UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
News UCIPEM n. 938 – 27 novembre 2022
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L ’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
CONTRIBUTI PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA
02 ABUSI La chiesa continua a minimizzare sulla pedofilia clericale
03 Un primo rapporto della Chiesa italiana sulle violenze sessuali
04 CENTRO GIOVANI COPPIE “Grammatica dell’inaspettato”
05 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF -n. 43, 23 novembre 2022
07 CHIESA DI TUTTI Pedofilia, ecco come la Chiesa francese ha reagito allo shock delle rivelazioni
09 Consumo di pornografia da parte di religiosi e sacerdoti: il Papa sta esagerando?
10 CHIESA IN ITALIA Giancarlo Martini: a Pallanza, il clericalismo punisce la sinodalità
12 Un’immagine e un testo di don Di Noto per sensibilizzare sugli abusi contro le bambine
12 Preti e pedofilia noi cattolici cinici
13 A proposito di cinismo Chiesa e abusi sui minori
13 Gli errori dei vescovi sulla pedofilia
14 Primo report Cei sugli abusi: mille parole, qualche opera e tante omissioni
16 Pedofilia, perché in Italia i preti sotto accusa riescono sempre a cavarsela
18 l bonus della Lega per il matrimonio in chiesa
18 CHIESA NEL MONDO “Verso l’implosione”. Della Chiesa di Francia e non solo
21 CONCILIO VATICANO II A sessant’anni dal Concilio. Autocoscienza della Chiesa
23 CONFER. EPISC0PALE ITALIANA L’offensiva della Chiesa sui diritti dei migranti “Subito lo Ius Culturæ“
24 CONSULTORI UCIPEM Portogruaro. Consultorio familiare Fondaco una vocazione d’aiuto che dura da 40 anni
25 Roma 1. Centro la famiglia. I corsi in presenza Consulenza in francese e inglese-
25 DALLA NAVATA Prima domenica di avvento – Anno A
25 Commento di p. Balducci
26 DIVORZIO Europa. Riconoscimento tra Stati
27 DONNE Chi ha paura delle donne
28 DONNE NELLA (per la) CHIESA Video registrazioni di lectio magistralis di Lilia Sebastiani a Terni
29 A domanda non rispondo (o non so rispondere)
31 ECUMENISMO Paolo Ricca: «Gesù ha bisogno di molti “Pietro”»
32 FRANCESCO VESCOVO ROMA Nella teologia più spazio alle donne. Verso la tradizione «fedeltà creativa»
33 MATRIMONIO Un matrimonio da portare in detrazione: il bonus e Don Abbondio
35 MIGRANTI L’offensiva della Chiesa sui diritti dei migranti “Subito lo Ius Culturæ”
36 RIFLESSIONI Enzo Bianchi “Cosa c’è di là. Inno alla vita”
37 Com’è profondo il male
41 SACERDOZIO Silenzio e dialogo. Segreti di essere prete
43 SESSUOLOGIA Pedofilia femminile
45 SIN0DALITÀ La Chiesa italiana verso il sinodo: cantieri e coordinamento
45 Due teologi interrogano il Concilio Vaticano II su questioni che non si era mai posto
46 SINODO IN EUROPA Forma dell’incontro e argomentazioni in campo: episcopato tedesco e curia romana
49 Celibato e donne prete il pressing sul Vaticano dei vescovi tedeschi
52 SPOSI 10 critiche di Papa Francesco alle famiglie cristiane
52 VIOLENZE Violenza contro le donne: segno postura di civiltà, non malvagità di singoli individui
53 L’impatto delle violenze di genere e familiari sui minori
56 La violenza contro le donne
ABUSI
La chiesa continua a minimizzare sulla pedofilia clericale
«La chiesa è un luogo di guarigione, il pronto soccorso di persone abusate che hanno bisogno di essere accolte». A dirlo è la psicoterapeuta Vittoria Lugli, referente diocesana e coordinatrice regionale del Lazio del Servizio di tutela dei minori, durante il convegno “Dalla parte delle vittime”, che si è tenuto ieri mattina alla Pontificia università Lateranense per parlare di prevenzione degli abusi sui bambini.
L’occasione per fare il punto era la presentazione del primo report sulla pedofilia nella chiesa della Cei, che rende conto dell’attività dei Servizi diocesani e dei centri d’ascolto nel biennio 2020-21. Il convegno ha rappresentato una perfetta azione di distrazione dell’attenzione, tesa a mostrare come il problema degli abusi non riguardi in realtà la chiesa, se non in minima parte. «La chiesa non è una multinazionale che produce preti pedofili», ha esordito don Fortunato di Noto, che si definisce “pioniere nella lotta alla pedofilia” perché se ne occupa dal 1989 con la sua onlus Meter.
Sacerdote siciliano (Avola – 1963), incardinato nella Diocesi di Noto (SR), nel web ha posto le radici della sua missione. Le “periferie digitali” sono divenute la sua dimora; sono il luogo in cui investe le sue energie, l’antro tetro in cui cerca di dissiparne le ombre. Nella parte oscura e insidiosa del web è impegnato nella lotta al nefando ed esecrabile crimine della pedofilia e della pedopornografia. Il suo grido non conosce silenzi; il suo impegno non conosce tregue.
Professore di Bioetica presso l’Istituto Superiore di Bioetica e sessuologia della Pontificia Università Salesiana di Messina. Promotore, insieme ad altri, della Legge n. 269/98 e, con l’Associazione Meter, della L. n. 38/2006 e della legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote.
«In Italia, negli ultimi due anni, ci sono 7.675 bambini vittime di violenza, di cui 1 683 casi di violenza aggravata», ha detto il sacerdote. Numeri tesi a ridimensionare la portata della manciata di casi riportati dallaCei, così come la scelta delle due testimoni di abuso presentate al pubblico: la prima, violentata a sei anni dal nonno, ha trovato la forza di perdonare grazie a una psicologa cristiana, e la seconda (anonima, ascoltata in un audio recitato alla platea) ha subito molestie a 17 anni dall’allenatrice della squadra di calcio. Nessuna delle due, guarda caso, è stata vittima di un sacerdote.
