UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NEWS UCIPEM n. 943 – 01 GENNAIO 2023
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
CONTRIBUTI ANCHE PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA
02 ABUSI Grooming
03 «Le nostre denunce su Rupnik e il muro di gesuiti e Vaticano»
05 Lettera a Marko Rupnik. Mio caro fratello, operatore di malefatte
07 Le domande inquietanti che pone il caso Rupnik
09 Compagnia Gesù e Vaticano hanno tentato di coprire ma ormai la gravità del sistema
10 CHIESA CATTOLICA È morto Benedetto XVI, il grande teologo conservatore che ha modernizzato la chiesa
13 Benedetto XVI, le sue ultime parole e il rapporto con papa Francesco
14 Il testamento di Benedetto XVI: che cosa c’è nelle parole del Papa emerito
15 Cosa c’era dietro le dimissioni di Benedetto XVI
18 “Ratzinger è un grande teologo. La sua rinuncia atto di umiltà”
19 “Ora Papa Francesco più libero di fare riforme Chiesa”
20 CHIESA DI TUTTI Ratzinger, un papa controverso, che si è dimesso per il bene della Chiesa
21 CHIESA NEL MONDO Il Rettore Maggiore dei Salesiani su Don Bosco e i giovani, abusi, gender, fede
22 È venerabile Matteo Ricci: il gesuita che ha “portato” Dio in Cina
22 CITTÀ DEL VATICANO La nomina dei vescovi: manteniamo vivo l’impegno per modificarla
26 CONFED. METODI NATURALI Corso di Perfezionamento “Sessualità, Fertilità, Ambiente e Stili di vita”.
26 CONSULTORI UCIPEM Mantova. “Etica Salute & Famiglia” – Anno XXVII n.01 – gennaio febbraio 2023
26 Vittorio Veneto. Un contributo specialistico è la Mediazione Familiare
28 DALLA NAVATA Maria Santissima Madre di Dio
28 Commento di p. Enzo Bianchi
29 GIOVANI ADULTI C’è un grande prato verde …
30 MINORI Protezione e abusi sessuali: un manuale per la tutela in situazione di crisi
30 NATIVITÀ Tra umano e divino ecco chi è il vero Dio bambino
32 NULLITÀ DEL MATRIMONIO Voglio accertare la nullità del mio matrimonio: cosa devo fare?
ABUSI
Grooming
Il grooming è l’adescamento di un minore su internet tramite tecniche di manipolazione tese a superarne le resistenze e carpirne la fiducia a fini di abuso o sfruttamento sessuale. Una delle più rilevanti minacce in rete è rappresentata dall’adescamento online del minore: c.d. grooming.
I minori, infatti, sono esposti al rischio di essere adescati da soggetti che li manipolano carpendone la fiducia e riducendone l’autocontrollo, per fini di abuso o sfruttamento sessuale. È necessario, quindi, che i minori siano educati al buon utilizzo di internet per evitare eventuali rischi, in più gli organi competenti, sono chiamati a controllare i siti sospetti come forma di garanzia. Il mondo virtuale – nella maggior parte dei casi – elimina i freni inibitori e l’adescamento diviene molto più facile.
La convenzione di Lanzarote. Proprio a protezione dei bambini, contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali, è stata firmata il 25 ottobre 2007 la Convenzione di Lanzarote. Gli Stati firmando la stessa, si impegnano a criminalizzare ogni attività sessuale con bambini sotto l’età del consenso, la prostituzione minorile e la pornografia infantile. La Convenzione, inoltre, intraprende misure di prevenzione allo sfruttamento sessuale dei minori, tra cui l’educazione dei bambini, il monitoraggio dei responsabili e il controllo delle persone che lavorano con i minori.
Il grooming come fattispecie di reato. È stato il Regno Unito il primo paese ad introdurre il grooming come fattispecie di reato penalmente rilevante. In Italia, solo nel 2012, con la legge n. 172 è stata data esecuzione alla Convenzione di Lanzarote. Nel codice penale, infatti, è stato introdotto l’articolo 609 undecies che recita: “Chiunque, allo scopo di commettere i reati di cui agli articoli 600, 600 bis, 600 ter e 600 quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600 quinquies, 609 bis, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies, adesca un minore di anni sedici, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione da uno a tre anni.”
www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xii/capo-iii/sezione-i/art600.html
Per adescamento si intende qualsiasi atto volto a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione”. Naturalmente dalla semplice lettura del dettato legislativo, si evince che la tutela è stata ristretta ai soli minori di anni sedici, la peculiarità, però, sta nel fatto che si sanziona la condotta a prescindere dal verificarsi del danno, che, qualora dovesse verificarsi comporta un’aggravante.
Solo il Regno Unito specifica il grooming come “ogni condotta tesa ad organizzare un incontro, per se stessi o per conto di terzi, con un minore al fine di abusarne sessualmente”. Molto più rigida appare la normativa australiana e canadese che prevede sanzioni penali per il solo fatto di instaurare via internet una comunicazione, al fine di sedurre un minore per poi abusarne.
www.studiocataldi.it/articoli/19667-il-reato-di-adescamento-di-minorenni.asp
Altra fattispecie di reato introdotta in Italia è quella prevista dall’articolo 414 bis del codice penale (istigazione a pratiche di pedofilia e pedopornografia).
www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-v/art414bis.html
Esso recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, con qualsiasi mezzo e con qualsiasi forma di espressione, pubblicamente istiga a commettere, in danno di minorenni, uno o più delitti previsti dagli articoli 600-bis, 600-ter e 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 609-bis, 609-quater e 609-quinquies è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni. Alla stessa pena soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti previsti dal primo comma. Non possono essere invocate, a propria scusa, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume“.
Tale delitto ha inserito per la prima volta nel nostro ordinamento penale la parola “pedofilia”, ma molte questioni si sollevano per la collocazione dell’articolo in questione. Esso seguendo l’articolo 414 codice penale – istigazione a delinquere – potrebbe configurarsi come un’aggravante e non come una fattispecie autonoma.
www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-v/art414.html
Per la dottrina, però, non vi sono dubbi, l’articolo 414 bis configura una fattispecie autonoma, ponendosi la norma in un rapporto di specialità.
Raffaella Feola Studio Cataldi 16 dicembre 2022
www.studiocataldi.it/articoli/27275-grooming.asp
«Le nostre denunce su Rupnik e il muro di gesuiti e Vaticano»
Una nuova testimonianza aggrava la posizione di Marko Rupnik, teologo e artista gesuita vicino a papa Francesco, al centro dello scandalo per abusi sessuali su diverse suore. Dopo “Anna”, che ha rivelato a “Domani” le violenze che ha subito quando era una religiosa della Comunità Loyola, “Ester” (nome di fantasia), oggi 60 anni, all’epoca segretaria della madre superiora Ivanka Hosta, racconta le repressioni e il silenzio con cui Rupnik è stato protetto dai gesuiti e dalla chiesa. Cioè dalle stesse autorità ecclesiastiche che oggi si dicono addolorate per le vittime e affermano di non essere state al corrente dei fatti, in realtà più volte segnalati nel corso degli anni.
Quando è entrata nella Comunità Loyola?
Sono stata fra le prime: a Lubiana nel 1984 si era costituito un gruppo di quattro sorelle da cui tre anni dopo ha avuto origine la Comunità. Nel 1988 eravamo già in venti: allora avevo 25 anni e ho preso i voti perpetui insieme ad altre sei sorelle, fra cui la superiora Ivanka Hosta.
Qual era il rapporto fra Marko Rupnik, Ivanka Hosta e le sorelle della comunità?
Rupnik ci diceva che Ivanka aveva il carisma ma non lo sapeva trasmettere: solo lui poteva interpretare questo suo dono e trasmetterlo a noi sorelle. In questo modo costruiva un muro tra Ivanka e le altre suore della comunità, che non riuscivano a confidarsi con lei. Padre Rupnik le ha legate a sé e non ha permesso una relazione sincera tra Ivanka e le altre sorelle. Pian piano è diventato questo lo stile dei rapporti tra di noi.
Com’era la vita nella comunità slovena?
Io ho vissuto con grande gioia i primi cinque anni di vita in comune e pensavo che anche per le altre sorelle fosse lo stesso. Ero del tutto ignara della sofferenza nascosta e degli abusi che subivano alcune di loro. Tutto è cambiato nel 1989 quando, dopo gli studi di teologia, sono stata mandata a Roma a studiare diritto canonico e a lavorare alla Radio Vaticana. Qualcosa si è incrinato dentro di me. Credevo che il problema fosse la stanchezza o l’immersione in un nuovo ambiente, con altre abitudini, ma anni dopo ho capito che l’inizio del mio buio era dovuto a padre Rupnik.
Quali ricordi ha rielaborato?
Già negli anni vissuti a Mengeš, in Slovenia, mi vietava di vivere l’amicizia profonda che avevo con una delle sorelle, dicendomi che era una dipendenza insana, un segno di egoismo; a Roma poi mi ordinò di tagliare del tutto i ponti con lei. Questa esperienza ha cambiato il modello delle mie relazioni: non c‘era niente di stabile nei rapporti che avevamo, non c’erano più amicizie. Non solo: padre Rupnik ci chiese di scrivere una lettera ai nostri genitori e alla nostra famiglia in cui comunicavamo che per un anno non avremmo più avuto nessun rapporto con loro: niente visite, lettere o telefonate. Io in particolare dovevo scrivere quanto fossi preoccupata per la loro salvezza, elencare i loro difetti all’origine di questa preoccupazione. La lettera mi sembrava troppo dura ma la sorella che doveva “approvarla” aggiunse anche altre cose, ancora più tremende. Ho dovuto spedire
la lettera e ancora oggi porto in me il ricordo amaro del loro dolore.
Quando ha saputo degli abusi sessuali di Rupnik?
Nel 1993, quando ci sono state le prime denunce alla madre generale. “Anna” ha parlato di quello che era successo con padre Marko e prima di lei era andata da Ivanka l’altra sorella con cui Rupnik aveva avuto il rapporto a tre, a Roma. Da quel momento molte altre sono venute da me a dirmi che erano state abusate da Rupnik e io dicevo loro di rivolgersi a Ivanka, perché era la superiora. Erano anni che le vedevo piangere, già dal 1985, ma solo in quel momento ho capito il motivo, per me prima inimmaginabile.
Che cosa è successo quando “Anna” ha deciso di denunciare apertamente Rupnik alle autorità ecclesiastiche?
Rupnik è stato allontanato dalla comunità dall’arcivescovo di Lubiana Alojzij Šuštar. Ricordo che io stessa ho avuto l’incarico di portare tutti i suoi quadri al Centro Aletti a Roma. Era furioso.
La superiora come spiegò la sua partenza?
Radunò le sorelle e disse che Rupnik era stato mandato via perché voleva impossessarsi del carisma della comunità e farsi passare da fondatore, ma noi del consiglio che le eravamo più vicine conoscevamo il vero motivo. Così come lo sapeva il vescovo Šuštar e padre Lojze Bratina, all’epoca provinciale sloveno dei gesuiti. A padre Bratina avevo raccontato tutto io stessa ma lui mi aveva risposto che non ci credeva.
Da quel momento che cosa è successo?
La comunità ha cominciato a funzionare come una vera e propria setta. Ivanka, credo per paura che la notizia degli abusi di Rupnik uscisse in qualche modo e compromettesse il futuro della comunità, ha taciuto e ha assunto con noi un atteggiamento totalmente repressivo e controllante. Non si dovevano più salutare gli amici di padre Rupnik o coloro che lo frequentavano, non si poteva più liberamente scegliere il confessore e neanche dirgli tutto. Veniva pure verificato che cosa avevamo detto in confessione e le risposte date dal confessore. La guida spirituale poteva essere soltanto una sorella della comunità: o era la superiora stessa o, con il suo permesso, un’altra sorella. Il contenuto della preghiera personale doveva essere condiviso con le altre e Ivanka si attribuiva il diritto di giudicare quando una preghiera era genuina e quando non lo era. La sorella che non pregava bene spesso doveva insistere in cappella finché non pregava come voleva Ivanka, altrimenti veniva segnalata come persona in crisi, il che era sempre considerato una colpa, una chiusura nei confronti di Dio. La libertà personale era quasi completamente azzerata. A causa di questo clima buio e minaccioso la comunità si è dimezzata: nel giro di pochi anni siamo uscite in 19, una addirittura è scappata dalla finestra.
Ci sono state reazioni da parte dei gesuiti o della chiesa in generale?
Nessuna. Non uno che si sia interessato, almeno ufficialmente, della separazione fra Ivanka Hosta e
padre Rupnik e della successiva disgregazione della comunità. Nel 1998 sono andata in curia dai gesuiti e ho raccontato tutto di nuovo, stavolta al delegato per le case internazionali a Roma padre Francisco J. Egaña, ma ancora una volta non è successo niente. Dopo, per anni, ho vissuto con una grande ferita senza più avere rapporti con nessuna finché, prima del lockdown, ho incontrato una ex sorella che mi ha detto che la comunità era stata commissariata.
Che cosa ha fatto dopo essere uscita dalla Comunità Loyola?
Lavoravo già in un’università cattolica a Roma. Al momento delle mie dimissioni dalla comunità, Ivanka è andata dal mio superiore per chiedergli di sostituirmi con un’altra sorella: per fortuna si è rifiutato.
È in contatto con le sorelle che attualmente vivono nella comunità?
Con qualcuna. Molte hanno seri problemi fisici e psichici a causa delle violenze psicologiche e spirituali che hanno subìto. Alcune assumono farmaci che le devastano: una l’ho rivista a un funerale e non l’ho nemmeno riconosciuta, tanto era segnata dall’effetto delle medicine. Prima Marko e poi Ivanka sono riusciti a togliere loro quel poco di autostima che avevano.
Per appoggiare la denuncia di “Anna”, lo scorso giugno lei ha scritto una lettera sugli abusi di Rupnik indirizzata ai gesuiti e a diverse personalità della chiesa, dal prefetto del dicastero per la Dottrina della fede Luis Ladaria Ferrer al cardinale vicario del papa per la diocesi di Roma, Angelo De Donatis. Qualcuno le ha risposto?
Nessuno. E dire che molti di loro li conosco personalmente.
La Conferenza episcopale slovena il 21 dicembre ha detto che prova «dolore e costernazione» per gli abusi, «rimasti ignoti per tanti anni». È così?
All’epoca tanti erano al corrente dei fatti, dal vescovo di Lubiana al provinciale dei gesuiti fino al fondatore del Centro Aletti, il teologo Tomáš Špidlík. Nemmeno oggi i vescovi sloveni possono dire che non sapevano: “Anna” ed io abbiamo spedito via Pec le nostre lettere anche all’attuale arcivescovo di Lubiana, Stanislav Zore, al provinciale sloveno padre Miran Žvanut e a padre Milan Žust, superiore della residenza della Santissima Trinità al Centro Aletti di Roma, che è anche il superiore di padre Rupnik. Non credevano che saremmo andate tanto avanti nella denuncia pubblica e hanno detto mezze verità per cercare di cavarsela.
Sia i vescovi sloveni che il cardinale De Donatis ora condannano gli abusi ma invitano a distinguere fra i peccati di Rupnik e ciò che ha espresso con la sua arte. Che cosa ne pensa?
L’arte è espressione di quel che lui insegna, riflette la sua personalità. Non si può dire che l’arte e il ministero sono due cose separate, Rupnik stesso ha sempre sottolineato che sono due elementi intimamente connessi. Finché la chiesa non capisce che l’essere abusatore di Rupnik è legato al suo essere artista, continuerà a minimizzare la gravità di quel che è successo.
Intervista a Anna a cura di Federica Tourn in “Domani” del 30 dicembre 2022
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202212/221230annatourn.pdf
Lettera a Marko Rupnik Mio caro fratello, operatore di malefatte,
Traduzione dallo spagnolo
Voglio iniziare ad essere duro con le tue azioni, ma non con te come persona che non posso giudicare. E voglio che la durezza sia all’inizio di questa lettera e non alla fine. Ti scrivo perché ho sofferto molto per tutto ciò che si va pubblicando su di te. Vorrei che tu capissi tutti i danni che hai fatto e che ancora puoi fare.
Voglia di condanna. Quello che leggo in questi giorni mi fa pensare a un fatto che forse tu non conoscevi perché sei molto più giovane di me. Mi è tornato alla memoria senza volerlo. Il Generale prima di Arrupe (J.B. Janssens), morto nel 1964, aveva come regola che chi veniva condannato per un solo reato in quello che noi chiamiamo «il secondo voto» fosse immediatamente espulso dall’Ordine. Lo ricordo perché ad alcuni di noi, allora giovani, sembrava eccessivamente severo e, inoltre, faceva nascere il sospetto che, se un gesuita attivo lasciava l’Ordine, doveva essere per quelle che chiamavamo «cose di sottana».
Nella vita reagiamo sempre andando all’altro estremo e non vorrei che ora casi come il tuo ci facessero tornare alla regola di Janssens, perché la realtà umana è spesso più complessa. Dopo questo, e prima delle riflessioni che vorrei proporti fraternamente, devo riconoscere che sto parlando a partire dai dati che circolano, e questo mi lascia alcuni dubbi sulle procedure, che non capisco e che spero un giorno di poter vedere chiariti. La velocità con cui tutto circola nelle reti e l’ossessione dei media per tutto ciò che riguarda il sesso fanno sì che, a volte, le notizie non possano essere valutate a sufficienza.
