria la vita! – si presta ad evocare la necessità di una riflessione teologica, che sappia essere all’altezza di una vita che sfugge alle semplificazioni e di un Dio il cui operato non ha nulla delle evidenze religiose da sempre attribuitegli. Senza teologia c’è spazio solo per l’homo religiosus e per il Deus ex machina. Per esistenze poco lineari, abitate da sentimenti contraddittori, e per un Dio che ribalta gli immaginari più consolidati ed entra nella mischia della storia occorre la fatica del pensiero. Solo la discussione teologica si profila come l’arma con cui provare ad affrontare la lotta. Se è la Bibbia stessa a domandare di essere pensata, interrogata, discussa, con un atteggiamento per nulla fideistico, remissivo, ossequioso, allora il pensiero può sentirsi a casa nel mondo delle Scritture. Allora – per dirla con un amico teologo, recentemente scomparso, Armido Rizzi – si tratta di «pensare dentro la Bibbia». L’affermazione sembra semplice, quasi evidente. In realtà, per secoli la Bibbia è stata considerata solo come la premessa al vero e proprio esercizio del pensiero: un repertorio di immagini che i teologi, armati degli strumenti messi a punto dalla filosofia, usano per edificare sistemi la cui coerenza risponde a criteri extra-biblici. Il recupero operato dalla Riforma della comprensione già patristica della Scrittura «interprete di se stessa» è stato un grido di battaglia per ritrovare il logos biblico, troppo in fretta abbandonato in favore di quello filosofico. Come dire: non c’è, da una parte, un mondo naif, quello della narrazione biblica e, dall’altra, la ragione che, con sufficienza, guarda a quei racconti mitici e prova a strapparli dall’ingenuità infantile per condurli alla maturità del concetto. Piuttosto, c’è una ragione propria di quei racconti, un’intelligenza biblica della realtà. Fare teologia significa dire il mondo con la lingua delle Scritture. Essere teologhe e teologi implica l’avere come lingua madre quella delle Scritture. Vuol dire scommettere – a ragion veduta! – che quella lingua, quello sguardo intensificano la visione, fino a far emergere quella vita buona che è il sogno di Dio fin dalla fondazione del mondo.

il caso serio della Parola. Pensare dentro le Scritture non è il privilegio di chi, con posa aristocratica, non ritiene sufficiente  credere e basta. È la mossa consapevole di chi prova a prendere sul serio quella Parola che dice il mondo e conosce il mio nome. È la passione dell’amata per l’amato, capace di leggere tra le righe del detto, in grado di scorgere l’intenzionalità del discorso, di collocare le singole parole entro una storia di relazione. È l’inseguimento amoroso della ragazza del Cantico dei cantici, insieme alle domande angosciose di Giobbe; è il mondo visto alla luce della redenzione, come narrato nell’Apocalisse, insieme al rigoroso principio di realtà del Qohelet. È sguardo percepito come unico – «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» – e, allo stesso tempo, necessariamente dialogico e aperto a profezie straniere – «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci. Ma Gesù gli rispose: Non glielo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi». Nessuna semplificazione è possibile per chi pensa dentro la Bibbia. La parola delle Scritture intensifica la percezione del vissuto, attivando sul medesimo evento una molteplicità di chiavi di lettura; e discute quegli assoluti troppo a nostra misura, partendo però proprio dal nostro sguardo limitato e offrendo una parola pedagogicamente tagliata su misura delle nostre possibilità.

Non è raro per chi prova a pensare dentro le Scritture di esprimersi con ossimori; e non per un vezzo esoterico, a motivo di un linguaggio iniziatico, riservato a soli eletti. Piuttosto per fedeltà al mondo, alla vita e a un Dio sempre più grande delle nostre categorie in bianco e nero. Penso alla prima parola di questa lingua, al momento sorgivo dell’esperienza credente attestata nelle Scritture. È lo stupore o il grido? È la meraviglia per una realtà giudicata «buona, molto buona», come afferma il Creatore fin dalla prima pagina? Oppure è il grido disarticolato e privo di interlocutore degli schiavi oppressi e disperati, con cui si apre il racconto dell’Esodo? Entrambi appaiono come l’inizio di un pensare dentro la Bibbia. E non solo l’inizio. Stupore e grido sono le chiavi dell’intero spartito biblico. Segnano l’esperienza del popolo d’Israele, di Gesù di Nazaret e quella dei suoi seguaci. Esprimono quel mistero dell’esistenza che è racchiuso nel desiderio di una vita buona, riconosciuto con stupore e non arreso di fronte alla sua negazione ingiusta. Stupore e grido dicono il mondo col linguaggio della bellezza e con quello della giustizia. Insieme. Mai l’una senza l’altra, pena quel «mancare il bersaglio» che la lingua delle Scritture chiama «peccato». E che si comprende meglio se non lo si intende come trasgressione che implica una sanzione ma, piuttosto, come interiezione sulla bocca di Dio: «peccato che non riesci a vedere in profondità il mistero della vita!».

la teologia come esercizio di responsabilità. C’è un’espressione del filosofo ebreo Franz Rosenzweig che mi appare significativa per il mio modo di leggere le Scritture. Aprendo la prima pagina del Libro, afferma: «Dio ha creato il mondo, non la religione!». Forse, a qualcuno potrà sembrare solo una frase ad effetto; in realtà, esprime la postura dello sguardo che la narrazione biblica, nel suo incipit, suggerisce a chi legge: il mondo narrativo che inizi a percorrere parla di te, del tuo mondo, dei desideri che ti abitano, insieme alle contraddizioni, al caso e alla necessità. Non è un libro che ti spinge a guardare il cielo – lo dirà anche il Risorto, in un altro incipit, quello che dà inizio alla testimonianza evangelica fino alle estremità della terra. È un racconto realistico, per nulla idealistico; è una parola vicina, lievito per l’agire quotidiano, visione che orienta le scelte, anticorpo alla rassegnazione allo stato di cose presenti.

Per me, teologa di seconda mano, il pensare dentro le Scritture è diventato un esercizio di responsabilità nei confronti di un’umanità che fatica ad accendere sguardi di senso sul proprio vissuto, che rischia di limitarsi a funzionare invece che vivere. E, insieme, un esercizio gioioso, di grazia – un’eccedenza di gratuità e di graziosità, che fa da filo rosso a tutta la Scrittura. Una teologia sensibile alla giustizia e alla bellezza, al grido e allo stupore, che si lascia interpellare dalla vita, che apprende la necessità di abitare il mondo rispondendo: «eccomi».

Ha scritto Günter Anders: «Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi». Una teologia che pensi dentro le Scritture è un servizio che le persone credenti nel Dio di Abramo e di Sara, di Gesù e di Maria Maddalena, non possono esimersi dallo svolgere, a beneficio del mondo, amato da Dio e sognato come giusto e bello, luogo in cui possa fiorire la vita buona.

  Lidia Maggi, pastora battista, “Rocca” n.4, 15 febbraio 2023

www.rocca.cittadella.org/rocca/s2magazine/index1.jsp?attiva_pre_zoom=1&idPagina=63&id_newspaper=1&data=15022023

https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/02/lidia-maggi-pensare-la-vita-con-la.htm

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202302/230223maggi.pdf

CENTR0 GIOVANI COPPIE – MILANO

“Grammatica dell’inaspettato

Sesto incontro del ciclo 2022-2023 del Centro Giovani Coppie San Fedele

Giovedì 9 marzo2023  incontro con

Sara Oliva Boch – pedagogista, facilitatrice Mindfullness

Giuseppina Boscolo – psicologa psicoterapeuta

sul tema:

“Perché proprio a noi? L’imprevisto della malattia

Di persona alle ore 21,00, nella Sala Ricci, in piazza San Fedele 4, a Milano.

Non è necessario prenotarsi.

Chi non può, potrà comunque vedere e ascoltare la conferenza sul canale YouTube del Centro.

