UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
News UCIPEM n. 948 – 05 febbraio 2023
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
CONTRIBUTI ANCHE PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA
02 ABUSI Tutti sapevano di Rupnik, in Slovenia come a Roma
04 Rupnik e le dinamiche degli abusi clericali
05 Una prospettiva storiografica su crimini sessuali e clero in Italia. Dal XVII secolo ad oggi
06 BENEDETTO XVI papa emerito L’amara parabola di Benedetto XVI, sconfitto dal Ratzingerismo
09 BIBBIA Isacco e Ismaele, due fratelli così lontani, così vicini. La promessa di Dio ad Abram
13 CENTRO GIOVANI SAN FEDELE Quinto incontro del ciclo 2022-2023. “Grammatica dell’inaspettato“
13 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 04, 1° febbraio 2023
15 CITTÀ DEL VATICANO Il papa si riprende il Dicastero dei vescovi. Finisce l’era del ratzingeriano Marc Ouellet
16 Ritratto di un vescovo del terzo millennio
17 CONSULTORI UCIPEM Il consultorio Famiglia più di Parma collabora e segnala
17 DALLA NAVATA V Domenica del tempo ordinario (Anno A)
18 Commento di Rosanna Virgili – la luce e il sale
19 IL NOSTRO PROFONDO La confessione oggi tra psicologia e religione
20 Secretaria Generalis SYNODI Lettera ai Vescovi.- Prot. N. 230028
21 Il ruolo del vescovo nel processo sinodale
22 SESSUALITÀ Sessualità e identità, le nuove domande della teologia
23 SINODO DELLA “SINODALITÀ” Tre appunti per un confronto sul Sinodo
24 SINODO IN EUROPA A Praga dal 5 al 12 febbraio l’Assemblea continentale del Percorso sinodale
26 VOLONTARIATO Presentato il Manifesto dei Centri di Servizio Volontariato
ABUSI
Tutti sapevano di Rupnik, in Slovenia come a Roma
Che ne è stato di padre Marko Rupnik? Complici le polemiche seguite alla morte di Ratzinger e le voci sulle possibili dimissioni di Bergoglio, la vicenda che riguarda il famoso teologo e artista al centro di uno scandalo per abusi è scomparsa dai radar, senza che siano stati risolti i tanti interrogativi che si porta dietro, dalle responsabilità di chiesa e gesuiti fino al ruolo giocato dal papa. Nuove testimonianze, però, indicano che l’atteggiamento predatorio di Rupnik non si è limitato alla Comunità Loyola, da cui sono emerse le accuse, ma ha caratterizzato anche altri periodi della sua vita; e, soprattutto, confermano che diverse autorità ecclesiastiche in Slovenia e in Italia erano da tempo a conoscenza del suo comportamento. «Negli anni Ottanta, Marko Rupnik aveva nel suo studio a Gorizia un grande quadro di Gesù crocifisso pieno di sangue. A Rupnik piaceva il sangue – quanto gli piaceva, il sangue – e in questo quadro aveva ritratto un Gesù insanguinato che baciava sulla bocca la Maddalena. Colpito, commentai che mi pareva molto sensuale. Lui, infastidito, ribatté che non capivo niente della sua arte». Così un frequentatore del centro dei gesuiti “Stella Matutina” descrive Marko Rupnik, all’epoca in cui il gesuita guidava a Gorizia un progetto che mirava a unire i due popoli, italiano e sloveno, in un luogo ecumenico e internazionale.
Rupnik, poco più che trentenne, predicava l’amore di Dio che si manifesta nel corpo e trasforma ogni cosa, e intanto faceva osservazioni su come si vestono le ragazze e le abbracciava durante i colloqui spirituali, con la scusa che questa modalità «agevolava l’incontro». Lo stesso succedeva pochi anni prima a Lubiana, dove Rupnik aveva dato vita al Kres, un cenacolo di persone impegnate nel cambiamento politico e culturale di quegli anni segnati dalla fine del comunismo. Anche qui, come a Gorizia, qualche coppia era scoppiata dopo l’incontro con il fervente gesuita e ora, ricordando gli anni del Kres, sono in molti a riportare alla memoria anche le molestie, le pressioni, l’uso distorto che il giovane leader faceva del suo carisma.
Chiesa divisa. La chiesa in Slovenia, già sofferente per problemi finanziari che nel 2022 hanno portato a una visita apostolica, si è spaccata sul caso Rupnik. I vertici della Compagnia di Gesù, così come i vescovi, hanno affermato di voler andare a fondo della questione e di essere disposti a collaborare con le istituzioni per garantire giustizia e verità alle vittime. «Siamo rimasti profondamente scioccati dalle testimonianze delle suore che hanno accusato don Rupnik di varie forme di violenza e abuso. Crediamo nella sincerità delle suore e delle altre vittime
che hanno raccontato le loro sofferenze», scrivono i gesuiti sloveni in una nota diffusa lo scorso 6 gennaio 2023.
«Le loro confessioni dimostrano al di là di ogni dubbio che i leader ecclesiastici competenti non hanno preso provvedimenti adeguati». Un mea culpa corredato di buone intenzioni, di cui però non si intravede l’esito.
Se ci si rivolge al Dravlje, la sede dei gesuiti di Lubiana, ci si scontra infatti con la consegna del silenzio: nessuno ha il permesso di rilasciare dichiarazioni e si è subito rimbalzati al provinciale della Compagnia, padre Miran Žvanut che, però, non risponde. Così come non rispondono, interpellati da “Domani”, l’arcivescovo di Lubiana Stanislav Zore, il vescovo ausiliare Franc Šuštar e il presidente dei vescovi sloveni Andrej Saje.
“Vizio” conosciuto. Eppure oggi, a Lubiana come a Roma, in tanti ammettono a mezza voce che il vizio di Rupnik per le donne era risaputo da tempo. «Già dieci anni fa un membro della Compagnia mi raccontò degli abusi di Rupnik», racconta padre Anton (nome di fantasia), un gesuita sloveno che preferisce restare anonimo. Quasi nessuno parla, quindi, ma tutti sapevano; e chi non sapeva, non si stupisce. Come mai, allora, non uno, in tutti questi anni, h]a provato a limitare i movimenti di Rupnik, in modo da prevenire altri possibili abusi?
«La conferenza episcopale ha dichiarato di essere venuta a conoscenza dei fatti dalla stampa ma la maggior parte dei vescovi in Slovenia sapeva tutto», denuncia don Janez Cerar, «molti di loro sono figli spirituali di Rupnik, nutriti dalla sua teologia e cresciuti al Centro Aletti [a Roma], di cui il gesuita è stato direttore fino al 2020: la sua influenza nella chiesa slovena è molto forte». Don Cerar è stato abusato quando era in seminario dal suo rettore, monsignor Jože Planinšek: nel 2019 l’ha denunciato alla giustizia civile ed ecclesiastica ed ha fondato “Dovolj je” (Basta), un’associazione che si occupa delle vittime clericali nella chiesa.
Don Cerar è l’unico che non teme di dire apertamente quel che pensa perché la chiesa, che lo ha già punito rimuovendolo dalla sua diocesi per aver osato denunciare la violenza clericale, ora lo ignora. «Purtroppo ho esperienza di predatori e Rupnik ha il modus operandi dei predatori sessuali», dice don Cerar. «Rupnik non ha mai sostenuto il mio impegno a favore delle vittime», aggiunge, «anzi, quando ha saputo che volevo denunciare l’omertà della chiesa sui preti abusanti, ha commentato che mi credevo il messia». Janez Cerar e le altre quattro vittime (di cui due all’epoca minorenni) di monsignor Planinšek (reo confesso) non hanno avuto giustizia: il reato è ormai prescritto in sede penale e per la giustizia ecclesiastica è sufficiente che l’ex rettore tenga una messa privata al mese in favore delle vittime e si astenga per tre anni da contatti volontari con minori. «Quando sono andato in Vaticano per sapere l’esito del mio caso, il segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica José Rodríguez Carballo mi ha detto che i documenti, che io avevo consegnato a mano, non erano nemmeno in archivio», testimonia il sacerdote. Una storia che, ancora una volta, non depone a favore della trasparenza delle indagini ecclesiastiche.
«Per quanto riguarda padre Rupnik, le dichiarazioni della conferenza dei vescovi slovena sono soltanto chiacchiere», rincara padre Anton, «anche il provinciale dei gesuiti dell’epoca, Lojze Bratina, sapeva. L’attuale provinciale, Miran Žvanut, vorrebbe che si riaprisse il processo ecclesiastico per gli abusi nei confronti delle suore della Comunità Loyola, ma incontra resistenze: l’intoppo è nella curia romana». Circostanza confermata anche da un altro sacerdote sloveno, che sul caso di Rupnik ha indirizzato alle autorità ecclesiastiche delle lettere di protesta firmandosi Karel Fulgoferski. «Žvanut è andato fino a Roma per invitare Rupnik a fare chiarezza», dice a “Domani”, «ma questi lo ha minacciato di ritorsioni. Rupnik e la sua cerchia in Slovenia sono potentissimi e hanno un’influenza determinante anche nella diocesi di Roma».
Gli intoppi romani. Di quale “intoppo” parla padre Anton, e fino a dove arriva l’influenza di Rupnik e dei suoi?
Il cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis, fedele sostenitore dell’artista, dopo averlo difeso in consiglio episcopale, poco prima di Natale è stato costretto a diffondere una nota, in cui da un lato esprime «sgomento per le pesanti accuse» e dall’altro prudenza nel «trasformare una denuncia in reato». Un gioco di bilancino in cui però De Donatis comincia a smarcarsi, sottolineando che il sacerdote in questione ha collaborato sì «a più livelli» con la diocesi, ma non dipende in alcun modo dal cardinale vicario, che quindi non è responsabile dei suoi guai.
Papa Francesco deve averla pensata un po’ diversamente, visto che a inizio anno ha provveduto a pubblicare “In ecclesiarum communione”, una nuova costituzione apostolica sull’ordinamento del vicariato di Roma che entrerà in vigore il 31 gennaio, in cui il ruolo del cardinale vicario è di fatto ridimensionato dalla figura del vicegerente, che coordina tra le altre cose l’amministrazione interna della curia diocesana. A questo incarico è stato chiamato monsignor Baldassarre Reina, della diocesi di Agrigento, e tutta l’operazione suona come un commissariamento di fatto di De Donatis.
Interventi riorganizzativi a parte, Francesco in una recente intervista ad Ap [The Associated Press], ha dichiarato di non essere stato lui a cancellare la scomunica latæ sententiæ, in cui il gesuita era incorso per aver assolto in confessione la donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale. Ma se non è stato il papa, chi è stato, visto che solo la Santa sede poteva intervenire? Sul fronte dei gesuiti, stessa musica: nessun commento da parte di padre Johan Verschueren, consigliere generale e delegato per le Case e le Opere Interprovinciali a Roma che, interpellato da “Domani”, si limita a rinviare a febbraio una dichiarazione sul futuro di Rupnik. Silenzio anche dal Centro Aletti, in cui Rupnik è stato visto celebrare messa il giorno del funerale di Benedetto XVI: un silenzio generale che nasconde imbarazzi e questioni irrisolte. Ma dal silenzio all’oblio il passo è breve, e in Vaticano lo sanno benissimo.
Federica Tourn “www.editorialedomani.it” 30 gennaio 2023
inchiesta sostenuta dai lettori
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230131tourn.pdf
Rupnik e le dinamiche degli abusi clericali
La pubblicazione su “Domani” di una nuova intervista a una delle vittime di padre Marko Rupnik, il gesuita di abusi nei confronti di alcune suore, consente di fare altre riflessioni sulla vicenda e
in generale sulle dinamiche degli abusi clericali.
La prima considerazione riguarda la genesi della relazione tra abusata e abusatore. Quello che ha raccontato la slovena Klara è comune a tante altre storie: al principio vi è una seduzione, un incanto, a cui fa seguito lo scivolamento nelle maglie un rapporto sempre più stretto che assume presto i contorni della dipendenza, dapprima psicologica e poi anche materiale e pratica, dopo l’ingresso in convento. Fino a giungere alla consumazione di atti sessuali. Questa sequenza non è casuale, ma è una conseguenza, perversa, di un modello di relazione diffuso e ufficialmente approvato nella chiesa cattolica: quello della direzione spirituale, ovvero dell’affidamento completo e obbediente del neofita al maestro. Quest’ultimo si accolla il compito di guidare e dirigere la piena conversione del nuovo adepto, correggendone con pazienza gli errori, soffocandone le tentazioni di fuga e conducendolo verso la perfezione legata al suo nuovo stato. È una manifestazione esemplare del potere pastorale di cui ha parlato Michel Foucault e l’applicazione di uno schema diffusissimo nel cattolicesimo, un canovaccio che garantisce la salvezza a chi sa farsi gregge e sottomettersi alla volontà divina tramite la mano ferma di un conduttore. È evidente che nel caso di Rupnik siamo dinanzi a un suo uso gravemente distorto, ma è altrettanto chiaro che quel modello crea tutte le premesse perché si arrivi a quel punto. Anche se non vi fosse stato sesso vi sarebbe comunque stata una dipendenza fonte di infelicità, una mancanza di autonomia grave in un adulto. La chiesa dovrebbe forse avviare una riflessione sulle conseguenze di questo delicato meccanismo.