Il vescovo più bravo e più di sinistra che la Spagna di Franco abbia avuto (Alberto Iniesta) mi disse una volta che, in un noto giornale spagnolo, un giorno trovarono uno spazio libero che poteva essere occupato da due notizie: una riguardava un sacerdote che era caduto martire e l’altra un sacerdote protagonista di una scappatella sessuale. Naturalmente, è stato scelto quest’ultimo senza esitazione.
www.settimananews.it/profili/e-morto-il-vescovo-alberto-iniesta
La questione dell’assoluzione. Questo è il contesto da cui vi scrivo e che mi fa sorgere alcune domande. Perché guardate: secondo il canone 977 dell’attuale Codice di Diritto Canonico (CIC), «l’assoluzione data a un complice di un peccato contro il sesto comandamento del Decalogo» è sempre invalida (a meno che non sia data al momento della morte). Inoltre, secondo il canone 1378, chi dà tale assoluzione è ipso facto scomunicato (ciò si chiama scomunica latæ sententiæ, che significa come “già comminata”). Infine, questa scomunica non può essere assolta dal vescovo, ma è riservata alla Sede romana (la “Santa Sede” – come si usa dire –, ma trovo sconveniente riservare continuamente questo aggettivo a un’istituzione o a persone che sono sante e peccatrici come tutti gli altri cristiani).
Questi sono i fatti che ho studiato. Me li ricordo bene, perché l’insegnante di morale, che era una persona abbastanza tranquilla, visto che sapeva quanto poco ci interessasse il diritto canonico, alzava la voce e ci diceva: «Avete capito bene? Assoluzione invalida e scomunica latæ sententiæ». È vero che allora il CIC in vigore era quello vecchio (quello nuovo, se non sbaglio, è del 1983); ma su questo punto il contenuto del Codice non è cambiato, anche se possono essere cambiati i numeri dei canoni. Se questo Codice è ancora in vigore, non capisco cosa significhi quando i media scrivono che, nel 2020, «sei stato scomunicato» per un mese. Scomunicato lo eri già da quasi 30 anni! Mi risulta che la commissione d’inchiesta, nel gennaio 2020, abbia dichiarato all’unanimità che, se c’è stata assoluzione del complice, la Curia romana non ti ha comminato la scomunica, ma ha semplicemente dichiarato che eri scomunicato. Pertanto, non è nemmeno vero che la scomunica sia stata revocata dopo un mese. Si limitava a dichiarare che la scomunica era già prescritta (mi risulta che il termine massimo per la prescrizione delle pene sia di dieci anni).
È così che affronto i dubbi lasciati dalle informazioni ricevute. Io e te possiamo capire che i giornalisti conoscono le regole del calcio meglio del Codice di Diritto Canonico. Ma ci sono casi in cui dovrebbero cercare di essere più coscienziosi, nonostante la fretta di diffondere le notizie prima degli altri…
Accuse affrettate. E, a proposito di fretta, ricordo una frase di uno degli assistenti del nostro Generale, in visita in Spagna quando ero un giovane gesuita, a proposito di una delle nostre lamentele: «Riceviamo in Curia un numero di denunce quasi dieci volte superiore a quelle che si rivelano vere; questo ci obbliga a esaminare ogni caso con attenzione e ad essere più lenti di quanto vorremmo». Non si trattava allora solo di accuse sessuali, ma di ogni tipo e, dato lo spirito di quel tempo, è lecito pensare che la maggior parte di esse fossero accuse di eterodossia. Ma, se questo era quanto accadeva nella Curia generale di un ordine religioso, possiamo anche supporre che la proporzione fosse almeno la stessa nella Curia romana. E non è che queste false accuse siano intenzionalmente calunniose, ma ci sono temperamenti semplicistici e autoritari che credono di risolvere tutto in questo modo. Il che – come abbiamo visto in altre occasioni in casi di giustizia civile – è molto doloroso per alcune vittime che hanno il diritto di non aspettare così a lungo. Ma la realtà umana è più o meno questa.
Mi chiedo anche, con tutto il rispetto, che tipo di suora fosse e quale formazione avesse quella povera ragazza che ha mandato giù così facilmente le regole del suo presunto direttore spirituale. Questo può aggravare il tuo abuso, ma punta il dito anche contro alcune congregazioni femminili per la mancanza di formazione dei loro membri. Ancora una volta mi torna un’immagine del passato, quella di padre Riccardo Lombardi che, nei corsi «Per un mondo migliore», grida: «Le mettono il velo e la chiamano suora contemplativa. E COSA CONTEMPLA?». Di grazia: sono passati tanti anni da allora, eppure siamo ancora così.
Marko Rupnik Gesù e i perduti del suo tempo
Ma pur con tutti questi dubbi, che saprai risolvere meglio di me e che sono piuttosto procedurali, penso di potermi rivolgere a te direttamente e come fratello ferito. Vorrei capissi che hai fatto un danno enorme non solo a un gruppo di suore (anche qui il numero varia) ma alla Compagnia di Gesù e a tutta la Chiesa. Quando alcune persone sentono qualche parola, magari vera ma fastidiosa (come a volte accade con il Vangelo), la loro reazione spontanea sarà quella di dire più o meno: «Sei un gesuita come Rupnik»; e «non ho più bisogno di ascoltarti».
Gli esseri umani sono così e ricorderai come Gesù sia stato delegittimato per essere stato definito «amico dei pubblicani e della gente di bassa lega». È vero che, nel caso di Gesù, c’era un motivo in più per questi aggettivi (come dirò più avanti), ma ciò non significa che questa relazione non sia stata usata come prova per sconfessare le sue parole. Ripeto: noi esseri umani siamo così.
E aggiungo che, benché questa nostra reazione sia scorretta, rivela sempre qualcosa di molto vero che ci rifiutiamo di riconoscere: il peccato non è qualcosa di esclusivamente personale (anche se in un ambito così intimo come la sessualità), ma ha sempre una dimensione comunitaria. Che sia conosciuto o meno, che sia reso pubblico o meno, ogni peccato danneggia la Chiesa e la comunità, cosa che l’individualismo esagerato della nostra cultura, che ci plasma tutti, non ammette (o preferisce ignorare). E lo cito perché, se il male ha questa dimensione sociale, la bontà ce l’ha ancora di più: è a questo che si riferisce quella frase del Credo che parla di «comunione del Santo» (traduzione migliore dell’incomprensibile comunione «dei santi» che, siccome non la capiamo, non ci facciamo caso). Ma ha le sue conseguenze, se vorrai prestare attenzione a ciò che sto per dirti.
Conosci la scena evangelica della vocazione di san Matteo. La guardiamo già come «san Matteo» e nulla ci colpisce nel passaggio. Ma quando Gesù lo chiamò, non era un santo, bensì un pubblicano. E lo scandalo dei pubblicani di quella società era incredibile: più grande degli abusi sessuali di un gesuita pubblico come te oggi.
Lo sottolineo per comprendere la rabbia che deve aver suscitato allora vedere Gesù mangiare in pubblico con il pubblicano Matteo e con altri della sua risma. E mi chiedo: cosa succederebbe, cosa direbbero i media e la gente se oggi trovassero Gesù a mangiare in pubblico con te e altri come te? Credo che nemmeno gli insulti di Vox [sito web Usa, noto per giornale esplicativo] sarebbero sufficienti a esprimere la nostra reazione.
Ed è qui che entrano in gioco alcune delle parole più inascoltate (nel senso letterale di “mai ascoltate”) del Vangelo: di fronte a questo scandalo e a questa rabbia, Gesù risponde semplicemente: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. E non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori alla penitenza»…
Dovremmo tutti cambiare molto per accettare queste parole: perché noi, in effetti, crediamo di essere i buoni (non semplicemente i perdonati o i graziati), e questo ci dà il diritto di credere che Dio e il suo Messaggero siano totalmente dalla nostra parte e che possiamo scagliare pietre contro tutti gli adulteri e le adultere della società, perché sono assolutamente malvagi e non c’è nulla di salvabile in loro.
Se farai questo passo. Ma, nota, fratello Marko: in questo momento Dio è più dalla tua parte che dalla nostra: perché cerca di chiamarti alla penitenza. E se rispondi a questa chiamata «ci sarà più gioia in cielo per te solo che per 99» di noi che pensiamo di non averne bisogno. Questo mi obbliga a salutarti, caro Marko, dicendoti che, se farai questo passo, soprattutto di fronte alle povere vittime che hai cammellato, ti dovrò un abbraccio più grande di quello che do a molti dei miei cari. Perché non solo avrai redento te stesso: avrai riscattato tutto il tuo lavoro; e, si potrebbe dire parodiando una frase biblica: «anche se i tuoi peccati sono neri come la pece, diventeranno preziosi come un quadro di Rupnik». Strano, vero? Ebbene, ti assicuro che questa è la stranezza del Vangelo. E noi preferiamo dimenticarcene per non metterci nei guai.
José I. González Faus α1933 Carta a Marko Rupnik Religión Digital il 25 dicembre 2022
www.religiondigital.org/miradas_cristianas/Carta-Mario-Rupnik_7_2518018192.html
Traduzione dall’originale spagnolo, pubblicato su
Con 30 commenti www.settimananews.it/profili/lettera-marko-rupnik
Le domande inquietanti che pone il caso Rupnik
Le accuse contro il prete-artista sloveno si moltiplicano e sollevano interrogativi sul modo in cui il suo caso è stato gestito dal Vaticano e dalla Compagnia di Gesù. All’inizio di dicembre 2022, la stampa italiana rivela che padre Marko Rupnik, un gesuita sloveno, i cui mosaici ornano i santuari più visitati del mondo, è accusato di aggressioni sessuali e di abusi spirituali. A metà dicembre, La Croix rivela che quegli abusi riguardano almeno nove religiose – in particolare nell’ambito della confessione. Le testimonianze di quelle suore sono state raccolte nel 2021 in occasione di una visita apostolica in una comunità slovena, di cui padre Rupnik era stato accompagnatore spirituale fino ai primi anni 90. Quelle testimonianze sono state ascoltate da Mons. Daniele Libanori, vescovo ausiliare di Roma.
Quelle accuse sono state in seguito confermate da un’inchiesta avviata dalla Compagna di Gesù nel 2021. Le conclusioni di quell’inchiesta sono state infine trasmesse al Dicastero per la dottrina della fede (DDF), uno dei “ministeri” del Vaticano, che ha una competenza esclusiva sui reati più gravi. Il DDF è giunto alla conclusione che i fatti di cui era accusato padre Rupnik erano prescritti, come richiedevano i gesuiti, impedendo così l’avvio di un’inchiesta reale e l’apertura di un processo canonico.
Una delle vittime dichiarate di padre Rupnik ha raccontato al quotidiano italiano Domani di aver subito violente aggressioni sessuali durante e al di fuori della confessione. Afferma di aver denunciato i fatti diverse volte ai superiori del prete, senza che egli fosse mai sanzionato. “La Chiesa e l’ordine dei gesuiti erano al corrente dei fatti dal 1994”, ha dichiarato al giornale italiano, raccontando che padre Rupnik è stato alla fine espulso dalla comunità slovena per vivere a Roma e da allora proseguirvi la sua carriera. Il 5 giugno 2022 la vittima ha scritto una “lettera aperta” al superiore generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa, inviandone copia ad altre 17 persone, tra cui vescovi e cardinali.
I gesuiti hanno imposto sanzioni troppo leggere? Dopo le rivelazioni pubbliche riguardanti le accuse delle suore slovene, i gesuiti hanno in primo luogo spiegato di aver ridotto il ministero di padre Rupnik nel 2021 (proibizione di confessare, di accompagnare spiritualmente, di predicare dei ritiri…). Tali sanzioni disciplinari, obiettivamente leggere in rapporto ai fatti denunciati – che sono tra i più gravi secondo il diritto penale canonico – non sono state rispettate da Marko Rupnik. E senza che i suoi superiori reagissero per questo. Così, prima che lo scandalo scoppiasse pubblicamente, il prete mosaicista di 68 anni, già sotto sanzione, continuava a predicare su internet, ad andare a ricevere premi all’estero e prevedeva di predicare dei ritiri. A tutt’oggi, padre Rupnik conserva il suo laboratorio d’arte sacra a Roma, eppure proprio svolgendo questa funzione avrebbe esercitato abusi su delle donne.
Sotto la pressione mediatica, i gesuiti hanno ammesso di aver preso le prime restrizioni al ministero fin dal 2019, giungendo alla scomunica di padre Rupnik undici mesi dopo, nel maggio 2020. Una sanzione pronunciata per aggressioni sessuali avvenute durante diverse confessioni, seguite dall’assoluzione della persona aggredita. Secondo la Compagnia di Gesù, poiché Marko Rupnik si era “pentito”, la scomunica è stata tolta meno di un mese dopo essere stata formalmente pronunciata. Tale sanzione, mantenuta segreta, non ha dato luogo ad alcuna comunicazione o invito a testimoniare a eventuali vittime. Il 18 dicembre (2022) i responsabili gesuiti hanno finalmente fatto un invito a testimoniare. Secondo le nostre informazioni, meno di una settimana dopo, più di dieci persone aveva già risposto a quell’invito.
Marko Rupnik ha goduto di una particolare benevolenza in Vaticano? Padre Rupnik è una figura molto conosciuta in Vaticano, dove è regolarmente consultato su questioni artistiche. Vicino ai papi a partire da Giovanni Paolo II, è autore della maggior parte della cappella Redemptoris Mater, situata al secondo piano del Palazzo apostolico. Il prete sloveno è inoltre consulente di tre strutture della Curia: il Dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, quello per il clero e quello per l’evangelizzazione. Nella diocesi di Roma, di cui è vescovo il papa, il cardinale vicario Angelo De Donatis ha definito il caso “accuse mediatiche”. Afferma di non essere stato al corrente “fino a poco tempo fa”. “Nessuno crede che non sapesse, commenta un buon conoscitore della diocesi di Roma. Non ha creduto a ciò che gli è stato detto. È una cultura della negazione sistematica”.
Quanto ai media ufficiali del Vaticano, hanno aspettato più di dieci giorni prima di parlare del caso. “Ci è stato fatto capire che bisognava non parlarne, dicendoci che era il tempo della misericordia”, afferma una fonte interna. E nel dicastero per la comunicazione, una delle più alte responsabili fa parte della comunità (mista) di religiosi che vivono con Marko Rupnik. Il Vaticano non ha quindi mai ufficialmente dato comunicazione di questo caso, rifiutando di rispondere a qualsiasi domanda dei giornalisti e rinviando sistematicamente alla Curia generalizia gesuita.
Qual è stato il ruolo di papa Francesco? Papa Francesco, finora, non si è mai espresso sull’argomento, conformemente al suo uso di non parlare dei casi personali, eccetto nelle conferenze stampa che concede in aereo, di ritorno dai suoi viaggi. La domanda che rimane senza risposta è se il papa sia stato coinvolto personalmente nella revoca della scomunica decretata dal DDF nel maggio 2020. I gesuiti dicono oggi che la sanzione è stata tolta da un decreto quasi immediatamente, nello stesso mese. Ma non precisano chi sia stato all’origine di tale decisione: si tratta del cardinale Luis Ladaria, prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, anche lui gesuita? O del papa stesso? Nel giustificare tale decisione, i superiori gesuiti spiegano che padre Rupnik aveva riconosciuto i fatti e aveva promesso di riparare la sua colpa, due condizioni definite dal codice di diritto canonico per togliere la sanzione.
In Vaticano, diverse fonti sostengono che Marko Rupnik non fa parte dei consiglieri più vicini a papa Francesco, ma che il gesuita sloveno ha coltivano una “prossimità” con tutti i papi a partire da Giovanni Paolo II. Tra l’altro, ha predicato gli esercizi della Quaresima davanti alla Curia romana nel marzo 2020. Ossia due mesi prima della sua breve scomunica da parte del DDF.
Una teologia deviante a servizio degli abusi. Secondo la testimonianza di una delle vittime dichiarate di padre Rupnik, raccolta dal giornale italiano Domani, il prete gesuita avrebbe usato una teologia deviante per consolidare la sua influenza su di lei. “Padre Rupnik mi ha baciato leggermente sulla bocca, dicendomi che era così che baciava l’altare dove celebrava l’eucaristia (…). Mi incoraggiava dicendomi che era un dono che il Signore faceva a noi soltanto”. Secondo questa stessa testimonianza, il prete avrebbe indicato l’imitazione dell’ “amore trinitario” per giustificare i suoi abusi su una o due religiose contemporaneamente.
Héloïse de Neuville e Loup Besmond de Senneville in “La Croix” 27 dicembre 2022
(traduzione: www.finesettimana.org)
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202212/221229neuvillebesmonddesenneville.pdf
Caso Rubnik: Compagnia di Gesù e Vaticano hanno tentato di coprire ma ormai la gravità del sistema appare anche ai livelli più alti della Chiesa
Comunicato Coordinamento Italy Church Too [Coordinamento delle associazioni contro gli abusi nella Chiesa cattolica in Italia]
R come Rupnik, come Ribes? R come “Rape Culture” [cultura dello stupro]
Il caso recentemente emerso degli abusi perpetrati dal gesuita p. Marko Rupnik non rappresenta nulla di nuovo in ambito ecclesiastico. L’unico elemento di novità è costituito dalla notorietà del soggetto, tenuto in altissima considerazione e venerato tanto da raggiungere una sorta di intoccabilità. Per il resto, le dinamiche emerse non mostrano altro che un sistema consolidato:
- di reti di potere, rinsaldate dall’appartenenza a un grande Ordine religioso;
- di perversione del potere, che usa il sacro per mistificare;
- di massimo controllo sulle vittime e di assoggettamento del loro pensiero, delle azioni e delle scelte;
- di coperture rese possibili da un meccanismo di opacità e omertà, dal culto idolatrico della personalità e dalla mancanza di credibilità attribuita alle vittime per il solo fatto di essere donne adulte.