“https://www.bing.com/search?q=youtube+centro+giovani+coppie&form=WSBEDG&qs=SW&cvid=71bb8f4a7d51478a9e5b0039ec736297&pq=youtube+centro+giovani+coppie&cc=IT&setlang=it-IT&PC=LCTS&nclid=7F494D0A0BB2B7CD3F1D9D0A93403A70&ts=1677515372835&wsso=Moderate

Pur riconoscendo la malattia come una delle possibili esperienze dell’esistenza, quando irrompe nella vita è spesso vissuta con grande spaesamento e paura, rabbia e profondo senso di incertezza. Tutto questo si manifesta sia nella vita di chi scopre di avere una malattia sia in chi gli sta vicino e accanto. La malattia impone un cambio di prospettiva sia nell’orizzonte quotidiano che in quello progettuale, sia rispetto alla propria vita sia rispetto alla vita della coppia, della famiglia. La condivisione della propria esperienza nel labirinto della malattia, il confronto e lo scambio sono strumenti decisivi per affrontare uno degli imprevisti più indesiderati.

https://mailchi.mp/1eefab520846/centro-giovani-coppie-san-fedele-conferenza-del-9-marzo-2023?e=dc6e7d7dc1

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n. 7 °, 22 febbraio 2023

  • Adamo 2050, la solitudine dell’ultimo bambino. È stato ripreso anche dalla stampa estera il cortometraggio [su YouTube – 7 min 25 sec]                               www.youtube.com/watch?v=UZntmC9lios

che Plasmon ha realizzato per mettere a fuoco l’emergenza denatalità. La prospettiva è quella di una coppia che viene intervistata perché è l’ultima in Italia ad aver messo al mondo un bambino, il piccolo Adamo, che crescerà senza coetanei in una desolazione che ricorda, per certi versi, il celebre romanzo “I figli degli uomini” di P. D. James. Plasmon ha anche presentato una piattaforma web che mette insieme tutte le problematiche che oggi disincentivano la natalità, con uno sguardo proiettato verso gli Stati Generali della Natalità dell’11 e 12 maggio 2023.                                                                                           https://adamo.plasmon.it

  • L’emergenza umanitaria diffusa dei caregiver. Tragici fatti di cronaca denunciano le infinite fatiche di chi assiste un familiare. Occorre affrontare questa emergenza umanitaria diffusa, che riguarda tantissime famiglie in cui chi si dedica amorosamente ai propri cari, arriva al punto di esaurire le risorse fisiche, relazionali, economiche. Una legge approvata nel 2018, ma non ancora attuata, aiuterebbe queste persone a non sentirsi sole e abbandonate. L’approfondimento di Francesco Belletti su Famiglia Cristiana.

                               www.famigliacristiana.it/articolo/caregiver-familiare-parola-inglese-dramma-italiano-.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_22_02_2023&fbclid=IwAR23zmRScECYir5LUiLdo4TjEnQNGdIJjo66VcGDMrE6a8Iv-Mh6ldR3UWA

  • 5 priorità pro-family per il congresso americano. Da una ricerca dell’Institute for Family Studies – su un campione di oltre duemila genitori americani con figli – sono emerse cinque richieste per il Congresso, perché approvi politiche favorevoli alle famiglie. Al centro delle indicazioni dei genitori ci sono:
  • il rafforzamento del Child Tax Credit per sostenere il lavoro e il matrimonio in modo fiscalmente prudente;
  • strumenti per proteggere i propri figli online;
  • ampliare i congedi retribuiti per i neo-genitori;
  • ridurre o eliminare le “sanzioni matrimoniali” che devono affrontare le famiglie a basso reddito (sposarsi non è conveniente, perché sommando i due redditi dei partner si supera il tetto per la copertura sanitaria statale). L’analisi del report è interessantissima ed è scaricabile a questo link.
https://ifstudies.org/ifs-admin/resources/reports/ifs-congress-familypriorities-final.
  • L’educazione finanziaria si apprende dalla famiglia. È il tema di una ricerca – “Genitori e figli: quanto conta la famiglia nell’approccio all’uso del denaro da parte delle nuove generazioni” – promossa dal Museo del Risparmio di Intesa Sanpaolo. La ricerca conferma che i modelli di gestione del denaro fanno parte integrante della missione educativa dei genitori, trasferendosi da una generazione alla successiva, e che la scuola ha un ruolo ancora abbastanza marginale nell’educazione finanziaria dei ragazzi [il testo integrale – 29 pp]         www.museodelrisparmio.it/wp-content/uploads/2022/12/Indagine-Famiglie-2022.pdf
  • Parma, un progetto di promozione dell’affido. Il Comune di Parma e l’Associazione Affidarca (Associazione di genitori affidatari di Parma), a seguito di un percorso di co-progettazione, saranno impegnati nei prossimi due anni, attraverso l’assessorato alle Politiche sociali e il Centro per le Famiglie, nella realizzazione di un progetto finalizzato a promuovere la cultura dell’accoglienza attraverso la pratica dell’affido familiare [qui l’approfondimento con tutte le azioni che saranno promosse]

                www.servizi.comune.parma.it/servizio/it-IT/Domanda-per-lassegno-di-maternita.aspx

  • Dalle case editrici
  • ISTAT, Storia demografica dell’Italia dall’Unità a oggi, 2023. [Primo quaderno di una nuova collana di web publishing, pubblicazioni accessibili a tutti, con contenuti e grafici interattivi, approfondimenti on line e dati scaricabili – qui il link]                                                                       www.istat.it/it/archivio/280672
  • Papa Francesco, Salvo Noé, La paura come dono, San Paolo, Cinisello B. 2023, pp. 224
  • Gianna Coletti, Mamma a carico. Mia figlia ha novant’anni, Einaudi, Milano, 2015 pp. 144

Chi ha vissuto o sta vivendo un’esperienza con un anziano non più autosufficiente comprenderà profondamente la situazione che Gianna Coletti, attrice, artista, racconta in questo libriccino densissimo che abbiamo voluto recuperare, anche se è stato pubblicato già da qualche anno. È la descrizione quasi universale di una generazione, in particolare femminile, che “nel mezzo del cammin” si ritrova schiacciata su molti fronti: da un lato la propria vita, le proprie relazioni, le scadenze di lavoro, i conti da pagare; dall’altra l’emergenza del parente anziano che lentamente o improvvisamente declina, perde di autonomia e in qualche modo stravolge le giornate. (…) (B. Verrini)

  • Save the date
  • Conferenza (Bruxelles) – 1° marzo 2023 (inizio ore 10.30). “3a Convention European Family Network. Innovating roots: working for future generations” [qui il programma completo]

www.trentinofamiglia.it/News-eventi/News/Terza-Conferenza-europea-protagonista-il-network-Family-in-Europe?fbclid=IwAR04-NUnUR257pHzPIcBn6S-W-xhqqe4uA_BuTMS8vl5Kfp_k-uc_faca7Q

  • Lectio Magistralis (Piacenza)1° marzo 2023 (10.30-12.30). “NextGenEU: un efficace motore di crescita per l’Europa?“, lezione di Piercarlo Padoan all’Università Cattolica di Piacenza [qui la locandina]
https://piacenza.unicatt.it/events-Lezione_Arcelli_2023.pdf
  • Evento (Firenze)8 marzo 2023 (17.30-18.30). “Riflessioni intorno all’educazione ai media da 0 a 99 anni”, con la partecipazione di Pier Cesare Rivoltella, nell’ambito dell’evento Didacta (8-10 marzo 2023) [qui per prenotazioni]                                                                                                       https://exhibitor.fieradidacta.it
  • https://exhibitor.fieradidacta.it/eventi/281-riflessioni-intorno-alleducazione-ai-media-da-0-a-99-anni
  • Convegno (Milano)30 marzo 2023 (8-13). “L’approccio interculturale nelle relazioni di cura”, organizzato da e presso l’Istituto dei Tumori di Milano [qui per info]

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DALLA NAVATA

1° Domenica di Quaresima

Gènesi                                 02,07. Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un   alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente

Salmo                                   50, 12. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito.

Paolo ai Romani              05, 28. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

Matteo                                04, 04. Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».