Sessualità infantile
La seconda considerazione è un’ulteriore conferma di quanto già sappiamo: la sessualità dei preti abusatori è molto spesso onanistica e infantile. Klara riferisce di carezze, toccamenti, qualche bacio, una violenta masturbazione reciproca, l’ombra di rapporti orali. L’ex consacrata non fa mai menzione di un rapporto sessuale completo. È un dato che ho ascoltato in molti altri racconti di persone abusate da preti e che trova conferma nei numeri forniti dell’inchiesta tedesca MHG sulla pedofilia clericale. Nello studio tedesco si legge che gli atti sessuali più diffusi (quasi il 30 per cento) consumati da membri del clero con minori sono i «toccamenti sopra i vestiti», seguiti dai «toccamenti dei genitali sotto i vestiti» (22,5%). Solo nell’11% dei casi è avvenuta una penetrazione genitale. Per capire questo elemento dobbiamo far riferimento a una mentalità molto diffusa dentro il cattolicesimo che assegna a ogni violazione del sesto comandamento (non commettere atti impuri) una diversa gravità. Un atto di autoerotismo o un palpeggiamento sarebbero peccati di natura meno seria rispetto a un rapporto sessuale completo (che, tra l’altro, nel caso sia compiuto con una donna, produce anche il rischio di una gravidanza indesiderata). È a questa norma informale che molti preti si attengono nei propri comportamenti sessuali ed è questa stessa regola che molti preti suggeriscono di seguire alle coppie di cattolici che vogliono arrivare vergini al matrimonio. Il problema è che, nel caso degli abusi (su minori e adulti), gli effetti di questa norma sono tragici, dal momento che per le vittime il danno inflitto dall’abuso non è misurabile con la stessa scala: in altre parole, anche uno sfregamento che al prete sembra un peccato minore può causare in chi lo subisce una ferita enorme.
La profanazione
L’ultima notazione concerne un aspetto che mi aveva già colpito nell’intervista di Federica Tourn [giornalista] a un’altra vittima, Anna, laddove costei raccontava che Rupnik assimilava il triangolo amoroso alla trinità divina. Klara riferisce addirittura, attribuendolo all’amica di Rupnik intenzionata a convincerla a fare a fare l’amore in tre col gesuita, del progetto di «bere il suo sperma da un calice a cena».
A me sembra evidente che, se questo è avvenuto, saremmo di fronte a una sorta di profanazione del rito dell’eucaristia, a qualcosa che assomiglia ai rituali satanisti, nei quali appunto i simboli del cristianesimo vengono ribaltati e dileggiati. Se il racconto dell’ex suora slovena fosse veritiero, Rupnik e la sua complice avrebbero ordito il piano di una messa travestita, nella quale la vera divinità sarebbe stata il gesuita sloveno amico del papa e venerato da larghe masse cattoliche. È possibile che un’eco di tutto questo non sia mai giunto nei sacri palazzi romani che hanno garantito per decenni a Rupnik onori e privilegi principeschi?
Prof. Marco Marzano, docente Università di Bergamo “Domani” 30 gennaio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230129marzano.pdf
Una prospettiva storiografica su crimini sessuali e clero in Italia. Dal XVII secolo ad oggi
In principio fu Spotlight [riflettore], la prima grande inchiesta giornalistica del Boston Globe che nel 2002 accese i riflettori sul crimine degli abusi sessuali sui minori commessi da preti e religiosi, nella fattispecie nell’arcidiocesi di Boston, allora guidata dal cardinale Bernard Law, svelando anche l’insabbiamento dello scandalo da parte delle istituzioni ecclesiastiche. A essa ne seguirono altre, che rivelarono come il problema non riguardasse solo gli Usa ma tutti i continenti in cui la Chiesa cattolica era presente. Negli ultimi anni, quello della pedofilia del clero è diventato anche un oggetto di studio scientifico: da parte della psicologia soprattutto, della sociologia (con qualche difficoltà in più a causa del limitato accesso ai dati) e, da poco, anche della storiografia, che tenta di ricostruire e analizzare come la pedocriminalità si sia modificata nel tempo, sia a livello di percezione sociale e culturale, sia per come viene affrontata dai sistemi giuridici e canonici.
In Italia in realtà il tema è ancora poco sviluppato. Oltre a qualche sporadico articolo scientifico, l’unica monografia che affronta la questione con un approccio storiografico è il volume, edito da Laterza, di Francesco Benigno e Vincenzo Lavenia “Peccato o crimine. La Chiesa di fronte alla pedofilia” (il manifesto , 21 aprile 2021).
Arriva ora, curato da Lorenzo Benadusi (docente di Storia contemporanea a Roma Tre) e Vincenzo Lagioia (docente di Storia moderna a Bologna), “In segreto. Crimini sessuali e clero tra età moderna e contemporanea” (Mimesis, pp. 226), volume collettivo che raccoglie saggi di vari storici che analizzano la pedocriminalità del clero in un’ottica diacronica: in età moderna, nell’Italia dei secoli XVII e XVIII (Lagioia) e in particolare a Venezia nel primo Settecento (Tommaso Scaramella); nel «lungo Ottocento», quando si intreccia anche con la polemica pubblica fra cattolici e anticlericali, soprattutto in Francia e in Italia (Lavenia), fino a tutta l’età giolittiana (Benadusi); infine il sociologo Marco Marzano (l’unico autore non storico), attraverso uno «sguardo sistemico» più concentrato sul presente, tenta di delineare i nodi strutturali del tema, a partire dall’obbligo del celibato ecclesiastico, elemento decisivo per affermare lo status sacrale del prete.
La prassi del «segreto» – parola chiave, che dà il titolo al libro – è il filo rosso che attraversa il volume: «in segreto» è infatti il modo con cui agisce il pedo criminale, ma anche la strategia adottata dalle istituzioni ecclesiastiche per occultare il crimine, nel tentativo «di salvaguardare l’onore della Chiesa anche a costo di disinteressarsi della tutela delle vittime», spiegano Benadusi e Lagioia. E non solo, perché «secretum» è inteso anche come «separatezza, come ambito specifico che deve rimanere nettamente distinto dalla società civile, perché regolato da norme e procedure particolari».
Si tratta di elementi che hanno portato ad attribuire alla Chiesa la responsabilità di aver creato e alimentato una «cultura del silenzio», che costringe preti e religiosi a vivere la propria sessualità nel nascondimento e talvolta a rivolgere le proprie attenzioni a minori, anche perché è più facile riuscire a tenere celate queste relazioni, a causa della profonda disparità sia anagrafica sia soprattutto sociale, per il ruolo e il potere sacrale loro attribuito.
Analizzare e leggere i crimini sessuali commessi dal clero sui minori nel tempo lungo della storia consente di comprendere meglio gli aspetti problematici della questione e di evitare facili semplificazioni.
(α1973) Luca Kocci “il manifesto” 1° febbraio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202302/230201kocci.pdf
BENEDETTO XVI papa emerito
L’amara parabola di Benedetto XVI, sconfitto dal Ratzingerismo
Sarà difficile, anche nel futuro, dare un giudizio sul pensiero di Joseph Ratzinger, docente in università tedesche (1957-76), cardinale e arcivescovo di Monaco (1976-81), prefetto della Congregazione per la dottrina della fede [CdF] (1981-2005), vescovo di Roma (2005-2013), papa emerito (dal 28 febbraio 2013 e fino alla morte, 31 dicembre 2022). E lo sarà perché, forse, un pregiudizio, positivo o negativo, graverà su chi vorrà dare una valutazione “obiettiva” della sua Weltanschauung.[concezione, immagine, visione del mondo, della vita e della posizione occupata dall’uomo, coniato da Immanuel Kant nel 1790].
L’inflessibile “custode dell’ortodossia” Al Vaticano II fu, come “esperto”, esponente dei “progressisti”.{non è condivisa la valutazione di mons. Luigi Bettazzi, vescovo ausiliare di Bologna, membro effettivo del Concilio. L’equivoco può essere dato dal fatto che Ratzinger era il consulente teologico e poi e poi perito dell’arcivescovo di Colonia cardinale Josef Frings “progressista” e (quindi non poteva prendere la parola nelle sessioni). n.d.r.} Ma, poi, favorì la nascita della rivista teologica Communio, contraltare di Concilium, la consorella apertissima anche alle questioni più spinose. Dopo il 1968, e forse spaventato dalla ventata di novità – talora esplosive – che quel fatidico anno portò in Occidente, egli si era rinserrato in una torre d’avorio difensiva. In quell’anno – ma preparata l’anno precedente – uscì anche la sua “Introduzione al Cristianesimo” (tradotta nel ’69 dalla Queriniana). Nel libro vi è questo passaggio: «La figliazione divina di Gesù, come è intesa dalla fede ecclesiale, non poggia sul fatto che Egli non abbia alcun padre terreno; la dottrina affermante la divinità di Gesù non sarebbe minimamente inficiata, quand’anche Egli fosse nato da un normale matrimonio umano. No, perché la figliazione divina, di cui parla la fede non è un fatto biologico, bensì ontologico; non è un processo avvenuto nel tempo, bensì in grembo all’eternità di Dio». Tradotto: la Madonna potrebbe non essere stata “sempre vergine”. Un colpo di maglio che distruggeva la Mariologia ufficiale. Non a caso, diventato papa, egli non ripeté mai quella idea, eretica per i “conservatori”.
Poi, come guida dell’ex Sant’Uffizio, Ratzinger si caratterizzò per una severissima repressione di chi esprimeva opinioni che lui riteneva “pericolose”. Opporsi alla “teologia della liberazione” fu, per lui e su mandato di Wojtyla, una mission. Come non ricordare il “processo” del 1984 contro Leonardo Boff, illustre esponente brasiliano di quella corrente? Quel “processo” – come altri similari – si tenne senza che l’imputato avesse una reale possibilità di difesa; era privo, cioè, di quello standard giuridico che, in Occidente almeno, caratterizza uno Stato di diritto.
È del 2000 la Dominus Iesus, una Dichiarazione circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa:
www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000806_dominus-iesus_it.html
il testo, che formalmente si rifà al Vaticano II, in realtà dava una interpretazione chiusa, e discutibile, di esso; e siccome il gesuita Jacques Dupuis, rifacendosi alla propria esperienza delle religioni dell’India (dove era stato per molti anni), in “Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso”, ne dava un’altra, molto più aperta, facendo fiorire alcuni germi del Concilio, egli – insieme al segretario della CdF, Tarcisio Bertone, che poi sceglierà come Segretario di Stato – nel 2001 firmerà una “notificazione” per chiedergli in sostanza di “ritrattare” i suoi “errori” (il teologo, allora, mi confidò di essere distrutto dalla implacabilità del Prefetto e dalla impossibilità di avere un processo ecclesiale nel quale potesse davvero difendersi).
Un papa per battere la “dittatura del relativismo”. Decano del collegio cardinalizio, il 18 aprile 2005 presiedette la missa pro eligendo pontifice; nella sua omelia affermò: «Il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». Ammaliati da quella promessa magica – la lotta alla dittatura del relativismo –con cui egli sintetizzava i mali del mondo, nella speranza di vincerli, il giorno dopo oltre i due terzi dei cardinali votanti (115) lo scelsero come papa. Nella lotta (spirituale) incombente era però necessario avere un’idea chiara sul Vaticano II. Come egli spiegò il 22 dicembre successivo, con un discorso alla Curia che resta fondamentale per capire il suo pensiero ecclesiologico. «Perché la recezione del Concilio – si domandò – in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; dall’altra l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa; un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio […] sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili». E concludeva: “no” all’”ermeneutica della discontinuità”; “sì” invece all’”ermeneutica della riforma”, come volevano Giovanni XXIII e Paolo VI.
Quasi in un gioco di specchi, Ratzinger deforma la realtà: infatti è ben vero che il Concilio ribadisce molte tesi e prassi tradizionali; ma altre (ad esempio il definire la Chiesa “popolo di Dio” al cui interno, e non sopra, sta la gerarchia) le pone in un diverso contesto aperto a sviluppi audaci; e altre sono nuovissime, e perfino contrarie alla Tradizione precedente. Per queste ultime, basti ricordare che per molti secoli nella Chiesa romana vigeva questo principio: «La verità ha tutti i diritti, l’errore nessuno». Era, questa, la base dell’Inquisizione; e chi stabiliva “la verità”? Il potere papale, episcopale o conciliare. Il Vaticano II, con la dichiarazione Dignitatis humanæ www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decl_19651207_dignitatis-humanae_it.html
affermò, invece, che ogni persona umana ha il diritto sorgivo alla libertà religiosa. E dire che nell’Ottocento una tale idea era stata definita deliramentum – “pazzia” – da Gregorio XVI e da Pio IX! Ancora: il Concilio, nella Nostra ætate, www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decl_19651028_nostra-aetate_it.html
taglia alla radice ogni giustificazione all’odio verso gli ebrei, in molti ambienti cattolici da secoli definiti “deicidi”; e afferma che «gli ebrei non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura […] La Chiesa, inoltre, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque». Quando il Vaticano II fa queste affermazioni, in nota – contrariamente a quanto di solito avviene in altri documenti analoghi – non mette nessun riferimento a papi e Concili del passato, proprio perché in nessun loro testo si poteva trovare un riferimento che avallasse questo nuovo orizzonte. Erano, perciò, in senso tecnico, affermazioni ignote e contrarie alla Tradizione (con la “T” maiuscola)! Dunque, tutto il discorso di Ratzinger, pur teologo (grande?), si basa su una omissione colpevole, che sta alla base anche della sua lotta al “relativismo”. Infatti, tutto nella vita è – per fortuna – “relazione”. Solo Dio è assoluto, ma nella sua misteriosa vita intima trinitaria è Relazione.