La stessa richiesta della Compagnia di Gesù alle vittime di farsi avanti, dopo un’altalena di affermazioni contraddittorie e tutt’altro che trasparenti, risponde a una logica di svalutazione delle persone coinvolte, la cui sfiducia nell’istituzione sarebbe più che legittima.
Il singolo caso, nei suoi elementi strutturali, assomiglia a tanti altri: uno per tutti, impressionante anche per l’identico contesto artistico, è quello del francese p. Louis Ribes, il “Picasso della Chiesa”, accusato di aver abusato sessualmente di decine di bambini e bambine, dopo averli convinti a posare per le sue opere.
Occorre tuttavia superare la frammentarietà dei singoli casi, soprattutto per risalire il fiume e individuare e riconoscere le radici strutturali degli abusi, frutto di una cultura pervasiva ben salda nella Chiesa cattolica:
- Una teologia del ministero ordinato che divinizza il prete (alter Christus, ipse Christus), ponendolo in una posizione asimmetrica di superiorità e persino di differenza d’essenza (cf. LG 10) rispetto al resto del popolo cattolico, in particolare rispetto alle donne. Questa posizione apre la strada ad abusi affettivi, di potere, psicologici, spirituali, sessuali e patrimoniali, e consente al prete predatore, con il suo corredo di mistificazioni teologiche tese a legittimare i suoi atti, di manipolare le vittime e di risultare più credibile della vittima che lo denuncia.
- La negazione e l’annullamento della dimensione sessuale con ricadute devastanti sulla vita dei preti; esiste nel clero un analfabetismo affettivo e relazionale di gravissimo livello, in contraddizione con il ruolo di guida che ricopre di fatto perfino nelle relazioni intime dei fedeli. Il celibato ministeriale obbligatorio, spesso unicamente di facciata, è funzionale tuttavia ad avvalorare la qualità ascetica e superiore del prete stesso; la sessualità umana, compressa e repressa, ne viene patologizzata e pervertita, privata spesso della dimensione relazionale-empatica e trasformata così in puro strumento di gratificazione autoreferenziale e strumento di controllo e potere sulle persone.
- Una svalutazione delle donne, ancora trattate, nella pratica e nonostante proclami di ogni sorta, come esseri di serie B. Una svalutazione veicolata tramite una mariologia mistificante, strumentalmente tesa a trasmettere un ideale femminile di superiorità fittizia, docilità e obbedienza, che nega in definitiva un piano di parità con gli uomini; una svalutazione che va ricondotta alla «logica del dominio del chierico maschio “ontologicamente superiore”» (cfr. comunicato del 22/12 del gruppo “Re-in-surrezione”).
- Una vita consacrata femminile nella quale difficilmente le capacità intellettuali sono fatte crescere, i talenti alimentati, le competenze valorizzate, a tutto favore di una permanenza delle religiose in un ruolo di subalternità, non di rado ben poco rispettoso della dignità e dell’autonomia della persona.
- Una permanente tutela dell’istituzione a fronte del diritto alla giustizia, alla verità e alla dignità delle vittime e dei sopravvissuti/e ad abusi perpetrati dal clero, che si tratti di bambini, di donne o di persone in situazione di vulnerabilità; una tutela dell’istituzione che si nutre di omertà, di mancanza di trasparenza, di conservazione di equilibri di potere, di ritorsioni; che esprime viltà, disonestà intellettuale e quanto di più lontano dal messaggio evangelico; che porta a una rivittimizzazione delle persone colpite, le quali si sentono tradite per la seconda volta da quell’istituzione che hanno chiamato “madre” e da quegli uomini che hanno chiamato “padre”.
- Una giustizia canonica opaca e “personalizzabile” che si flette e si torce sempre e solo in difesa dell’imputato e a misura della sua grandezza e fama; che non conosce trasparenza né comunicazione pubblica e si aggrappa alla decadenza dei termini per salvare il colpevole; che nel nostro Paese, svincolata da qualsivoglia obbligo giuridico di denuncia alla giustizia laica, spesso abbandona la vittima al suo destino, nell’impunità consentita dall’assenza totale di vigilanza e attenzione dello Stato nei confronti di ogni tipo di abuso perpetuato nella Chiesa.
Le dinamiche dolorosamente – ma opportunamente – narrate dalla stampa, cui va ascritto il merito di aver fatto emergere il caso Rupnik, non hanno trovato nessuno di noi impreparato. L’abuso – affettivo, di potere, psicologico, spirituale, sessuale, patrimoniale – è insito nella cultura stessa, autoreferenziale e autoprotettiva, dell’istituzione, rimasta essenzialmente clerico-centrica nonostante il Concilio Vaticano II.
È ora che la base cattolica e la cittadinanza aprano gli occhi e gridino il loro “basta!” davanti a questo sfiguramento della dignità e dei diritti umani;
- che le vittime possano prendere la parola e testimoniare apertamente, senza timore di non essere credute o di ritorsioni, questo scempio fatto in nome del Vangelo;
- che le donne nella vita consacrata pretendano strumenti di emancipazione, formazione, discernimento e autonomia;
- che la gerarchia della Chiesa si occupi in primo luogo di chi è stato ferito, annientato, ucciso nello spirito, quando non anche nel corpo.
Coordinamento Italy Church Too 24 dicembre 2022
www.noisiamochiesa.org
{Generalmente nella società civile democratica, chi è coinvolto direttamente o per ostruzionismo si dimette, per favorire le indagini. Qualcuno parla già di omertà o di “ società dell’umiltà”, propria della camorra.
Il Parlamento della Republika Slovenija, il 4 giugno 2021 ha approvato, tredicesimo nell’Unione Europea un emendamento al codice penale in base al quale il sesso senza consenso è stupro. Ndr}
CHIESA CATTOLICA
È morto Benedetto XVI, il grande teologo conservatore che ha modernizzato la chiesa
«Con dolore informo che il Papa Emerito, Benedetto XVI, è deceduto oggi alle ore 9:34, nel Monastero Mater Ecclesiæ in Vaticano», questo l’annuncio di Matteo Bruni, responsabile della sala stampa vaticana.
Joseph Ratzinger era nato il 16 aprile del 1927, aveva 95 anni e le sue condizioni di salute si erano aggravate intorno a Natale.
Era stato lo stesso papa Francesco a far capire ai fedeli che la fine era ormai vicina durante l’udienza generale di mercoledì 28 gennaio: «Pregate per lui», aveva detto Bergoglio rivolto ai fedeli che lo ascoltavano nell’aula Paolo VI in Vaticano. Con la morte di Ratzinger scompare uno dei protagonisti della storia della chiesa e della cultura contemporanea degli ultimi sessant’anni.
La sua traiettoria umana e spirituale passa fra due estremi: è stato certamente un teologo e un papa che ha compiuto il massimo sforzo intellettuale per cercare di far sopravvivere un’idea di fede e di chiesa legate alla tradizione, ancorata a un passato in cui il cristianesimo era un fattore fondante delle società occidentali. Allo stesso tempo, con un atto dirompente come le rinuncia al ministero petrino compiuta nel febbraio del 2013, ha aperto la porta a mutamenti e trasformazioni ancora in corso che hanno investito la chiesa cattolica segnando un prima e un dopo le sue dimissioni. L’ammissione pubblica che le forze fisiche non lo sostenevano più, mentre i problemi fuori e dentro il Vaticano si accavallavano (fra l’altro il 2012 è l’anno del primo clamoroso scandalo di vatilaeaks, [fuga di notizie, coniato da p. Federico Lombardi, allora direttore della sala stampa della Santa Sede] cioè della fuga di documenti riservati dagli appartamenti del pontefice favoriti dal suo assistente personale, Paolo Gabriele), è stato certamente il fatto che più di molte parole ha smitizzato e riformato la figura del capo della chiesa universale, riportandola a una dimensione umana, restituendole una funzione pastorale in cui anche la debolezza, il dubbio, hanno un posto.
Cristianesimo e liturgia Nominato arcivescovo di Monaco e poi cardinale da Paolo VI, è stato chiamato a guidare la Congregazione per la dottrina della fede da Giovanni Paolo II nel 1981, incarico che ha ricoperto fino al 2005, l’anno in cui è stato eletto papa. Ratzinger appartiene all’ultima generazione di personalità della chiesa che hanno vissuto in prima persona la Seconda guerra mondiale e il Concilio Vaticano II. Si è confrontato con le ideologie del Novecento, e in questa battaglia ha schierato la chiesa cercando di stabilire una sorta di primato della coscienza, che però poteva essere formata rettamente solo da una dottrina cattolica troppo spesso vista come uno scrigno di verità intangibili. Dopo la caduta del muro di Berlino ha combattuto contro il relativismo culturale del tempo nuovo, altra deriva ideologica che tradiva ogni riferimento etico cristiano. L’autodeterminazione dell’individuo, i movimenti femministi, la rivolta del 1968, l’affermarsi dei diritti civili come quelli delle persone omosessuali, il marxismo che attraeva tanti credenti e uomini di chiesa, la teologia della liberazione in America Latina che rompeva la storica alleanza fra clero e classi dominanti, l’apertura a un dialogo interreligioso in grado di riconoscere i punti in comune fra le varie tradizioni spirituali: sono stati altrettanti avversari che Ratzinger, in particolare da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha fieramente avversato e combattuto con gli strumenti della teologia e anche dei provvedimenti disciplinari emessi nei confronti di quanti, teologi e uomini di chiesa, cercavano strade nuove per la fede cattolica in questo tempo.
Le mode del pensiero. Da papa ha scelto un nome, Benedetto, che rievocava il ruolo centrale svolto dai monasteri dell’Ordine benedettino, dalla chiesa, per salvaguardare la cultura occidentale in un’epoca di cambiamenti e di tenebre. Il pontificato, partito con una certa dose di trionfalismo, è stato poi segnato dal tentativo, insieme disperato e coraggioso, di cambiare la chiesa senza metterne in discussione strutture e rifiuto della modernità. Il 18 aprile del 2005, celebrando la messa pro eligendo romano pontefice, Ratzinger delineava quasi un programma di governo ai cardinali che da lì a poco si sarebbero riunti in conclave: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero. La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice san Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore. Avere una fede chiara, secondo il Credo della chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
È chiaro che con una modernità così concepita, in cui l’unica istituzione in grado di produrre una visione morale di qualche tipo è la chiesa, non c’è spazio per nessun tipo di dialogo.
Lefebvriani. Benedetto XVI ha cercato di ingabbiare la forza profetica del Concilio dando vita a una teoria – l’ermeneutica della continuità – che cercava di mettere in luce soprattutto gli elementi di continuità con il passato presenti nell’assise indetta da Giovanni XXIII, e ridimensionando le teologie che ne valorizzavano al contrario la spinta al cambiamento.
Da lì al recupero della messa in latino preconciliare il passo è stato breve, con annessa la revoca nel 2009 della scomunica a quattro vescovi lefebvriani appartenenti alla Fraternità san Pio X. Le pulsioni antisemite del gruppo in questione, manifestate pubblicamente, sollevarono un’ondata di indignazione pubblica contro il papa tedesco; tuttavia le accuse rivolte a Ratzinger su questo fronte, come in altra occasione su quello delle offese ai musulmani, erano infondate rispetto alle intenzioni del teologo che certo era uomo di pace, risultavano invece non prive di concretezza se si guardava al ruolo di grande attore sociale e politico svolto sul piano internazionale dalla chiesa di Roma. E forse proprio qui sta una delle chiavi per leggere il pontificato: Benedetto XVI non sempre tenne nel dovuto conto l’impatto politico che i suoi interventi avrebbero avuto anche al di là delle ragioni da cui scaturivano.
Sporcizia nella chiesa. Benedetto XVI, che ebbe come segretario di Stato, prima Angelo Sodano, poi il cardinale Tarcisio Bertone, già suo braccio destro alla Congregazione per la dottrina della fede della fede, affrontò anche lo scandalo pedofilia. Si può dire anzi che sotto il suo pontificato la questione entrò nel vivo, anche perché proprio in virtù del ruolo che aveva ricoperto possedeva una coscienza chiara delle dimensioni reali del fenomeno. Del problema parlò nelle meditazioni per la Vai Crucis del 2005 affidategli da Wojtyla, poco prima di morire. «Quanta sporcizia c’è nella chiesa – scrisse nell’occasione il cardinale Ratzinger – e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!». «La veste e il volto così sporchi della tua chiesa – proseguiva il testo – ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua chiesa».
I problemi lasciati aperti da Benedetto XVI hanno indotto i cardinali nel 2013, ad andare a cercare un papa “alla fine del mondo”; il suo successore ha raccolto alcune delle sfide lanciate da Ratzinger, su altri temi ha decisamente invertito la rotta. Di certo, il papa emerito è stato considerato negli ultimi anni di vita trascorsi nel monastero Mater Ecclesiæ, dove si era ritirato a vivere in Vaticano, un riferimento per gli ambienti più conservatori e tradizionalisti della chiesa cattolica ostili a Francesco. Questa leadership, più inventata strumentalmente che cercata dall’interessato, non ha aiutato a conoscere in modo più approfondito e meno condizionato dalla cronaca il pensiero di Joseph Ratzinger. Di certo verrà il tempo per comprenderne meglio la complessa visione di fede e di chiesa che ha promosso attraverso la sua opera.
Francesco Peloso “www.editorialedomani.it” 31 dicembre 2022
www.editorialedomani.it/politica/mondo/morto-papa-ratzinger-benedetto-xvi-t1s6941n
Benedetto XVI, le sue ultime parole e il rapporto con papa Francesco
(con qualche screzio tra le due «scuderie»)
Il rapporto personale tra Ratzinger e Bergoglio è stato sostanzialmente buono: non era scontato, anche perché il Papa emerito ha parlato e dichiarato (con il consenso del Papa in carica). Le «tifoserie», nella Chiesa, hanno cercato più volte di trovare sponde per attaccarsi a vicenda, rimanendo però sempre deluse.
Ora che Benedetto ha chiuso la sua operosa giornata — «Gesù, ti amo» le sue ultime parole, secondo quanto anticipato dal quotidiano argentino La Nacion, e sostanzialmente confermato dalla Sala stampa vaticana al Tg1 —, possiamo azzardare l’idea che il rapporto tra i due Papi, che era inedito e rischioso, sia stato sostanzialmente buono. Ma non potremo certo negare che siano mancate forzature, screzi e risentimenti tra le due scuderie. La bontà del rapporto personale tra i due può essere posta tra i segni di vitalità dell’istituzione papale, che nonostante i duemila anni mostra un’invidiabile capacità di aggiornamento al mutare dei tempi. L’elezione di Papi non italiani, i viaggi papali nel mondo e la convivenza non conflittuale di un Papa emerito e di un Papa in carica sono i principali tra quei segni.
Benedetto e Francesco non solo hanno dato una buona attestazione di come si possa affrontare una sfida inedita, ma l’hanno raddoppiata di loro iniziativa: se già era difficile immaginare la compresenza di due Papi nel silenzio totale dell’emerito, era una doppia impresa mantenerne il controllo con il Papa emerito parlante e dichiarante. E tale è stato Benedetto, con il consenso di Francesco, per questi dieci anni. Sono stati una trentina, nel decennio, i testi del Papa emerito dei quali siamo venuti a conoscenza: omelie, lettere, relazioni o saluti a convegni, interviste ai biografi. Ha pubblicato un libro intervista con Peter Seewald, «Ultime conversazioni» (Garzanti 2016), nel quale traccia un bilancio del suo pontificato e ragiona sulla figura del successore.
Nei giorni della rinuncia Benedetto aveva detto che si ritirava «nel silenzio», ma Francesco subito l’invitò a parlare e lui non si è fatto pregare. «Io gli ho detto tante volte: ma, Santità, lei riceva, faccia la sua vita, venga con noi»: così il successore parlò ai giornalisti, in aereo, il 29 luglio 2013. «Faccia la sua vita» e Benedetto l’ha fatta. I due Papi li abbiamo visti insieme tante volte e non solo nelle visite private di Francesco a Benedetto per gli auguri di Natale e Pasqua. Già li vedemmo appaiati nei Concistori del febbraio 2013 e del febbraio 2015, e quando Francesco fece santi i Papi Roncalli e Wojtyla (aprile 2014), e quando fece beato Papa Montini (ottobre 2014). All’apertura della porta santa del Giubileo della Misericordia nel dicembre del 2015 e in decine di occasioni minori. A partire dal 2016, a ogni Concistoro, Francesco accompagnava da Benedetto i nuovi cardinali: l’ultima volta è avvenuto lo scorso agosto. Nel luglio del 2013 avemmo la pubblicazione dell’enciclica «Fidei Lumen» (La luce della fede) scritta a quattro mani: Benedetto l’aveva preparata e l’ha passata al successore, che l’ha completata e fatta sua, fornendo questa precisazione al paragrafo 7: «Egli aveva già quasi completato una prima stesura di lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi».
www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20130629_enciclica-lumen-fidei.html
La sapiente alleanza che i due hanno intessuto lungo gli anni della loro compresenza nel «recinto di San Pietro» li ha aiutati ad allentare le tensioni tra l’ala ratzingheriana e quella bergogliana della galassia cattolica.
L’ex nunzio Carlo Maria Viganò – che nell’agosto del 2018 intimò a Francesco di dimettersi – non ha trovato in Benedetto la sponda che ha ripetutamente cercato. Nella concordia dei due Papi possiamo vedere un segno del fatto che la Chiesa è più grande della sua storia travagliata e – nel tempo – matura convincimenti che le permettono un creativo superamento degli incubi del passato, tra i quali c’è quello dell’antipapa, o del Papa emerito (ve ne furono in epoca medievale) che si fa oppositore di quello in carica.