Commento

La potenza dell’uomo tocca un estremo lembo del Mistero di Dio, la vita. Mantengo il termine nella sua genericità perché è difficile dire che cosa è la vita. Essa è pienezza. Dalle radici biologiche da cui sgorga, su su fino alle alte manifestazioni dell’arte, fino alle alte esperienze del pensiero, tutto è vita. Le sue profonde radici si sottraggono ad ogni nostra oggettivazione, non si prestano alle nostre manipolazioni, perché là dove giunge l’occhio del dominio umano ivi si spegne la vita anche nel senso fisico della parola. Il precetto delle origini mi sembra arricchirsi di un’arcana attualità. Al di là di ogni discorso morale, che però ci vuole, sappiamo quale terribile casistica sia nata, in questi ultimi decenni, da poi che l’uomo, con la scoperta dei segreti che si nascondono nei cromosomi, ha esplorato proprio le sorgenti biologiche della vita varcando una frontiera che presenta prospettive ricche di morte come la scoperta dell’atomo. L’atomo biologico è ricco di potenze spaventose e di potenze meravigliose. Arrivato anche a questa frontiera, l’uomo si trova quasi sull’orlo ultimo della sua storia, o agli inizi di una nuova storia, perché ha toccato gli estremi: gli estremi della natura fisica con l’energia dell’atomo, gli estremi della natura biologica (e perché no? spirituale) entrando nei recessi del cromosoma.

Noi sentiamo come la nostra vecchia morale balbetta dinanzi a tanti interrogativi di cui parlano anche i giornali di questi giorni. Fino a dove può arrivare l’uomo? Può veramente trattare queste sorgenti della vita a suo piacimento? In che misura egli può davvero inserire la sorgente della vita ed i suoi impulsi ed i suoi ritmi liberi dentro le sue ingegnerie? Fino a che punto? Non c’è qualcosa — è il caso di usare l’aggettivo — di «satanico» in questa signoria su tutto? È una domanda che ci deve angosciare. Le risposte moralistiche del lecito e dell’illecito su questo o quel problema, che pur rappresentano un momento giusto della nostra intelligenza morale, devono però essere tutte contenute in una specie di atteggiamento di fondo, che vorrei dire di adorazione o di rispetto. L’albero della vita va rispettato, è un limite al potere dell’uomo. Se egli lo varca si estingue tutto: si spegne il sole, si spengono le stelle, appassiscono i fiori, muore tutto. È il punto limite. Quello che noi tocchiamo, quando tocchiamo la vita, rimane, nel suo esserci e nel suo modo di rinnovarsi, un mistero inesplicabile.

                                               p. Ernesto Balducci, scolopio                     Da “Gli ultimi tempi” vol.1 anno A

RELIGIONE

Oltre le religioni /4. Verso una teologia “integrale”

Quarta puntata del percorso[vedi newsUcipem n.947 e n.949] di riflessione teologica sul post-teismo, nuovo e affascinante volto della ricerca teologica contemporanea, curato da Giusi D’Urso, aderente all’Osservatorio Interreligioso sulle violenze contro le donne (OIVD). In questo numero un’intervista al rabbino Haim Fabrizio Cipriani, che nel 2017 ha fondato in Italia il movimento Etz Haim, per un ebraismo “senza mura”                    www.etzhaim.eu

Innanzitutto, vorresti brevemente presentarti ai lettori di Adista?

             Sono un rabbino e un musicista classico, concertista di violino e direttore. Il mio rabbinato è da sempre orientato verso l’apertura a ogni corrente del mondo ebraico, che è ampio e articolato, ma anche e soprattutto al mondo non ebraico. Ho strutturato tutto il mio servizio rabbinico in tal senso, creando fra l’altro la mia comunità Etz Haim, che è una “comunità ebraica senza mura”, dove ebrei e non ebrei studiano e pregano liberamente insieme, in un clima di totale apertura umana, spirituale e intellettuale.

                Vorresti descrivere la situazione attuale, lo stato attuale, della teologia ebraica?

                Il rabbino Samson Raphael Hirsh (1808-1888) diceva che «Mentre la teologia contiene i pensieri dell’uomo su Dio e sulle cose divine, la Torà contiene i pensieri di Dio sull’uomo e le cose umane». Martin Buber (1878- 1965) soleva invece dire che «noi non parliamo di Dio, ma a Dio». Questi due esempi mostrano che la teologia nella sua accezione classica è abbastanza estranea all’ebraismo, che si basa prima di tutto su fondamenti identitari, storici e normativi. Per questa ragione la cosiddetta teologia ebraica ha un carattere mai dogmatico e sempre molto esplorativo, basandosi su una impossibilità di definire e comprendere la Trascendenza, che per questa ragione non possiede neppure un nome. Se i pensatori ebrei post-illuministi avevano presentato concezioni che spesso cercavano di conciliare le tendenze filosofiche moderne con la tradizione ebraica, nel mondo moderno postmoderno la filosofia, la scienza, una nuova visione del mondo e dell’Uomo, il femminismo e molti altri fattori hanno sfidato molte delle concezioni tradizionali, spingendo i teologi ebrei a posizioni talvolta radicali, che vado ad accennare brevemente.

Mordekhay Kaplan (1881- 1983) abbraccia i progressi scientifici della modernità e rifiuta la credenza nelle forze soprannaturali, definendo Dio come una forza impersonale che offre agli uomini un’opportunità di salvezza, ma sempre per mano dell’Uomo.

                Una delle grandi sfide della teologia moderna è la lettura della Shoah (tempesta devastante-sterminio). Una volta sgombrato il campo dalla possibilità intollerabile che drammi simili costituiscano punizioni divine, i teologi ebrei hanno esplorato strade diverse. Secondo Richard Rubenstein (1924-2021) alla luce della Shoah possiamo affermare che non vi può essere più spazio per l’idea di un progetto divino, e che qualsiasi alleanza è morta. Forse Elie Wiesel (1928-2016) esprime indirettamente qualcosa di analogo nel suo “La notte”. Nel vedere un ragazzo impiccato un uomo chiede «Dov’è Dio?», al quale viene data la risposta: «È appeso a quella forca».

Emil Fackenheim (1916-2003) sostiene che la Shoah ci rivela un nuovo obbligo religioso, quello di concedere a Hitler la vittoria postuma. In quest’ottica rifiutare Dio a causa della Shoah sarebbe come arrendersi a Hitler.

                l filosofo Hans Jonas (1903-1993), unica figura non rabbinica fra quelle qui citate, è addirittura critico sul fatto che Dio avesse la facoltà di fermare i nazisti.

Eliezer Berkovits (1908-1992) sostiene che eventi come la Shoah sono il prezzo da pagare per il libero arbitrio umano.

                Irving Greenberg (α1933) sostiene che la relazione con la Trascendenza finisce con la Shoah, spezzata da una divinità che a questo punto non ha più l’autorità morale di esigere nulla. A questo punto il popolo ebraico può solo accettare la legge su base volontaria.

                Anche il pensiero femminista sfida le idee tradizionali. Pensatrici femministe contemporanee come Judith Plaskow (α1947) e Rachel Adler (α1943) notano che le immagini divine nella letteratura e nella liturgia ebraica tradizionale sono quasi esclusivamente maschili, aspetto che implicitamente valorizza maggiormente i maschi. La rabbina Marcia Falk (α1946) rivisita le poche immagini femminili tradizionali della Trascendenza (come la Shechinà nella mistica) e sperimentano nuovi modi di immaginarla e nominarla anche nella liturgia.

                In che rapporti si pone tale teologia rispetto alla cristiana, e più in generale in un dialogo ecumenico?