Negli stessi dogmi stabiliti dai Concili occorre distinguere la sostanza dalla forma; e, soprattutto da quelli del secondo millennio, dal Lateranense IV (1215) al Tridentino e al Vaticano I, forse oggi ci si potrebbe allontanare perché l’approfondimento delle Scritture ha fatto capire che, almeno alcune loro pur solenni affermazioni, erano (e sono) basate su una errata comprensione della Bibbia. Colpisce, dunque, che dopo i dubbi, di cui sopra, sulla verginità della Madonna, che lui ha preso, senza dirlo, dalla lettura storico-critica dei Vangeli, poi – e lo fa perfino nel suo testamento spirituale firmato nel 2006 – egli tenti di screditare quella griglia interpretativa, così illuminante, per non dire oggi necessaria per comprendere la Bibbia. Perché tale occultamento? Perché essa avrebbe demolito molte certezze; non però la nuda fede in Gesù vero Dio e vero uomo.
La resa del papa, non potendo governare col ratzingerismo. Non possiamo, in questa sede, esaminare in dettaglio il pontificato di Benedetto, i suoi (secondo noi) aspetti positivi e negativi. Tra i primi la sua capacità di esporre la catechesi in modo suadente e comprensibile a tutti; l’insistenza sulla razionalità e plausibilità della fede cristiana, in un mondo nel quale molti sarebbero tentati di liquidarla come astruso retaggio del passato; il mantenimento di iniziative del predecessore – i viaggi pastorali nel mondo, o gli incontri interreligiosi di Assisi – che, forse, senza quei precedenti, mai avrebbe organizzato; l’atteggiamento non preclusivo verso la Cina. Né si può ignorare un’enciclica come la sua prima del 2005 – Deus caritas est – che contiene passaggi lirici suadenti.
www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20051225_deus-caritas-est.html
E, comunque, diventato papa si è infine accorto che con il Ratzingerismo non si risolvevano i problemi complessi del mondo e della Chiesa. È vero che quando esplose il dramma della pedofilia del clero nella cattolicissima Irlanda – dunque non in un Paese vittima della “dittatura del relativismo” – egli scrisse parole di fuoco: «Non posso che condividere lo sgomento e il senso di tradimento che molti di voi hanno sperimentato al venire a conoscenza di questi atti peccaminosi e criminali e del modo [evasivo] in cui le autorità della Chiesa in Irlanda li hanno affrontati» [19/3/2010]. Riconobbe, inoltre, che la triste realtà denunciata esisteva – purtroppo – anche in altri Paesi. Ma fu “impossibile” per lui arrivare a comprendere che il dramma non erano poche “mele marce”: si era di fronte, invece, a un vulnus sistemico nella struttura ecclesiale cattolica. Rispetto a esso nei suoi (quasi) otto anni di pontificato non attuò nessuna riforma reale, né tanto meno affrontò l’immensa questione-donna o un problema per lui tabù, come il celibato obbligatorio per il clero latino. D’altronde da Monaco sono arrivate insistenti le accuse di aver tollerato preti pedofili nella sua diocesi; e di avere di fatto occultato questa “piaga” quando era prefetto della CdF. Interrogandosi su tali problemi – e su molti altri in campo ecumenico e interreligioso – egli constatò l’inefficacia delle ricette del Ratzingerismo.
Non volle, però, cambiarle; e, per non tradire sé stesso, coerentemente rinunciò al papato. Un atto di enorme coraggio o di sottile vanità? Un fallimento o una vittoria? La Storia, che forse lo ricorderà solo per quel gesto straordinario, dirà. Oggi come oggi tutto è assai oscuro. Monsignor Georg Gänswein, suo segretario personale, nonché prefetto della Casa pontificia, sta raccontando urbi et orbi che all’ex papa “gli si spezzò il cuore” quando Francesco, nel 2021, di fatto proibì la messa in latino, nel 2007 invece liberalizzata da Benedetto per compiacere i seguaci del vescovo Marcel Lefebvre che avevano contestato il Concilio. Si intuisce dunque che, al di là delle reciproche riverenze pubbliche con Bergoglio, Joseph era assai risentito perché lui smantellava alcuni suoi punti fermi. Il dopo-Ratzinger, dunque, apre – è triste, ma inevitabile, constatarlo – una fredda e velenosa stagione. Ma si sa: dopo l’inverno verrà la primavera.
Luigi Sandri(α1939) “Confronti” febbraio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202302/230201sandri.pdfitaliano
BIBBIA
Isacco e Ismaele, due fratelli così lontani, così vicini
Isacco e Ismaele: la fraternità «inquinata» dalle tensioni familiari. Le famiglie della Bibbia sono famiglie complesse, allargate, difficili, molto più vicine al nostro tempo di quanto si potrebbe immaginare. Le vicende di Isacco e Ismaele ci rivelano come i contrasti tra i genitori – Abramo, Sara e Agar – possano influenzare la qualità del rapporto tra fratelli che, a causa delle tensioni familiari, sono privati della possibilità di crescere e vivere insieme.
La promessa di Dio ad Abram. Il ciclo di Abramo comincia con la descrizione di una famiglia di nomadi che migrano nella Mesopotamia di qualche millennio fa. Terach ha tre figli: Abram, Nacor e Aran. Non sappiamo nulla della relazione tra questi fratelli, ma sappiamo che Aran muore mentre suo padre è ancora vivo. Inoltre, Sara, moglie di Abram, non può avere figli. Attraverso poche pennellate vengono descritti i traumi e i drammi di una famiglia che, con alla testa il suo patriarca, emigra verso una nuova terra. Il viaggio da Ur a Canaan intrapreso da Terach s’interrompe a Carran, a metà strada. È qui che Abram riceve una parola da Dio che si innesta proprio laddove è situata la sua ferita più grande: l’incapacità di avere figli, che lo lascia senza un erede che dopo di lui traghetti il suo nome da una generazione all’altra.
«1Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dal luogo della tua nascita e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e sarai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”» (Gen 12,1-3). Abram è invitato a riprendere il cammino, separandosi da quei legami che fino ad allora avevano intessuto la sua vita, per poter diventare fecondo secondo la logica della creazione che avviene attraverso separazione. Abram, dunque, dovrà distaccarsi dal padre affinché il Signore lo renda una grande nazione. In che modo si realizzerà questa promessa, dato che il patriarca e sua moglie sono già avanti negli anni?
Un figlio surrogato e il figlio della promessa. Passano 10 anni, ma Abram e Sarai rimangono senza figli. Nonostante Dio rinnovi all’anziano patriarca la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo (cfr Gen 15,5), possiamo immaginare la delusione e la frustrazione vissuta dalla coppia. Realisticamente, a causa dell’età avanzata, la paternità e la maternità sembrano un sogno irrealizzabile. Eppure, le prime parole di Sarai nel racconto della Genesi aprono una nuova strada per ottenere quel figlio che, seppur promesso, tarda ad arrivare. «Ma Sarai, moglie di Abram, non aveva partorito per lui. Aveva una domestica egiziana e il suo nome era Agar. Sarai ad Abram “Ecco, ti prego, il Signore mi ha impedito di partorire; va’, ti prego, verso la mia domestica: forse sarò costruita / avrò un figlio da lei”. Abram ascoltò la voce di Sarai» (Gen 16,1-2).
Eppure, Dio si fa carico della sofferenza di Agar e ha una parola per lei e per il bambino che nascerà. L’angelo del Signore [In alcuni casi, quando nell’Antico Testamento si menziona l’angelo del Signore, si può voler fare riferimento a Dio stesso che si fa presente] si rivela ad Agar presso una sorgente e la consola con una promessa di fecondità simile a quella fatta ad Abramo (cfr Gen 15,5; 22,17): «Le disse ancora l’angelo del Signore: “Certamente moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla, tanto sarà numerosa”. Disse a lei l’angelo del Signore: “Ecco, sei incinta e partorirai un figlio e chiamerai il suo nome Ismaele [= Dio-ascolta] perché il Signore ha ascoltato la tua afflizione .Egli sarà come un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà di fronte/contro la faccia di tutti i suoi fratelli”. Agar, al Signore che le aveva parlato diede questo nome: “Tu sei il Dio della visione”, perché diceva: “Non ho forse visto il dorso di colui che mi vede?”. Per questo il pozzo si chiamò pozzo di Lacai-Roì» (Gen 16,10-14). Il nome del bambino sarà Ismaele a motivo dell’intervento del Signore, che ascolta Agar la schiava e si prende cura di lei e del figlio. Il Dio di Abram si lega indissolubilmente a Ismaele con la benedizione che aveva già riservato al padre, ma nell’oracolo sono inclusi anche i fratelli. Infatti, Ismaele non resterà un figlio unico.
È vero che si preannuncia per lui una vita selvatica in lotta contro tutti, ma alla fine egli vivrà faccia a faccia con i suoi fratelli, al tempo stesso distante e prossimo rispetto ai suoi familiari. Nella terra, perciò, ci sarà spazio per tutti e la possibilità di una convivenza tra fratelli. Infine, il luogo in cui Dio si manifesta riceve un nuovo nome, che gli viene dato proprio da Agar. Questo stesso sito sarà significativamente menzionato più avanti nel racconto.
Tredici anni dopo la nascita di Ismaele verrà alla luce Isacco, il figlio del sorriso. Infatti, in ebraico il nome «Isacco» significa «egli riderà». Questo nome verrà dato da Dio a motivo del sorriso di Abramo (cfr Gen 17,17) e di sua moglie Sara (Gen 18,12). Davanti all’annuncio di un figlio per l’anziana coppia, il riso di entrambi manifesta incredulità e un non troppo velato scetticismo. Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e disse nel suo cuore: «A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire?» (Gen 17,17). Abramo non solo nasconde il suo sorriso, ma lascia nel cuore i suoi reali pensieri e le sue incertezze senza confessarli a Dio, che invece replica: «No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco» (Gen 17,19). Il Signore conosce bene quello scetticismo che Abramo non può nascondergli. Successivamente, quando Dio visiterà nuovamente Abramo, Sara, non vista perché si trova dietro la tenda, ascolta le parole che il Signore rivolge al patriarca: «“Certamente tornerò da te fra un anno a questa data ed
ecco Sara, tua moglie, avrà un figlio” […]. Allora Sara rise dentro di sé dicendo: “Avvizzita come sono, dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio!”» (Gen 18,10.12). Sara reagisce con un sorriso davanti a questa promessa. Il lettore ha anche il privilegio di entrare nei pensieri della donna, che manifestano le sue perplessità riguardo sia alla propria condizione sia a quella dell’anziano marito.
Dopo tanta attesa, la parola del Signore si compie: «Allora Sara disse: “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me!”. Poi disse: “Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!”» (Gen 21,6-7). Isacco, il figlio del sorriso, viene finalmente al mondo, e questa volta il riso è espressione di una gioia incontenibile. Come si relazioneranno tra loro i due fratelli, entrambi figli di Abramo, ma nati da madri differenti? In che modo gli stati d’animo e le attese dei genitori influenzeranno il cammino dei due fratelli e la loro interazione?
Due fratelli distanti. La prima interazione tra i due fratelli è raccontata in un episodio controverso che, nel corso della storia dell’interpretazione, è stato commentato in modi molto differenti tra loro. Durante una
grande festa celebrata in onore di Isacco, lo sguardo di Sara cade su Ismaele, ed ella reagisce duramente a causa di ciò che vede: « Il bambino crebbe e fu svezzato, e Abramo fece un grande banchetto nel giorno che Isacco fu svezzato. Ma Sara vide che il figlio di Agar l’Egiziana, quello che lei aveva partorito ad Abramo, scherzava [con
Isacco suo figlio]. Disse allora ad Abramo: “Scaccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non sarà erede con mio figlio Isacco”» (Gen 21,8-10). L’atmosfera di festa per lo svezzamento di Isacco viene rovinata dalla richiesta che Sara rivolge ad Abramo di espellere Agar e Ismaele a causa di ciò che quest’ultimo sta facendo nel corso del banchetto. Al versetto 9, nel testo ebraico troviamo il verbo ṣāḥāq, «ridere», che indica l’azione compiuta da Ismaele e che in tale forma verbale significa «scherzare, giocare, deridere». Questo termine ebraico è omofono al nome Isacco che, come abbiamo detto, significa «egli riderà». Inoltre, nella versione greca dei LXX viene specificato che Ismaele scherzava «con Isacco suo figlio». Cosa ha visto Sara, al punto da suscitare in lei una reazione che appare spropositata agli occhi del lettore? Secondo la LXX, la Vulgata e il Targum Onkelos, Ismaele giocherebbe con Isacco. Un’altra interpretazione antica dà a questo verbo una connotazione sessuale, come si evince dalle altre occorrenze del verbo nel testo biblico (cfr Gen 26,8; 39,14.17). Ismaele, dunque, starebbe molestando Isacco. Secondo il Targum Pseudo-Jonathan, Ismaele starebbe giocando con gli idoli. Secondo san Paolo, invece, Ismaele perseguiterebbe Isacco (cfr Gal 4,29).