L’attacco ai giornalisti. Il pezzo forte, però, è stato l’intervento di monsignor Lorenzo Ghizzoni, presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori della Cei che, sentendosi a casa e lontano dalle domande definite «aggressive» dei giornalisti, ha parlato fuori dai denti. «Abbiamo mostrato tutte le nuove attività di formazione della chiesa e ai giornalisti interessava soltanto quanti sono i preti pedofili e i vescovi insabbiatori», ha detto riferendosi alla conferenza stampa di presentazione del report. «Volevano sapere dei risarcimenti alle vittime – ha continuato – ma questo non era l’oggetto del nostro lavoro: inoltre, chi viene condannato dalla giustizia civile è anche obbligato a pagare i danni». La giustizia ecclesiastica, agli occhi di Ghizzoni, non è chiamata evidentemente allo stesso impegno. «I casi di abuso negli ambienti ecclesiastici sono pochissimi rispetto a quello che accade in famiglia, a scuola o nello sport – ha aggiunto monsignor Ghizzoni – a noi non interessa mettere alla berlina preti e vescovi ma prevenire gli abusi nella chiesa».
Il riferimento alla Francia. Sulla commissione indipendente, poi, il vescovo è stato fin troppo eloquente: «Non faremo mai una commissione con enti che non capiscono nulla della chiesa e che vengono giudicati indipendenti soltanto perché sono esterni all’ambiente ecclesiastico – ha dichiarato – noi non faremo proiezioni statistiche, abbiamo ben visto i danni che sono stati fatti là dove è stato permesso».
Il riferimento è alla Ciase, la Commissione indipendente sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Francia, composta solo da laici, che dopo due anni e mezzo di indagini ha diffuso dati sconvolgenti: 216.000 bambini e adolescenti sarebbero stati vittime di violenze o aggressioni sessuali da parte di religiosi o ecclesiastici in Francia dal 1950 ad oggi. Un numero che sale a 330.000 se si tiene conto delle vittime di aggressori laici nell’ambito delle istituzioni ecclesiastiche, mentre gli abusatori sarebbero circa tremila membri del clero. Un’indagine criticata anche dal cardinale Zuppi, per il fatto che si tratta di un rapporto su base statistica, basato sulla proiezione delle 2.738 testimonianze ricevute, mentre quello italiano sarebbe «basato su dati certi». «Dati certi» che per ora sono soltanto quelli forniti da un terzo dei centri d’ascolto diocesani.
Numeri che per quanto molto parziali (o forse proprio per quello) sono tuttavia significativi: 89 segnalazioni di abuso raccolte in un poco più di un anno, di cui più della metà riguardano casi attuali o recenti, non sono poche. Se poi si sommano ai 613 fascicoli che abbiamo scoperto (soltanto in conferenza stampa) essere depositati al dicastero per la dottrina della fede dopo il 2000, si arriva a 700 possibili casi in vent’anni denunciati alla chiesa. Senza contare tutti i casi arrivati all’autorità giudiziaria e, soprattutto, quelli mai denunciati, che sono sicuramente la maggior parte. Per quanto cerchi di minimizzare, la chiesa italiana ha ancora molto da dire sulla pedofilia clericale. (rimando a
28 aprile 2022 – aggiornato 17 novembre 2022
Federica Tourn “Domani” 20 novembre 2022
www.editorialedomani.it/idee/commenti/pedofilia-nella-chiesa-la-prevenzione-proposta-dai-vescovi-e-soltanto-un-alibi-awwbri5w
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221120tourn.pdf
Un primo rapporto della Chiesa italiana sulle violenze sessuali
&&&&& passim
I rappresentanti della Chiesa italiana hanno anche rivelato che sono stati aperti in Vaticano 613 dossier riguardanti violenze sessuali censite in Italia nel corso degli ultimi due decenni. La data di pubblicazione del secondo studio sul tema resta tuttavia incerta, così come la natura dei “centri di ricerche indipendenti” che devono attuarla. Riguardo agli “autori presunti” delle aggressioni registrate nelle diocesi italiane e che sono 68, il rapporto della Cei si è limitato a parlare di nebulosi “percorsi di riparazione e conversione”. Non si parla in nessun caso di segnalazioni alle autorità giudiziarie. “Non vogliamo sostituirci alle forze dell’ordine o alla magistratura”, ha dichiarato Mons. Ghizzoni. Il concordato che lega lo Stato italiano al Vaticano garantisce infatti il diritto dei vescovi di non denunciare i fatti di cui sono a conoscenza, e i casi sono trattati nell’ombra di processi canonici o di accordi privati con le vittime. Quanto alla stampa nazionale, essa evita, a parte poche eccezioni, di affrontare di petto l’argomento. “Il moltiplicarsi di studi seri in molti paesi europei ha creato una pressione internazionale che obbliga la Chiesa italiana a reagire, ma il tenore di questo primo rapporto mostra che essa intende limitare la trasparenza e mantenere il controllo dell’informazione”, afferma Federica Tourn, giornalista investigativa, autrice di un’inchiesta approfondita sulle violenze nella Chiesa avviata con il quotidiano Domani.
Per la storica Lucetta Scaraffia, coautrice del libro Agnus Dei (Solferino 2022) sulle violenze sessuali del clero italiano, questo rapporto della Cei, da lei definito “vergognoso”, mostra un “gioco di ruolo destinato a far credere che la Chiesa faccia l’inchiesta, mentre essa vuole ad ogni costo mantenere il suo grande terrorizzato silenzio sull’argomento”. In effetti, con un campo di ricerca così limitato e le sue precauzioni metodologiche, solleva soltanto un piccolissimo angolo del velo che nasconde un continente di sofferenza ampiamente invisibile,
appena sfiorato dalla giustizia umana e dagli strumenti statistici.
Allan Kaval “Le Monde” 20 novembre 2022 (traduzione: www.finesettimana.org)
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221120kaval.pdf
CENTRO GIOVANI COPPIE
“Grammatica dell’inaspettato“
Terzo incontro del ciclo 2022-2023 del Centro Giovani Coppie San Fedele
Giovedì 1° dicembre 2022
Leonardo Becchetti – Economista
“I soldi non sono tutto… oppure sì? Coppia e denaro“
- Incontriamoci di persona alle ore 21,00, nella Sala Ricci in piazza San Fedele 4, a Milano
- vedere e ascoltare la conferenza sul canale YouTube del Centro.
Il denaro non è certamente il centro della relazione di coppia, ma la coppia non può fare a meno di confrontarsi anche col denaro: con la sua maggiore o minore disponibilità, con i suoi possibili usi, con gli stessi significati simbolici che ognuno dei partner gli attribuisce e con quelli che la coppia viene elaborando nel corso della sua storia. Su questi e altri temi ci aiuterà a riflettere Leonardo Becchetti, dal suo punto di vista particolarmente attento ai riflessi sociali e culturali dei fatti economici e finanziari.