«Siamo fratelli» dice Francesco a Benedetto il 23 marzo 2013 a Castel Gandolfo, la prima volta che pregano appaiati. E fratelli sono restati fino all’ultimo giorno del più anziano tra loro.
Ma le opposte tifoserie non hanno ubbidito alla loro consegna. I nostalgici del vecchio ordinamento cattolico – che Francesco chiama indietristi – hanno continuato per tutti questi anni a bussare alla porta di Benedetto per ottenere un avallo alle loro posizioni critiche del Vaticano II, venendo regolarmente delusi. Altrettanto male è andata ai bergoglisti che hanno immaginato di poter reclutare Benedetto tra i sostenitori del nuovo corso: esemplare è il caso di Dario Viganò, che ha lo stesso cognome dell’ex-nunzio Viganò, ma che marcia in senso contrario.
Francesco e Benedetto sono restati sé stessi, accettandosi e rispettandosi reciprocamente, ma senza cedere alla miope idea di scritturare l’altro a proprio sostegno. Questa è la migliore riprova che i tempi sono maturi perché un Papa rinunci e un altro subentri senza che parta una conta tra i sostenitori dell’uno e quelli dell’altro.
Luigi Accattoli “www.corriere.it” 1° gennaio 2023
www.msn.com/it-it/notizie/italia/benedetto-xvi-le-sue-ultime-parole-e-il-rapporto-con-papa-francesco-con-qualche-screzio-tra-le-due-c2-abscuderie-c2-bb/ar-AA15RfHf
Il testamento di Benedetto XVI: che cosa c’è nelle parole del Papa emerito
Nel testamento spirituale di Benedetto XVI risuonano i discorsi fondamentali di un pontificato che ha voluto mostrare la «ragionevolezza» essenziale della fede contro ogni fondamentalismo
In principio era il Verbo. O, meglio, nell’«arché» era il «Lógos». Per capire il testamento spirituale di Benedetto XVI bisogna partire da qui. L’inizio del celebre prologo del Vangelo di Giovanni è uno dei momenti decisivi nella storia della cultura occidentale. Il cristianesimo delle origini vuole diffondere «la buona notizia» e pensa i termini fondamentali nati in ambiente e lingua ebraica, o aramaica, nella «koinè» o lingua «comune» del tempo, il greco, come oggi l’inglese, seppure riservata ai ceti più colti. E così, nell’incipit vertiginoso di Giovanni, entrano in gioco due parole-chiave della filosofia greca: l’«arch», la ricerca del principio razionale che fonda la filosofia a partire dai presocratici, e il «logos» come discorso razionale. Ecco, per il teologo Joseph Ratzinger tutto questo non era un accidente della storia, ma un evento provvidenziale: Dio è davvero Lógos.
E nel testamento risuonano i discorsi fondamentali di un pontificato che ha voluto mostrare la «ragionevolezza» essenziale della fede – e quindi la sua possibilità di entrare in dialogo, senza confusione di ruoli, con la scienza – contro ogni fondamentalismo fideistico o scientismo ottocentesco, con relativi strascichi nel Novecento. «Ho vissuto le trasformazioni delle scienze naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza», scrive Benedetto XVI.
«Così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità». Fede e scienza, semplicemente, procedono su piani differenti: nessuna teoria scientifica potrà «dimostrare» che Dio non esiste, come nel resto il pensiero teologico ha rinunciato da secoli a dimostrarne l’esistenza o, peggio ancora, a contestare le teorie scientifiche come se potessero mettere in pericolo la fede. Da Popper a Feyerabend, i maggiori filosofi della scienza del Novecento non avrebbero nulla da eccepire. La teoria darwiniana dell’evoluzione, ad esempio, «descrive» i fenomeni: il «perché» questo accada o la «causa finale» aristotelica non appartengono alla scienza, ed anzi la scienza moderna nasce proprio escludendo questi problemi: quella che il filosofo Giulio Giorello (α1945 ω 2020) chiamava la «strategia riduzionista» di Galileo. E così fede e ragione possono dialogare, rimanendo ciascuna nel proprio campo, nella ricerca comune della verità.
Benedetto XVI, le sue ultime parole e il rapporto con papa Francesco. Come ha scritto padre Federico Lombardi nel suo ricordo di Benedetto XVI, sulla Civiltà Cattolica, Ratzinger «insiste sul tema della ricerca della verità anche con le forze della ragione umana, e per questo polemizza ripetutamente contro il relativismo e la sua “dittatura” nel tempo presente». Tra le innumerevoli riflessioni del grande teologo tedesco, mette conto citare almeno due discorsi memorabili del suo pontificato.
La lezione dell’aula magna dell’università di Regensburg, il 12 settembre 2006, il Dio-Lógos come antidoto ad ogni violenza religiosa: «L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una «condensazione» della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco».
E la riflessione al Collège des Bernardins di Parigi, il 12 settembre 2008, quando il Papa teologo aveva spiegato come il monachesimo di San Benedetto avesse salvato il patrimonio del pensiero antico e formato la cultura europea grazie a quei monaci che avevano come obiettivo «quærere Deum », cercare Dio: «Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola».
Gian Guido Vecchi “Corriere della sera 1° gennaio 2023
Cosa c’era dietro le dimissioni di Benedetto XVI
La convinzione di Joseph Ratzinger era che alla drammatica crisi ecclesiale in atto si poteva far fronte con un irrigidimento delle misure promosse dal predecessore di cui sarebbe stato strumento un potenziamento del ministero papale. Per quanto riguardava il rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, il papa faceva rientrare nella tradizione anche assai recenti concezioni teologiche, in particolare la rielaborazione dell’eredità controriformistica compiuta dall’intransigentismo cattolico otto-novecentesco. Questo atteggiamento è emerso sul piano esteriore con la decisione di rimettere in auge abiti (il saturno, il camauro), paramenti liturgici (il pallio, le mitrie e i piviali tradizionali), oggetti (la ferula e il tronetto di Pio IX) da tempo abbandonati nelle apparizioni pubbliche dei pontefici del post-concilio.
Nell’aprile 2005 un rapido conclave, durato due giorni, portava all’elezione al governo della Chiesa universale di Joseph Ratzinger, dal 1981 uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II. In quell’anno Wojtyla lo aveva infatti sollevato dalla guida della diocesi di Monaco, che reggeva dal 1977 dopo una lunga carriera trascorsa nelle università tedesche come professore di teologia prima a Tubinga poi a Ratisbona, ponendolo alla direzione della Congregazione per la dottrina della fede.
Da Ratzinger a Benedetto XVI. Nonostante l’età ormai avanzata (era nato nel 1927), la scelta del conclave appariva abbastanza prevedibile. Il cardinale aveva svolto negli ultimi tempi all’interno della curia romana ruoli cruciali: decano del sacro collegio dal 2002, nel marzo 2005 aveva guidato la via Crucis in sostituzione dell’ammalato pontefice; aveva poi presieduto la messa per le sue esequie e aveva, infine, presieduto le celebrazioni liturgiche pro eligendo romano pontefice.
In queste occasioni – e in altri interventi di quei giorni, come una celebre conferenza tenuta a Subiaco sull’Europa nella crisi delle culture – i suoi discorsi presentavano una tesi di fondo: alla drammatica crisi ecclesiale in atto si poteva far fronte con un irrigidimento delle misure promosse dal predecessore di cui sarebbe stato strumento un potenziamento del ministero papale. Si può dunque pensare che i cardinali elettori abbiano ritenuto di dover conferire il governo della Chiesa universale ad una personalità che, trovandosi da più di due decenni al centro degli affari ecclesiastici, aveva formulato una diagnosi e proposto una terapia per affrontare la difficile eredità lasciata da Giovanni Paolo II.
Non c’è dubbio che le misure promosse dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede negli anni precedenti avevano sollevato nella comunità ecclesiale diverse perplessità e critiche. Basta pensare alle censure nei confronti della teologia della liberazione, al confinamento della funzione ecclesiologica delle conferenze episcopali al piano pratico-pastorale, alla proclamazione della definitività delle proposizioni espresse dal magistero in materia di fede e di costumi, al trasferimento di competenze sui casi di pedofilia del clero dalla Congregazione del clero all’ex-Sant’Ufficio, una misura che finiva per aumentare la segretezza attorno a vicende su cui era esplosa la richiesta di trasparenza.
Ma è anche vero che Ratzinger godeva di un certo prestigio in ambienti progressisti: era stato uno dei periti più in vista del Concilio Vaticano II, dove aveva collaborato con l’arcivescovo di Colonia, Josef Frings, un autorevole esponente della corrente innovatrice. Aveva in particolare sostenuto con puntuali argomentazioni teologiche l’approvazione della costituzione sulla Chiesa Lumen gentium. Nonostante il successivo scontro con Hans Küng, non aveva mai abbandonato il richiamo all’assise ecumenica, anche se aveva sottolineato che solo al magistero spettava la corretta interpretazione delle sue deliberazioni. Poteva insomma apparire una scelta richiesta dalle complesse condizioni del momento affidare al cardinal Ratzinger l’attuazione di una linea capace di mantenere la fondamentale istanza conciliare – che, in termini generali, si può identificare in un rinnovamento della Chiesa allo scopo di restituirle efficacia apostolica nel mondo contemporaneo –, adeguandola poi nelle sue concrete applicazioni alla difficile situazione ecclesiale su cui egli stesso aveva richiamato l’attenzione.
Il disegno di un pontificato. Il nuovo pontefice – che assunse il nome di Benedetto XVI non solo in omaggio al messaggio di pace che il pontefice Della Chiesa Benedetto XVI aveva lanciato nel mondo dilaniato dalla Grande guerra, ma anche, e assai significativamente, in ricordo di san Benedetto da Norcia che si era prodigato nell’evangelizzazione del mondo pagano – avrebbe ben presto ribadito l’ancoraggio delle sue posizioni al Vaticano II. Ma avrebbe anche chiarito che, nell’interpretarlo, il magistero doveva filtrare l’esigenza di adeguamento della Chiesa ai tempi moderni alla luce di un principio supremo: la continuità della tradizione.
Naturalmente il principio, di per sé, costituiva un’asse portante della dottrina cattolica; ma, per quanto riguardava il rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, il papa faceva rientrare nella tradizione anche assai recenti concezioni teologiche, in particolare la rielaborazione dell’eredità controriformistica compiuta dall’intransigentismo cattolico otto-novecentesco. Questo atteggiamento è emerso sul piano esteriore con la decisione di rimettere in auge abiti (il saturno, il camauro), paramenti liturgici (il pallio, le mitrie e i piviali tradizionali), oggetti (la ferula e il tronetto di Pio IX) da tempo abbandonati nelle apparizioni pubbliche dei pontefici del postconcilio. Ma ha trovato la sua più eclatante espressione con il motu proprio Summorum pontificum che, nel luglio 2007, reintroduceva la liturgia pre-conciliare, proclamando la singolare tesi che, nella Chiesa cattolica di rito latino, convivevano una modalità ordinaria della preghiera (quella introdotta dalla riforma liturgica di Paolo VI) e una modalità straordinaria (quella sancita nel 1570 dal cosiddetto messale di san Pio V).
www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html
Al di là di precipitose correzioni – come la nuova preghiera per gli ebrei inserita nella cerimonia del Venerdì santo del rito straordinario per evitarne l’incongruenza con i documenti conciliari, senza toccare le altre parti della liturgia che pure li contraddicevano –, il provvedimento aveva ragione nel progetto di riassorbire lo scisma del tradizionalismo anti-conciliare. Nel gennaio 2009, infatti, la Congregazione dei vescovi emanava un decreto che revocava la scomunica inflitta da Giovanni Paolo II. I successivi incontri tra le due parti registrarono indubbie convergenze. Ma si arenarono su una questione: le garanzie canoniche chieste dai tradizionalisti, allo scopo di poter mettere in discussione le interpretazioni delle deliberazioni del Vaticano II date dal magistero. Benedetto XVI non riteneva insomma di poter spingere la volontà di reintrodurre la comunità anti-conciliare nella comunione ecclesiale fino al punto di consentirle di mettere in questione la suprema autorità del papato.
L’intangibilità del potere monarchico del pontefice sulla Chiesa aveva costituito lo scoglio su cui si era infranto il disegno di Ratzinger di chiudere lo scisma tradizionalista. Per quanto avesse definito il raggiungimento di questo obiettivo come un punto centrale del suo programma di governo, è difficile stabilire un collegamento diretto tra questa sconfitta e l’inattesa decisione enunciata nell’allocuzione al concistoro del febbraio 2013, di rinunciare al ministero petrino. L’atto, che non ha precedenti nella storia della Chiesa dell’età moderna e contemporanea, è stato variamente spiegato. Per alcuni rientra in una decisione maturata fin dai primi anni del pontificato: lo mostrerebbe la deposizione del pallio sulla tomba di Celestino V, il papa del “gran rifiuto”, durante la visita alla basilica di Collemaggio a L’Aquila compiuta da Ratzinger nell’aprile 2009.
Altri hanno sottolineato la difficoltà di guidare la Chiesa universale davanti alle evidenti divisioni della curia romana in ordine alle misure da adottare per far fronte al moltiplicarsi degli scandali finanziari che coinvolgevano istituzioni vaticane e per prendere provvedimenti adeguati sulle sempre più frequenti rivelazioni circa la tolleranza dei responsabili ecclesiastici, e perfino della Santa Sede, davanti alla denuncia di abusi sessuali commessi dal clero, in particolare in ordine ai casi di pedofilia.
Lo stesso Ratzinger ha chiarito che, di fronte ai complessi problemi che pone oggi il governo della Chiesa universale, ha ritenuto di non aver più le forze sufficienti per prendere le misure necessarie ad una sua guida efficiente. Non c’è ragione di dubitare di questa interpretazione. Ma naturalmente il giudizio storico non può assumere acriticamente la valutazione espressa da un protagonista delle vicende considerate. Si tratta, infatti, di capire bene in cosa consiste l’inadeguatezza personale che il pontefice ha indicato come ragione delle sue dimissioni.
Governare il post-concilio. Occorre a questo proposito ritornare alla questione centrale con cui, a partire dal Concilio Vaticano II, la Chiesa si è dovuta misurare: come trasmettere il messaggio evangelico a un uomo moderno che sempre più si allontana dalla Chiesa? La linea pastorale a lungo praticata – proporre una società cristianamente ordinata come via per risolvere i problemi che la modernità poneva e non scioglieva – non appariva più in grado di recuperare i “lontani”. Occorreva un aggiornamento. A questo proposito l’assise ecumenica ha fornito una risposta che, molto sommariamente, possiamo ritenere abbia oscillato tra due poli.
Da un lato, ha prospettato una linea di apertura al mondo moderno caratterizzata dal criterio di una rilettura del Vangelo alla luce dei segni dei tempi. Secondo quest’ottica, la Chiesa restituisce efficacia alla sua azione pastorale nella misura in cui impara dalla storia quali sono gli elementi del messaggio evangelico capaci di intercettare le istanze del presente e i bisogni profondi dell’uomo di oggi.
Dall’altro lato, ha presentato una prospettiva di aggiornamento della dottrina cattolica basata sull’inquadramento al suo interno di alcuni principi e valori della modernità. In particolare, ai fedeli si assegna il compito di costruire un retto ordine della vita collettiva basato sulla conformazione del consorzio civile ad una legge naturale valida per tutti, sempre e dovunque – di cui la Chiesa è l’unica autentica interprete e depositaria – all’interno della quale vengono ora fatti rientrare valori moderni come i diritti umani, la democrazia, la libertà religiosa.
I papi del post-concilio, non senza articolazioni e differenziazioni, hanno scelto questa seconda via. La cultura cattolica preconciliare riteneva di poter rispondere all’allontanamento dell’uomo moderno dalla Chiesa con il progetto di ritorno ad un regime di cristianità, che avrebbe assicurato una convivenza sociale prospera e felice in contrapposizione alle inadeguate proposte (liberali o comuniste) che gli uomini avevano elaborato nel loro cammino storico. Senza tradire il Vaticano II – ma optando per una linea tra gli orientamenti presenti nei suoi documenti – i pontefici che hanno cercato di tradurre le deliberazioni dell’assemblea ecumenica in una concreta linea di governo hanno ritenuto di proporre ai contemporanei un’ammodernata neo-cristianità che faceva perno sull’universale legge naturale garantita dalla Chiesa. Benedetto XVI ne è stato l’interprete più conseguente.
Ne era probabilmente all’origine una visione culturale introiettata nel corso di un percorso formativo avvenuto prima della svolta giovannea e conciliare. In effetti, in armonia con le tendenze di quell’epoca, il sapere trasmesso nelle istituzioni educative della Chiesa evitava ogni serio confronto con la storia, ed in particolare con la storia del cristianesimo, nel timore di cadere nell’eresia modernista. Il pensiero teologico di Ratzinger, per quanto raffinato, era del tutto alieno dal confronto con l’effettivo divenire dell’uomo e della Chiesa nel tempo. Comunque sia, il papa rispondeva alla crisi determinata dall’allontanamento dei contemporanei dal cattolicesimo con una linea che riprendeva l’ammodernamento dottrinale: la restituzione alla Chiesa del compito di fissare, nei pubblici ordinamenti, quei fondamentali diritti che, basati sull’universale legge naturale, salvaguardavano le fondamenta stesse della civiltà umana, le avrebbe assicurato un’efficace presenza apostolica nella società contemporanea. In particolare l’Europa, riconoscendo formalmente le radici cristiane del suo progetto politico-sociale, sarebbe uscita dalla sua decadenza, ritornando a svolgere un rilevante ruolo storico e politico nel rapporto con altre civiltà e religioni, in particolare quella islamica, che avanzavano, talora anche aggressivamente, sulla scena di un pianeta globalizzato. Per quanto l’incidente sia stato ricucito sul piano diplomatico, l’attribuzione all’islam di una strutturale tendenza alla violenza bellica nel discorso tenuto dal pontefice nel settembre 2006 a Ratisbona rientra in questo quadro.