Recentemente don Giuliano Savina, direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei ha affermato che il dialogo con gli ebrei è un elemento chiave dell’identità cristiana. Anche se si tratta di dichiarazioni istituzionali che non sempre traducono volontà specifiche, questo tipo di presa di coscienza è importantissimo. Dal mio punto di vista il fattore più importante in tutto questo processo è la crescita di interesse da parte delle persone comuni, cosa che rende il dialogo e lo scambio molto più fertili e ricchi rispetto a quando esso avviene solo a livello di leader e professionisti del settore. La situazione del mondo e dell’uomo oggi mettono in crisi qualsiasi teologia elaborata nel passato, e avremmo tutti una grande esigenza di confronto al riguardo. Nell’ebraismo questo non può che avvenire attraverso lo studio, e personalmente non posso che sperare vi siano in futuro sempre più gruppi di studio che federino diverse espressioni religiose e spirituali.

                Come ti poni, o come si pone la teologia ebraica, in rapporto all’onnipotenza eventuale di Dio?

                Abbiamo visto precedentemente come il filosofo Hans Jonas si chieda se Dio avesse realmente la facoltà di fermare il genocidio. Esiste un filone nell’esegesi ebraica che vede fin dal racconto della Creazione alcuni piccoli segni, come il tentativo divino di creare un albero-frutto, che però si concretizza in un albero che fa frutti, o ancora due grandi astri che però di fatto sono un astro grande e uno piccolo [Gen. 1,11-16]. Queste particolarità sembrano suggerire che la Creazione fin dall’inizio sfugga al controllo della Trascendenza. In forme diverse, l’idea di una potenza divina certamente estesa ma non totale è espressa non solo da pensatori moderni, ma anche da classici. Saadiah Gaon [X sec.] nel suo Emunot veDe’ot (“Credenze e opinioni”) sostiene che la Trascendenza, che può fare ciò che è impossibile per noi, non ha però la possibilità di fare ciò che è logicamente impossibile. Per esempio non può far passare il mondo intero attraverso un piccolo anello senza rendere il mondo più piccolo o l’anello più grande. La dottrina dell’onnipotenza può essere qualificata in altri modi. C’è ad esempio il classico problema della predeterminazione. Levi ben Ghershon [XIV sec], discutendo della compatibilità fra prescienza divina e libertà umana, sostiene che la Trascendenza conosce in anticipo tutte le scelte aperte a ciascun individuo, ma non sa quale scelta l’individuo compirà, con il suo libero arbitrio.

Di conseguenza già all’interno della tradizione ebraica troviamo un’apertura verso una visione in cui la divinità non è necessariamente onnipotente, forse perché nel creare l’essere umano rinuncia implicitamente a tale facoltà.

Come giudichi il post-teismo, nato in ambito cristiano (che abbatte tra l’altro quella pretesa onnipotenza)?

                La teologia si evolve nel tempo perché le esigenze umane cambiano nel tempo e per essere rilevante la teologia deve rielaborare i suoi simboli a ogni generazione. Questo processo esiste in ogni cultura religiosa, ma è da sempre più rapido e articolato in ambito ebraico perché l’ebraismo non ha mai avuto una teologia sistematica, non prevede alcun tipo di dogma e non ha autorità centrali in campo teologico. Diversi pensatori ebrei della modernità, fra cui i rabbini Mordekhay Kaplan (1881-1983) e Michael Lerner (α1943), hanno esposto idee molto innovative sulla natura di un’eventuale entità trascendente. In tal senso l’ebraismo è sempre stato post-teista perché ha sempre tentato di andare oltre le idee esistenti al riguardo. Una forma di post-teismo ebraico è forse contenuta anche nella proibizione biblica di elaborare immagini, fisiche o metafisiche, della divinità, che sono destinate a diventare necessariamente obsolete. E forse possiamo vedere il seme di questo già nel modo in cui la Trascendenza si presenta a Mosè nell’Esodo: «Sarò ciò che sarò», nel senso che le modalità in cui sarà percepita la divinità potranno essere infinite, e anche il superamento di ogni concezione del divino, con il vuoto e l’inevitabile assenza che viene così generata, ne fa necessariamente parte.

Giusi D’Urso intervista Haim Fabrizio Cipriani    Adista Segni Nuovi n° 7                25.febbraio 2023

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A proposito del post-teismo

Il testo che è pubblicato, comparso come editoriale sul sito della rete dei “Viandanti”, è di Enrico Peyretti, ricercatore per la pace nel Centro Studi Domenico Regis di Torino e membro della Comunità cristiana di Via Germanasca (Torino), che aderisce alla Rete dei Viandanti. Il tema è quello – dibattutissimo sulle pagine di Adista – del paradigma teologico post religionario e post teista.

È possibile oltrepassare il teismo, cioè “l’idea di un Dio assolutamente separato dal mondo che interviene dall’esterno per salvarlo”? C’è un vero bisogno di superare il teismo! È bene, è interessante, che ogni immagine di Dio sia sempre da superare, correggere, affinare. Dio non è mai un oggetto circoscrivibile da una teologia conclusa. È realtà grande. Il teismo pensa un dio magico, onnipotente, separato dal mondo, padrone, giudice arbitrario, facile modello dei tiranni, che vuole salvarci da fuori di noi. Il Dio della legge, del premio e della pena. Nel Dies iræ era detto Rex tremendæ maiestatis. Un Dio Terrore, non Amore. Non ci fa felici. Ci facciamo continuamente idoli falsi: anche Maradona era detto “dios”. Se ci svegliamo, ce ne liberiamo.

                Il più forte post-teista Tra i tanti profili di Dio, netti o sfumati, c’è una proposta, onesta e chiara, nel cuore del vangelo arrivatoci da Gesù di Nazareth: «Dio nessuno l’ha mai visto» (2 volte nel NT, Bibbia cristiana). Il vangelo parte dall’ignoranza nostra su Dio, dalla necessità di rompere l’immagine dominante, e di rivedere continuamente la sua immagine, perché sia più vera. «Dio nessuno l’ha mai visto». Significa due cose, nel vangelo: 

1) Giovanni 1,8: Gesù ha “spiegato” Dio, (έξηγήϭατο), lo ha presentato, nella propria persona; Gesù è in relazione viva, filiale, intima, con Dio, è animato in pienezza dal suo Spirito. Dio si manifesta nell’uomo Gesù, in lui si è fatto carne umana. Dio è umano in Gesù .

                2) Prima lettera di Giovanni 4,12. Nessuno ha mai visto Dio, ma se ci amiamo tra noi, è qui, lo sperimentiamo presente, è realtà vivente, ben oltre i concetti.

                Gesù è persona umana, e manifesta, in sé, un Dio umano e personale. Il Dio di Gesù è solidale con noi, è persona co-vivente, amico, spirito animatore intimo di libertà, presente nelle relazioni di amore e giustizia, stimolatore e sostegno di continua ripresa nella via del bene. A me sembra chiaro: Gesù è il più forte e chiaro post-teista.

                In spirito e verità. Io sento questo da Gesù: Dio è umano. Qualcuno dice di no, che sarebbe troppo umano. L’abbiamo fatto troppo umano? È giusto correggere l’immagine metafisica di Dio, ben comoda alle religioni padronali. La riportiamo all’umano vicino, come fa Gesù anche nel dialogo molto trasparente con la Samaritana. A questa donna Gesù si rivela in modo privilegiato, e le dice che la relazione con Dio non è nel tempio sacro, ma è “in spirito e verità”, cioè

  1. è relazione intima e alta, vicina ed essenziale, nello spirito,
  2. è relazione orizzontale, umana, nel quotidiano della vita giusta tra fratelli e sorelle umani.

Anche la scienza della natura e le scienze umane ci sollecitano a ripensare la vecchia immagine e il vecchio rapporto con Dio. Arrivano risposte che io accolgo col punto interrogativo: Dio è una energia? È come la forza di gravità e il risveglio della primavera? È un fenomeno nella natura? È la natura stessa nella sua mirabile vitalità?

                Oppure: Dio è soltanto una parte di noi? La parte profonda di noi?