Leonardo Becchetti è Professore di prima fascia di Economia politica presso l’Università Tor Vergata. È consultore del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale del Vaticano, membro del Sustainable Development Solution Network’s European Green Deal Senior Working Group, è stato consigliere economico del Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani e membro della commissione del medesimo ministero per la bioeconomia e la fiscalità sostenibile.
È inoltre promotore della Scuola di Economia Civile, presidente del comitato etico di “Etica Sgr”, editorialista di Avvenire e del Sole 24 ore, blogger di Repubblica.it, membro del comitato scientifico del Corriere della Sera “Buone notizie”.
registrazione precedenti incontri
a metà pagina https://centrogiovanicoppiesanfedele.it
CENTRO INTERNAZIONALE STUDI SULLA FAMIGLIA
Newsletter CISF – n. 43, 23 novembre 2022
- Non stare con le mani in tasca! Gradevole video, senza troppe pretese, di qualche anno fa, realizzato per la “Giornata Mondiale della Gentilezza” (13 novembre). Al di là delle ricorrenze più o meno formali, queste poche immagini, senza bisogno di parole, spiegano molto meglio di tanti libri cosa voglia dire “essere in relazione con gli altri”, o meglio, “essere in relazione PER gli altri”, anziché pensare solo a se stessi.[vai al video, 2 min. 18″]. www.youtube.com/watch?v=WN18kGdPHzk
√ Verso il nuovo CISF FAMILY report 2022. Povertà familiare, impatto del covid e strategie di contrasto. Il nuovo rapporto annuale del Centro Internazionale Studi Famiglia, “Famiglia&Digitale. Costi e opportunità” (Edizioni San Paolo), in libreria il prossimo 30 novembre, ha dedicato un capitolo all’impoverimento che ha colpito tante famiglie a seguito del Covid, per la perdita diretta del lavoro, per lunghi periodi di cassa integrazione, per la crisi che ha drammaticamente colpito, in modo diseguale, in particolare alcuni settori economici (viaggi, turismo, spettacolo, i liberi professionisti, …), e di fronte alla quale i vari “ristori” non sempre hanno avuto impatto adeguato. Il capitolo è stato scritto da Roberto Rossini, portavoce nazionale dell’Alleanza contro la Povertà. Il capitolo contiene anche diverse proposte di modifica miglioramento del Reddito di cittadinanza, strumento prezioso ma anche controverso, oggi al centro del dibattito politico ed economico. Una breve intervista all’autore, sulla pagina YouTube del Cisf [7 min]. www.youtube.com/watch?v=A4Go03YPmMk&t=3s
- Fisco e famiglia, se la (mano) destra non sa quello che fa la sinistra…Vedi il commento del direttore Cisf (F. Belletti) su Famiglia Cristiana online [vai al testo].
www.famigliacristiana.it/articolo/fisco-e-famiglia-se-la-mano-destra–non-sa-quello-che-fa-la-sinistra.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_23_11_2022
Nei giorni scorsi, nel dibattito sulla Legge di Stabilità (ancora in fase di approvazione in questi giorni)”…il Governo prevede una riduzione drastica della soglia di reddito nelle detrazioni delle spese per sé o per la famiglia. Sarebbe una decisione molto grave, che non tiene conto dei carichi familiari”. Anche contraddittoria, avendo appena introdotto il quoziente familiare per il Superbonus, e non considerandolo invece in questo caso.
www.famigliacristiana.it/articolo/quoziente-familiare-buona-la-prima.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_23_11_2022
- Fagnano Olona (VA): sabato 3 dicembre 2022, h. 20.45. All’interno del ciclo di incontri “Un caffè con l’autore”, il direttore Cisf (F. Belletti) parteciperà alla presentazione di “Carolina”, l’appassionante storia pluridecennale di Carolina Castiglioni, un’ostetrica attiva per decenni sul territorio dal 1943, “di generazione in generazione”. www.ibs.it/carolina-vita-per-vita-libro-carmelo-corrado-occhipinti/e/9788894280630
Il volume sarà presentato dall’Autore, Carmelo Corrado Occhipinti.
www.famigliacristiana.it/media/img/22cisfnews43.jpg
- Europa. Felicità e vita domestica: l’influenza della casa sul benessere personale e sociale (Happiness and Domestic Life: The Influence of Home on Subjective and Social Wellbeing). La pubblicazione qui linkata (in inglese), promossa dal Social Trends institute (STI),
www.routledge.com/Happiness-and-Domestic-Life-The-Influence-of-the-Home-on-Subjective-and/Russo-Argandona-Peatfield/p/book/9781032208831
è stata realizzata a partire da un seminario sul tema (Happy Homes, Happy Society? The Contribution of Domestic Life in a Time of Social Changes), ed analizza il rapporto tra la qualità dell’ambiente domestico (nei sui aspetti materiali e relazionali) e i livelli percepiti di felicità personale e sociale. Il volume contiene interventi di diverse discipline, e affronta anche l’impatto della pandemia e dei vari lockdown sperimentati, che proprio sulla qualità degli spazi abitativi ha accesso una rinnovata attenzione.
www.socialtrendsinstitute.org/experts-meetings/family/happy-homes-happy-society-the-contribution-of-domestic-life-in-a-time-of-social-changes
- Figli e divorzio, il diritto di crescere con entrambi i genitori [vai all’articolo, su Famiglia Cristiana
www.famigliacristiana.it/articolo/figli-e-divorzio-il-diritto-di-crescere-con-entrambi-i-genitori-.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_23_11_2022.
Al via l’Osservatorio nazionale dei Diritti umani dei figli di genitori separati, promosso dall’associazione Colibrì-Italia. www.colibri-italia.it
Inoltre, saranno bigenitorialità, violenza intrafamiliare, dinamiche alienanti i temi nel programma per il 2023 del Garante per l’infanzia e l’adolescenza di Regione Lombardia (notizie dal convegno “Pari o Dispari? Genitori e figli nella separazione – Quando i diritti umani sono negati”, Milano, sabato 12 novembre 2022).