Questa prospettiva ha ben presto rivelato tutta la sua fragilità. Non solo perché si è scontrata con l’irriducibile tendenza dell’uomo moderno all’emancipazione dalla tutela ecclesiastica nella strutturazione della comunità politica. Soprattutto perché è apparsa sfasata rispetto al profilarsi della post-modernità.
Come se la storia non esistesse. Per quanto sia arduo darne una definizione condivisa, la possiamo considerare caratterizzata dalla rivendicazione della facoltà per ogni individuo di autodeterminare le forme dell’esistenza non solo in relazione agli assetti politici, sociali e culturali della vita collettiva, ma anche in rapporto alle più profonde strutture antropologiche del soggetto (il corpo, la nascita e la morte, l’identità sessuale ecc.). In questa situazione, l’ammodernata neo-cristianità proposta dal papa appariva del tutto obsoleta: il richiamo alla legge naturale, lungi dal restituire capacità apostolica alla Chiesa, finiva per provocare un ulteriore allontanamento degli uomini da essa. La crisi del paradigma di aggiornamento adottato da Benedetto XVI è apparsa inevitabile.
Le dimissioni sono state il riconoscimento della sua inadeguatezza. Non a caso la linea del successore fa perno sul recupero di quella prospettiva di rinnovamento ecclesiale, incentrato sull’accettazione dei segni dei tempi emergenti dalla storia, che il papato post-conciliare aveva abbandonato. Sotto questo profilo la rinuncia al governo della Chiesa universale appare un atto di straordinaria lucidità e responsabilità. Si può discutere se la concreta gestione dell’inedita funzione di “papa emerito” che Ratzinger si è poi riservato sia stata coerente con questa decisione. Gli interventi da lui compiuti in questa veste continuano a rivelare quella sordità alla storia che è elemento costitutivo della sua personalità intellettuale: la semplicistica attribuzione della pedofilia del clero alla rivoluzione sessuale del Sessantotto ne è una delle più evidenti testimonianze. Ma queste esternazioni non hanno certo impedito che al modello ecclesiale della “cittadella assediata dal mondo moderno” si sostituisse ormai quello “dell’ospedale da campo” all’interno della storia degli uomini.
Naturalmente riconoscere l’autonomia dell’uomo d’oggi, offrendo la medicina della misericordia alle ferite che incontra nel suo cammino storico, non garantisce il superamento della crisi cattolica. Ma le dimissioni di Benedetto XVI hanno rivelato che la strada dell’ammodernamento percorso fino a quel momento dal papato post-conciliare era un vicolo senza uscita.
Prof. Daniele Menozzi α1947, emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa (ord. di Storia contemporanea)
“Ratzinger è un grande teologo. La sua rinuncia atto di umiltà”
intervista a Enzo Bianchi a cura di Silvia Truzzi
“Amico” è la prima parola che Enzo Bianchi, fondatore e a lungo priore della Comunità di Bose, pronuncia quando gli chiediamo di papa Ratzinger, le cui condizioni di salute si sono aggravate. “Ci siamo conosciuti nel 1976, durante un seminario teologico. Durante il suo pontificato mi ha nominato esperto in due sinodi, più volte mi ha ricevuto in udienza. È stato uno dei papi più importanti dal punto di vista teologico. Ricordo che intervenne come esperto al Concilio Vaticano II e già allora emergeva nel mondo come teologo. Tutta la sua vita è stata nel segno dello studio, incessante e rigoroso. L’enciclica Dio è amore è un testo eterno”.
www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20051225_deus-caritas-est.html
Benedetto XVI nel 2013 prese una decisione storica, dimettendosi. Altri papi prima di lui avevano rinunciato, non solo il Celestino V che Dante ha reso celebre nella Commedia. Credo che un tratto umano poco compreso di Papa Ratzinger sia l’umiltà: quando ha capito che con le sue forze non era più in grado di governare la complessità della Chiesa e che aveva di fronte tempi che si annunciavano nuovi a cui non si sentiva preparato, allora ha rinunciato. La scelta non è dipesa né dal timore, né dagli scandali come spesso si è detto: sentiva di non essere all’altezza per l’età e le condizioni di salute. Il suo è stato un gesto di grande generosità verso la Chiesa, un gesto che definisce la sua grandezza di uomo e di pontefice. Con le dimissioni ha liberato il papato da un eccesso di sacralità, rendendolo un servizio umano, necessario per volere di Cristo, ma a cui si può rinunciare se le forze vengono meno.
Quali erano gli aspetti di modernità verso i quali non si sentiva attrezzato?
La società attraversa una rivoluzione antropologica e culturale che impone al cristianesimo di trovare una collocazione nuova, riformulando non solo il linguaggio esteriore ma anche la fede. Allora lui aveva 85 anni e una formazione tale che non gli consentiva di capire e affrontare i nuovi problemi posti da un contesto in rapidissima evoluzione. Non solo quelli dell’uomo, ma anche quelli interni alla Chiesa, alla sua organizzazione. Penso per esempio al tema dell’ordinazione delle donne, che prima o poi andrà affrontato da una persona che non porti il peso di un mondo passato.
Si è a lungo discusso delle differenze tra Benedetto XVI e Francesco: sono davvero tanto diversi?
In realtà papa Francesco è un conservatore, anche se l’atteggiamento pastorale è aperto, misericordioso e umano. Ma a livello di fede e di morale non è cambiato nulla. Francesco non è una persona rigida, ha aperto a percorsi di riconciliazione dei divorziati con la Chiesa: resta vero però che a livello di dottrina ed etica è un conservatore, non fosse altro che per età e formazione.
Papa Ratzinger è stato molto attento ai temi del Concilio Vaticano II, che ha ritenuto sempre attuale e che non interpretava come una rottura rispetto alla tradizione.
Sia Francesco che Benedetto XVI hanno voluto essere fedeli al Concilio. Ma mentre Ratzinger, che ha partecipato ai lavori, ne dà un’interpretazione più letterale, credo che Bergoglio guardi più all’evento in sé, come un evento spirituale con cui lo Spirito Santo ha creato una nuova Pentecoste nella Chiesa.
Qual è l’eredità più importante che Benedetto XVI lascia alla Chiesa e ai cattolici?
Le sue omelie sono davvero dei capolavori di fede, del mistero cristiano, che anche i fedeli hanno sentito. Non parlo delle pur importantissime opere perché quelle sono riservate, per la loro complessità, alle élite intellettuali. Le omelie, che spesso vado a rileggermi, sono una grandissima rivelazione dei misteri cristiani, fedeli alla patristica ma con una straordinaria capacità di toccare il mistero della fede.
Lei ha dedicato a papa Benedetto due libri. C’è un episodio del vostro rapporto personale che vuole ricordare?
Non sono sempre stato d’accordo con lui: ho preso le distanze dalla sua scelta di liberalizzare la messa in latino, dicendo che facevo obbedienza ma restavo perplesso. È stato aspramente e ingiustamente criticato per il discorso di Ratisbona, che avrebbe fomentato l’odio dei musulmani: ma lui aveva detto che vera religione e fede sono inconciliabili, perché senza la ragione la fede può diventare violenza o magia. Sono andato a trovarlo che già si era dimesso, abbiamo fatto una lunga passeggiata nei giardini del monastero dove si era ritirato. Mi ha sempre colpito l’interesse che aveva verso l’apporto che avevo dato alla Chiesa sulla lectio divina. In quell’occasione mi ha interrogato a lungo sul rapporto tra parola di Dio e vita della Chiesa. Mi ha commosso.
Paola Truzzi Il Fatto Quotidiano 29 dicembre 2022
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/12/ratzinger-e-un-grande-teologo-la-sua.html
“Ora Papa Francesco più libero di fare riforme Chiesa“
“Un cardinale, di cui non farò il nome, ma che è un grande cardinale, mi ha detto oggi che, finalmente, Papa Francesco ora si sentirà più libero di fare le riforme della Chiesa, a partire dal ruolo della donna o il diaconato. Su questi temi il Papa Emerito Ratzinger era totalmente contrario...”. A raccontarlo all’Adnkronos è Udo Gumpel, corrispondente dall’Italia e dal Vaticano per il gruppo editoriale Rtl in Germania. “L’idea di Chiesa di Ratzinger non corrispondeva più a quello che la maggioranza dei tedeschi vede come Chiesa“, prosegue Gumpel che da giorni è in diretta dalla Piazza San Pietro a Roma a raccontare gli ultimi avvenimenti dopo la morte di Papa Benedetto XVI.
“Con lui sparisce un certo tipo di Chiesa. Ora c’è la consapevolezza che prima che vedremo un altro Papa tedesco ci vorranno almeno altri cinquecento anni…”, aggiunge. Il giornalista ricorda poi “l’entusiasmo in Germania quando fu eletto Papa Ratzinger“. “Tutti ricordiamo il titolo che fece la Bild Zeitung ‘Wir sind Papst‘, cioè ‘Siamo tutti il Papa‘. Ma questo entusiasmo è scemato presto in Germania. È rimasto molto popolare nella sua Baviera. Lui era molto fiero della sua terra. Lo ha scritto anche nel suo testamento spirituale nel 2006, cioè un anno dopo la sua elezione. Rispecchiava la sua personalità“.
“Io, a livello personale, l’ho incontrato diverse volte, quando era cardinale. A livello umano, era una persona molto amabile, di grande umiltà. Aveva questa dote di creare un rapporto sempre tra professore e studente, ma era un professore che cercava di spiegare, non lo faceva con il dito alzato – racconta il giornalista tedesco – Dall’altra parte, noi che siamo cronisti del Vaticano da molti anni, lo abbiamo conosciuto nella sua durezza dogmatica. Lui era un difensore di quello che riteneva la Chiesa cattolica. Mi ricordo in una conferenza stampa quando mostrava la sua contrarietà al concetto di Giovanni Paolo Secondo a chiedere perdono. Perché Ratzinger aveva il concetto teologico che il corpo della Chiesa era santo e dunque la Chiesa non deve chiedere perdono. Gli sembrava una offesa al corpo della Chiesa“.
Poi, Udo Gumpel ricorda un aneddoto: “Io ho vissuto per un periodo in Brasile e ho conosciuto il teologo Leonardo Boff, un rappresentante della teoria della Liberazione. Al di là delle disquisizioni teologiche, ho visto come Ratzinger si è comportato con Boff. Il Papa emerito gli ha imposto il silenzio, con la massima durezza, perché dal suo punto di vista ha cercato di estirpare questa ‘malapianta’ della teologia della Liberazione. Ha oppresso ogni forma di ricerca autonoma di una maggiore libertà. E io sono convinto che questa è stata una causa del fatto che molti preti di Boff si sono allontanati dalla Chiesa. In Brasile molti sono andati nella Chiesa luterana, e sono molto più liberi. Ratzinger ha fatto, in questo modo, un danno alla Chiesa, soprattutto brasiliana. Anche se sul piano dogmatico uno non poteva che dare ragione a Ratzinger“.
“Rispetto al suo Papato il ruolo perfetto per lui era il capo dicastero della congregazione della fede, questo era il suo ruolo. Il guardiano della fede. Era professorale, che dava giudizi. Lui professore nato, alla fine ha voluto fare il Papa, ma poi, secondo me, si è stufato proprio per i problemi della gestione della chiesa. Quello che lo ha fatto disinnamorare di questo ruolo da Papa erano proprio gli scandali della pedofilia. Non che fosse lui coinvolto“, dice. E spiega: “In Germania ci sono state le indagini nei suoi confronti, per avere protetto dei preti pedofili. Lui negli anni Settanta non ha fatto altro che fare ciò che facevano gli altri. Ma lui ha avuto un grande merito, ha aperto la Chiesa al problema, che c’era da decenni. Solo che sotto Giovanni Paolo Secondo non ha fatto nulla, perché Wojtyla non voleva“.
“Quando scoppia il caso Ratzinger si trova a dover gestire una cosa penosa che mina le fondamenta della sua idea di Chiesa, quella della sacra famiglia – dice ancora Udo Gumpel– È rimasto molto conservatore e non ha capito che anche la pedofilia è un problema sistemico. L’abuso dei deboli ha un problema perché nella Chiesa cattolica ci sono strutture che facilitano ai criminali il loro operato. Si pone la domanda sistema, lui da persona intelligente lo ha capito, ma questo lo ha colpito. Ha scalfito la sua idea di Chiesa ideale, che tentava di difendere la modernità. Lui è stato un grande Papa“.
Poi, parlando ancora della indagine in Germania sulla pedofilia, Udo Gumpel, spiega: “In Germania l’indagine è stata, da un lato, voluta dai gesuiti – dice – Le prime indagini sull’abuso nella Chiesa le hanno fatte i gesuiti di Berlino. La Chiesa cattolica tedesca ha fatto indagini molto serie. Perciò sono saltati fuori migliaia e migliaia di casi e alcuni di questi casi vanno indietro negli anni Sessanta e Settanta. Per lui è stato un grande dispiacere doversi difendere dall’accusa di avere protetto un pedofilo. Ma nell’opinione pubblica è stata data una grande attenzione. Si è discusso anche delle colpe della istituzione Chiesa e lui questo non lo ha mai accettato. Ma fino all’ultimo si è difeso e ha scritto una lunga memoria difensiva, per lui certamente è stato un enorme dispiacere vedersi ancora difendere da questa accusa”.
Elvira Terranova Il Messaggero 1° gennaio 2023
www.ilmessaggero.it/ultimissime_adn/udo_gumpel_ora_papa_francesco_piu_libero_di_fare_riforme_chiesa-20230101205231.html
CHIESA DI TUTTI
Ratzinger, un papa controverso, che si è dimesso per il bene della Chiesa
Il movimento Noi Siamo Chiesa partecipa al lutto della Chiesa per la morte di Joseph Ratzinger, teologo ed uomo di fede, che è stato come vescovo di Roma segno dell’unità della Chiesa e della continuazione della predicazione dell’Evangelo secondo il messaggio di Gesù (Mt 21,15).
Questa partecipazione di NSC è molto consapevole che la sua fu una guida che ha creato divisioni e sofferenze, da noi più volte sottolineate con franchezza, che hanno compromesso la piena accettazione del Concilio Vaticano II.
Ma la sua decisione di lasciare il ministero ha testimoniato una concezione evangelica e profetica del ruolo e dei compiti del papato che resterà nella storia della Chiesa.
Noi Siamo Chiesa auspica che le esequie la settimana prossima siano ispirate a sobrietà, senza accenti enfatici e trionfalisti e anche spera che i media sappiano informare e riflettere in modo corretto ed equilibrato su questo lutto.
Noi siamo Chiesa Milano 31 dicembre 20223
www.noisiamochiesa.org
CHIESA NEL MONDO
Il Rettore Maggiore dei Salesiani su Don Bosco e i giovani, abusi, gender, fede
Don Ángel Fernández Artime, Rettore Maggiore dei salesiani, in dialogo con alcuni giornalisti
Un gruppo di 30 giornalisti accreditati presso la Sala Stampa Vaticana e la Stampa Estera Italiana ha trascorso un fine settimana di metà dicembre in un “Press Tour” a Torino, con attenzione ai luoghi centrali che hanno visto operare san Giovanni Bosco. Il gruppo, seguito da don Giuseppe Costa, Segretario del Rettor Maggiore dei Salesiani, Don Ángel Fernández Artime, e co-portavoce della Congregazione, ha incontrato proprio a Valdocco, in una conferenza stampa il X Successore di Don Bosco, Don Ángel, reduce da una serie di viaggi e incontri internazionali.
Da questo incontro con i giornalisti sono maturate tante riflessioni: Don Bosco e i giovani, il gender, gli abusi, la famiglia salesiana, il futuro dei ragazzi.
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Il Rettore Maggiore risponde anche alle domande dei giornalisti sugli abusi nella famiglia salesiana. “Quello degli abusi è un grande e grave problema sociale, non soltanto un grave problema di alcuni preti nella Chiesa. Per noi che abbiamo scelto di dedicare tutta la nostra vita al bene dei ragazzi, anche soltanto un caso di abuso sui minorenni è terribile. Per quanto riguarda noi salesiani, qualunque caso che ci arriva non lo lasciamo dormire: si fa subito un processo sul posto in cui è accaduto per chiarire. Poi si presenta il caso alle autorità di Roma. In tante nazioni ci sono tante situazioni in cui ci si approfitta di questi fatti per fare un buon affare. altre volte arrivano denunce per persone morte che non possono più difendersi. In altri casi, invece, le vittime cercano giustizia per una loro riabilitazione morale. È importante assicurare la giustizia per le vittime, ma se una persona è innocente gettarlo in pasto al pubblico è profondamente ingiusto, perché la sua reputazione non sarà più come prima. Noi crediamo tantissimo nella giustizia riabilitativa: bisogna incontrare le vittime, vedere i loro bisogni e quali richieste fare alla giustizia”, spiega bene il rettor maggiore dei Salesiani.
Un altro argomento trattato nella conferenza a Valdocco è il gender. “La cosa più importante è il rispetto della persona. Non si possono trattare questi temi così delicati in un modo superficiale. La persona è la cosa più sacra che abbiamo: la Chiesa deve essere capace di misericordia, di ascolto, di accoglienza, di comprensione, il che non significa benedire o giustificare tutto”, commenta padre Angel Fernandez Artime.
Infine, il tema più importante per i salesiani, i ragazzi e la trasmissione della fede. “Naturalmente dipende in quale parte del mondo ci troviamo. Noi abbiamo come segno di identità la formazione dei ragazzi giovani. È cambiato tutto e niente dai tempi di Don Bosco. Ma educare i giovani nella fede per noi è una priorità. Educhiamo i giovani al rispetto delle persone, della cultura, della religione. Don Bosco accoglie tutti con rispetto alle proprie realtà”, conclude infine il Rettore Maggiore dei salesiani.