Credo invece che Dio sia un Tu, Altro ma Intimo a noi. Va bene rifiutare l’immagine di un essere lontano, strapotente e irraggiungibile, ma Dio non può essere dissolto nella nostra psicologia: è un Tu, di fronte. Le parole più essenziali del messaggio di Gesù «sentiamo che entrano in sintonia profonda col nostro essere, ma intuiamo che vengono da altrove, e proprio per questo sono grazia, dono, da accogliere con stupore e gratitudine, e da far fiorire» (Emanuela Buccioni, Rocca, 1° marzo 2022, p. 15). L’immagine intollerabile di Dio è superata dalla rivelazione di Gesù, ma non ridotta a una parte di noi: Dio è vita grande, assolutamente nuova, altra, e nello stesso tempo presenza intima. È Altro, e Intimo. Dio grandezza buona e vicinanza intima.

Certo, l’immagine più vera non è un nostro possesso imperdibile. Se scaccio il vecchio Dio tremendo posso poi trovarmi davanti altre maschere di Dio: il sistema che mi include e mi detta i miti illusori, di una breve stagione; figure umane potenti, anche religiose, anche di noi stessi che coprono l’orizzonte ed esigono omaggio; il nostro potere sulle forze naturali, illusi di farle nostre. Gesù continua ad operare come vero post-teista anche di questi dèi.

                Vita-che-dà-vita. In questa ricerca stimolante incontro una difficoltà: si pensa Dio non-persona. Dio non sarebbe personale. Cosa significa? Pensarlo come persona sarebbe farlo troppo umano, su modello nostro? Ma se non è persona, come può essere relazione? Nel vangelo di Gesù, Dio è Amore, effusione di vita, di bene, di resistenza, di crescita evolutiva. Se lo riconosciamo così, Dio è persona cosciente di sé, non è un fenomeno che accade e non ri-flette, che non sa nulla di sé, che non è co-sciente. Pensare Dio come fenomeno, energia cosmica, è panteismo, è cosmologia, non è né religione né fede. La fede è relazione intima, di fiducia, di affidamento, di comunicazione. Ma una relazione avviene solo come scambio tra coscienze e volontà personali.

                La fede cristiana è “oltre le religioni”, perché non è culto, non è debito, non è dottrina, ma comunione di vita. Dio lo conosciamo ad immagine nostra perché siamo noi immagine di lui. Lo pensiamo a nostra immagine, perché Dio ha pensato noi a immagine sua. Perciò la guerra è “sacrilegio” (dice papa Francesco), perché la violazione dell’uomo è violazione di Dio. È qui il massimo fondamento della dignità della persona umana.

                Poi noi pecchiamo facendo Dio strumento nostro, l’immagine peggiore di noi: dominio delle coscienze, «fondamento dei troni» (Ernst Bloch 1885-1977), cappellano militare degli eserciti. Dio ci è così familiare che lo usiamo, lo offendiamo, lo perdiamo. Se fosse “tutt’altro” non riusciremmo ad offenderlo: l’Atto Puro di Aristotele non si occupa di noi e a noi non interessa: è solo scritto in un trattato di metafisica, non ha relazione con noi.  Divenendo umano, Dio si mette nelle nostre mani, a rischio, ma anche è sempre altro, imprendibile. Lo inchiodiamo dentro i nostri sistemi, ma la sua vita non si fissa come vogliamo noi. È vita-che-dà-vita, e non è ingoiata e tutta contenuta nella nostra vita. Dio somiglia a noi perché noi somigliamo a lui.  Gesù, mi dico di nuovo, è il più grande post-teista.

                Facciamo una civiltà dell’ascolto. Conosciamo Dio nella relazione, non nell’essenza. Se è da intendere alla lettera che «noi siamo soli», come ho sentito qui, Dio non c’è per noi, né in una immagine né nell’altra, tanto meno con una presenza. Non ci sarebbe nulla da cui andare “post”. Dio sarebbe un’idea regolativa, un’immagine mentale, mutevole come ci piace, appunto non una persona, non una realtà. Allora il post-teismo così inteso sarebbe una forma gentile, non aggressiva, non apodittica, di a-teismo: «siamo soli». Proviamo ad ascoltare; facciamo una civiltà dell’ascolto. Facciamo prima il silenzio che sgombra la mente dai rumori, ma poi esercitiamo l’ascolto: ascolto reciproco, e ascolto universale. La Bibbia è una richiesta di ascolto: «shemà Israel» (Deuteronomio 4). Ogni altro suggerimento di significato è una richiesta di ascolto.

                I poeti ascoltano. Capiscono e dicono ciò che ascoltano. Solo i distratti, occupatissimi da troppe cose, non ascoltano, non sono poeti. Anche chi ha già definito tutto, non ascolta. Qualcuno attento ad ascoltare, si accorge, in qualche esperienza, che altri ascoltano: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Esodo 3, 7-10). Osserva, ascolta, conosce. Si rivela agli schiavi uno che sa vedere, ascoltare, conoscere. Ci accorgiamo che possiamo essere in una storia di liberazione.

                Ci arrivano storie lontane nelle quali riconosciamo i nostri sentimenti. Qualcuno palpitava come me. Certo, uomini e donne come noi. Ma non solo. Trovo possibilità di vita che sono nascoste in me, che ho dimenticato, qui c’è un vento che le risveglia. Qualcuno ha i nostri sentimenti: forse li abbiamo noi appresi da lui, quando eravamo senza sentimenti?

                Senza confini. Questo programma di ricerca dice anche “Oltre le religioni”. Perché abbiamo bisogno di scappare? Ci fanno tanto male? A me ha fatto molto più male la politica-guerra, l’antropologia machiavellica-hobbesiana, l’uomo nemico dell’uomo, e noi destinati ad ucciderci, la scienza a servizio dei padroni: questo mi fa più male delle religioni, perché, se è vero che le religioni ci compattano troppo, l’antropologia bellica ci separa e ci oppone radicalmente, sotto il divino potere dell’uccidere, che regna e decide. Questo sì che è un legame-religione disperante e condannante, trascendente-incombente.

A me, invece, la religione di cielo e terra, di Dio e umanità, ha detto: c’è respiro. Ho ascoltato Gandhi: «vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce».  Perciò, dice Gandhi: «…vi è una forza vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio (…). E questa forza la vedo esclusivamente benevola», perché in mezzo al male persiste il bene. (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il bene è più del male: confido e vedo.

                Poi ho ascoltato Aulo Gellio (Roma, 125 circa – 180 circa): «Religiosus esse nefas, religentes oportet» (Noctes Atticæ). Cioè, è cosa nefasta essere religioso, legato; bisogna essere di quelli che collegano. Vedo le religioni come collegamenti, reti di comunicazioni, anche con dei nodi troppo stretti, ma anche con dei flussi aperti da cui arriva e parte aria, respiro, libera comunanza. La religione può essere vissuta come libertà, come incontro amicale, e le religioni insieme come civiltà inter-culturale, mega-spiritualità. Fanno difficoltà le dottrine troppo definite, che arrancano dietro la luce, come per ingabbiarla in definizioni.

                In Michele Do, in David Turoldo, in Benedetto Calati, in Adriana Zarrireligione” suonava “amicizia”, e voleva dire mistero-meraviglia del seme che cresce nella zolla oscura: lo stesso che accade in te, in me. Con questi amici la religione faceva bene, dava uno spazio totale e vicino. Lo capivano dei non-religiosi come Rossana Rossanda, come Pietro Ingrao. La religione è amicizia, rete di amicizie. Ma può essere anche mania di superstiziosi impauriti. Dipende da cosa incontri, da cosa puoi ascoltare.

                Prima di questa amicizia, la religione, nel senso negativo, mi ha anche tormentato, ma io sono stato più furbo e libero: ha preso lo spirito buono, ho scosso via le catene, ho trovato fratelli a tutte le latitudini umane in questo respiro. Una religione unica, totalitaria? No! ho trovato maestri Simone Weil, Pier Cesare Bori (quacchero e cattolico), Raimon Panikkar (cristiano e buddhista), Gandhi («Dio è anche pane e burro per chi ha fame»), ho trovato cattolici come Arturo Paoli, che dice: «opporre religione vera e religioni false è una dichiarazione di guerra!». Come non voglio la guerra che ammazza, non voglio la religione che esclude. Quella che dichiara guerra non è la mia religione. Si può bene scegliere, no?