www.papaseparatimilano.it/mdw2022
- Vittorio Cigoli. Ricordare un Amico. Abbiamo già segnalato l’appuntamento del prossimo 2 dicembre 2022, in Università Cattolica a Milano (Alla ricerca degli intrecci e dei legami nelle famiglie. L’eredità di Vittorio Cigoli) α1942-ω2022. www.unicatt.it/evt-alla-ricerca-degli-intrecci-e-dei-legami-nelle-famiglie
Abbiamo avuto la fortuna di lavorare spesso con Vittorio, in questi anni (sia io personalmente che il Cisf in quanto tale), e il suo ricordo ed eredità rimandano sia al suo pensiero, acuto, innovativo, curioso, sia alla relazione personale che con lui si poteva avere: ironica, rispettosa, accogliente: in entrambi i casi mai banale. Anche con il Cisf esisteva un rapporto significativo, professionale ma anche di amicizia. Mi piace ricordare la ricerca e il volume “Il vello d’oro. Ricerche sul valore famiglia” nel 2000 (solo Vittorio poteva convincere un editore ad un titolo così criptico e insieme evocativo..). Ma soprattutto i suoi interventi in tre Rapporti Cisf davvero complessi: il Primo, nel 1989, nella cruciale fase di avvio del Rapporto Cisf, su coppia e matrimonio (insieme ad Eugenia Scabini); il secondo, in uno dei Rapporti Cisf più complessi e anticipatori, nel 2001, “Identità e varietà dell’essere famiglia” (capitolo dedicato alle separazioni coniugali, con Giancarlo Tamanza), e infine nel 2007, nel Rapporto su “Ri-conoscere la famiglia: quale valore aggiunto per la persona e la società?“, con un capitolo dedicato alle famiglie migranti (ancora con Eugenia Scabini). Insomma, Vittorio Cigoli è entrato in gioco, nei Rapporti Cisf, sui temi più complessi, aiutandone la lettura e l’interpretazione, E – me ne rendo conto solo adesso – sempre scrivendo con altri autori, perché così lui lavorava: mai leader isolato, ma maestro perché capace di lavorare con te (Francesco Belletti).
- Percorsi di formazione. Diritto del minore: dalla prevenzione alla tutela, Master universitario I livello, III Edizione, Anno Accademico 2022-2023. Con attività didattiche in presenza, a distanza e tirocini. Promosso ed organizzato da Università San Raffaele – Roma e da Consorzio Universitario Humanitas, questo Master offre una formazione per intervenire in modo più competenti nei percorsi della giustizia minorile.
- Save the date
- Oxford (UK) – seminari & on line. Ciclo di incontri su Reproductive Migrations: Mobility, Stratification and Reproductive Labour, il giovedì (fino al 1° dicembre 2022), 3:30pm – 4:45pm (London time)
- www.compas.ox.ac.uk/event/reproductive-migrations-mobility-stratification-and-reproductive-labour
- Trento – Seminario in presenza, 30 novembre 2022 (10.00-12.00). Riemergere II – l’indagine che dà voce a bambini/e, giovani e adulti/e in tempi di covid-19, promosso da Fondazione Franco Demarchi,
- www.fdemarchi.it/ita/Centro-di-documentazione/News/Festival-della-famiglia-2022
- in occasione del Festival della Famiglia 2022, evento organizzato dall’Agenzia per la Coesione Sociale della Provincia Autonoma di Trento.
- www.trentinofamiglia.it/News-eventi/Eventi-annuali-dell-Agenzia/Festival-della-famiglia
- Roma. Evento in presenza, 1° dicembre 2022 (h. 15.00). Adozione e famiglia accogliente,
incontro promosso dal Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia. È possibile assistere al Seminario di Studio anche in diretta sul Canale YouTube dell’Istituto. www.youtube.com/c/pontificioistitutoteologicogiovannipaoloii
- Roma. Evento In presenza, 3 dicembre 2022 Verso la civiltà dell’amore. Il peso psicologico della guerra. Sesta edizione del Convegno “Chiesa italiana e salute mentale”, promosso dall’Ufficio Nazionale CEI per la pastorale della salute.
Iscrizione gratuita http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.asp
CHIESA DI TUTTI
Pedofilia, ecco come la Chiesa francese ha reagito allo shock delle rivelazioni
Doveva essere una assemblea abbastanza tranquilla quella dei 120 vescovi francesi (Lourdes 3-8 novembre). È stata travolta da una seconda onda d’urto dopo quella dell’anno scorso quando fu presentato il Rapporto della commissione abusi (Ciase), presieduta da Jean-Marc Sauvé. Allora scoppiò il numero presunto delle vittime (216.000; fra il 1950 e il 2020), ora è esplosa la notizia di 11 vescovi coinvolti, con la presenza fra questi di monsignor Michel Santier e, soprattutto, del cardinale Jean-Pierre Ricard.
Il clamore mediale – sei casi erano già noti, con fattispecie molto diverse – per alcuni nasconde nella nube informativa «che la Chiesa, pur costretta e forzata, sia per ora la sola istituzione che si è assunta la propria responsabilità sistemica sugli abusi sessuali… Nessuna altra istituzione ha ancora trattato la questione delle aggressioni sessuali da parte dei suoi “permanenti” come avrebbe dovuto fare», dice Paul Airiau, della commissione Ciase, a La Croix, 14 novembre.
Per altri la questione abusi non ha esaurito la sua forza distruttiva e la sua interlocuzione radicale ed essa si propone come un «segno dei tempi» che la Chiesa deve ancora decifrare fino in fondo. Anche il prossimo sinodo universale non potrà posporla alle «vere questioni» pastorali, ignorando le riforme strutturali sul versante del clero, della governance e del diritto canonico che essa richiede.
Dal Rapporto Sauvé ad oggi. Nonostante lo scoramento provocato dalla pubblicazione delle informazioni sui vescovi inquisiti, la Chiesa francese ha operato con grande energia sul tema abusi in quest’anno. Il rapporto Ciase parlava di 216.000 vittime presunte, di circa 3.000 preti coinvolti (su 150.000 attivi nel periodo considerato) all’interno di una drammatica realtà che interesserebbe in Francia 5.500.000 vittime di violenze sessuali. Gli orientamenti di lavoro del corposo studio (586 pagine e 2.000 pagine di annessi) sono state: il rapporto diretto per telefono o audizione con le vittime, il pieno accesso a tutti gli archivi (civili, diocesani, religiosi, associativi), decine di assemblee locali, una indagine sociologica su circa 30.000 persone. Per un costo complessivo di 3.5 milioni di euro. Secondo la testimonianza dei 22 commissari i mutamenti più rilevanti rilevati durante l’indagine sono stati: la crescente consapevolezza della forma sistemica degli abusi nella Chiesa, il passaggio da una indagine sui fatti al riconoscimento delle vittime e al loro ruolo di testimoni, l’urgenza di transitare da una giustizia retributiva (che ha al suo centro l’imputato) a una giustizia riparativa (che privilegia l’ottica della vittima e il suo percorso).