Isacco e Ismaele, due fratelli così lontani, così vicini. Tutte queste interpretazioni si concentrano sul significato del verbo, mentre raramente viene considerato come al centro della scena non sia tanto ciò che accade tra Ismaele e Isacco, quanto la percezione che Sara ha dell’evento. La focalizzazione del racconto, infatti, è dal punto di vista di Sara, ed è attraverso il suo sguardo che il lettore coglie ciò che avviene sulla scena. Non a caso Ismaele non viene chiamato per nome, ma definito come «il figlio di Agar l’Egiziana». Il riso e lo scherzo di Ismaele verrebbero interpretati da Sara in maniera malevola, con invidia e gelosia. Abbiamo visto che in ebraico c’è un sottile gioco di parole che nasce dall’assonanza tra il nome «Isacco» e il verbo «scherzare». È come se agli occhi di Sara Ismaele non solo giocasse, ma addirittura volesse fare l’Isacco, usurpando il posto di primogenito che spetta al figlio di Sara, il «vero» figlio della promessa che Dio ha fatto ad Abramo. L’anziano patriarca non reagisce bene davanti alla pretesa di Sara che, con disprezzo verso «questa schiava» Agar, vuole allontanare Ismaele e negargli l’eredità e, insieme ad essa, la possibilità di una convivenza e di una condivisione con il fratello Isacco: «La cosa sembrò molto male agli occhi di Abramo a motivo di suo figlio. Ma Dio disse ad Abramo: “Non sembri male ai tuoi occhi, riguardo al fanciullo e alla tua schiava, tutto quello che dirà a te Sara; ascolta la sua voce, perché in Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io farò diventare una nazione anche il figlio della schiava, perché egli è tua discendenza”» (Gen 21,11-13).
Paradossalmente, il Signore si rivolge ad Abramo e gli comanda di obbedire a Sara. Ancora una volta, Dio è capace di scrivere dritto sulle righe storte e da questa dolorosa separazione verrà qualcosa di buono. Come promesso da Dio, Abramo sarà padre di una moltitudine di nazioni anche attraverso Ismaele (cfr Gen 17,4-6.20). I percorsi dei due fratelli, dunque, si dividono, ma entrambi i figli di Abramo rimangono sotto il segno della benedizione divina. Anche se lontani, si ritrovano uniti dal Dio di Abramo, che è anche il loro Dio.
Due vite in parallelo. Le vite di Isacco e Ismaele non si incrociano per lungo tempo, ma seguono due percorsi simili che passano attraverso la separazione dal padre e un’esperienza di salvezza ricevuta da Dio mentre si trovano ad affrontare la morte (cfr Gen 21,14-21; 22,1-19). In entrambi i casi, però, il punto di vista è quello dei genitori. Dispersa nel deserto, dopo essere stata scacciata da Abramo, Agar piange, temendo che suo figlio possa morire per la sete. Dio ascolta la voce di Ismaele, il quale, trovandosi vicino alla morte, compie il significato del suo nome – letteralmente «Dio ascolta» – quando viene salvato dall’intervento del Signore: «Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova. Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione» (Gen 21,17-18). Successivamente, un Isacco ormai adulto verrà condotto sul monte per essere sacrificato. Il racconto non si sofferma sul figlio di Abramo e su come egli viva questa prova, ma segue il cammino dell’anziano patriarca, provato da questa richiesta da parte del Signore. Così Isacco, prossimo a morire, si troverà in una situazione molto simile a quella del fratello Ismaele.
10. Il Targum aggiungerà al testo di Gen 22 la prospettiva di Isacco, il quale implora il padre di legarlo bene affinché il sacrificio non sia vano: «Isacco prese la parola e disse ad Abramo suo padre: “Padre mio, legami bene, perché io non ti dia dei calci, tali che la tua offerta sia resa invalida…”. Gli occhi di Abramo erano fissi sugli occhi di Isacco, e gli occhi di Isacco erano rivolti verso gli angeli in alto. Isacco
li vedeva, ma Abramo non li vedeva» (Targum Pseudo-Jonathan, Genesi XXII, 10).
Anche in questo caso l’angelo del Signore interverrà per salvare la vita del figlio di Abramo e rinnovare la promessa di benedizione: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare» (Gen 22,16-17).
Sia nell’uno che nell’altro caso è un padre addolorato che prima manda via un figlio verso il deserto, e poi conduce l’altro figlio verso il monte Moria per sacrificarlo al Signore. Entrambi sono figli amati, da cui Abramo si separa con dolore, come sottolinea efficacemente il Talmud babilonese: «Dio disse ad Abramo: “Ti prego, prendi tuo figlio, il tuo unico, che ami, Isacco” (Gen 22,2). Quando Dio disse: “Tuo figlio”, Abramo obiettò: “Io ho due figli!”. Dio gli disse: “Il tuo unigenito”. Abramo rispose: “Questi è l’unico figlio per sua madre, e quello è l’unico figlio per sua madre!”. Dio gli disse: “Quello che ami”. Abramo replicò: “Io li amo entrambi!”. Dio allora
gli disse: “Isacco!”»(Talmud babilonese). Inoltre, i due figli di Abramo compiranno la parola di Dio quando, grazie ai loro genitori, troveranno una moglie e costruiranno una loro discendenza. Il primo a fare questo passo è Ismaele: «E sua madre gli prese una moglie del paese d’Egitto» (Gen 21,21). Egli si separa dal padre e dalla madre e, unendosi a sua moglie, realizza la parola che il Signore ha pronunciato nei racconti della creazione: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie» (Gen 2,24).
Successivamente, sarà Abramo a facilitare il distacco di Isacco, trovandogli una moglie tra la sua parentela, Rebecca, che lo consolerà per il lutto di sua madre Sara: «Allora Abramo disse al suo servo, il più anziano della sua casa, che aveva potere su tutti i suoi beni: “Metti la mano sotto la mia coscia e ti farò giurare per il Signore, Dio del cielo e Dio della terra, che non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in mezzo ai quali abito, ma che andrai alla mia terra, al luogo della mia nascita, a prendere una moglie per mio figlio Isacco”» (Gen 24,2-4).
Un ultimo incontro. I due percorsi paralleli di Isacco e Ismaele sono segnati dal distacco dalle figure genitoriali e dalla benedizione di Dio, che sempre accompagna il cammino dei due figli di Abramo. Eppure, c’è ancora il tempo per un ultimo incontro tra di loro, che avviene nel momento altamente drammatico della morte del padre: «Lo seppellirono i suoi figli, Isacco e Ismaele, nella caverna di Macpela, nel campo di Efron, figlio di Socar, l’Ittita, di fronte a Mamre, campo che Abramo aveva comprato dagli Ittiti. Lì furono sepolti Abramo e sua moglie Sara. Dopo la morte di Abramo, Dio benedisse il figlio di lui Isacco e Isacco abitò presso il pozzo di Lacai-
Roì» (Gen 25,9-11). Isacco e Ismaele si trovano uno accanto all’altro nel piangere la morte del padre. Ismaele si reca a Macpela, dove si trova sepolta Sara, madre di Isacco, la donna che dapprima lo aveva voluto per vincere la propria incapacità di generare, ma che in seguito lo aveva rigettato. Isacco, invece, andrà ad abitare presso il pozzo di Lacai-Roì, la località dove Agar aveva visto il Signore che aveva udito il suo lamento e aveva benedetto lei e la sua discendenza (Gen 16,14).
I due fratelli incrociano e mescolano le loro storie, e l’uno va ad abitare nei luoghi dell’altro, in un fecondo scambio che li pone l’uno vicino all’altro in una sorta di implicita riconciliazione familiare. Da questo momento in poi, senza la figura del padre che li univa per mezzo del legame di sangue ma che li aveva divisi per la pace e il quieto vivere della famiglia, i due fratelli saranno prossimi nel condividere la benedizione al di là delle grettezze e delle piccinerie umane. Quella che potrebbe sembrare la stereotipata scena di un funerale diventa il coronamento dell’essere fratelli separati, ma non distanti. «Questa è la discendenza di Ismaele» (Gen 25,12); «Questa è la discendenza di Isacco…» (Gen 25,19): pochi versetti separano i fratelli e i loro discendenti che nella vita continueranno a vivere uno di fronte all’altro come ci ricorda la Scrittura: «[Ismaele] si era stabilito di fronte/contro la faccia di tutti i suoi fratelli» (Gen 25,18). La particella ebraica ‘al può essere letta come «di fronte» oppure «contro». Quale opzione sceglieranno?
Le famiglie della Bibbia sono famiglie complesse, allargate, difficili, molto più vicine al nostro tempo di quanto si potrebbe immaginare. Le vicende di Isacco e Ismaele ci rivelano come i contrasti tra i genitori Abramo, Sara e Agar possano influenzare la qualità del rapporto tra fratelli che, a causa delle tensioni familiari, sono privati della possibilità di crescere e vivere insieme. Eppure, nonostante tutto, Isacco e Ismaele possono prosperare sotto il segno di una benedizione condivisa, anche se diversa, ed essere dei buoni vicini, generazione dopo generazione. Infatti, secondo la tradizione della Bibbia (ma anche del Corano), dietro i personaggi di Isacco e Ismaele ci sono due popoli così lontani, così vicini come gli Israeliti e gli Arabi, che, posti gli uni accanto agli altri nella terra su cui abitano, possono scoprire una radice comune come figli di Abramo, benedetti dallo stesso Dio.
(α1979)
Vincenzo Anselmo S.I La Civiltà Cattolica 4143 (4 febbraio 2023)
CENTRO GIOVANI SAN FEDELE
Quinto incontro del ciclo 2022-2023. “Grammatica dell’inaspettato”
Giovedì 9 febbraio 2023: Guido Marangoni, ingegnere e scrittore e Daniela Pipinato, psicologa e pedagogista
sul tema: “Sogno o son desto? – Un sorriso nell’imprevisto”
alle ore 21,00, nella Sala Ricci, in piazza San Fedele 4, a Milano, senza prenotazione.
Si può vedere e ascoltare la conferenza sul canale YouTube del Centro.
www.youtube.com/@centrogiovanicoppiesanfede37/videos
Guido Marangoni racconta così il momento in cui l’ecografia a sua moglie Daniela, incinta per la terza volta, rivelò qualcosa di imprevisto: “Fu quello il giorno in cui capii che mi dovevo preparare, perché qualcosa stava davvero per cambiare. Quando la dottoressa ci convocò e senza tanti preamboli ci disse: «Si tratta della trisomia 21», invece, capii un’altra cosa: che Daniela era già pronta. «È maschio o femmina?», chiese, lasciandomi a bocca aperta ancora una volta. Perché adesso sì, l’unica cosa che contava era sapere chi sarebbe arrivato nella nostra famiglia. Era Anna la buona notizia che stavamo aspettando.”
Con Guido Marangoni e Daniela Pipinato esploreremo, a partire dalla loro esperienza dell’inatteso, come la leggerezza e il sorriso possano essere risorse capaci di farci navigare con serenità anche in acque improvvisamente agitate.
Guido Marangoni è nato e vive a Padova. Ingegnere informatico, nel 2015 è stato speaker ufficiale al TEDx con il suo talk “La potenza della fragilità”, e a maggio dello stesso anno ha aperto la pagina Facebook Buone notizie secondo Anna, in cui ha scelto di sorridere dei luoghi comuni sulla sindrome di Down, per suggerire un rapporto più positivo e costruttivo con la disabilità, mettendo sempre al primo posto la persona. Ha una rubrica sul Corriere Buone Notizie, l’inserto settimanale del Corriere della Sera. Dopo la pubblicazione del suo primo libro, “Anna che sorride alla pioggia” (Premio Selezione Bancarella 2018), ha girato sale e teatri di tutta l’Italia con lo spettacolo “Siamo fatti di-versi, perché siamo poesia”, ispirato al suo libro. Ha tenuto numerose conferenze sui temi della diversità e dell’inclusione in scuole, università e aziende.
Daniela Pipinato Marangoni è pedagogista, psicologa clinica, mediatrice familiare Aims, conduttrice Gruppi di Parola. Ha conseguito la laurea magistrale in pedagogia, la laurea magistrale in psicologia clinica, la specializzazione triennale in mediazione familiare; ha frequentato corsi di alta formazione dell’Università Cattolica di Milano.
www.centrosanfedele.net/incontri
www.sanfedele.net
CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia
Newsletter CISF – n. 4, 1° febbraio 2023
§§ “Grazie Ragazzi”, il film di Albanese nato da una storia vera. Si trova al secondo posto nelle sale – dopo “Avatar” – “Grazie Ragazzi”, il film commedia diretto da Riccardo Milani che vede Antonio Albanese in una storia intensa e toccante all’interno di un carcere. Albanese interpreta un attore spiantato chiamato a mettere in piedi una pièce nel carcere di Velletri. La pellicola è il remake del film “Un triomphe” di Emmanuel Courcol, a sua volta tratto dal documentario “Les Prisonniers de Beckett” di Michka Saäl, incentrato sull’esperienze dell’attore svedese Jan Jönson nelle carceri.
§§ Politiche fiscali e welfare universalistico: la falsa contrapposizione. L’assegno unico ha riportato attenzione sul tema, riattivando la discussione sulla “soggettività fiscale” di genitori e figli. Dai pronunciamenti della Corte Costituzionale alla questione della redistribuzione della ricchezza, c’è un evidente deficit del Reddito di cittadinanza che non ha aiutato i nuclei numerosi. Guardiamo a Francia e Germania e non perdiamo l’opportunità del PNRR se desideriamo impostare seriamente il nostro futuro di Paese. L’analisi di Francesco Belletti su Mondo Economico.