                Ho ascoltato Bibbia, Corano, Talmud, Buddha, Confucio, Seneca… Non da studioso specializzato, ma da una persona che vive. Il vangelo mi parla più di tutti. Parla la lingua che aspettavo. La poesia è religione e la religione è poesia. Siamo tutti poeti, se ci liberiamo. La religione è libertà; oltre la necessità dell’aria e del pane, comincia la libertà: ammiro la natura, cerco la fonte di bellezza e pace, cerco alimento allo spirito, che non debba disperare, morire, e peggio uccidere per saziarsi.

                Le religioni siano modeste e serene, non si vantino del loro sapere, di essere “vicari di Dio in terra”, di chiudere Dio nei loro templi e ricordino quel che disse Gesù alla Samaritana (Giovanni 4), fatta degna della più alta confidenza, assai più che a teologi e sacerdoti.

                E con i dogmi, come la mettiamo? Sono momenti, chiarezze viste. Troppo irrigidite? Va bene, andiamo avanti. Tutto cammina, camminiamo. Senza rinunciare. Scriveva a Gandhi sorella Maria di Campello (1875-1961): «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità» (24 agosto1928). La sua è una chiesa “senza confini”: «Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori della verità» (11 luglio 1932).

                Sono riconoscente. Per concludere, la mia perplessità sul post-teismo è, modestamente, questa: se perdiamo in Dio il carattere personale, di un Tu vivo, con cui abbiamo relazione di conoscenza, sim-patia (sentire-soffrire insieme), dia-logo, ascolto ed espressione, perdiamo semplicemente Dio, tutto Dio. C’è un ateismo serio, che dobbiamo rispettare e stimare. Un ateismo di ritorno, riduttivo, è troppo poco. Se Dio è solo una energia, una forza, io che sono appena «un vapore» (Pascal, 347) sono più di lui, perché ho coscienza di persona: so di essere. Ascolto la storia delle sapienze umane: parlano la nostra lingua, le sapienze ascoltano, non creano, ma raccolgono la voce delle cose perché le ascoltano. Confucio dice: «Io trasmetto, non creo». Tutto in noi è ricevuto. Io sono riconoscente.

 Dall’intervento tenuto al Primo incontro internazionale legato al nuovo paradigma post-teista, organizzato il 2 aprile 2022 da Gabrielli editori, in collaborazione con Adista e Officina Adista, intorno al tema “Quale Dio? Quale cristianesimo? La necessità di ripensare la fede” e pubblicato nel volume Claudia Fanti (a cura di), Quale Dio, quale cristianesimo. La metamorfosi della fede nel XXI secolo, Gabrielli, San Pietro in Cariano/Verona, 2022.                           Enrico Peyretti, pubblicato 13 febbraio 2023

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RIFLESSIONI

Perché il cristiano non sceglie la setta

Attraversiamo una stagione contrassegnata dal rapido mutamento delle forme del vivere e di questo si accorgono soprattutto i cristiani dell’Europa occidentale, in particolare nel nostro Paese. Tempo di crisi, dichiarata “benedetta crisi” in un acuto saggio di Erio Castellucci, vescovo di Modena; tempo che suscita in altri un’angosciata domanda: “Siamo gli ultimi cristiani?”. Dal Nord al Sud dell’Italia, nei miei incontri con le comunità e con i loro pastori, sento sempre dire: “La gente non viene più a messa!”. E questo mi ricorda che all’inizio del terzo millennio il lamento era: “I giovani non vengono più in chiesa”. E poco più tardi: “È sempre più raro vedere delle donne coinvolte nelle attività parrocchiali”. Nei giorni scorsi ero stupito che in luoghi diversi del nostro Paese, i preti mi dicessero la stessa cosa, che rispetto a quattro anni fa la gente che va a messa è dimezzata.

Non voglio dunque neanche annoiare il lettore con le statistiche – oggi abbondanti, serie e a volte autonome – che riguardano tale “diminuzione”, ma siamo tutti convinti, e lo ripete anche Papa Francesco, che la cristianità è finita, che i cristiani sono attualmente in condizione di diaspora e che se mai potranno apparire, come portatrici del Vangelo di Gesù Cristo, piccole comunità, disseminate in vari luoghi. Queste assicureranno un futuro alla fede cristiana se riusciranno a essere creative, significative, spezzando il muro dell’indifferenza in una società e in una cultura dalle quali è stato estromesso il messaggio cristiano.

Sì, da dieci anni usiamo la parola es-culturazione per dire che ormai la cultura dominante non solo non fa riferimento al cristianesimo, ma non ha neanche più la capacità di leggerlo, di decifrarlo. Questa nuova condizione dei cristiani deve essere intesa come una chiamata alla consapevolezza e a un’assunzione di responsabilità: si tratta di essere in grado di narrare Gesù Cristo oppure…scomparire!

Ma questo compito non deve portare a un’ipotesi settaria, anche se è questa la facile tentazione delle minoranze. E io sono convinto che fino a quando la chiesa sarà al centro delle preoccupazioni dei cristiani le tentazioni saranno sempre o la cristianità, oppure, se questa non è possibile, la setta. La via della setta, di cristiani militanti, con una netta identità, fervorosi e praticanti, è la via di quelli che si credono eletti. Ma Gesù non ha scelto questa via e non ha radunato i suoi discepoli in una cinta, in una realtà ben delineata e separata, ma in una comunità aperta, come stranieri nella compagnia degli uomini. Basta con il sognare cristiani associati in falangi o in conventicole. Si può essere discepoli di Gesù in tanti modi anche senza avere l’etichetta di “praticanti”, che non salva: per la salvezza è sufficiente un granello di fede, ha detto Gesù.

I cristiani dovrebbero porsi un’unica domanda: sanno narrare Gesù con la loro vita quotidiana a chi cammina con loro o lo chiede loro?

Enzo Bianchi                      “la Repubblica” 20 febbraio 2023

www.repubblica.it/rubriche/2023/02/20/news/altrimenti_del_20_febbraio_2023-388616526

SINODO

Dall’America all’Australia la richiesta di una Chiesa accogliente e libera dai pregiudizi

Il sinodo promosso da papa Francesco è entrato nel vivo in queste settimane durante le quali si stanno svolgendo le tappe continentali del dibattito; di fatto le assemblee cui prendono parte le delegazioni delle diverse Chiese nazionali divise per continenti e composte anche da laici, donne, teologi, sacerdoti oltre che naturalmente da vescovi, rappresenta forse l’ultima istanza veramente aperta e partecipata del percorso in atto. Dopo saranno principalmente i capi delle diverse Conferenze episcopali a guidare il processo e il rischio è che le tante istanze critiche e appassionate emerse nei documenti di sintesi delle discussioni svoltesi a livello nazionale – raccogliendo le voci emerse nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle comunità – vengano sapientemente diluite prima nelle sintesi continentali, poi nel testo generale che farà da base alla fase finale del sinodo che si terrà in due momenti distinti in Vaticano: nell’ottobre del 2023 e nello stesso mese del 2024.

                Una cosa d’altro canto appare certa fin d’ora, ovvero che una partecipazione tanto vasta dei laici alla discussione, dovrebbe ricevere un’adeguata rappresentanza anche nella fase conclusiva del cammino sinodale. Da segnalare, per esempio, come il documento della Chiesa degli Stati Uniti, sia assai più articolato di quanto si potrebbe immaginare guardando a un episcopato che sembra in buona parte impegnato solamente nella crociata antiabortista e nel sostegno al partito repubblicano. Merito del sinodo, e in tal senso anche del papa, è di aver fatto emergere una realtà cattolica assai più variegata e sensibile ad altre tematiche.