I vescovi chiesero al papa un gruppo di visitatori per valutare diocesi per diocesi le prassi e i risultati della protezione dei minori e avviarono nove gruppi di lavoro, presieduti da laici e laiche, per rispondere alle 45 raccomandazioni della Ciase. Essi riguardavano e riguardano: – la condivisione delle buone pratiche rispetto ai casi segnalati;
- il tema della confessione e dell’accompagnamento spirituale;
- la cura dei preti sotto esame;
- il discernimento vocazionale e la formazione del clero;
- l’accompagnamento ai vescovi nella questione abusi;
- il coinvolgimento dei laici nei lavori della conferenza episcopale;
- l’analisi delle cause delle violenze sessuali nella Chiesa;
- gli strumenti di vigilanza e controllo delle associazioni di fedeli con vita comune.
Il fatto e il da farsi. Che cosa è successo in seguito? C’è una parte di questioni che richiedono tempi lunghi e studi accurati. Per esempio, quelle sui temi teologici e canonici. È il caso della teologia del ministero e del prete, la domanda relativa al segreto confessionale (è possibile toglierlo quando il confessore avesse la certezza morale di un imminente pericolo per altre vittime?), il riferimento degli atti di violenza immorali dal piano del sesto comandamento (atti impuri) al quinto (non uccidere), la formazione nei seminari, i cambiamenti auspicati nel diritto canonico e in testi di riferimento come il Catechismo della Chiesa cattolica.
Dovrebbe tuttavia arrivare in tempi brevi l’esito di uno studio sulla teologia di due teologi la cui dottrina si è prestata a giustificazioni intollerabili: Thomas e Marie-Dominique Philippe. C’è una seconda parte di decisioni più immediate che sono state onorate. Il contatto diretto delle diocesi con le procure, suggerito dalla raccomandazione n. 29, è stato avviato da 17 Chiese locali. Ad esempio, Versailles, Reims, Martinica, Bayonne, Rochelle, Pamiers, Coutance, Créteil ecc. Il protocollo facilita la trasmissione alla procura delle segnalazioni di abusi a seguito di una denuncia. Si è avviata del primo aprile l’attività di un unico tribunale ecclesiastico nazionale per questi casi.
La raccomandazione n. 40 parlava di un tribunale penale inter-diocesano e quella precedente (n. 39) suggeriva di creare una raccolta anonima delle sentenze per facilitare i lavori dei giudici diocesani. È partita l’attività di tutti i nove gruppi previsti sotto la presidenza di Hervé Balladour con la previsione di una prima valutazione della loro azione nella primavera del 2023. Sono state avviate o rafforzate alcune strutture centrali come un gruppo nazionale di ascolto e un corrispettivo servizio nazionale.
Gli indennizzi. Prima i religiosi e poi le diocesi hanno dato via libera alle Commissioni di riconoscimento e riparazione che si preoccupano dell’indennizzo finanziario alle vittime. Il fondo nazionale è, per ora, dell’ordine di 20 milioni ed è affidato a competenze laiche. In un contesto di contatto diretto e personalizzato l’indennizzo va da 5.000 a 60.000 euro sulla base di valutazioni che prendono in conto la natura degli atti, la loro durata e frequenza e una considerazione sulle conseguenze. Sono stati risolti alcune decine di casi e sono in esecuzione circa 150 indennizzi, mentre le domande sono oltre 700.
Mancano ancora alcuni adempimenti come un luogo memoriale in onore delle vittime previsto a Lourdes, la verifica sistematica sul casellario giudiziario della posizione di tutti gli agenti pastorali, un documento di riconoscimento canonico dei preti (celebret) a carattere nazionale e non più solo diocesano, una audizione “terza” sul funzionamento delle “cellule di ascolto” in attività nelle diocesi e un coinvolgimento diretto della Conferenza dei vescovi nell’azione educativa dei seminari.
Volontà di rinnovamento .Il clima ecclesiale ha conosciuto nell’anno molte ombre e qualche ferita: il suicidio di un prete a Versailles, una dozzina di interventi di controllo e di censura canonica su fondazioni religiose recenti, alcune accuse di abusi verso preti a Blois, Nizza e Parigi, una visita apostolica al seminario di San Martino (uno dei più “produttivi” del paese).
Pochi degli eventi riguardano gli abusi. Alcuni sono di routine. Altri hanno interessato direttamente i vescovi: le dimissioni per ragioni di opportunità dell’arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit, una visita apostolica alla diocesi di Fréjus-Toulon (mons. Dominique Rey), la dimissione di un giovane vescovo nominato, ma non ancora ordinato, Ivan Brient. E poi la già ricordata ammissione degli 11 vescovi sotto processo canonico o civile (è apparso anche il nome dell’emerito di Strasburgo, Jean-Pierre Grallet).
Mentre si registra una crescita lenta di consapevolezza nelle comunità parrocchiali e di base sul problema abusi (funziona ancora la negazione o la richiesta di “passare ad altro”) il personale ecclesiale e i laici più avveduti si sentono messi di nuovo in discussione. Gli sforzi prodotti non sembrano mai sufficienti. Una condizione ferita anche se non manca – come ha detto nella relazione finale all’assemblea delle Conferenza episcopale il presidente, mons. Eric de Moulin-Beaufort – la volontà di «avanzare in un cammino migliore e di riconquistare passo passo la fiducia consunta o perduta».
Lorenzo Prezzi “Domani” 21 novembre 2022
www.editorialedomani.it/idee/commenti/pedofilia-ecco-come-la-chiesa-francese-ha-reagito-allo-shock-delle-rivelazioni-wx3ithxu
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221121prezzi.pdf
Consumo di pornografia da parte di religiosi e sacerdoti: il Papa sta esagerando?
Papa Francesco ha scatenato di recente un dibattito sulla pornografia e i suoi effetti sulla salute mentale di consacrati e consacrate. Ne abbiamo parlato con un’esperta di protezione di minori.
Papa Francesco ha scatenato di recente una serie di riflessioni su vari mezzi di comunicazione e di commenti sulle reti sociali per le sue considerazioni sull’epidemia di consumo di pornografia digitale da parte di sacerdoti, seminaristi e religiose. La pornografia è “all’ordine del giorno”, ed è “un vizio che ha tanta gente, tanti laici, tante laiche, e anche sacerdoti e suore”, ha osservato in un’udienza senza discorsi preparati che ha concesso ai seminaristi e sacerdoti residenti a Roma il 24 ottobre. La tentazione della pornografia digitale, ha aggiunto, “indebolisce l’anima. Indebolisce l’anima. Il diavolo entra da lì: indebolisce il cuore sacerdotale”. Il Pontefice ha anche sottolineato che “il cuore puro, quello che riceve Gesù tutti i giorni, non può ricevere queste informazioni pornografiche”, e che se si ha materiale pornografico sul cellulare va eliminato per non avere “la tentazione alla mano”.