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§§ Giornata Vita: Quaderno Cisf-Famiglia Cristiana
“Accogliere la vita nascente: storie italiane” è il primo Quaderno CISF nato in collaborazione con Famiglia Cristiana in occasione della 45° Giornata Nazionale per la Vita 2023, che si celebra il 5 Febbraio. Scaricabile gratuitamente a questo link e poi dalle homepage del CISF e di Famiglia Cristiana, il quaderno raccoglie la serie di inchieste giornalistiche che il settimanale ha realizzato dopo la notizia della sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 24 Giugno 2022, che è intervenuta rimettendo in discussione il cosiddetto “diritto all’aborto”, da decenni acquisito a livello federale (e culturale, potremmo dire) e suscitando violente polemiche, la cui onda lunga è arrivata fino a noi. Da queste pagine emerge il fondamentale lavoro di accompagnamento dei tanti Centri di Aiuto alla Vita sparsi sul territorio e del Movimento per la Vita, insieme ad altre organizzazioni ecclesiali e laicali. E risuona la consolazione, per tante donne, di aver trovato qualcuno con cui parlare, qualcuno che ha ascoltato senza giudicare, senza abbandonarle nel momento più difficile della loro vita. www.sanpaolodigital.it/giornataperlavita2023cisf
§§ Fafce indice un concorso artistico sulla figura di san Giuseppe. La Federazione delle associazioni familiari cattoliche in Europa (FAFCE) invita gli artisti a creare un’opera sulla figura di San Giuseppe. La proposta mira a riflettere su come vediamo nel 2023 questo Santo Patrono della Chiesa Cattolica, Patrono dei padri e Patrono dei lavoratori, e incarna due delle direzioni indicate da Papa Francesco: l’Anno di San Giuseppe e il ruolo del Padre nella società di oggi. Scadenza di consegna delle opere artistiche: 3 marzo 2023 [qui il sito dedicato al concorso] https://europeanartcontest.co\
§§ Veneto, nasce l’Osservatorio natalità e famiglia. Si tratta di un servizio della Fondazione Centro della Famiglia di Treviso e si propone di offrire una lettura fondata su dati oggettivi affinché la soggettività sociale della famiglia possa essere riconosciuta, agita e promossa e le politiche per la natalità possano essere valutate nel loro impatto sociale ed economico. www.osservatorionf.org
Tra i suoi partner ci sono Anci Veneto, #INPSVeneto, Forum delle Associazioni Familiari del Veneto e Fondazione Leone Moressa ed ha già dato il via a un primo studio su un campione di 100 comuni della Regione Veneto con l’obiettivo di analizzare la distribuzione della spesa sociale (ed in particolare per le politiche della famiglia) a livello comunale in Veneto e ricostruire le criticità̀ legate alla gestione della spesa sociale e alla sua efficacia nel rispondere alle esigenze locali.
§§ Dalle case editrici
- Premio città del libro e della famiglia. È stata lanciata la seconda edizione del Premio letterario “Pontremoli – Città del Libro e della Famiglia“. La cerimonia finale della premiazione si terrà il 1° luglio 2023 a Pontremoli. Qui il regolamento e scheda di segnalazione per la partecipazione all’edizione 2023.
www.forumfamiglie.org/2023/01/26/8954/?fbclid=IwAR0NLIaqvIktpErU9QdVwVbW018HjwY_DYy4QzsGI-x0VliDNv4H9uvlxes
- Elisa Veronesi, Paolo Maria Manzalini, Vivere la paura. Un viaggio nell’emozione più antica e potente, San Paolo, Cinisello B., 2022, pp. 190.
Bisogna ammetterlo: abbiamo tutti quanti un rapporto ambivalente con la paura, questa antica emozione scritta nel nostro dna, che da millenni preserva la specie umana. (…) L’argomento è particolarmente interessante nell’epoca che ci troviamo a vivere: se la “permacrisi” è la dimensione globale che, dalla pandemia in avanti, ci ha costretto a sperimentare sensazioni di angoscia e precarietà, allora è evidente che la paura è un tratto costante – e spesso inconfessabile – della vita quotidiana. (…) (B.Verrini)
§§ Save the date
- webinar (IT) – 2 febbraio-15 giugno 2023 (17-18). “Non siete soli“, ciclo di webinar gratuiti per persone con Parkinson, familiari e caregiver a cura di Fresco Parkinson Institute e Confederazione Parkinson Italia www.frescoparkinsoninstitute.com/eventer/non-siete-soli-2023/edate/2023-02-02
- Presentazione (Siena) – 7 febbraio 2023 (inizio ore 18). “Parola di ragazzo. 15 password per entrare in dialogo con gli adolescenti“, presentazione del volume di Barbara Baffetti, in dialogo con il card. Paolo Lojudice presso l’Arcivescovado di Siena [qui la locandina]
- Convegno (Roma-Web) – 8 febbraio 2023 (inizio ore 10). “Quoziente familiare. Quando copiare è una virtù“, presso il Centro Studi americani, a cura del Forum delle Associazioni Familiari (diretta streaming sulla pagina Facebook del Forum) www.facebook.com/forumfamiglie
- Convegno (Milano) – 9 febbraio 2023 (inizio ore 17.30). “L’aborto nella dinamica tra la coscienza morale personale e il costume della società contemporanea“, nell’ambito del ciclo Medicina, Sanità e Persona organizzato dalla Fondazione Ambrosianeum.
www.ambrosianeum.org/l-aborto-nella-dinamica-tra-la-coscienza-morale-personale-e-il-costume-della-societa–contemporanea
- Workshop (Web) – 20/21 febbraio 2023. “Converging on the person. Emerging technologies for the common good“, evento organizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita, interventi tradotti simultaneamente in italiano, francese, spagnolo, inglese, iscrizione gratuita a questo link.
www.academyforlife.va/content/pav/it/events/assemblea-2023–converging-technologies.html
- Convegno (Vicenza) – 4 marzo 2023 (8.30-17). “Era cosa molto buona“: Custodire le nostre terre. Salute, Ambiente, Lavoro 2 ed. a cura della Commissione Episcopale per il servizio della carità̀ e la salute
Iscrizione http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx
newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/febbraio2023/5307/index.html
CITTÀ DEL VATICANO
Il papa si riprende il Dicastero dei vescovi. Finisce l’era del ratzingeriano Marc Ouellet
Papa Francesco ha sistemato un altro importante tassello del governo della chiesa: ha accolto le dimissioni date per limiti di età dal prefetto del potente Dicastero dei vescovi, organo che gestisce le nomine episcopali in tutto il mondo, il cardinale canadese Marc Ouellet di 78 anni. Francesco ha poi nominato il suo successore, Robert Francis Prevost, religioso agostiniano, 67 anni, originario di Chicago ma vescovo di Chiclayo, in Perù, paese dove ha trascorso molti anni come missionario. Prevost assumerà allo stesso tempo la carica di presidente della Pontificia commissione per l’America Latina, sempre al posto di Ouellet. Un cambio importante se si considera che il porporato di origine canadese ricopriva la carica da 2010, quando vi fu chiamato da Benedetto XVI; era dunque uno degli ultimi “sopravvissuti” del pontificato ratzingeriano in un posto chiave della curia. vaticana. Il nuovo prefetto, da parte sua, ha una sorta di doppia identità: statunitense e latinoamericana, senza contare che, come il papa, viene dalla vita– religiosa (è stato priore generale degli agostinani). Potrebbe inoltre diventare cardinale, proprio in virtù dell’incarico che ricopre, il che porterebbe agli Usa una nuova porpora probabilmente più vicina alla sensibilità di papa Francesco che a quella tradizionalista dei vertici dell’episcopato a stelle e strisce.
Non va dimenticato, infine, che Prevost è stato scelto da Francesco nel 2020 come amministratore apostolico della diocesi di Callao, in Perù, fino ad allora retta dal vescovo José Luis del Palacio, spagnolo, appartenente al cammino neocatecumenale e in sintonia con l’ex arcivescovo di Lima Juan Luis Cipriani, dell’Opus Dei, sostituto da Francesco nel 2019 e considerato un portabandiera della chiesa reazionaria oltre che un sostenitore dei governi di destra in America Latina dagli ambienti ecclesiali progressisti.
L’arrivo di Prevost in Vaticano, un religioso navigato, che conosce bene la chiesa nord e sud americana e che, attraverso l’appartenenza all’ordine agostiniano, ha potuto coltivare una competenza ampia anche rispetto ad altre realtà ecclesiali, può rappresentare una svolta nel governo della Curia vaticana.
omissis
Francesco Peloso “Domani” 31 gennaio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230131peloso.pdf
Ritratto di un vescovo del terzo millennio
«Vicini alla gente come padri e fratelli, con mitezza, pazienza e misericordia. Poveri, non accecati dalla ricchezza. Senza ambizioni e voglia di carrierismo, privi di tentazioni di nobiltà e mondanità…». Ecco l’identikit del nuovo vescovo del terzo millennio. Lo traccia papa Francesco in un libro da poco in distribuzione, scritto idealmente a 4 mani col confratello gesuita e cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo Milano dal 1979 al 2002, scomparso il 31 agosto 2012 a 85 anni. Un testo —”Il vescovo, il pastore” di 128 pagine, edito dalla San Paolo — suddiviso in due parti.
Nella prima, la ristampa de il “Il Vescovo”, scritto nel 2011 da Martini pochi mesi prima di morire dedicato alla figura, all’opera e al ruolo che i vescovi di oggi sono chiamati a svolgere. Nella seconda parte, il commento di papa Francesco che in molti tratti riprende le analisi di Martini. Argomento delicato, in quanto “strumento” operativo per ogni Papa nella investitura di quanti saranno inviati a governare le “provincie” della Chiesa, i vescovi, appunto, attualmente circa 5.400 in tutto il mondo, tra capi diocesani, ausiliari e titolari con incarichi al servizio della Santa Sede (nunzi apostolici, responsabili e segretari di dicasteri…), scelti in un “bacino” di oltre 400 mila sacerdoti.
«Quale profilo dovrebbe avere oggi un vescovo? », la risposta, nella prima parte del testo, del cardinale Martini non lascia spazio a dubbi. «Prima di tutto — scrive il porporato — il candidato all’episcopato deve dare prova di integrità, onestà e obbedienza alle leggi dello Stato; deve essere leale, capace di dire il vero e di non mentire mai per nessun motivo. Deve, inoltre, essere dotato di tanta pazienza, virtù antichissima, ma sempre necessaria, ed essere uomo della misericordia, capace di farsi carico della sofferenza del mondo e di offrire motivi di speranza per sofferenti, ultimi e bisognosi». Non da meno, il futuro vescovo, secondo Martini, deve avere anche «buona educazione, dolcezza del tratto, fermezza paterna, amore per il bello e per le sue forme, e mostrarsi capace di ammettere i propri errori ». Dunque, conclude il porporato, deve essere «anzitutto un uomo vero», in grado di «mettere al centro di tutto l’Evangelo di Gesù Cristo, Parola del Padre attuata dallo Spirito Santo, dal quale è sceso e scende ogni bene sulla terra, ora e nei secoli futuri».
Concetti, caratteri ed indicazioni che papa Francesco riprende ed amplia — 11 anni dopo la pubblicazione de “Il vescovo” — alla luce della sua esperienza pontificia. «Io sto cercando di consacrare vescovi — confessa infatti Bergoglio — che siano innanzitutto pastori fedeli e non arrampicatori. Vescovi che si sentono figli della Chiesa, che è donna ed è l’unica che può partorire i suoi figli se noi glielo permettiamo. E bisogna sempre chiedere a clero e laici — rimarca papa Francesco, rilanciando, a sorpresa, una modalità elettiva episcopale delle prime comunità cristiane — che cosa pensano di un certo candidato vescovo. E non accettare pressioni per le sue elezioni. Questo perché le elezioni di un vescovo devono essere limpide!…». Quanto ai criteri adottati dall’attuale pontefice nelle nomine vescovili, molti i tratti comuni con Martini, anche se papa Francesco non manca di aggiungervi la sua personale impronta. Secondo Bergoglio, i candidati all’episcopato devono essere, infatti, «pastori vicini ed in mezzo alla gente come padri e fratelli; capaci di mitezza, pazienza e misericordia; devono amare la povertà, sia interiore (come libertà per il Signore), sia esteriore (come semplicità e austerità di vita). Non devono avere una psicologia da “principi”; non devono essere ambiziosi, né brigare per ottenere l’episcopato come se si trattasse di una carica mondana. Infine devono avere la consapevolezza di essere sposi di una comunità precisa, della Chiesa di cui sono inviati, senza ambire mai a una più grande e più di prestigio». In merito alla missione pastorale, per Bergoglio i nuovi vescovi «poiché il loro ministero sarà quello di seminare la Parola, devono essere anche uomini pazienti». Ricordando, a questo proposito, che «il cardinale Giuseppe Siri era solito dire che 5 sono le virtù di un vescovo: prima la pazienza, seconda la pazienza, terza la pazienza, quarta la pazienza e ultima la pazienza con coloro che ci invitano ad avere pazienza».
Orazio La Rocca “la Repubblica” 1 febbraio 2023
www.repubblica.it/cultura/2023/01/31/news/libro_papa_francesco_cardinal_martini_vescovo_pastore_terzo_millennio-385942828
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202302/230201larocca.pdf
Consultori Familiari Ucipem
consultorio Famiglia più di Parma collabora e segnala.
Martedì 7 febbraio alle 17, nell’Aula Magna della Sede centrale dell’Università di Parma (Str. dell’Università 12), Alberto Pellai, saggista, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore dell’Università di Milano, presenterà in anteprima nazionale il suo ultimo libro: “Ragazzo mio. Lettera agli uomini veri di domani” (De Agostini, 2023).