Veronica Giacometti ACI stampa 27 dicembre 2022
È venerabile Matteo Ricci: il gesuita che ha “portato” Dio in Cina
Il missionario maceratese è tra i pochi stranieri pubblicamente ricordati e onorati in Cina: la sua tomba è a Pechino. Tra i nuovi venerabili autorizzati da Papa Francesco il 17 dicembre 2022, spicca per fama il nome del gesuita padre Matteo Ricci (1552, Macerata – 1610, Pechino), uno dei maggiori protagonisti dello slancio missionario della Chiesa in Asia, pioniere dell’evangelizzazione della Cina.
La controversia su padre Matteo. Subito dopo la sua morte, è stato coinvolto nella lunghissima controversia dei riti che contestò la sua interpretazione dei riti confuciani per gli antenati come cerimonie civili e non religiose. Tali riti erano espressione di una concezione della famiglia e di un’idea dell’ordine sociale che non erano né anticristiani, né antiumani e Ricci li ritenne leciti sulla linea poi raccomandata da Propaganda Fide dal 1622 di accettare la cultura di qualsiasi popolo in tutto ciò che non è contrario all’insegnamento cristiano.
La “sentenza” di Pio XII
Ma ci sono voluti più di tre secoli perché gli venisse riconosciuto che aveva ragione. Solo nel 1939 Pio XII dichiarò che i cattolici potevano partecipare a tali riti, quando però ormai in tutto l’Estremo Oriente la modernità li aveva svuotati di importanza e la questione aveva perso di rilievo ai fini dell’evangelizzazione.
La tomba a Pechino. Oggi Matteo Ricci – in cinese Li Madou – è tra i pochi stranieri pubblicamente ricordati e onorati in Cina: la sua tomba a Pechino – curiosamente situata nel comprensorio della Scuola di marxismo-leninismo – è sopravvissuta a molte ondate di distruzione rivoluzionaria. Non è un caso, inoltre, che a riconoscerne le virtù eroiche sia ora papa Francesco, convinto sostenitore del dialogo con la Cina malgrado difficoltà e problemi.
Tra i compagni di Ricci si ricordano in particolare i tre “pilastri” della Chiesa cattolica in Cina: Li Zhizao, Yang Tingyun e Xu Guangqi. Insieme ai gesuiti hanno praticato la strada del dialogo interculturale, allora un’esperienza rara e oggi una necessità diffusa per cristiani “in uscita” che non vogliano restare chiusi dentro i confini dell’Europa o dell’Occidente (Avvenire, 18 dicembre).
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“Con questo atto molto importante il processo per la Beatificazione di Padre Matteo raggiunge l’ultimo traguardo – si legge nella nota – la Chiesa dichiara che tutte le indagini svolte in questi anni, prima a livello diocesano poi vaticano, confermano la santità di Padre Matteo. Ora si attende solo una conferma ‘più alta’ con le prove di un miracolo avvenuto per intercessione di Padre Matteo Ricci” (Ansa, 17 dicembre).
Gelsomino Del Guercio – Aleteia 19 dicembre 2022
Un video www.youtube.com/watch?v=17GYL5m-4FA&t=316s
CITTÀ DEL VATICANO
La nomina dei vescovi: manteniamo vivo l’impegno per modificarla
Dopo la nostra Lettera Aperta sulla nomina dei vescovi datata 11 ottobre scorso, la notizia della nomina del nuovo arcivescovo di Brindisi è giunta il 9 dicembre. [news Ucipem n. 922, 16 ottobre 2022, pag. 36]
Si tratta di Giovanni Intini nato a Noci (BA) nel 1957, parroco a Monopoli per molti anni, ordinato vescovo nel 2016 con sede a Tricarico (MT).
Tutte le iniziative che richiedevano un coinvolgimento del popolo nella nomina del vescovo si sono fermate al momento della scelta, avvenuta con il solito metodo, cioè senza nessun coinvolgimento delle comunità. Lo stesso mons. Intini nella sua lettera di saluto indirizzata alla diocesi dice che la sua nomina è frutto del “discernimento del Santo Padre”. Sappiamo che in alcune diocesi cattoliche svizzere la nomina avviene sentiti i consigli pastorali. Ciò vuol dire che il metodo può essere cambiato. Nominato il nuovo arcivescovo, al quale rivolgiamo il nostro benvenuto e la nostra disponibilità al dialogo, l’impegno per cambiare il metodo di nomina dei vescovi continua. In fondo è l’impegno per riconoscere al Popolo di Dio la dignità che gli ha riconosciuto il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Pubblichiamo la lettera che all’indomani della nomina Antonio Greco, anch’egli autore della Lettera Aperta, indirizzava a tutti i firmatari.
Ai 22 firmatari della Lettera aperta dell’11 ottobre 2022
Buona sera a tutte e a tutti.
Condivido le annotazioni di alcune/i di noi fatte in queste ore dopo il trasferimento del vescovo Giovanni Intini a pastore della nostra diocesi: alcuni segnali della sua formazione umana e presbiterale sono incoraggianti. Scontato è il rispetto, in vigile attesa porgiamo accoglienza e ascolto.
Mi permetto, con questa nota, di fare alcune annotazioni. Mi preme che tutti i firmatari della lettera aperta (ma non solo) contribuiscano a far crescere la consapevolezza della responsabilità di tutti i battezzati per cambiare il metodo attuale con il quale è nominato il vescovo di una diocesi, anche dopo che il nostro è stato già nominato. La nostra lettera aperta era composta da due parte: la seconda parte auspicava un pastore che seguisse le linee stabilite da alcuni vescovi del post-concilio, definite “Patto delle Catacombe”, e chiedeva che la copertura della cattedra vescovile di Brindisi non avvenisse per trasferimento di un vescovo da altre diocesi; la prima parte, invece, argomentava “con parresia che le attuali modalità di nomina dei vescovi in Italia non sono più compatibili con una Chiesa che, sulla scia del Concilio, sia lievito del mondo …”.
Il principio che la Chiesa particolare incarna e rappresenta la Chiesa universale e quello che tutti i membri del Popolo di Dio portano una responsabilità comunitaria e sinodale nei confronti di tutti i problemi della Chiesa, sia universale che particolare, esigono la revisione di molte strutture attuali. Come esempio di questo necessario cambiamento potrebbe essere preso quello della nomina dei vescovi, che sta diventando ormai acuto in tutta la Chiesa.
La questione del metodo attuale di nomina di un vescovo diocesano Criticare la nomina di un vescovo “calato dall’alto” non è un capriccio di pochi contestatori. È prima di tutto una esigenza e coerenza teologica. Il Concilio ha fatto l’affermazione teologica di fondo sulla Chiesa particolare nell’art. 26 della Lumen Gentium: «Questa Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime comunità
locali di fedeli, le quali, in quanto aderenti ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiesa nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, nella loro sede, il Popolo nuovo chiamato da Dio con la virtù dello Spirito Santo e con grande abbondanza di doni». Così definita una chiesa diocesana non può essere espropriata del tutto dell’atto costituente quale è la nomina del suo Pastore. Quindi non è solo per un fatto sociologico e di tendenza di democratizzazione che la Lettera Aperta ha posto il problema del superamento della procedura finora utilizzata. Metto da parte una lettura storica del modo di nominare un vescovo (cfr. la qualificata noto di Fulvio De Giorgi a riguardo). Mi soffermo, per poterlo valutare correttamente (pochi conoscono nei dettagli la procedura) su come si esplicita concretamente l’attuale nomina che, per brevità, chiamo “nomina dall’alto” di un vescovo. I passaggi salienti sono:
- I vescovi di una provincia ecclesiastica o dell’intera della Conferenza episcopale sono tenuti a redigere la lista di preti candidabili all’episcopato almeno una volta ogni tre anni.
- Quando si deve nominare il vescovo di una diocesi, il Nunzio Apostolico chiede al vescovo dimissionario di redigere una relazione che definisce la situazione e le necessità della diocesi. Il rappresentante pontificio è obbligato a consultare l’arcivescovo metropolita e gli altri vescovi della provincia, il presidente della Conferenza episcopale e i membri del collegio dei consultori e del capitolo della cattedrale.
- Secondo la legge canonica è necessario che le persone consultate forniscano informazioni ed esprimano le loro opinioni in modo del tutto confidenziale, in seguito a una consultazione individuale e segretissima. A questo punto il nunzio compila una breve lista di tre candidati per effettuare le indagini necessarie e cercare informazioni precise su ogni candidato con la massima riservatezza sulla consultazione.
- Dopo di che invia alla Santa Sede una lista, chiamata “terna”, con i nomi dei tre candidati più appropriati a ricoprire l’ufficio. Ogni candidato deve possedere particolari qualità, elencate nel CdC (canone 378), che qui non riporto.
- Una volta ottenuta la documentazione, la Congregazione dei Vescovi, responsabile della nomina esamina quanto ricevuto dal nunzio. Può accettare la terna proposta o può chiedere di prepararne una nuova, oppure può chiedere maggiori informazioni su uno o più sacerdoti presentati.
- Dopo aver scelto i nomi dei candidati, la Congregazione presenta le sue conclusioni al Papa, chiedendogli di effettuare la nomina. Se il Papa concorda con queste decisioni, la nomina papale viene comunicata al nunzio per raggiungere il consenso del sacerdote alla sua nomina e scegliere la data per la pubblicazione.
Cosa non funziona in questo metodo?
- La comunità diocesana (la quasi totalità dei preti, religiosi e religiose, diaconi, vari ministeri, gli organismi di partecipazione diocesani e parrocchiali, dove esistono) è spettatrice passiva, sta a “balconare”.
- La scelta di un vescovo è appannaggio di soli maschi e taglia fuori la metà della comunità: le battezzate.
- Il potere ecclesiastico con questo metodo, perpetua sé stesso. Se “lo stampo” è unico e centrale non ci si può meravigliare se le comunità diocesane sono quasi tutte uguali, cioè morte spiritualmente e senza profezia. Non è questo il modo giusto di prendere sul serio l’ecclesiologia del Vaticano II, né la procedura attuale è adeguata alla realtà sociale che condividiamo, che non tollera forme autoritarie e poco dialogiche su una questione essenziale per la vita e la fede di una comunità diocesana. Quello che riguarda tutti, deve essere approvato da tutti. Diversamente, senza alcun coinvolgimento, deresponsabilizza sia i preti che i laici.
- Non ultimo, l’attuale metodo pone molti interrogativi a cui, per la segretezza che lo sostanzia, è difficile rispondere: chi entra nella lista dei preti candidabili? Quale ruolo ha il vescovo uscente nella individuazione della “terna”? L’iter, che appare complesso, è esente da pressioni o da cordate vescovili? Quale ruolo gioca nella formazione di un prete la dinamica di “fare carriera”? Ci sono preti che rinunciano? Quanti sono? E perché? Ed altri interrogativi ancora…
A difesa dell’attuale procedura non basta citare il dato che ha prodotto anche vescovi di grande spessore. Dato indubbio. Ma innegabile è anche il dato che un vescovo di grande valore non cambia da solo una chiesa locale per adeguarla al Vangelo e alle linee pastorali del Vaticano II. Non sono in questione le virtù del singolo scelto, anche se queste vanno cercate e benedette, ma in questione è un metodo che mortifica la chiesa diocesana e la clericalizza sempre più.
Una diversa procedura e in essa il ruolo dei laici. Abbiamo scritto: “Vorremmo, con le dovute modalità attuative, che l’antica tradizione della chiesa che vedeva vescovi come Ambrogio eletti dal popolo, fosse ripristinata”. Non molti conoscono, per es., la esperienza in vigore nelle diocesi cattoliche svizzere di Basilea e San Gallo. Qui non è il papa a proporre i candidati. Invece di designarli, egli nomina il vescovo legittimamente eletto dal capitolo della cattedrale. Oggi questa procedura è un’eccezione a livello mondiale. Ai vecchi tempi, invece, era la norma. Se quest’esperienza svizzera è unica, molti sono, invece, i contributi, le ricerche interessanti, e non ultimo il documento del Sinodo dei vescovi tedeschi, che spingono perché migliorando, anche giuridicamente, quella di Basilea, si giunga a coinvolgere nel processo tutta la comunità diocesana. Ma di queste proposte si può parlare in altra sede.
Non mi nascondo che è ancora lunga la strada per un laicato consapevole e protagonista per una procedura “secondo Tradizione”. Sono consapevole che ci vorrà tempo perché l’eccezione svizzera diventi una regola per tutta la chiesa cattolica. Ma non per questo dobbiamo rinunciare a invocare questa riforma e a sostenerla anche nel caso in cui per la nostra diocesi la nomina di Giovanni Intini risultasse carica di novità evangeliche.
Dalla parte del nominato. Il 2022 è stato un anno importante per la diocesi di Brindisi: ad aprile è stato nominato un prete locale vescovo di Cerignola, a dicembre è stato trasferito un vescovo dalla Basilicata a Brindisi: nomina vescovile e trasferimento non sono la stessa cosa ma nascono dalla stessa fonte, dalla Santa Sede. Senza coinvolgimento della comunità diocesana che ha cresciuto l’uno e sta per accogliere l’altro.
Tenendo presente l’attuale procedura di nomina, provo a mettermi dalla parte dei preti che si caricano sulle spalle il ministero episcopale. Ho sovrapposto due dichiarazioni significative: la prima è di Giovanni Intini, del 15 dicembre 2016, fatta nella cattedrale di Conversano-Monopoli, subito dopo la lettura della Bolla Pontificia di nomina a vescovo della diocesi di Tricarico; la seconda è quella di Fabio Ciollaro, del 2 aprile 2022, rilasciata in una Speciale intervista a Tele Dehon.
Senza mezzi termini, don Giovanni ha confessato di aver vissuto uno “tsunami”, una tempesta emotiva dopo aver sottoscritto la nomina a vescovo e aggiungeva: “In questi anni ho sempre accolto quello che mi è stato proposto e chiesto. Per un semplice motivo: ho imparato nel corso di questi anni a conoscere colui al quale ho dato fiducia e sapendo colui a cui ho dato fiducia ho imparato a fidarmi. E fidandomi non ho mai scelto io quello che dovevo fare. Ma è meglio così. Quando scegliamo noi le cose da fare scegliamo quelle più comode ma non le migliori secondo il progetto di Dio”[1];
Anche don Fabio Ciollaro, dopo aver dichiarato di essersi trovato all’improvviso e solo e con l’urgenza di dichiarare subito, senza possibilità di pensarci qualche giorno, la accettazione della nomina, sosteneva: “Tutte le volte che i vescovi mi hanno chiesto qualcosa, gradita o no, anche quando mi costavano molto, ho dato sempre la mia disponibilità. A maggior ragione l’ho fatto con la richiesta del Papa”[2]. È facile notare in Intini e Ciollaro il timore, comprensibile, per il nuovo ruolo da ricoprire ma soprattutto il disagio umano, quasi nascosto, per lo sradicamento da una comunità diocesana, da una parrocchia, da parenti, amici, da contatti umani in loco, da radici estese in molti anni. L’attuale sistema di nomina centralizzato taglia le radici di una vita lunga anni per trapiantarla in un’altra comunità che non si conosce. Qualcuno ha sostenuto che immettere in una diocesi un vescovo che viene da fuori può essere, spesso, come mettere una mucca in un pollaio. O meglio una gallina in un canile. Il frastuono di una promozione, l’essere posto sul candelabro del potere possono lenire questo disagio umano e spirituale del soggetto ma non per questo vengono annullati i limiti di una procedura giustificata da Intini e Ciollaro, quasi allo stesso modo, con una obbedienza “perinde ac cadaver” (lat. «nello stesso modo di un cadavere»), formula adottata dai gesuiti per esprimere, iperbolicamente, la sottomissione assoluta alla regola e alla volontà dei superiori, con rinuncia alla propria personalità.
Mi chiedo se, nell’attuale situazione della chiesa italiana vescovi che considerino l’obbedienza cieca ad altri vescovi che li hanno scelti sia davvero una virtù. Mi rendo conto che cambiare questo aspetto non è facile perché quando si parla di vescovi si tocca il potere e il potere tenta in tutti i modi di preservare sé stesso e di organizzare la sua impenetrabilità: più resta immobile nella sua forma, più si accresce. Non mancano coloro che giustificano l’attuale procedura con altri argomenti e, in particolare, con l’assistenza dello Spirito Santo. Si dice: “ci pensa Lui”. E i problemi magicamente sembrano scomparire. Nel 1974, dopo le dimissioni di mons. Semeraro, in attesa del nuovo vescovo, mons. Armando Franco, allora vicario generale, in occasione di un pellegrinaggio a Roma, si era recato nella sede della Nunziatura apostolica italiana per depositare documenti. Da come era stato accolto aveva capito che non sarebbe stato lui il nuovo vescovo a succedere a mons. Semeraro. Di ritorno da Roma sosteneva, con argomenti inoppugnabili, che prima della nomina di un vescovo lo Spirito Santo non c’entra nulla. La nomina è legata a logiche umane, in qualche caso anche indicibili. Solo con la imposizione delle mani, sosteneva, inizia ad agire lo Spirito Santo. Ma l’argomento non glielo ho più sentito ripetere dopo che, nel 1977, fu nominato vescovo di Melfi. Chi sostiene che lo Spirito non può sbagliare in questi affari, nonostante la fragilità degli uomini, si assume una grave responsabilità nell’affermarlo, visto quante brutte figure, in giro per il mondo, fa fare allo Spirito Santo, anche in questi giorni, con alcuni vescovi e cardinali.