Il Papa sta esagerando? “La pornografia digitale è una minaccia molto reale, come avverte il Papa”, ha commentato ad Aleteia la religiosa María Rosaura González Casas, STJ [Superior Tribunal de Justiça], psicologa con più di trent’anni di esperienza, specializzata nell’accompagnamento di consacrate e consacrati e docente presso l’Istituto di Psicologia della Pontificia Università Gregoriana (PUG) di Roma.
“Un questionario compilato da 1417 religiose dell’America Latina e del Caribe, realizzato dalla Commissione per la Protezione dei minori della Confederazione Latinoamericana per i Religiosi (CLAR), dimostra che una consacrata su tre ha avuto un problema collegato alla pornografia su Internet”. Il fenomeno del consumo di pornografia è aumentato notevolmente con la pandemia, ed è possibile che si sia incrementata la dipendenza dal porno. Secondo l’esperta, è considerata una dipendenza, ovvero un fatto che non si può controllare, quando si consuma materiale pornografico dieci ore a settimana. Durante il lockdown, Internet è diventato un luogo di incontro per alcuni, e di fuga, evasione e perfino rifugio per altri.
“Porno e traffico di esseri umani sono le due industrie più lucrose del mondo, e convivono. In un unico giorno del 2018, 92 milioni di persone hanno visitato un solo sito pornografico”, ha detto la psicologa. Netflix o Amazon Prime, o altre piattaforme streaming di intrattenimento convenzionale, in quel periodo potevano solo sognare di raggiungere quei numeri in una giornata.
L’accessibilità del materiale pornografico Applicando l’analisi al consumo di contenuti per adulti da parte di religiose e religiosi, l’età media spazia dai 30 ai 50 anni, ha indicato l’esperta. “I ragazzi e le ragazze che entrano nei seminari e nella vita religiosa provengono dallo stesso ambiente che vive la società, ed è possibile che alcuni di loro prima di entrare in seminario e nella vita religiosa abbiano avuto qualche contatto con spazi in cui appare la pornografia, visto che su Internet c’è una vera invasione di contenuti sessuali”.
Il porno è ben presente in rete, anche se non in modo diretto, sotto forma di annunci. La psicoterapeuta sostiene che “ad essere in difficoltà per questo problema sono circa il 7% dei sacerdoti o seminaristi e il 3% delle religiose”, e che “i religiosi e le religiose accedono a questi spazi cibernetici per diversi motivi”.
La pornografia, droga del millennio. La pornografia è la droga del millennio. “Si diffonde molto facilmente perché è accessibile a tutti, perché è gratuita, perché mantiene l’anonimato, perché è interattiva e perché è personalizzata, anche se depersonalizza le persone e provoca una dipendenza”. Il problema è grave nella società, e trova la sua radice “nel fatto che il 50% dei giovani adulti visita regolarmente spazi pornografici, e il 70% dei ragazzi e delle ragazze ha ricevuto almeno una volta immagini pornografiche” via web.
L’epidemia di porno ha bisogno di un controllo da parte delle grandi compagnie tecnologiche del web, sostiene la religiosa, perché “è un danno non solo per religiosi, seminaristi e sacerdoti, ma anche per tutta la gioventù: sette adolescenti su dieci consumano materiale pornografico”.
Materiale porno come la cocaina Dalla visione di contenuti sessuali espliciti per sbaglio o per curiosità si può arrivare alla “dipendenza che distrugge tutto”, insiste suor María Rosaura, che è anche docente del corso di Esperienza dell’integrazione psico-spirituale presso la PUG. “Visionare contenuti pornografici libera nel cervello varie sostanze (tra le altre, dopamina, serotonina e ossitocina), con effetti molto simili a quelli della cocaina, delle droghe, ed è questo che crea dipendenza”. “Diciamo che è il contatto con il male, perché usa le persone ‘come oggetti’ per il proprio piacere e consumo. Nella pornografia, si esercita un potere sulle altre persone per usarle a proprio piacimento, anche se in modo digitale, e questo distrugge la possibilità di relazioni dignitose e rispettose”.
La pornografia avvelena l’anima? L’esperta ritiene che la dipendenza dalla pornografia sia un “male gravissimo” che influisce sul cervello: “sul processo cognitivo, a livello di memoria, riflessione, capacità di concentrazione, attenzione, fantasia, immaginazione”, ma anche sulla volontà, perché si crea una dipendenza. La dipendenza dalla pornografia, aggiunge, “associa emozioni e sentimenti incompatibili” che danneggiano fortemente la persona: “ad esempio, l’eccitazione sessuale con la rabbia, con la paura, il senso di impotenza, il senso di colpa”. E “per le relazioni è un danno gravissimo usare immagini o rappresentazioni di persone senza un legame reale, il che potenzia la fantasia di dominare totalmente la persona”. La dipendenza dalla pornografia “crea al contempo una sensazione di vuoto, di anestesia del dolore”.
Ary Waldir Ramos Díaz , Colombia α– Alateia plus 21 novembre 2022
Prossimamente verranno pubblicate–su Aleteia la seconda e la terza parte di questo approfondimento, sul consumo di materiale pornografico da parte di donne consacrate e di seminaristi
CHIESA IN ITALIA
Giancarlo Martini: a Pallanza, il clericalismo punisce la sinodalità
intervista a Giancarlo Martini a cura di Luca Kocci
in “Adista” Notizie – n 40 del 26 novembre 2022 https://www.adista.it/edizione/5057
È trascorso un anno da quando alla comunità di Santo Stefano, nella omonima parrocchia di Pallanza, è stata imposta dal proprio vescovo (di Novara), mons. Franco Giulio Brambilla, una sorta di “omologazione liturgica”, azzerando di fatto il lavoro di rinnovamento del linguaggio avviato da decenni, sulla scia del Concilio, per renderlo davvero comprensibile alle donne e agli uomini di oggi (v. Adista Notizie n. 42/21).