L’incontro è promosso dal Comitato Unico di Garanzia – CUG dell’Università di Parma e dal Circolo Culturale il Borgo; partecipano anche la Pastorale Universitaria e l’Associazione Famiglia Più di Parma. Introduce e modera Fausto Pagnotta, docente a contratto in materie storico-politiche e sociologiche e assegnista di ricerca dell’Università di Parma, che ha curato l’organizzazione per l’Ateneo.
I saluti istituzionali saranno portati per l’Ateneo da Paolo Martelli, Prorettore Vicario, Francesca Nori, Presidente del CUG, e Paola Corsano, docente di Psicologia dello sviluppo e Psicologia dell’educazione. Interverranno le Assessore del Comune di Parma Beatrice Aimi (Comunità Giovanile e Politiche giovanili) e Caterina Bonetti (Servizi Educativi, Diritti e pari opportunità) e la Presidente del Centro Antiviolenza di Parma Samuela Frigeri.
Alberto Pellai terrà l’intervento “La consapevolezza emotiva al maschile nelle relazioni di genere, per approfondire temi come l’emergenza educativa in merito alla gestione delle emozioni e alle modalità di vivere con rispetto e serenità la sessualità e l’incontro emozionale con l’altro da parte di adolescenti e preadolescenti, toccando anche le responsabilità del mondo adulto. Il filo rosso dell’intervento sarà la prevenzione della violenza di genere tra i più giovani.”
L’iniziativa è aperta alla cittadinanza e si rivolge a giovani, genitori, insegnanti e tutti coloro che hanno compiti educativi e formativi.
Per informazioni: fausto.pagnotta@unipr.it
www.unipr.it/notizie/7-febbraio-alluniversita-di-parma-la-presentazione-del-nuovo-libro-di-alberto-pellai
DALLA NAVATA
V Domenica del Tempo ordinario – Anno A
Isaia 53, 07. Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?
Salmo 111, 08. Sicuro è il suo cuore, non teme, egli dona largamente ai poveri, sua giustizia rimane per sempre, la sua fronte s’innalza nella gloria.
Paolo 1 Corinzi 02, 03.Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso.
Matteo 05,13. In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.
Il sale e la luce
In questa quinta domenica del tempo ordinario il Vangelo ci presenta due elementi simbolici: il sale e la luce. Ambedue sollecitano i sensi del corpo: l’uno il gusto, l’altra la vista. Eppure essi sono invisibili! Il sale perché si scioglie nei cibi e la luce perché avvolge e penetra ogni cosa. Pur essendo due elementi così diversi tra loro sono accomunati dalla loro pervasività. Ma pur sembrando la luce più importante del sale Gesù cita quest’ultimo per primo. Perché non solo esso è utile per disinfettare il corpo dei neonati (cf. le “frizioni di sale” di Ez 16,4) o dei feriti, per conservare gli alimenti e specialmente le carni, ma anche perché dà sapore, soddisfa il gusto.
Nel testo evangelico ciò che stupisce è, innanzitutto, quanto viene detto a proposito della luce: “voi siete la luce del mondo”. Un titolo che sembra smentire quanto dice lo stesso Gesù secondo il Vangelo di Giovanni: “Io sono la luce del mondo” (8,12); un’identità già introdotta nel Prologo “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (1,9). Se Gesù è la luce del mondo com’è possibile che, invece, qui siano i suoi discepoli ad esserlo? Gesù sta parlando, infatti, ai discepoli che sono accanto a lui sul monte delle Beatitudini. E proprio a proposito dell’accoglienza delle stesse Gesù li definisce come “sale” e come “luce”: se credono, vivono, testimoniano l’esperienza della beatitudine or ora illustrata dal Maestro, allora essi saranno sale della terra e luce che la illumina.
Se si faranno poveri di spirito, se custodiranno il mistero del dolore, se coltiveranno la mitezza e abbracceranno la purezza, se lotteranno per la giustizia e accetteranno persecuzioni a causa della pace, allora essi saranno “luce e sale” del mondo, testimoni del Signore Risorto. “Voi siete il sale della terra”: nell’affermazione è implicato un compito, una responsabilità, quella che la metafora ispira. Ma qual è, dunque, la virtù del sale e la sua importanza nel mondo biblico al punto da essere usato per indicare la missione dei discepoli di Gesù?
Nel mondo antico il sale era, innanzitutto, simbolo d’amicizia e fratellanza legato al pane che si consumava insieme e al vincolo di fedeltà che, così, si creava. Ma il sale era anche spesso associato al divino e al tributo di sacrifici che ad esso si doveva. Omero, nell’Iliade, lo chiama: “il sacro sal” e Plinio il Vecchio, nella Storia Naturale dice: “gli antichi le più volte mangiavano il pane col sale (…). Ma soprattutto l’autorità sua si conosce ne’ sacrifici”. Insieme ad altri elementi, come il vino e l’olio, il sale era utilizzato anche nei sacrifici che i giudei del Secondo Tempio dovevano offrire, com’è scritto nel libro di Esdra: “Ciò che loro occorre, giovenchi, arieti e agnelli, per gli olocausti al Dio del cielo, grano, sale, vino e olio siano loro forniti ogni giorno senza negligenza, secondo le indicazioni dei sacerdoti di Gerusalemme” (6,9). Il significato specifico del sale nei sacrifici viene, poi, esplicitato nel cuore della Torah: “Dovrai salare ogni tua offerta di oblazione: nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni tua offerta porrai del sale” (Lv 2,13). Il sale è, dunque, il segno dell’alleanza che Dio ha stretto con Israele.
Ed ecco la ragione delle parole di Gesù: siete voi il sale della terra, vale a dire quel “sacrificio di sale” su cui si fonda la nuova alleanza sulle parole delle Beatitudini. Grande diventa la responsabilità dei discepoli a che il sale non perda il suo sapore: se la loro testimonianza, cioè, non sarà trasparenza di fede, impegno d’amore e fratellanza, la terra tutta non saprà come ridare sapore alla sua vita e alla sua storia, come “gustare” il senso, la speranza e la bellezza. Usato sin dai primi secoli anche nel rito del battesimo cristiano, l’uso del sale è stato abolito dal Concilio Vaticano II e ciò che resta è, dunque, il sale della fedeltà cristiana. Preoccupazione costantemente presente nel tempo della Chiesa: nell’Ultima Cena di Leonardo appare sotto al gomito di Giuda una saliera rovesciata, il segno che il discepolo che aveva la cassa della comunità, avesse rotto l’alleanza col Signore. Cura primaria di tutti i discepoli è d’essere come una città che traspare al mondo la luce che è il Signore, e come un corpo dove si scioglie il sale della Sua parola – quello sincero e saporito della giustizia, della pace e dell’alleanza amicale e fraterna. E non diventi invece scipito e snaturato, simbolo rovesciato d’inimicizia e d’esilio, come quel sale odioso di cui canta Dante nella sua Commedia: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui” (Par XVII,58). (Agensir)
Rosanna Virgili, biblista
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/02/enzo-bianchi-fabio-rosini-rosanna.html
IL NOSTRO PROFONDO
La confessione oggi tra psicologia e religione
Secondo l’enciclopedia italiana Treccani, confessare significa riconoscere e palesare una propria colpa, un errore commesso, o altro fatto che per qualche motivo si era tenuto nascosto. È possibile distinguere almeno tre ambiti in cui la confessione di una persona a un’altra svolge un ruolo importante: la religione, la psicoterapia e la giustizia penale. Tralasciando l’ultimo contesto, proporrei di concentrarci sulle peculiarità e possibili punti di contatto dei primi due ambiti. Possiamo affermare che tutte le principali religioni del mondo, pur variando per quanto riguarda le modalità, i tempi, i luoghi e i destinatari delle confessioni, incoraggiano a riconoscere e rivelare le proprie trasgressioni. Tra le tradizioni cristiane esiste, infatti, un’enorme varietà di metodi confessionali che sono accomunati dal medesimo scopo: il perdono e il ricongiungimento con Dio. Tale ricongiungimento, come ha affermato Papa Francesco in occasione del 32.mo Corso sul foro interno promosso dalla Penitenzieria Apostolica, “è una potentissima medicina per l’anima e anche per la psiche di tutti” e mira a favorire l’unione e il ricongiungimento con il sé, con l’altro e con la comunità.
Dal punto di vista psicologico, sono state identificate almeno tre funzioni psicologiche della confessione sacramentale (Murray-Swank, McConnell, & Pargament, 2007): la riduzione del senso di colpa e della vergogna, la ricerca di un legame sociale e la ricerca di significato e di coerenza.
- In primo luogo, nell’esperienza della confessione appaiono centrali le emozioni di colpa e vergogna. Nonostante il senso di colpa rappresenti uno stato affettivo negativo, esso può rappresentare anche il punto di partenza per un cambiamento positivo: al senso di colpa può infatti seguire il desiderio di attivarsi in gesti di riparazione che danno forma a comportamenti positivi a livello interpersonale.
- In secondo luogo, la sensazione di aver peccato o di aver violato una norma intrisa di significato spirituale può essere un’esperienza di dolore e isolamento. La confessione spirituale, soprattutto quando è praticata insieme ad un altro individuo o in un gruppo con cui ci si sente in sintonia sul piano delle credenze e dei valori, è in grado di promuovere un senso di profonda connessione sociale.
- In terzo luogo, l’atto di tradurre i pensieri e sentimenti in linguaggio contribuisce a fornire significato e coerenza all’esperienza umana, in particolare all’interno di un quadro spirituale.
I benefici derivanti dall’attività di rivelazione dei propri pensieri e sentimenti personali sono stati oggetto dei famosi studi di Pennebaker, che hanno mostrato che il processo di svelamento del sé (self-disclosure) è associato a un migliore funzionamento fisiologico e psicologico e ha effetti positivi sull’autostima e il benessere. In altre parole, gli individui che praticano la confessione spirituale possono trarre beneficio dal parlare o scrivere le loro trasgressioni perché ciò porta a una narrazione e comprensione più completa di se stessi e degli eventi della propria vita.
Nonostante i potenziali benefici psicologici della confessione spirituale, è fondamentale non ridurla a un comportamento puramente psicologico. Da un lato, il bisogno di benessere psicologico e salute mentale può trovare sostegno nella consulenza psicologica, che peraltro ha visto un importante aumento delle richieste a seguito della pandemia, anche sostenute da politiche attivate sul piano nazionale e internazionale. Dall’altro, l’elemento distintivo della confessione spirituale è che la norma morale violata abbia un significato spirituale per l’individuo. Pertanto, la caratteristica unica di una confessione spirituale è il riferimento a concetti teistici o al sacro. Questo confine definitorio distingue la confessione spirituale da altri tipi di confessioni o rivelazioni.
Recentemente è stata condotta una ricerca qualitativa (Devassia, & Gubi, 2022) che si è posta l’obiettivo di mettere a fuoco le possibili somiglianze e differenze tra confessione sacramentale e consulenza psicologica. Nel farlo la ricerca ha analizzato delle parole di alcuni sacerdoti cattolici che sono anche consulenti certificati con un minimo di cinque anni di esperienza nella consulenza e nel sacerdozio cattolico. L’analisi tematica ha, da un lato, fatto emergere le analogie percepite tra confessione e consulenza: l’ascolto e l’accettazione, la riservatezza, il contesto sicuro e protetto in cui viene praticata, l’effetto curativo e trasformativo della pratica e la natura conversazionale di una pratica auto-riflessiva.
Tuttavia, i partecipanti hanno anche riconosciuto delle importanti peculiarità, tra cui: l’anonimato del confessore vs l’identità dello psicologo; la pratica non sempre continuativa del confessore vs quella continuativa dello psicologo; il ruolo di mediatore del sacerdote, che nella confessione è un rappresentante della Chiesa e un mediatore tra Dio e il penitente vs l’assenza di mediazione dello psicologo; la natura spirituale vs laica della pratica, che si ripercuote nel fatto che la confessione si basa sulla grazia e sull’amore di Dio mentre la consulenza si basa sulla relazione tra la persona e il consulente; la metodologia universalmente accettata della confessione che prevede una pratica rituale vs una varietà di metodi terapeutici impiegati nella consulenza.
Tale analisi mette in risalto la complessità di questa esperienza e, data l’importanza di questa pratica sulla salute mentale, fisica e spirituale dell’uomo e della comunità, la comprensione dei processi implicati risulta estremamente interessante. Sebbene la ricerca psicologica offra strumenti potenti per comprendere meglio la confessione, tale prospettiva può far luce solo su alcuni aspetti del fenomeno. La confessione è quindi una pratica al centro del cammino spirituale e un argomento che necessita di ulteriori studi nella psicologia della religione e che trarrebbe beneficio dal dialogo con altri campi di studio, come la teologia, l’antropologia e la sociologia.
Daniela Villani* Alza gli occhi verso il cielo 3 febbraio 2023
*Professore Associato di Psicologia Generale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è anche docente di Psicologia della] Religione. Ha recentemente curato l’edizione italiana del manuale di Fraser Watts “Psicologia della Religione e della Spiritualità. Aspetti teorici ed applicativi (Vita e Pensiero).
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/02/la-confessione-oggi-tra-psicologia-e.html
SECRETARIA GENERALIS SYNODI
Lettera ai Vescovi.- Prot. N. 230028
Fratelli, (vescovi)
come sapete, a conclusione della fase di consultazione «nelle Chiese particolari», il processo del Sinodo 2021-2024 prevede la celebrazione delle Assemblee continentali. È in vista di questa tappa che ci rivolgiamo a tutti Voi, che nelle vostre Chiese particolari siete principio e fondamento di unità del Popolo santo di Dio (cfr LG 23). Lo facciamo in nome della comune responsabilità per il processo sinodale in atto in quanto Vescovi della Chiesa di Cristo: non si dà esercizio della sinodalità ecclesiale senza esercizio della collegialità episcopale.