Un discorso approfondito teologicamente, porta non a negare la assistenza dello Spirito che guida ma anche a non dimenticare che lo Spirito agisce su tutta la comunità diocesana e non solo sul suo vertice. Cosa che non può essere invocata quando la nomina prescinde totalmente dalla comunità diocesana. Un’ultima annotazione a proposito di trasferimenti episcopali.
Il numero elevato di diocesi italiane (227), che la CEI non si riesce a ridurre (nonostante le raccomandazioni di Papa Francesco), genera sostanziali differenze tra le diverse diocesi. La diocesi deve essere una realtà grande a sufficienza (popolo, clero, strumenti e beni sufficienti), per poter realizzare i predicati essenziali della Chiesa universale. In Italia non è sempre così ed esistono diocesi più piccole e diocesi grandi, povere e ricche, ben organizzate e male organizzate, esistono sedi vescovili e sedi arcivescovili, in alcune il vertice è stabile fino ai 75 anni, in altre il vertice è di passaggio. E spesso i limiti di guida di una diocesi sono inferiori a quelli di un parroco in una parrocchia (9 anni). Questi spostamenti e trasferimenti “chiesti o imposti” di vescovi, sempre decisi dall’alto, avvicina il ministero più al ruolo di funzionari che a quello di pastori. La diocesi di Brindisi, da 70 anni e forse più, non ha avuto vescovi di prima nomina: a Margiotta subentrò Semeraro, trasferito da Cariati; a Semeraro, subentrò Todisco, trasferito da Molfetta; a Todisco subentrò Talucci, trasferito da Tursi in Basilicata; a Talucci subentrò Caliandro, trasferito dalla diocesi di Nardò; a Caliandro è subentrato Intini, trasferito dalla diocesi di Tricarico.
Perché questa costante dei trasferimenti? È una diocesi difficile da gestire e ha bisogno di un vescovo esperto? Ma esperto in che cosa? Nella vita amministrativa ed economica di una diocesi o anche nella vita spirituale di tutta la comunità? Interrogativi a cui è molto difficile rispondere fino a quando rimarrà la attuale nebulosa procedura di nomina vescovile.
Mi scuso per la lunghezza. E ringrazio chi è arrivato alla fine di questo testo. Questo mio scritto non chiede sottoscrizioni, non è nato per essere pubblicato anche se non ha nulla di segreto. E può essere usato come meglio si crede. È destinato ai 22 amici con i quali ho condiviso una bella esperienza di una lettera aperta che ha avuto un’ampia risonanza, non per i suoi meriti ma perché il problema sollevato è urgente e molto sentito.
[1] www.youtube.com/watch?v=TqD9JAGhX1g&t=1802s (dal minuto 27) – 15 dicembre 2016.
[2] www.youtube.com/watch?v=4GE7TJ8ETA4 (minuto 4) – 2 aprile 2022
Antonio Greco in “manifesto4ottobre” 12 dicembre 2022
CONFEDERAZIONE METODI NATURALI
Corso di Perfezionamento “Sessualità, Fertilità, Ambiente e Stili di vita”.
Il Centro di Ricerca e Studi sulla Salute Procreativa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore promuove il Corso di Perfezionamento “Sessualità, Fertilità, Ambiente e Stili di vita“. Il Corso mira ad offrire un approfondimento ed un aggiornamento sui fattori che influenzano la fertilità e, più in generale, la salute procreativa, comprensiva della salute pre-concezionale. Le iscrizioni scadono il 18 febbraio 2023.
www.confederazionemetodinaturali.it/eventi/s16bb1097#182?utm_campaign=Newsletter-n-3-2022&utm_medium=newsletter&utm_source=newsletter-38 Dipartimento di Scienze della vita e Sanità pubblica
CONSULTORI UCIPEM
Mantova. “Etica Salute & Famiglia” – Anno XXVII n.01 – gennaio – febbraio 2023
Periodico a cura del Consultorio Prematrimoniale e Matrimoniale
UCIPEM di Mantova e dell’Associazione Virgiliana di Bioetica
- Editoriale – Vaccino contro il Covid-19. Parere del Comitato Nazionale di Bioetica Armando Savignano
- Primo piano – Visitare gli infermi con tenerezza Mons. Egidio Faglioni
- Libertà e solidarietà Anna Orlandi Pincella
- Il magistero – La speranza è possibile anche quando la vita è più fragile.
Commento alla lettera Samaritanus bonus Alberto Zanoni
- Testimonianze – Malattie e mortalità infantile, anni ’50 e ‘60 nei ricordi di un amico Carlo Anselmi
- Ostetrica mi dica – Mestruazioni: perché sono dolorose? Alessandra Venegoni
- IPsicologo mi dica – C’è un grande prato verde … Giuseppe Cesa
- Nel segno di fato Anna Orlandi Pincella
- Il post del mese
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www.consultorioucipemmantova.it/consultorio
Vittorio Veneto. Un contributo specialistico offerto dal Consultorio è la Mediazione Familiare
La mediazione familiare si rivolge:
- ai coniugi che hanno deciso di porre fine al proprio matrimonio;
- alle coppie in crisi indecise sul da farsi;
- alle coppie già divorziate che intendono rivedere i propri accordi.
Alcuni tratti della Mediazione Familiare:
- è un percorso di aiuto alla famiglia prima, durante e dopo la separazione o il divorzio;
- ha come obiettivo quello di offrire agli ex-coniugi un contesto strutturato e protetto dove raggiungere accordi concreti e duraturi su alcune decisioni, come l’affidamento e l’educazione dei minori, i periodi di visita del genitore non affidatario, la gestione del tempo libero, la divisione dei beni;
- il percorso è guidato da un professionista che, come terzo imparziale e con una formazione specifica, aiuta i due genitori ad elaborare gli accordi;
- si colloca al di fuori del contesto giudiziario ed avviene nella garanzia del segreto professionale;
- l’intervento viene effettuato con entrambi i partner e, quando il mediatore lo ritenga necessario, anche con i figli, riconoscendo il ruolo attivo che essi svolgono all’interno della dinamica familiare;
- si articola in un numero limitato di incontri, in media 10-12, compresi gli eventuali incontri di follow-up, della durata di 90-120 minuti l’uno.
Sinteticamente, la Mediazione Familiare in generale serve:
- ad accompagnare i genitori in conflitto nella ricerca di soluzioni reciprocamente soddisfacenti per sé e per i figli;
- a trovare o ritrovare una comunicazione il più possibile funzionale, che permetta loro di rispettare gli accordi e di essere capaci di trovarne altri in base all’evoluzione dei bisogni di tutti i membri della famiglia e dei cambiamenti che la vita porterà loro di fronte.
Le differenze rispetto alla via giudiziale tradizionale. I coniugi in Mediazione Familiare sono stimolati a prendere in modo autonomo le proprie decisioni e ad essere responsabili del proprio futuro. Il presupposto di fondo è che nessuno meglio di loro sia in grado di prendere quelle decisioni che andranno a regolare ed organizzare la loro vita futura e quella degli altri membri del nucleo familiare. Il ricorso alla giustizia formale implica, invece, una posizione di delega passiva che limita lo spazio per l’esercizio della soggettività dei protagonisti della separazione.
Come molti studiosi hanno evidenziato, il modello giudiziario si fonda per definizione sulla «contrapposizione delle parti« e finisce quindi per adattarsi male al contenzioso della separazione, dove gli ex coniugi, pur avendo scelto di recidere il legame coniugale, continuano ad essere sempre genitori dei loro figli ed hanno quindi bisogno di mantenere una relazione per il bene dei bambini che essi hanno in comune.
In Mediazione Familiare si cerca di affrontare il conflitto in modo diverso senza delegare il potere ad un terzo istituzionalmente incaricato. La filosofia alla base della Mediazione Familiare è che le lotte giudiziarie non sono vantaggiose né per i coniugi né per i figli, che farsi la guerra in tribunale sia il modo peggiore e più dannoso di porre fine ad un matrimonio. Troppe separazioni offrono un panorama pressoché identico: un coniuge che si sente ferito, tradito, deluso o abbandonato e cerca una compensazione, un vantaggio sull’altro imbastendo liti legali che durano anni per «ottenere la casa, l’affidamento dei figli, un assegno più alto« ecc. Il tutto senza pensare che dopo anni di lotte in tribunale, la maggior parte delle volte si finisce per ottenere meno di quanto l’altro coniuge sarebbe stato disposto ad offrire spontaneamente all’inizio prima degli scontri. La Mediazione Familiare consente ai coniugi di redigere, attraverso un percorso di negoziazioni a tappe, un documento di accordo che i coniugi presenteranno poi quando necessario, per il tramite dei loro avvocati, al giudice per la necessaria ratifica ufficiale.
Il Consultorio con la Mediazione Familiare offre uno «Spazio Neutro»
- è un luogo per i genitori e gli adulti dove poter affrontare e risolvere i conflitti per quel minimo indispensabile che permetta di ricostruire i legami interrotti;
- è un luogo terzo e non appartenente a nessuno dei contendenti, che può facilitare i genitori nel riconoscere il bisogno ed il diritto del bambino a vedere rispettati i suoi affetti e di ritrovare la propria storia, di cui non è depositaria solo una delle due parti in lotta;
- è un contenitore qualificato, esterno alle contese dei genitori, per imparare a salvaguardare la continuità della relazione genitori-figlio in un tempo delimitato;
- è un servizio per l’esercizio del diritto di visita quando non possibile presso la casa del genitore non affidatario;
- è un luogo di possibile incontro tra minori e le loro famiglie;
- è un luogo dove i minori possono riannodare relazioni difficili con i propri familiari ed esercitare il loro diritto al mantenimento delle relazioni.
Consultorio CFSE UCIPEM Vittorio Veneto (TV) www.ucipem.info
Email: info@ucipem.info www.ucipem.info/servizi-ucipem/mediazione-familiare
DALLA NAVATA
Maria Santissima Madre di Dio
La solennità di Maria SS. Madre di Dio è la prima festa mariana comparsa nella Chiesa occidentale. O
Numeri 06, 22. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò
Salmo 66, 02. Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti.
Paolo ai Galati 04, 04. Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.
Luca 02, 16. I pastori ¹⁶andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. ¹⁷E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. ¹⁸Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. ¹⁹Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. ²⁰I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro . ²¹Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.
Commento
Nell’ottavo giorno dopo Natale la chiesa riprende la lettura della nascita di Gesù avvenuta a Betlemme secondo il vangelo di Luca. Dopo l’annuncio dell’angelo ai pastori (cf. Lc 2,8-14), ecco che questi ultimi, obbedienti, vanno a Betlemme e trovano Maria, la madre, Giuseppe e il bambino appena nato avvolto in fasce, deposto nella mangiatoia. Tutto corrisponde all’annuncio ascoltato, e le parole del messaggero celeste riguardo a quel bambino sono una rivelazione divina, che sarà la fede di tutti i cristiani: Salvatore, Cristo, Signore, ecco la vera identità di quel neonato (cf. Lc 2,11). I pastori non contemplano nulla di straordinario, nulla che li abbagli, ma quella realtà umanissima che vedono non contraddice le parole dell’angelo che hanno udito; infatti, con semplicità raccontano ciò che era stato loro annunciato, destando in tutti stupore. L’evangelizzazione cristiana ha i suoi inizi quel giorno ed è fatta da poveri pastori, marginali nella loro società e ritenuti indegni di una vita religiosa espressa mediante il culto officiale.
La madre di Gesù, dal canto suo, in ascolto delle parole dei pastori le conserva e le medita nel suo cuore, potremmo dire che le collega alle parole da lei ascoltate da parte dell’angelo (cf. Lc 1,26-38) e agli eventi che ne sono seguiti: gravidanza, inizio della vita con Giuseppe, nascita di quel Figlio che veniva solo da Dio. Anche in questo evento Maria constata la sua relazione con quel figlio, perché altri, Elisabetta, Giuseppe, ora i pastori, la narrano e la attestano. E così la buona notizia, la grande gioia (cf. Lc 2,10) si dilata, fa la sua corsa in quella regione della Giudea. Passati otto giorni dalla nascita, Giuseppe deve adempiere la Legge, innestando il figlio maschio nell’alleanza stabilita da Dio con Abramo e significata dalla circoncisione (cf. Gen 17,1-14). Così, attraverso quell’incisione nella carne, Gesù è costituito figlio di Abramo, ebreo per sempre. La circoncisione, se da un lato rende Gesù un appartenente al popolo santo, il popolo delle alleanze, delle promesse e delle benedizioni (cf. Rm 9,4-5), dall’altro afferma la semplice ma realissima umanità di quel Figlio di Dio, Messia, Salvatore e Signore. Anche questo lo ha voluto Dio, perché l’incarnazione della sua Parola, di suo Figlio non era una finzione, non era una teofania, ma era veramente il realissimo abbassamento di Dio nella nostra condizione carnale e mortale, in un popolo preciso, che discende da Abramo, mediante la nascita da una donna (cf. Gal 4,4), come ogni figlio nasce da una madre.
Insieme alla circoncisione il bambino riceve il Nome Jeshu‘a, Gesù, che significa “il Signore salva”: è il Nome datogli dall’angelo (cf. Lc 1,31), dunque da Dio stesso, Nome che dice la vocazione e la missione di questo neonato che solo Dio ci poteva dare. Maria e Giuseppe ancora una volta obbediscono puntualmente, riconoscendo che quel figlio non appartiene a loro, ma a Dio che lo ha voluto e lo ha fatto nascere in mezzo a noi per essere l’Emmanuele, il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; Is 7,14), il Signore e Salvatore.
Oggi è anche l’inizio dell’anno secondo il calendario della società in cui viviamo. Celebrare il 1° gennaio la festa in cui si proclama che Gesù è nato da donna, che appartiene al popolo di Israele e che ha nel proprio Nome la missione di portare la salvezza a tutta l’umanità, dice a tutti che Gesù può essere la presenza di un uomo che ha vissuto mostrandoci come possiamo vedere “salvata” la nostra vita, giorno dopo giorno.
p. Enzo Bianchi 1° gennaio 2023
www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/177392/il-neonato-messia-riceve-il-nome-di-ges%C3%B9
GIOVANI ADULTI
C’è un grande prato verde …
Tra operatori del consultorio ci siamo trovati recentemente a condividere una osservazione, che ovviamente può non avere rilevanza dal punto di vista dei grandi numeri, ma che pensiamo meriti qualche riflessione e qualche approfondimento. Praticamente, ci siamo accorti che sta aumentando anche presso il nostro consultorio il numero di giovani adulti, o tardo adolescenti, che cercano un aiuto per situazioni di ansia ed incertezza, a volte con la presenza di una velatura di tristezza e demoralizzazione.
Molte volte sono giovani con un buon livello intellettivo e culturale, persone laureate, con esperienze di studio e lavoro all’estero. Persone capaci, quindi, di uscire dalla cosiddetta confort-zone e di cavarsela anche in realtà nuove e relativamente complesse. Giovani capaci di applicarsi con relativa serietà e costanza nel tempo, raggiungendo anche livelli buoni in vari ambiti e con buone competenze relazionali in genere. Non abbiamo a che fare, quindi, con soggetti disadattati, con caratteristiche devianti o con la presenza di più o meno marcate patologie psichiche; almeno apparentemente.
Anche la storia familiare di queste persone sembra sufficientemente buona, nel senso che non appaiono presenti esperienze negative di rilievo. Insomma, dei “bravi ragazzi”.
Nel racconto delle loro storie sembra emergere tante volte una partenza connotata da grande entusiasmo e speranza, carica di ideali e buone intenzioni, ma che ad un certo punto si arena in un contesto di carenza, se non assenza, di sbocchi vitali in cui poter investire se stessi. Un po’ come se avessero creduto un po’ troppo alle promesse degli adulti ed ora si trovino col nulla davanti o comunque con il poco.
Alle persone della mia generazione torna facilmente in mente la canzone di Gianni Morandi richiamata dal titolo “C’era un grande prato verde …”.
Un’ ipotesi che mi balza facilmente in mente riguarda il fatto che questa situazione sia conseguenza di un “imbroglio generazionale” perpetuato a carico delle nuove generazioni, come dire che le generazioni precedenti hanno mal amministrato e sprecato anche le risorse di quelle future lasciando loro poche briciole. Ovviamente, l’assetto sociale attuale è frutto di dinamiche molto complesse che vanno ben al di là delle competenze degli operatori di un consultorio e questa ipotesi, anche se avesse qualche fondamento, non spiegherebbe una seconda osservazione inerente al fatto che altri giovani cresciuti in condizioni oggettivamente più difficili, riescono magari a cavarsela meglio.
Questa seconda osservazione, forse più di nostra competenza, può aprire le porte ad una seria ed ampia riflessione sulle dinamiche educative e formative che hanno concorso all’impasse di queste persone. Non è facile fare ipotesi, ma desidero buttare sul tavolo una qualche idea, più che altro provocatoria, rispetto ad un dibattito che potrebbe aprirsi.
Personalmente credo che dopo tanti anni in cui la nostra cultura ha enfatizzato il cosiddetto ruolo materno, quello che offre un caldo accoglimento e protezione allo sviluppo di una vita, queste osservazioni evidenzino la carenza del cosiddetto ruolo paterno. Precisando anticipatamente che ruolo materno e paterno stanno ad alludere a funzioni non necessariamente di competenza esclusiva materna o paterna, ma semplicemente che si tratta di ruoli in passato attribuiti prevalentemente alla madre o al padre.