Nulla di eversivo o di eterodosso: la comunità – che non è una Comunità di Base “classica”, ma è pienamente inserita nella parrocchia – si limitava ad adottare, durante la celebrazione eucaristica, alcuni testi eucologici (colletta, preghiera offertoriale, prefazio, preghiera dopo la comunione) “autoprodotti”, oltre alla preghiera penitenziale e alle preghiere dei fedeli diverse da “quelle del foglietto”. Atto grave, secondo il vescovo: «non è consentito in alcun modo né al vescovo, né al sacerdote, né ai laici alterare o manomettere, tanto meno scrivere di nuovo, nessuna orazione e prefazio dell’eucologia, poiché si tratta del cuore della preghiera liturgica, che non è nostra, ma della Chiesa madre», scriveva nella notificazione del 3 ottobre 2021 mons. Brambilla, che pure nel 1989, prima della consacrazione e della nomina episcopale, aveva sottoscritto la famosa “lettera ai cristiani” dei 63 teologi italiani in cui manifestavano il disagio per le spinte regressive che attraversavano la Chiesa cattolica (v. Adista n. 38/89). Gli unici elementi sfuggiti alla censura episcopale che sopravvivono nell’eucaristia domenicale parrocchiale – a cui la comunità continua a partecipare regolarmente – sono le preghiere dei fedeli e la preghiera penitenziale, quest’ultima però previo il nihil obstat del parroco. Abbiamo intervistato
Giancarlo Martini, uno dei componenti della comunità di Santo Stefano. È passato poco più di un anno dalla notifica del vescovo. Cosa è accaduto intanto? Dal giorno della notifica non è più possibile utilizzare i testi eucologici (colletta, preghiera offertoriale, prefazio, preghiera dopo la comunione) predisposti dalla nostra comunità, peraltro all’interno di quel cammino, percorso da molte parrocchie e che dura da oltre cinquant’anni, di rinnovamento del linguaggio liturgico, per renderlo udibile e comprensibile alle donne e agli uomini di oggi. Inoltre ci è stato imposto anche di interrompere l’esperienza, portata avanti da più di dieci anni, del prendere la parola durante la liturgia: una persona della comunità, dopo la lettura del Vangelo e prima dell’omelia del prete, offriva un proprio contributo. Era un importante elemento di protagonismo battesimale ed ecclesiale. Il prendere la parola è stata l’esperienza che più ha fatto sentire le persone di essere davvero celebranti. Il non sentirci più celebranti, ma solo spettatori o tuttalpiù fruitori di un servizio è forse il frutto più amaro di quanto avvenuto. Da allora il prete di turno – spesso si sono alternati durante l’anno tre diversi presbiteri, ognuno evidentemente con la propria sensibilità e apertura – non ha più presieduto la celebrazione della comunità, non si è messo più nella postura di colui che è chiamato a far sì che la comunità celebri e partecipi, ma ha assunto soprattutto il ruolo del celebrante di fronte alla comunità.
Quale è stata la vostra risposta, per cercare di salvare il cammino di questi anni?
Abbiamo cercato durante quest’anno di impedire l’azzeramento della nostra esperienza, inserendo nel foglio che predisponiamo per la celebrazione dell’eucaristia domenicale un breve commento scritto da una persona della comunità e prendendo la parola durante la preghiera dei fedeli. Purtroppo tutto questo impegno si inserisce in un contesto generale che va in tutt’altra direzione, dato il ruolo preponderante del prete, da cui dipende in larga misura l’atmosfera che si respira durante la celebrazione.
Tutto questo succede proprio mentre la Chiesa italiana, insieme a quella universale, dovrebbe essere in pieno cammino sinodale, fra l’altro sul tema della sinodalità: un bel paradosso! Infatti è stupefacente o quanto meno singolare che la brusca frenata al nostro cammino ci sia stata imposta proprio nel momento in cui la Chiesa italiana promuoveva la prima fase di un cammino sinodale, «un biennio di ascolto di ciò che lo Spirito dice alle Chiese attraverso la consultazione del popolo di Dio nella maggiore ampiezza e capillarità possibile», «coinvolgendo il più possibile anche persone che non sono e non si sentono “parte attiva” della comunità cristiana». Credo che sia difficile poter immaginare un’esperienza tanto contraria alla sinodalità, al camminare insieme, quanto quella che a noi è capitato di vivere. Come ben sappiamo lo stile sinodale non è qualcosa di marginale nella vita di una comunità cristiana. Come ha affermato papa Francesco «la sinodalità, il camminare insieme, è dimensione costitutiva della Chiesa, è la via costitutiva della comunità cristiana».
Fra i tanti, il nodo sembra essere quello del clericalismo? Come da prassi consolidata il nuovo parroco ci è stato assegnato senza alcuna forma di previa consultazione, paracadutato dall’alto e, prima ancora di insediarsi, non solo non si è messo nella disposizione di un ascolto attento e prolungato del cammino fatto dalla nostra comunità, ma ha richiesto l’intervento dell’autorità per interrompere quel poderoso lavoro di aggiornamento delle preghiere liturgiche iniziato con passione da don Giacomini nei primissimi anni ‘70 e proseguito successivamente. Inoltre si è provveduto ad allontanare qualunque prete che in qualsiasi forma avesse condiviso il nostro cammino, addirittura esonerando per telefono un prete novantenne dal presiedere le nostre eucaristie. E, come facilmente è comprensibile, senza la presenza di un prete che favorisca o perlomeno non ostacoli il cammino, nella Chiesa istituzione si chiudono tutti gli spazi. Certo rimangono aperti spazi di cammino comune fuori dalle chiese, nelle nostre case, che da tempo stiamo percorrendo, ma si tratta di un’altra cosa.
Cosa bisognerebbe fare? Sarebbe necessario un confronto aperto, ricco di ascolto e di parresia, sui grandi orientamenti che dovrebbero guidare il cammino di una comunità fraterna in cui tutti sono discepoli dell’unico maestro, sul modo di concepire la comunità e i ministeri (piramide rovesciata), sul persistente e inscalfibile clericalismo di preti e laici, sul modo di concepire e vivere la liturgia e la centralità delle Scritture, sul modo di intendere l’unità non come uniformità appiattente imposta dall’alto ma come valorizzazione delle ricchezze espresse da ogni comunità, sul modo di concepire il rapporto tra comunità ecclesiale e la città in cui è inserita e di cui fa parte, per vivere e testimoniare l’essere con e per gli altri. Sarebbe infine necessario che venisse chiesto scusa al prete novantenne, al quale tredici mesi fa è stato burocraticamente e poco umanamente comunicato per telefono di essere esonerato dal presiedere le nostre eucaristie. È il minimo che si possa.
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221122martinikocci.pdf
Un’immagine e un testo di don Di Noto (Meter) per sensibilizzare sugli abusi contro le bambine
“Ti proteggerò, piccola donna inviolabile”. Con queste parole e una immagine che l’accompagna, l’associazione Meter, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne di domani, ha pensato di ricordare le “piccole donne”, le bambine che vengono violate fin dalla tenerissima età. Una violenza che ha ripercussioni indelebili per la salute psico-fisica della persona.