La costituzione apostolica Episcopalis communio ci ricorda che «ciascun Vescovo possiede simultaneamente e inseparabilmente la responsabilità per la Chiesa particolare affidata alle sue cure pastorali e la sollecitudine per la Chiesa universale» (EC, n. 2).
www.vatican.va/content/francesco/it/apost_constitutions/documents/papa-francesco_costituzione-ap_20180915_episcopalis-communio.html
Rendere possibile l’esercizio di quest’ultima è, sin dalla sua origine, la ragion d’essere del Sinodo dei Vescovi. Con grande lungimiranza, nel suo stesso documento istitutivo, l’Apostolica sollicitudo, san Paolo VI afferma che il Sinodo, «come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato».
www.vatican.va/content/paul-vi/it/motu_proprio/documents/hf_p-vi_motu-proprio_19650915_apostolica-sollicitudo.html
È quanto stiamo sperimentando ora: l’Episcopalis communio, lungi dall’indebolire una istituzione episcopale, nel momento in cui evidenzia il carattere processuale del Sinodo, rende ancora più cruciale il ruolo dei Pastori e la loro partecipazione alle diverse fasi. Grazie quindi per quanto ciascuno di voi ha fatto finora a servizio del Sinodo 2021-2024, rendendo possibile la consultazione del Popolo di Dio nelle Chiese particolari e il discernimento nei Sinodi/Consigli delle Chiese sui iuris e nelle Conferenze Episcopali.
Alla vigilia delle Assemblee continentali, avvertiamo l’urgenza di parteciparvi alcune considerazioni per una comprensione condivisa del processo sinodale, del suo avanzamento e del senso della tappa che stiamo vivendo. Vi sono infatti alcuni che presumono di sapere già ora quali saranno le conclusioni dell’Assemblea sinodale. Altri vorrebbero imporre al Sinodo un’agenda, con l’intento di orientare la discussione e condizionarne i risultati. Tuttavia il tema che il Papa ha assegnato alla XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi è chiaro: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione». Questo è dunque l’unico tema che siamo chiamati ad approfondire in ognuna delle fasi del processo. Le aspettative nei confronti del Sinodo 2021-2024 sono molte e diverse, ma non è compito della Assemblea affrontare tutte le questioni attorno a cui nella Chiesa si dibatte.
www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwiAofP05fn8AhWGQ_EDHbmjBSQQFnoECA8QAQ&url=https%3A%2F%2Fwww.synod.va%2Fcontent%2Fdam%2Fsynod%2Fnews%2F2023-01-30_news_letter_bishops%2FIT—Lettera-ai-Vescovi—Sinodo.pdf&usg=AOvVaw3QXQ3UnhPDCexTVNo9EJIi
Il ruolo del vescovo nel processo sinodale
Lettera dei cardinali Grech e Hollerich ai vescovi di tutto il mondo
AI VESCOVI DIOCESANI
AI VESCOVI EPARCHIALI
Chi pretende di imporre al Sinodo un qualche tema dimentica la logica che regola il processo sinodale: siamo chiamati a tracciare una “rotta comune” a partire dal contributo di tutti. È perfino superfluo rammentare che la costituzione apostolica Episcopalis communio ha trasformato il Sinodo da evento a processo, articolato in tappe. Questo significa che è dalla sua apertura solenne, il 10 ottobre 2021 in San Pietro, che il Sinodo sta affrontando e sviluppando il tema assegnato, prima nella tappa di consultazione del Popolo di Dio, poi nel discernimento dei Pastori nei Sinodi/Consigli delle Chiese sui iuris e nelle Conferenze Episcopali, ora nelle Assemblee continentali. Proprio in forza del legame tra le diverse fasi non si possono introdurre surrettiziamente altri temi, strumentalizzando l’Assemblea e disconoscendo la consultazione del Popolo di Dio.
Che nella prima fase di ascolto i confini del tema non siano stati così definiti si può capire, anche per la novità del metodo e per la fatica a comprendere e riconoscere che l’intero «Popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo» (LG, n. 12). Ma questa incertezza è diminuita nei passi successivi. Lo dimostra il tenore delle sintesi inviate dai Sinodi/Consigli delle Chiese sui iuris e dalle Conferenze Episcopali alla Segreteria del Sinodo, frutto del discernimento dei Pastori sui contributi della consultazione del Popolo di Dio. A partire da queste sintesi è stato redatto il Documento di lavoro per la Tappa Continentale (DTC), nel quale risuona con chiarezza la voce delle Chiese particolari.
La scelta di restituire alle Chiese particolari il DTC, chiedendo a ciascuna di mettersi in ascolto della voce delle altre, che risuona attraverso quel documento, rileggendo così le tappe del processo sinodale a un livello di maggiore consapevolezza, mostra come davvero la sola regola che ci siamo dati è di restare in ascolto dello Spirito: «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto […]. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo» (Francesco, Discorso per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 2015).
www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/october/documents/papa-francesco_20151017_50-anniversario-sinodo.html
I temi che il DTC propone non costituiscono odi/Consigli delle Chiese sui iuris e dalle Conferenze Episcopali, lasciando intravedere il volto di una Chiesa che sta imparando a porsi in ascolto dello Spirito attraverso l’ascolto gli uni degli altri. Sarà compito delle Assemblee continentali, sulla base delle risonanze che la lettura del DTC avrà suscitato in ciascuna Chiesa particolare, identificare «quali sono le priorità, i temi ricorrenti e gli appelli all’azione che possono essere condivisi con le altre l’agenda della prossima Assemblea del Sinodo dei Vescovi, ma restituiscono con fedeltà quanto emerge dalle sintesi inviate dai Sin Chiese locali nel mondo e discussi durante la Prima Sessione dell’Assemblea sinodale nell’ottobre 2023» (DTC, n. 106).
Per questo confidiamo che nelle Assemblee continentali risuoni di nuovo e con forza ancora maggiore la voce delle Chiese particolari, attraverso la sintesi operata dai Sinodi/Consigli delle Chiese sui iuris e dalle Conferenze Episcopali nazionali. Più cresceremo in uno stile sinodale di Chiesa, più tutti noi membri del Popolo di Dio – fedeli e Pastori – impareremo a sentire cum Ecclesia, nella fedeltà alla Parola di Dio e alla Tradizione. D’altra parte, come potremmo affrontare questioni puntuali, spesso divisive, senza prima aver risposto alla grande questione che interroga la Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II: «Chiesa, cosa dici di te stessa?».
Comunicato Stampa 30 gennaio 2023
SESSUALITÀ
Sessualità e identità, le nuove domande della teologia
«Non pretendiamo di dare risposte al di là di quanto dice il magistero. Anzi, riconosciamo che non tutte le domande hanno una risposta. Ma vogliamo contribuire a porre le domande in modo corretto e, soprattutto, puntiamo ad arricchire il linguaggio e ad accrescere la capacità di mettersi in dialogo».
Così don Marco Gallo Lorenzo, insegnante di liturgia e teologia dei sacramenti all’Istituto superiore di scienze religiose e allo Studio teologico interdiocesano di Fossano, spiega gli obiettivi del corso di teologia su “Cristianesimo e omosessualità” che partirà il prossimo 9 febbraio.
Iniziativa che potrebbe sembrare sorprendente solo a chi non vuole ascoltare le tante richieste di approfondimento che arrivano sia dagli allievi – laici e seminaristi – sia dai ragazzi dell’ora di religione. Domande talvolta scomode, talvolta provocatorie, comunque sempre impegnative, che la teologia non può più eludere, perché, sottolinea don Gallo, «c’è in gioco il rapporto tra la vita e la fede, tra la coscienza e la fede. E non possiamo risolvere la questione citando semplicemente una norma o un divieto. Oggi non è più accettabile cavarsela così». Questione complessa che il teologo argomenta in questo modo: «In una società chiusa, il discorso sull’omosessualità è semplice, si può o non si può. Basta. Non serve altro. In una società democratica e postmoderna come la nostra, in cui i linguaggi della sessualità si sono diversificati e interrogano la fede in modo nuovo, occorre adeguare anche le risposte della teologia».
Non si tratta solo di dare risposte fondate, non escludenti e approfondite ai fratelli e alle sorelle che riconoscono in sé tendenze omoaffettive ma, osserva ancora don Gallo che è anche docente di teologia pastorale a Parigi, «riconoscere che l’uomo contemporaneo esprime la propria sessualità come un modo di essere, come espressione della propria identità. E la teologia questo non può ignorarlo, anche senza pretendere – è bene ribadirlo – di sostituirsi al magistero».
In realtà durante il corso il tema omosessualità viene inserito in un discorso più ampio, che riguarda in generale l’approccio affettivo, il rapporto tra fede e sessualità, il tema identitario. «Ci siamo accorti che, accennando alla questione durante i corsi di teologia del matrimonio – osserva il teologo – venivamo sommersi da raffiche di domande e finivamo per non riuscire più ad esaurire il programma ordinario. Così, insieme al mio collega don Domenico Degiorgis, ci siamo trovati di fronte a un bivio: o non dire nulla, o dedicare grande spazio alla questione omosessualità sacrificando gli altri temi. D’accordo con il vescovo Piero Delbosco, abbiamo deciso di proporre un corso specifico.»
.«Per ora si tratta di un’offerta complementare. In futuro si vedrà. In quattro mesi di lezioni si affronteranno una parte storica, che ricostruisce come la questione omosessuale emerga in modo problematico fin dai primi secoli della cristianità. Si vedrà anche come il magistero ha affrontato la questione, compresa l’evoluzione connessa alla svolta del Vaticano II sul rapporto tra fede e coscienza per arrivare alle nuove letture di quest’ultimo decennio. C’è poi una parte biblica alla luce dell’esegesi contemporanea – che com’è noto sul tema offre interpretazioni sorprendenti anche rispetto a passaggi che tradizionalmente erano letti in modo diverso – e una parte in cui vengono esaminate le conclusioni delle principali scuole psicologiche. L’ultimo aspetto riguarda la questione morale e le esperienze pastorali oggi attive, i gruppi di condivisione. «Abbiamo voluto un’impostazione molto seria proprio perché gli studenti chiedono a questo corso un aiuto per avere le idee più chiare».
Sullo sfondo, l’impegno a mettere in luce la lezione che, come detto dal Concilio arriva diritta ad Amoris lætitia, con un discorso originale su libertà e coscienza che, come ha ripetuto anche papa Francesco, impone anche alla teologia nuovi approcci. Oggi servono parole capaci di esprimere il volto accogliente della Chiesa.
Luciano Moia “Avvenire” 29 gennaio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230131moia.pdf
SINODO della “SINODALITÀ”
Tre appunti per un confronto sul Sinodo
Mentre il cammino sinodale è in pausa, una pausa riflessiva in attesa delle riunioni per continente che dovranno rileggere e ancora fare discernimento sui testi elaborati dalle Chiese dei diversi Paesi, pervenuti alla segreteria del Sinodo, mi sembra possibile e forse anche doveroso offrire ai lettori alcuni appunti. Si tratta di annotazioni in ordine sparso, ma inerenti al cammino sinodale e perciò degni di attenzione, utili a suscitare un confronto.
- Un primo appunto riguardala mancata partecipazione dei cristiani delle Chiese non cattoliche al cammino sinodale in atto. Papa Francesco aveva chiesto con forza che non venisse meno la dimensione ecumenica, con la possibilità di ascoltare ortodossi e riformati, nostri fratelli legati a noi indissolubilmente dal battesimo che ci ha uniti nello stesso corpo di Cristo Signore, nonostante persistano ancora le separazioni intervenute nella storia. Ma non mi risulta che questo coinvolgimento, e di conseguenza questo contributo, ci sia stato. E non è una variante di scarso rilievo, perché ormai si è giunti alla consapevolezza che unico può essere il cammino della Chiesa, nella testimonianza al mondo e nel perseguire una manifesta comunione plurale in una Chiesa di Chiese. Con Paolo VI e Atenagora era stato siglato l’impegno a non compiere atti e a non assumere atteggiamenti se non di comune accordo, in una sinfonia che potesse preparare il terreno all’unità delle Chiese. Ma già Giovanni Paolo II, pur compiendo gesti ecumenici clamorosi, chiaramente tesi a un ecumenismo vissuto nella prassi, prendeva iniziative o creava eventi che venivano percepiti come anti ecumenici. Una prassi ecumenica autentica è esigente perché richiede di vivere radicalmente la fraternità, nelle reciprocità dell’informazione e del confronto, nella pazienza reciproca. Il Sinodo poteva essere un’occasione per ascoltare le Chiese non cattoliche, voci diverse che ci potevano aiutare nel valutare anche le domande emerse dalle diverse comunità cattoliche. Soprattutto per comprendere come attraversare l’attuale crisi del cristianesimo, che riguarda tutti, era importante coinvolgere anche “gli altri” cristiani. Non basterà che siano invitati, come a ogni Sinodo, rappresentanti anche eccellenti delle Chiese se questi non offrono un contributo e non riescono a entrare nel dibattito.