Oggi per fortuna il ruolo paterno non ricalca più quegli schemi rigidi ed autoritari di qualche decennio fa, tuttavia come ruolo è rimasto spesso soffocato se non a volte delegittimato. Un aspetto importante della funzione paterna, credo sia anche quello di costruire un ponte tra il caldo morbido ed accogliente della madre e il crudo che comunque fa parte dell’esperienza di vita di ognuno. Penso che proprio questo sia il fulcro del discorso: la carenza di una formazione che consenta di vivere in contesti anche crudi, tollerando la frustrazione ed il dolore di inevitabili sconfitte.
Giuseppe Cesa, psicologo, psicoterapeuta consultorio Ucipem di Mantova
MINORI
Protezione dei minori e abusi sessuali: pubblicato un manuale per la tutela in situazione di crisi
Il Comitato di Lanzarote, istituito in base alla Convenzione per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, adottata a Lanzarote il 25 ottobre 2007 (ratificata dall’Italia con la legge n. 172 del 1° ottobre 2012), ha pubblicato un manuale per guidare gli operatori degli Stati parti nel trattamento dei minori vittime di sfruttamento sessuale a seguito di situazioni di crisi e di emergenza (minori COE).
www.marinacastellaneta.it/blog/wp-content/uploads/2022/12/minori-COE.pdf
L’esigenza del nuovo volume nasce dalla situazione in Ucraina perché, anche se non ci sono ancora dati ufficiali sulle vittime di sfruttamento sessuale o di abusi, è altamente probabile che situazioni di questo genere si siano già verificate. Di qui l’esigenza di fornire una guida pratica alle persone coinvolte nell’accoglienza di minori che arrivano dalle zone di guerra. Il documento adottato dal Comitato è articolo in quattro sezioni:
- la prima dedicata agli strumenti di prevenzione in situazioni di emergenza;
- la seconda all’identificazione dei minori e all’ascolto;
- la terza parte al supporto da fornire alle vittime
- la quarta alle attività di indagine per assicurare che gli autori dello sfruttamento sessuale siano puniti.
Il volume contiene altresì un elenco delle misure adottate in alcuni Stati, per mettere in risalto le buone prassi seguita da alcuni Paesi e un approfondimento sulla questione dei bambini scomparsi.
Prof Marina Castellaneta -Università di Bari 27 dicembre 2022
www.marinacastellaneta.it/blog/protezione-dei-minori-e-abusi-sessuali-pubblicato-un-manuale-per-la-tutela-in-situazione-di-crisi.html
NATIVITÀ
Cara Murgia, tra umano e divino ecco chi è il vero Dio bambino
Nell’articolo apparso su questo giornale il giorno di Natale Michela Murgia ha accusato in modo piuttosto aspro il cattolicesimo di essere «l’unica tra le confessioni cristiane a infantilizzare il suo Dio».
I cattolici hanno compiuto nella persona del Cristo incarnato l’idealizzazione dell’infanzia, costruendo intorno alla sua nascita una retorica di tenerezza zuccherosa priva di riscontro biblico. Se l’unica incarnazione che ci commuove è quella del neonato, è perché è più facile rendere la divinità bambina che l’umanità adulta davanti alle sue contraddizioni.
www.lastampa.it/cultura/2022/12/24/news/i_cattolici_amano_un_dio_bambino_perche_rifiutano_la_complessita-12430472/
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202212/221226murgia.pdf
Io penso di capire qual è il suo obiettivo: sono quei cattolici che si commuovono davanti al presepe cantando «Tu scendi dalle stelle» e subito dopo chiudono il cuore davanti a quelle persone che cercano accoglienza perché arrivano dal mare. Quei cattolici che proclamano fervorosamente «Dio Patria Famiglia», ma solo a condizione che si tratti del «loro» Dio, della «loro» Patria, della «loro» Famiglia, svelando così che in realtà il vero interesse è solo ciò che è loro, quindi loro stessi, facendo in questo modo dell’egoismo il valore assoluto. Io penso sia questo l’obiettivo di Murgia e lo condivido, perché anch’io ritengo da sempre che fare del cattolicesimo il guardiano della coscienza egoista dell’Occidente opulento sia un tradimento del messaggio evangelico.
Detto questo, però, il modo con cui Murgia procede per sostenere la sua tesi è tale, a mio avviso, da presentare non pochi problemi sotto il profilo contenutistico sia biblico sia teologico. Argomento la mia affermazione partendo dai problemi più leggeri lasciando alla fine ciò che ritengo veramente grave.
Per quanto concerne l’esegesi biblica Murgia scrive che «nelle Scritture il racconto biblico della nascita di Gesù somiglia più alla trama di un film drammatico». Si tratta di un’affermazione solo parzialmente vera, che vale per il racconto della nascita di Gesù presentato da Matteo ma non per quello di Luca. I due resoconti sono così diversi tra loro da renderne impossibile l’armonizzazione e da dover concludere che le cose in quei giorni andarono o come le racconta Matteo o come le racconta in Luca (o in modo ancora diverso, come io penso, ma qui non posso argomentare il mio punto di vista).
Secondo Matteo, la sequenza degli eventi fu: annunciazione a Giuseppe, nascita in casa (perché Giuseppe e Maria erano di Betlemme), arrivo dei Magi, ricerca del bambino da parte di Erode per ucciderlo, fuga in Egitto, strage degli innocenti. Un film davvero drammatico.
Secondo Luca, invece, la sequenza fu: annunciazione a Maria, nascita in una stalla (perché Giuseppe e Maria erano di Nazareth e non avevano trovato posto negli alberghi di Betlemme dove si trovavano momentaneamente a causa del censimento), nessuna minaccia da parte di nessuno così che i genitori, invece di scappare in Egitto, portano il bambino a Gerusalemme nel tempio (a due passi da Erode!) per farlo circoncidere, sereno ritorno a casa a Nazareth. Un film per nulla drammatico. Nella mente di molti, compresa quella di Murgia, i due racconti si fondono e si confondono, con la poca chiarezza che ne consegue.
Un secondo problema di ordine teologico ed esegetico è dato da questa affermazione di Murgia: «Solo i cattolici hanno compiuto nella persona del Cristo incarnato l’idealizzazione dell’infanzia, costruendo intorno alla sua nascita una retorica di tenerezza zuccherosa priva di riscontro biblico».
Qui gli errori sono due: che solo i cattolici avrebbero idealizzato l’infanzia di Cristo e che tale operazione sarebbe priva di supporto biblico. Inizio da quest’ultimo aspetto, affermando che in realtà la tenerezza verso l’infanzia ha diversi riscontri biblici, tra cui uno dei più celebri è questa profezia di Isaia: «Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio Potente, Padre per sempre, Principe della pace» (9,5). E che non siano stati solo i cattolici a idealizzare l’infanzia di Cristo lo prova per esempio il «Messia» di Händel, composto da un protestante per fedeli anglicani nel 1741 con testi tratti dalla Bibbia di Re Giacomo, tra cui il testo di Isaia sopra riportato e magnificamente musicato da Händel.
Neppure corrispondono al vero queste altre parole dell’autrice, cioè che «nelle altre chiese di derivazione evangelica la devozione per Gesù neonato – per Maria bambina, di sponda – è praticamente inesistente». In realtà la devozione verso il Bambino e la Madre oltre che nel cattolicesimo è molto presente nell’ortodossia, lo testimoniano sia le icone sia le feste, per esempio l’icona della nascita di Gesù e la relativa festa, l’icona della nascita di Maria e la relativa festa, l’icona di Maria introdotta nel tempio e la relativa festa. E da non dimenticare mai l’icona Theotokos di Vladimir, nota anche come Madre di Dio della tenerezza, dipinta a Costantinopoli e oggi conservata a Mosca.
Ma è soprattutto il profilo teologico-sistematico dell’articolo di Murgia a destare come minimo perplessità, laddove si legge: «Dio si è fatto come noi per farci come lui, recita il verso di un noto canto d’Avvento, talmente mistificatorio che verrebbe quasi da dare ragione all’emerito papa Ratzinger, ostile sin da cardinale alla deriva creativa della musica liturgica post-conciliare». La frase descritta in quel modo da Murgia, e che in effetti si trova in un noto canto liturgico, è in realtà uno dei più importanti assiomi teologici di tutti i tempi, coniato da Ireneo di Lione nell’opera «Contro le eresie», composta verso il 180 e baluardo della teologia cristiana, nella quale in riferimento a Cristo si legge: «Si è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso» (libro V, prefazione; ma l’affermazione ricorre in diverse forme in molte altre pagine).
Affermare che la frase «Dio si è fatto come noi per farci per farci come lui» sia semplice musica liturgica postconciliare mistificatrice del vero cristianesimo (cercando persino sponda in Benedetto XVI) è davvero qualcosa di molto imbarazzante. Si può credere o non credere nella dottrina cristiana, ma se vi si crede non si può scrivere che il centro dogmatico e spirituale del cristianesimo sia «mistificatorio». È come uno che afferma che per lui Bach è il più grande musicista di tutti i tempi e poi sostiene che il contrappunto e il basso continuo sono una mistificazione della vera musica (o come uno che afferma di tifare Juventus e poi sostiene che Bettega, Platini e Del Piero non valevano nulla).
Il farsi come noi da parte di Dio (l’umanizzazione) per farci come lui (la divinizzazione) è il cuore concettuale del cristianesimo e costituisce la sua differenza specifica rispetto all’ebraismo, per il quale non è possibile né una umanizzazione di Dio né una divinizzazione dell’uomo, perché Dio è e rimarrà sempre «totalmente altro». Per il cristianesimo, al contrario, tutto si gioca qui: che Dio si è fatto come noi per farci come lui. I padri della Chiesa di lingua greca ne parlavano in termini di «theosis», i padri della Chiesa di lingua latina ne parlavano in termini di «deificatio» e per molti secoli le mistiche e i mistici cristiani hanno testimoniato questo ideale facendone lo scopo della vita.
L’umano è il valore assoluto? Sì, ma solo a patto di essere consapevoli che tale affermazione contiene anche un grande rischio: quello che Friedrich Nietzsche denunciava dicendo «umano, troppo umano». Un cristianesimo che si riduce a essere solo umanità, cioè solo caritas, accoglienza, impegno per il prossimo e i migranti e i diversi, un cristianesimo solo orizzontale, è destinato a diventare come quel sale di cui parlava Gesù dicendo che «perde il sapore e a null’altro serve che a essere gettato via e calpestato dalla gente». È chiaro che il cristianesimo non potrà mai fare a meno di accogliere e di essere dalla parte degli ultimi, tra cui i più indifesi quali i bambini e soprattutto i vecchi. Ma la fonte da cui scaturisce la sua energia non potrà essere unicamente l’umano, ma l’umano unito al divino e il divino unito all’umano.
Un’ultima cosa. Non è vero che è solo il cattolicesimo tra le confessioni cristiane ad aver idealizzato il bambino facendone una tra le più preziose manifestazioni del divino, è vero però che il cattolicesimo ha compiuto tale operazione in modo mirabile, soprattutto a seguito di Francesco d’Assisi che nel 1223 a Greccio a tal fine inventò il presepe. Egli intendeva in questo modo onorare il suo maestro, il quale un giorno, molti secoli prima, ai discepoli che gli avevano chiesto chi sarebbe stato il più grande nel regno dei cieli, aveva risposto chiamando a sé un bambino e dicendo: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli». Poi concludeva: «Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli». Lo specifico del pensiero di Gesù è l’armonia tra l’umano e il divino, tra il grande e il piccolo, tra l’adulto e il bambino. In questa armonia consiste il cristianesimo e, a mio avviso, anche l’anima della nostra civiltà detta Occidente. Decadente e detestabile per molti aspetti, essa rimane pur sempre il luogo più attento della Terra ai diritti umani, un’attenzione che gli proviene dall’aver creduto per secoli che Dio si è fatto come noi per farci come lui.
Vito Mancuso “La Stampa” 27 dicembre 2022
www.lastampa.it/cronaca/2022/12/27/news/cara_murgia_umano_divino_dio_bambino-12433753
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202212/221227mancuso.pdf
NULLITÀ DEL MATRIMONIO
Voglio accertare la nullità del mio matrimonio: cosa devo fare?
Dal parroco alla diocesi, sino al libello Quali sono i primi passi da compiere se una coppia decide di chiedere l’annullamento del proprio matrimonio celebrato in chiesa? Ci sono tre passaggi, che possiamo definire tre livelli di “consulenze” da seguire: lo spiega bene il volume “La riforma dei processi matrimoniali di Papa Francesco” a cura della Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale (Ancora editrice)
Sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio (15 agosto 2015)
www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio_20150815_mitis-iudex-dominus-iesus.html
Primo passo: il parroco. Può essere anzitutto frequente il caso in cui la persona interessata si rivolga al suo parroco o ad altro sacerdote conosciuto, poiché con questi ha maggiore confidenza e facilità ad esprimere la propria situazione familiare. Nel nuovo regolamento di procedura varato dalla Riforma di Papa Francescosi accenna a questi operatori: «La stessa indagine sarà affidata a persone ritenute idonee dall’Ordinario del luogo, dotate di competenze anche se non esclusivamente giuridico-canoniche. Tra di esse vi sono in primo luogo il parroco proprio o quello che ha preparato i coniugi alla celebrazione delle nozze. Questo compito di consulenza può essere affidato anche ad altri chierici, consacrati o laici {del consultorio familiare)approvati dall’Ordinario del luogo» (art. 3, primo capoverso).
Ascolto ed equilibrio. Queste persone dovrebbero appurare prima di tutto se non vi sia più la possibilità di risolvere la crisi coniugale ed offrire quindi un adeguato supporto spirituale; inoltre, se richiesto o opportuno, dovrebbero rendersi disponibili a un primo ascolto per iniziare a valutare se sorgano dubbi significativi circa la validità del matrimonio. Queste persone che per prime sono coinvolte in un’opera di consulenza dovranno offrire un parere equilibrato e, là dove ve ne siano i presupposti, inviare ad un livello di consulenza più specializzato. La domanda che può salvare il matrimonio: ci siamo sposati o ci hanno sposati?
Secondo passo: la diocesi. Ecco quindi un secondo possibile livello di consulenza: quello rappresentato da organismi o personale specializzato in questo ambito. Sempre nella Riforma si afferma: «La diocesi, o più diocesi insieme, secondo gli attuali raggruppamenti, possono costituire una struttura stabile attraverso cui fornire questo servizio» (art. 3, secondo capoverso). Si tratta quindi di persone/consulenti preparati nel diritto matrimoniale, oltre che provvisti di particolare sensibilità pastorale. Di fatto tale servizio già da tempo viene svolto in diverse diocesi, soprattutto da parte di sacerdoti esperti in diritto canonico o mansionari di qualche ufficio di curia; oppure da parte di consulenti canonici, anche laici, che operano nei consultori familiari; si tratta quindi oggi di estendere tale servizio in tutte le Chiese particolari o di organizzarlo ancora meglio.
Motivi di nullità. In questo secondo livello di analisi della vicenda matrimoniale si entrerà più in profondità, cercando di precisare se in realtà emergano motivi e prove sufficienti per introdurre una causa di nullità; non si tratta certamente di esprimere già una sentenza, ma di evidenziare se esiste quel fumus boni iuris che permette di non avviare in modo azzardato una causa di nullità. Si tratta di un servizio al quale i fedeli possano rivolgersi senza grande incomodo e in modo assolutamente gratuito.
Alla fine di questa consulenza dovrà essere espresso un parere preciso (benché non insindacabile) circa la possibilità o meno di procedere in una causa di nullità, offrendo quindi, in caso positivo, le debite indicazioni per proseguire nel cammino, ossia generalmente quella di affidarsi o a un patrono stabile o a un avvocato di fiducia; inoltre potrebbe essere utile fornire sinteticamente all’interessato alcune informazioni circa la procedura che la causa seguirà, i tempi e i costi previsti.
Terzo passo: il legale. Un terzo livello di consulenza, ma come detto potrebbe anche essere l’unico, è quello rappresentato dall’avvocato, che poi avrebbe anche competenza e titolo a patrocinare la causa. Tale figura è prevista e regolata nei cann. 1481-1490, distinguendo fra «procuratore» (persona incaricata di rappresentare legalmente la parte in giudizio) e «avvocato» (persona che consiglia, assiste e difende la parte durante il processo): di solito però è una medesima persona che ricopre entrambi i ruoli.
Consenso dei coniugi. Dunque la figura dell’avvocato rappresenta un po’ l’anello finale della consulenza, quello in cui definitivamente si decide per l’introduzione della causa, approntando quanto necessario. È ciò che sostanzialmente richiama RP (Regolamento di Procedura) 4: «L’indagine pastorale raccoglie gli elementi utili per l’eventuale introduzione della causa da parte dei coniugi o del loro patrono davanti al tribunale competente. Si indaghi se le parti sono d’accordo nel chiedere la nullità»; il fatto di appurare quale sia la posizione dell’altro coniuge può servire per raccogliere ulteriori elementi per la causa o anche per verificare l’eventualità, oggi ammessa, che a promuovere la causa siano entrambi i coniugi, anche in vista di percorrere la cosiddetta via più breve davanti al vescovo (cf art. 5 [= cann. 1683-1687 MIDI]), se la causa presenta evidenti motivi di nullità.
Il libello. La consulenza per annullare il proprio matrimonio religioso, che si conclude con la decisione di introdurre la causa, approda quindi alla stesura del libello. Ossia della domanda ufficiale con cui la parte, assistita dal suo patrono, chiede al tribunale competente di avviare una causa di nullità sul suo matrimonio, indicando brevemente i tratti della vicenda matrimoniale e puntualizzando quelli che sono ritenuti i motivi per cui si ritiene vi sia una nullità. Così infatti indica RP 5: «Raccolti tutti gli elementi, l’indagine si chiude con il libello, da presentare, se del caso, al competente tribunale».
Gelsomino Del Guercio – Aleteia 20 dicembre 2022
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