                La ferita aperta degli abusi. «Tra le ferite che affliggono il popolo di Dio negli Stati Uniti – si legge nel testo conclusivo del sinodo a stelle e strisce – la principale è rappresentata dagli effetti ancora in corso della crisi degli abusi sessuali. La fiducia nella gerarchia della Chiesa è debole e deve essere rafforzata. Gli scandali degli abusi sessuali e il modo in cui la leadership della Chiesa ha gestito la situazione sono visti come una delle cause più forti della mancanza di fiducia e di credibilità da parte dei fedeli. Le osservazioni registrate su questo aspetto hanno rivelato il persistere della ferita causata dall’abuso di potere e dall’abuso fisico, emotivo e spirituale dei più innocenti della nostra comunità». «Il peccato e il crimine dell’abuso sessuale – si afferma ancora – hanno eroso non solo la fiducia nella gerarchia e nell’integrità morale della Chiesa, ma hanno anche creato una cultura della paura che impedisce alle persone di entrare in relazione tra loro e quindi di sperimentare il senso di appartenenza e di connessione a cui anelano». Un altro elemento critico che sta corrodendo dall’interno la vita delle comunità cattoliche negli Usa, è la forte polarizzazione politica che è entrata nei discorsi e nelle proposte di tanti pastori.

                «Un’altra ferita duratura, ampiamente riflessa nelle consultazioni sinodali – si legge infatti – è stata l’esperienza di una Chiesa profondamente divisa. I partecipanti hanno percepito questa divisione come un profondo senso di dolore e ansia. Come ha detto un fedele, le ideologie politiche divisive presenti nella nostra società si sono infiltrate in tutti gli aspetti della nostra vita». Non solo: «molte sintesi regionali hanno citato la percepita mancanza di unità tra i vescovi degli Stati Uniti, e persino di alcuni singoli vescovi con il Santo Padre, come fonte di grave scandalo. Questa percepita mancanza di unità all’interno della gerarchia sembra, a sua volta, giustificare la divisione a livello locale. Le persone ai due estremi dello spettro politico si sono accampate opponendosi agli “altri”, dimenticando che sono una cosa sola nel Corpo di Cristo. La politica di parte si sta infiltrando nelle omelie e nel ministero, e questa tendenza ha creato divisioni e intimidazioni tra i credenti».

                Trasparenza e corresponsabilità. Fra i temi importanti venuti fuori da sinodo degli Stati Uniti, quello della trasparenza, concetto che va vissuto a ogni livello della vita ecclesiale e comunitaria. «Quasi tutte le consultazioni sinodali – si legge infatti nella sintesi delle discussioni svoltesi in America – hanno visto nella comunicazione chiara, concisa e coerente la chiave del forte desiderio di un’adeguata trasparenza. La categoria generale della trasparenza è stata citata più e più volte: trasparenza nella crisi degli abusi sessuali, trasparenza nel prendere decisioni difficili, trasparenza nelle questioni finanziarie, trasparenza nell’ammettere quando qualcosa va storto, trasparenza nella pianificazione, trasparenza nella leadership. La trasparenza porta con sé la responsabilità, che molti ritengono manchi nella Chiesa». Ancora è stato sottolineato come «molti desiderano che la leadership della Chiesa prenda più seriamente in considerazione i talenti e le conoscenze dei laici. Alcuni hanno espresso la necessità di utilizzare in modo più efficace i Consigli parrocchiali e i Consigli pastorali diocesani. Altri ancora vogliono che i loro pastori e vescovi esplorino più profondamente con i laici il modo migliore per partecipare alla comprensione della missione della Chiesa e dei suoi sforzi per evangelizzare i suoi membri e il mondo».

Meno regole, più accoglienza. Tuttavia, «il desiderio più comune espresso nelle consultazioni sinodali è stato quello di essere una Chiesa più accogliente, dove tutti i membri del popolo di Dio possano trovare un accompagnamento nel cammino. Le consultazioni sinodali hanno menzionato diverse aree in cui esisteva una tensione circa il modo di camminare con le persone rimanendo fedeli agli insegnamenti della Chiesa, per molti la percezione è che l’applicazione generalizzata di regole e politiche sia usata come un mezzo per esercitare potere o agire come un guardiano». Come descritto da una consultazione sinodale, «le persone hanno notato che la Chiesa sembra dare priorità alla dottrina rispetto alle persone, alle regole e ai regolamenti rispetto alla realtà vissuta. Le persone vogliono che la Chiesa sia una casa per le persone ferite non un’istituzione per i perfetti. Vogliono che la Chiesa incontri le persone dove sono, ovunque esse siano». In questo senso «la speranza di una Chiesa accogliente si è espressa chiaramente con il desiderio di accompagnare con autenticità le persone LGBTQ+ e le loro famiglie. Molti che si identificano come LGBTQ+ credono di essere condannati dagli insegnamenti della Chiesa». C’è «un urgente bisogno di orientamento», come ha chiesto una parrocchia: «Crediamo che ci stiamo avvicinando a una vera e propria crisi su come servire la comunità LGBTQ+, alcuni dei quali sono membri delle nostre stesse famiglie. Abbiamo bisogno di aiuto, di sostegno e di chiarezza». Spesso le famiglie «si sentono combattute tra il rimanere nella Chiesa e il sostenere i loro cari». «Per diventare una Chiesa più accogliente – si osserva – c’è un profondo bisogno di un discernimento continuo di tutta la Chiesa su come accompagnare al meglio i nostri fratelli e sorelle LGBTQ+. Le persone che hanno divorziato, che si siano risposate o meno, spesso non si sentono ben accette all’interno della Chiesa».

                Una Chiesa compassionevole. La stessa questione è stata posta nel corso della discussione sinodale svoltasi in Australia: «È emersa una particolare percezione del fatto che la sinodalità consiste nell’accogliere e includere tutti, in particolare coloro che si trovano ai margini della Chiesa e della società. Tali gruppi includono gli indigeni australiani, i migranti e i rifugiati, le donne, coloro che hanno orientamenti sessuali diversi, i poveri e i vulnerabili. In alcuni casi, la Chiesa è stata vista come una barriera all’esclusione attraverso i suoi insegnamenti e la loro applicazione. D’altro canto, alcuni hanno chiesto alla Chiesa di essere più compassionevole pur rimanendo autentica nei suoi insegnamenti. È stata chiesta anche una maggiore inclusività per riaccogliere nella comunità eucaristica coloro che hanno lasciato la Chiesa, coloro che si sono sentiti discriminati e coloro che si sono sentiti sgraditi a causa di insegnamenti della Chiesa apparentemente restrittivi. Invece di “parlare a” coloro che non si sentono più benvenuti, è stato espresso il desiderio che la Chiesa “cammini con” loro, esprimendo l’inclusione attraverso l’ascolto rispettoso e il dialogo».

                Basta con il sacerdozio solo maschile. Sulla questione femminile, cioè sulla possibilità di attribuire alle donne incarichi di leadership e di ordinare donne diacono e donne sacerdote – temi presenti in quasi tutti i contributi sinodali – riportiamo quanto emerso dal dibattito sinodale della Nuova Zelanda: «Il ruolo e la condizione delle donne hanno inevitabilmente interessato molte persone. Le aspettative sociali sono cambiate e le donne ricoprono ruoli di leadership chiave sulla scena nazionale e mondiale. Si è sentita fortemente la necessità che la Chiesa tenga conto della loro saggezza, del loro intuito e delle loro capacità di leadership, garantendo loro una partecipazione paritaria nei ruoli decisionali e liturgici chiave». «Sia gli uomini che le donne – prosegue il testo – hanno parlato spesso del fatto che alle donne viene negata la piena partecipazione ai ruoli sacramentali e di governo. Molti sono consapevoli delle nuove opportunità di servire come accoliti, lettori e catechisti, ma dicono che non è sufficiente. È stato espresso sostegno per l’inclusione delle donne nel diaconato e per la loro ordinazione sacerdotale. Questa mancanza di uguaglianza per le donne all’interno della Chiesa è vista come un ostacolo per la Chiesa nel mondo moderno».