- Un secondo appunto riguarda un problema che non mi sembra ancora assunto da quanti prendono parte al cammino sinodale: il legame tra morale e cultura. La Chiesa cattolica gode ancora della grazia di una comunione che non le ha permesso la deriva delle Chiese nazionali, come purtroppo è successo nell’Ortodossia e in parte anche nella Riforma. Il ministero del successore di Pietro ha presieduto all’“unità”, certamente ha anche peccato alcune volte di idolatria dell’uniformità, ma ha salvaguardato l’unità della fede e della morale fino a tempi recenti. Ma resta vero che negli ultimi decenni, e non solo a causa dell’inculturazione, quella convergenza soprattutto nell’etica espressa da Roma è andata in frantumi. Di fatto, la cultura non religiosa di ogni Paese ha guadagnato terreno; addirittura in certe terre come l’Europa si parla ormai apertamente di esculturazione del cristianesimo, cioè di uscita del cristianesimo dalla cultura dominante in un Paese e questa cultura interagisce nel credente fino a modificare la sua etica cristiana tradizionale. Per chi vi prestava attenzione tale processo era già iniziato trent’anni fa nella Comunione anglicana, presente in molte regioni del Nord e del Sud del mondo. E oggi, in modo diverso, si ripropone nella Chiesa cattolica. E così nei Paesi del Nord Europa i cattolici chiedono una revisione della morale sessuale, una visione diversa e positiva dell’orientamento omosessuale, la benedizione delle coppie dello stesso sesso ecc…, e queste richieste sono invece giudicate sacrilegi e attentati alla morale tradizionale e biblica dai cattolici dell’Africa e dell’Asia. È la collocazione culturale diversa che ispira una diversa ottica morale e che di fatto richiede un mutamento, una revisione e una rilettura biblica. Per la Chiesa di Roma non è facile rispondere agli uni e agli altri. E non è neppure possibile che ci sia una normativa etica forgiata solo dalle singole Chiese nazionali. Siamo davanti a un’aporia [Il termine aporia (dal greco ἀπορία, passaggio impraticabile, strada senza uscita), nella filosofia greca antica indicava l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema, poiché ci si trovava di fronte a due soluzioni che, per quanto opposte, sembravano entrambe valide. Oggi l’aporia assume il significato di insolubilità di un problema qualora si parta da determinate premesse. Se si vuole confutare una teoria il metodo usato è proprio quello di dimostrare, tramite opportune premesse, che le sue conclusioni sono aporetiche, cioè contraddittorie o che generano antinomie.], ma il Sinodo è chiamato a fornire delle risposte e se eluderà o lascerà cadere alcune di queste domande espresse e portate avanti anche da vescovi, rischierà di deludere molti e incoraggiare quelli che dalla Chiesa si stanno già allontanando. Incrocio incandescente per il cammino sinodale, che dovrà discernere tra mondanità e segni dei tempi, tra riproposizione della legge e interpretazione creativa capace di risalire all’intenzione del Legislatore.
- E, infine, un ultimo appunto: so bene che non è previsto come tema da proporre al discernimento del Sinodo attuale, e anche che non spetta innanzitutto al popolo di Dio determinare una riforma del genere, ma ci rendiamo conto che sono passati più di venticinque anni da quando Giovanni Paolo II, emanando l’enciclica “Ut unum sint”, con audacia profetica invitava cattolici e Chiese non cattoliche a offrire un contributo per la riforma del papato? Il Papa aveva capito che un ostacolo alla comunione tra le Chiese, ma oserei dire anche all’interno della Chiesa cattolica stessa, era rappresentato dalla forma in cui veniva esercitato il ministero petrino di presidenza nella carità. E perciò, sentendo l’urgenza di una riforma, chiedeva aiuto, un aiuto anche ecumenico, perché quel ministero continuasse a essere evangelico come Cristo l’aveva voluto. Il Papa non rinunciava all’essenziale della sua missione, ma si diceva disposto a cambiare la forma di esercizio del primato. Purtroppo, quella profetica proposta cadde nel vuoto, in un silenzio generale della Chiesa cattolica e delle Chiese. Intanto, soprattutto al Consiglio ecumenico delle Chiese, con il segretario Konrad Raiser (α1938) si affermava un nuovo paradigma dell’ecumenismo: lavorare insieme per la giustizia, la redistribuzione delle ricchezze, l’uguaglianza tra uomo e donna, la salvaguardia del creato. Questi temi assorbivano l’impegno ecumenico, e la ricerca di comunione e unità non era più all’ordine del giorno. Si è addirittura arrivati a teorizzare che l’ecumenismo sia accettazione delle diverse Chiese, perché diversi sono stati i cristianesimi; ecumenismo inteso come un lavorare insieme al servizio dell’umanità, senza più cercare l’unità della fede sempre imperfetta ma confessata in una Chiesa di Chiese. In questo modo l’ecumenismo è entrato in uno stato comatoso o in un inverno, anche se continuano gesti e incontri all’insegna della gentilezza, dichiarazioni di fraterno amore, accompagnati però sempre dall’affermazione che l’unità delle Chiese verrà quando lo Spirito lo vorrà! E così più nessuno attende l’unità dei cristiani, come d’altronde non si attende la venuta gloriosa di Cristo. Ma non potrebbe essere proprio il Sinodo l’occasione in cui il Papa offre alcune direttive per la riforma del papato e, al tempo stesso, invita gli episcopati e le Chiese a un dibattito aperto? Se non c’è riforma del papato, come aveva indicato Giovanni Paolo II, non ci sarà riforma della Chiesa e non ci sarà sinodalità in atto. La sinodalità, infatti, richiede una diversa forma della Chiesa, una diversa forma dell’episcopato, una nuova forma dell’esercizio del papato.
Enzo Bianchi “Vita Pastorale” febbraio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202302/230201bianchi.pdf
SINODO IN EUROPA
A Praga dal 5 al 12 febbraio l’Assemblea continentale del Percorso sinodale
L’esortazione del Papa, dal Sud Sudan, a ricentrare il ruolo dei vescovi come pastori in mezzo al Popolo di Dio, giunge fino al cuore del Vecchio Continente, nella capitale della Repubblica Ceca, dove con la Messa di stasera nella chiesa dei Premonstratensi, si apre fino al 12 febbraio la riunione con duecento delegati per discernere sui frutti del lavoro sinodale fatto a livello locale
Mentre dal suo Viaggio apostolico in Africa, Papa Francesco ricorda uno degli aspetti imprescindibili dell’agire sinodale – che il ruolo dei vescovi non è cioè quello di funzionari del sacro, di manager o di capi tribù, bensì quello di pastori che si sporcano le mani in mezzo al popolo – qui a Praga si entra nell’operatività della tappa continentale europea del processo sinodale, ribadendo in sostanza proprio questo concetto cardine.
Le sette assemblee continentali
Il processo “Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione” (2021-2024) entra nel cuore delle diverse fasi in cui è stato concepito. Dopo la consultazione locale, che si è conclusa nell’estate scorsa, siamo nel vivo del secondo ‘step’, quello delle Assemblee Sinodali continentali:
- Per l’Europa a Praga dal 5 al 12 febbraio
- per l’Oceania, gli incontri prendono il via questa domenica 5 febbraio a Suva (Isole Fiji);
- analogamente accadrà per il Medio Oriente, dal 12 al 18 febbraio, a Beirut (Libano);
- per l’America del Nord dal 13 al 17 febbraio a Orlando (Florida);
- per l’Asia da 23 al 27 febbraio, a Bangkok (Thailandia);
- per l’Africa dal 1° al 6 marzo ad Addis Abeba (Etiopia);
- per l’America latina dal 17 al 23 marzo a Bogotà (Colombia).
Duecento delegati da tutta l’Europa
Con la celebrazione della Messa, presieduta da monsignor Jan Graubner, arcivescovo di Praga nella chiesa dei Premonstratensi a Strahov, si apre stasera 5 febbraio nella capitale ceca l’Assemblea per l’Europa. La riunione, che prosegue fino al 12 febbraio e che peraltro cade nel ventesimo anniversario dell’esortazione postsinodale di San Giovanni Paolo II “Ecclesia in Europa”,
www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_20030628_ecclesia-in-europa.html
si divide in due parti: una in cui circa 200 delegati (156 provenienti dalle 39 Conferenze Episcopali Europee, altri 44 invitati personalmente dal CCEE) si incontrano per delineare sfide e possibilità del Sinodo; e una seconda, dall’11 al 12 febbraio, in cui saranno solo i 39 presidenti a ritrovarsi per valutare ciò che sarà emerso dalle discussioni e per cominciare a definire una sintesi da inviare, entro marzo, alla Segreteria Generale del Sinodo, insieme a tutte le altre sintesi continentali. Dall’esame di questi sette Documenti Finali si stenderà l’Instrumentum laboris da ultimare entro giugno 2023.
Lo strumento operativo per giungere a questa fase di dialogo tra le Chiese di una specifica regione, usato per capire come si realizza oggi il “camminare insieme”, è stato il Documento di lavoro per la tappa continentale che raccoglie e restituisce a livello locale quanto il Popolo di Dio del mondo intero ha detto nel primo anno del Sinodo. Una guida accurata per permettere di approfondire il discernimento, basata su tre domande:
- quali intuizioni risuonano in modo più intenso;
- quali questioni dovrebbero essere affrontate nelle prossime fasi;
- quali priorità, temi ricorrenti e appelli all’azione potranno essere discussi nella Prima Sessione dell’Assemblea sinodale nell’ottobre 2023.
Delegazioni rappresentative della varietà del Popolo di Dio
Nella tappa continentale confluisce dunque il risultato del coinvolgimento di ciascun vescovo diocesano con la propria équipe sinodale. Assicurata la rappresentanza della varietà del Popolo di Dio: vescovi, presbiteri, diaconi, consacrate e consacrati, laici e laiche, con una particolare considerazione donne e giovani.
Alla lista dei partecipanti in loco, si aggiungono circa 390 delegati on line. Della delegazione italiana fanno parte (in presenza): monsignor Antonio Mura, vescovo di Nuoro e Lanusei, monsignor Valentino Bulgarelli, suor Nicla Spezzati e Giuseppina De Simone.
Si uniranno ai lavori, in streaming, altri dieci delegati: Paolo Verderame, Lucia Capuzzi, Gioele Anni, Chiara Griffini, Pierpaolo Triani, membri del Comitato nazionale del Cammino sinodale, e i teologi don Vito Mignozzi, don Francesco Zaccaria, Stefano Tarocchi, Livio Tonello, Fausto Arici.
Antonella Palermo – Praga Vatican news 5 febbraio 2023
www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2023-02/sinodo-tappa-continentale-vescovi-ccee-europa.html
VOLONTARIATO
Presentato il Manifesto dei Centri di Servizio per il Volontariato
Il documento, lanciato a Firenze, riassume in otto punti l’agenda che il sistema dei 49 Centri di servizio ha fissato per potenziare i servizi e i legami sociali
Un Manifesto inteso come bene collettivo di una comunità in cammino, nel quale confluisce il lungo confronto per ripensare, in un’ottica di sviluppo, i servizi alle associazioni e per potenziare il valore aggiunto delle risorse di un sistema capace di creare legami sociali e connessioni fra soggetti diversi che operano nelle comunità. Lo hanno presentato a Firenze, il 27 e 28 gennaio 2023, i Centro di servizio per il volontariato (Csv), impegnati in una nuova stagione avviata dalla riforma del Terzo settore, a partire dal processo di riorganizzazione appena concluso. L’occasione: il convegno “Fare bene insieme, consolidare ed evolvere. Luoghi per parlare di vision”, organizzato da Csvnet, l’associazione nazionale dei Csv, in collaborazione con il Cesvot (Toscana) e con il sostegno di Crédit Agricole Italia e Innovation Center Fondazione CR Firenze. Un momento per fare il punto sulle nuove sfide e condividere il documento frutto del lavoro di un anno cui hanno dato il loro contributo centinaia fra presidenti, consiglieri, dirigenti e operatori di Csv, ma anche esperti e stakeholder di settore, a iniziare dal mondo delle fondazioni di origine bancaria che, sotto il controllo della fondazione Onc, finanziano i Centri.
“I Csv come agenti di sviluppo del volontariato nei territori. Un manifesto per fare bene insieme” : questo il titolo del documento, che fissa i principi che orienteranno gli sforzi e gli investimenti dei Csv. Anzitutto, promuovere la crescita delle esperienze associative; quindi, alimentare la collaborazione tra le realtà del volontariato; favorire la cooperazione tra volontariato, istituzioni e imprese; valorizzare le forme emergenti di volontariato; animare la cultura della convivenza, del dono e dell’aiuto; sviluppare le capacità organizzative del volontariato; riconoscere l’orizzonte dei diritti, focalizzare i problemi e le sfide dei territori a livello nazionale. Nelle parole della presidente Csvnet Chiara Tommasini, «è il frutto di un intenso processo di partecipazione in cui ogni attore è stato coinvolto per ridefinire la vision del nostro sistema. Siamo partiti dall’esigenza di rileggere i bisogni del volontariato e abbiamo approfondito i temi connessi alla sua azione – ha spiegato – Abbiamo di fronte due grandi sfide: in primo luogo favorire l’empowerment delle associazioni per fare in modo che sviluppino il loro potenziale organizzativo e la loro capacità di contare su nuove risorse. In secondo luogo, promuovere un lavoro di animazione territoriale per fare sì che le associazioni diventino punto di riferimento per le comunità, a iniziare dalla pubblica amministrazione ma anche per imprese e fondazioni, per co-programmare e co-progettare le politiche di sostegno alle fragilità e di cura del territorio. Per fare questo – ha concluso – dobbiamo viverci come agenzie di sviluppo del volontariato e lo faremo grazie alla direzione che questo Manifesto imprimerà al sistema».
Il manifesto https://csvnet.it/images/documenti/Manifesto_grafica.pdf
Redazione online 31 gennaio 2023
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