Francesco Peloso  Adista Notizie n° 7 del 25 febbraio 2023

www.adista.it/articolo/69552

 

VESCOVO (il) , IL PASTORE

L’ultimo scritto di Martini riproposto con il commento del Papa

Presentato nella sede de La Civiltà Cattolica il libro che ripropone l’ultimo testo del cardinal Martini, integrato con considerazioni e commenti di Francesco sul ministero episcopale in un’ottica sinodale.

Padre Casalone: contiene intuizioni che ispirano chiunque svolga un servizio di responsabilità in una comunità umana, ecclesiale e civile, perché indica uno stile di relazione, un modo di esercitare l’autorità che promuove la persona, fa crescere le coscienze e costruisce comunità

Due vescovi che custodiscono e accompagnano il gregge di Dio. Ciascuno con uno stile peculiare e l’eredità della comune sequela sulle orme di Ignazio di Loyola“. Così ù

 suor Nicla Spezzati, sottosegretaria al Dicastero per la vita consacrata, ha intrecciato l’esperienza pastorale del compianto arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, e quella del vescovo di Roma, Papa Francesco, autori del libro “Il vescovo il Pastore. L’autorità nella Chiesa è sempre “al servizio” (edizioni San Paolo) presentato il 24 febbraio, presso la sede de La Civiltà cattolica.

                Casalone: un libro profondo e ispiratore

 Il cardinale Martini a Gerusalemme.

 Il volume rimette in circolazione “Il vescovo, un testo oggi introvabile di Martini, accompagnato da considerazioni e commenti del Pontefice che permettono di approfondire il tema del legame tra vescovo e popolo. A proporne la pubblicazione, già in occasione dei dieci anni dalla morte di Martini, è stata la Fondazione a lui dedicata la quale ha desiderato andare al di là di una semplice operazione celebrativa, creando continuità tra le riflessioni dei due gesuiti in un tempo in cui la sinodalità assume una rilevanza cruciale.

                Il libro è stato pubblicato dall’editore San Paolo e contiene il testo del cardinale Martini a cui fa eco Papa Francesco con riflessioni e commenti sul ruolo del vescovo nella Chiesa e nella società di oggi

“Questo è l’ultimo libro che Martini ha scritto e quindi raccoglie tutta la sua sapienza rileggendo l’esperienza che ha avuto, un libro profondo in tutta la sua semplicità“, dice padre Carlo Casalone SJ, presidente della Fondazione Carlo Maria Martini. “E poi ha molte intuizioni che ispirano o possono ispirare chiunque svolga un servizio di responsabilità in una comunità umana, sia essa ecclesiale, come è il caso del vescovo o di altre forme di ministero, sia civile, perché indica uno stile di relazione, un modo di esercitare l’autorità che promuove la persona ed è obbediente alle dinamiche dell’insieme della comunità. Martini– precisa – ha cura della comunità e nello stesso tempo esercita l’autorità come servizio delle coscienze in modo che non si astraggano dalla vita comunitaria. In un certo senso lui si rifà al concetto originario di autorità che significa ‘far crescere’, rendere l’altro autore, capace di assumersi in prima persona quelle responsabilità che sono proprie anche nei confronti degli altri, e questo costruisce la comunità“.

                Il Pastore, uomo di preghiera e misericordia. Le pagine del vescovo di Roma sulle peculiarità del Pastore rimarcano quanto questa sia una figura che non è nata in laboratorio, e che deve sempre sforzarsi di attingere ai consigli del suo clero e del popolo evitando ogni forma di carrierismo. Nella postfazione Papa Francesco scrive che Martini ha inteso dipingere una immagine viva del vescovo, concreta e senza false pretese, usando “estrema schiettezza”. Ripercorrendone le riflessioni che più lo hanno colpito, il Papa sottolinea l’imprescindibile rapporto con il Signore che il vescovo deve essenzialmente avere nella preghiera, la peculiarità di essere “uomo di misericordia”, il fatto che deve agire come “medico in un ospedale da campo” e non deve trascurare il rapporto con i giornalisti.

                È questo un punto che ritiene importante alla stessa stregua di quanto lo considerava l’arcivescovo di Milano. “Anche se può accadere qualche errore – afferma Francesco – dovuto alla sua impreparazione, il vescovo deve sapere che ‘l’importante è dirigere la barca verso il porto, giungere a comunicare davvero con la gente, sapere entrare in una relazione quasi personale con l’ausilio dei media“. Soprattutto in considerazione dei lavori sinodali attuali, Francesco sottolinea la necessità che il vescovo, proprio come scrive Martini, manifesti la comunione con gli altri vescovi e con il Papa, e tutta la paternità spirituale nei confronti dei sacerdoti. E invita a riflettere sul bisogno di strumenti snelli e celeri di ricezione dei pareri. Consapevole che non esiste un pastore ‘standard’ per tutte le Chiese, Francesco descrive in sintesi il vescovo come “colui che veglia, sostenendo con pazienza i processi attraverso i quali il Signore porta avanti la salvezza del suo popolo“. E ricorrendo ancora una volta alla metafora dell’odore delle pecore, aggiunge: “Non basta vigilare, occorre avere la mansuetudine, la pazienza e la costanza della carità (Papa Francesco).”

                Il vescovo tra la sua gente. Martini e Francesco, uomini dell’ascolto fraterno e universale. Nelle parole di suor Nicla – peraltro fresca dell’esperienza sinodale vissuta a Praga per la tappa continentale europea, dove la delegazione italiana di cui era parte ha espresso la propria voce ricorrendo molto all’eredità martiniana – il continuo parallelismo tra Martini e Bergoglio si traduce nell’evidenziare come entrambi “sono vescovi che ricordano, ad ogni ora, la terra dell’origine e del compimento, con la vitalità di uomini in costante ricerca. Vitalità che si fa discernimento vigile, guida a scegliere l’essenziale in ogni circostanza“. Entrambi invitano a prendere sul serio il farsi prossimo, promuovendo una fraternità non solo desiderata, ma possibile. Entrambi invitano “ad ascoltare con l’orecchio del cuore” poveri, carcerati, intellettuali, credenti e non credenti, giovani, sfuggendo ogni miopia particolaristica e senza ricorrere sbrigativamente, precisa la religiosa, a risposte preconfezionate. Entrambi, si fanno intercessori per la pace.

                Bizzeti: Martini in dialogo con le novità della storia e della gente. A suggellare la presentazione del volume è stato  monsignor Paolo Bizzeti SJ, vicario apostolico di Anatolia, che ha condiviso la sua testimonianza da una regione ferita, dove esercitare l’autorità episcopale deve misurarsi da un lato con le poche risorse umane e materiali,  dall’altro con una varietà di riti e ‘modelli’ di vescovo che “devono necessariamente interpellare”, anche nell’ottica di realizzare un effettivo cammino ecumenico. Bizzeti ricorda quello che è stato il suo rapporto con il cardinal Martini: dall’epoca in cui era rettore al Pontificio Istituto Biblico (“uomo tradizionale, nel senso migliore del termine”), all’epoca della Congregazione 32ma della Compagnia di Gesù (“un uomo che, pur già molto strutturato, si poneva in discussione, non si sottraeva al confronto con le novità del tempo“); dall’epoca in cui a Milano riconosceva con estrema lucidità la complessità del ministero e i limiti inevitabili connessi, al periodo, infine, di Gerusalemme, quando la riflessione seria sul mistero della morte lo occupava e preoccupava. Anche Bizzeti sottolinea l’apertura a 360 gradi con cui Martini ha concepito e vissuto la sua missione pastorale: il rapporto con gli ebrei, con varie Chiese locali, con i non credenti, in uno stile mai impositivo. Perché, di fatto, si tratta di tener conto costantemente del fatto che, se da un lato imporsi disperderebbe il gregge, dall’altro – per dirla con Ignazio di Antiochia – ‘dove c’è il vescovo c’è la Chiesa’. L’importante è tirar giù il vescovo dalla nicchia, come scrive Martini, e vederlo a contatto con la gente. Più sinodale di così.

Antonella Palermo         Vatican news 25 febbraio 2023

www.vaticannews.va/it/papa/news/2023-02/libro-papa-francesco-martini-vescovo-pastore.html

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