Le violenze vengono perpetrate fin da piccole e le varie fonti statistiche confermano che il 75% degli abusi e delle violenze viene perpetrato sulle bambine, in tenerissima età fino all’età prepubere e oltre. “L’immagine che raffigura delle scarpette rosse da bambina con un testo di don Di Noto: ‘Ti proteggerò, piccola donna inviolabile’, è un modo efficace – si legge in un comunicato – che ogni anno viene riproposto da Meter, per sensibilizzare l’opinione pubblica a essere responsabili e vigili contro ogni forma di violenza: partendo dalle ‘piccole donne’, le bambine”.
(G.P.T.) Agenzia SIR 24 novembre 2022
www.agensir.it/quotidiano/2022/11/24/violenza-sulle-donne-unimmagine-e-un-testo-di-don-di-noto-meter-per-sensibilizzare-sugli-abusi-contro-le-bambine
Preti e pedofilia noi cattolici cinici
La colpa è nostra. La colpa è di noi, cattolici italiani, che – nonostante i tanti scandali, le tante prove (basta dare un’occhiata al sito della rete l’abuso)- non siamo stati capaci di chiedere alla conferenza episcopale una indagine vera, autonoma, sugli abusi commessi dal clero nel nostro paese, come è stato fatto dai cattolici francesi e dai cattolici portoghesi, che hanno obbligato a questa scelta le loro gerarchie ecclesiastiche. E neppure i laici se ne sono interessati, mettendo ad esempio in campo una inchiesta come ha fatto in Spagna il quotidiano laico Pais.
Noi cattolici italiani siamo evidentemente cattolici cinici. Per noi evidentemente la chiesa non è un luogo dello spirito ma una semplice istituzione di potere a cui è più prudente non contrapporsi. Mai. Solo questo può spiegare il fatto che i vescovi italiani e il loro presidente ci presentino una inchiesta che non è possibile definire altro che vergognosa, spacciandola per un lodevole passo avanti nella lotta contro gli abusi. Una inchiesta che si basa solo sugli ultimi due anni, cioè gli unici in cui sono stati aperti – e neppure in tutte le diocesi – appositi centri di ascolto per le vittime. Una inchiesta infine che non tiene conto delle denunce presso alla giustizia penale italiana, quasi che tutti dovessero e potessero fidarsi dell’autorità diocesana e delle sue pseudo indagini. Una inchiesta quella della Cei, che già nel titolo “Proteggere, prevenire, formare” rivela che i vescovi preferiscono non parlare di giustizia. L’attività prevalente di tutti i centri, di tutte le commissioni (sempre numerose e così inutili che spesso non sono neppure mai convocate) che la chiesa mette in campo è la “formazione”. Un termine passe-partout continuamente usato nel mondo ecclesiastico per coprire imbarazzi, per soffocare scandali o conflitti interni. Ma il clero italiano ha veramente bisogno di una formazione apposita per sapere che non bisogna abusare di minori e di donne? C’è bisogno veramente di una formazione perché i fedeli si accorgano se cominciano a intercorrere rapporti inappropriati fra un prete e dei giovani? Quello che è necessario piuttosto è coraggio, è soprattutto farla finita con l’antica abitudine clericale di soffocamento degli scandali, alla prassi di far finta sempre di non vedere. E sia chiaro: un eventuale cambiamento del genere sarà vero e credibile solo se i colpevoli verranno riconosciuti e puniti, se no tutto il resto è finzione e aria fritta.
Come è finzione riempire di psicologi e educatori i centri di ascolto dedicati alle vittime: quasi che il problema fosse ridurre l’abuso a un problema psicologico personale delle vittime stesse e non innanzi tutto un reato da denunciare. Del resto, non a caso anche per i colpevoli il documento della Cei parla sempre di rieducazione, assistenza… mai di denuncia. Sì, ci sono soprattutto laici, in questi centri di ascolto, anche un buon numero di donne. Ma chi sono? Uno almeno so chi è, è l’avvocato che abitualmente difende i preti abusatori. Che è come dire mettere le vittime nella bocca del lupo. Il metodo dei centri è il preludio per passare al patteggiamento. Quel patteggiamento per cui una famiglia indigente – i minori abusati sono sempre poveri – riceve una somma risibile in cambio del silenzio. I centri di ascolto sono minuziosamente monitorati dalle gerarchie diocesane, sono ben attenti a non informare l’opinione pubblica, vivono in una atmosfera di soffocamento forte; solo in Calabria, pare, hanno stabilito un rapporto con il Tribunale dei minori. Vantano pure una fitta attività di messe per le vittime, in cui, però, non si chiede mai perdono. Quale differenza con la chiesa francese! La quale ha avuto il coraggio di dar vita a una inchiesta indipendente e di avviare un percorso liturgico di perdono da parte della Chiesa, oltre che preoccuparsi di risarcire dei danni le vittime.
Nella chiesa italiana invece nulla di tutto questo. La chiesa italiana preferisce tenere gli occhi chiusi fingendo di aprirli. Ma davvero ci meritiamo una chiesa siffatta?
Lucetta Scaraffia “La Stampa” 19 novembre 2022
A proposito di cinismo Chiesa e abusi sui minori
La pedofilia, nel senso degli abusi sessuali su minori, è uno dei mali più grandi dell’umanità. Una piaga aperta e in aggravamento, secondo chi la contrasta. Essa ha riguardato e ancora riguarda pure la Chiesa cattolica che è stata spinta, da coraggiose denunce delle vittime e da serie inchieste giornalistiche, ad affrontarla con dolore e altrettanta decisione in diverse parti del mondo. Anche in Italia è così. E giovedì 17 novembre è stato presentato il primo Rapporto Cei sul tema, basato su dati di realtà. “Avvenire”, unico giornale italiano, ha aperto la prima pagina di venerdì 18 sulla notizia con un titolo piuttosto chiaro: «Panni sporchi» e ampi servizi con dati e approfondimenti.
Su “La Stampa”, la storica Lucetta Scaraffia, ha duramente commentato ieri, sabato 19, la notizia del Rapporto senza che questo venisse mai illustrato ai lettori del giornale torinese (che il giorno prima aveva dedicato due pagine a una bella intervista a papa Francesco e, dunque, forse non aveva altro spazio). Scaraffia definisce «cinici» i cattolici italiani e sostiene che non meritano una Chiesa che andrebbe avanti a occhi chiusi. E scrive questo proprio mentre la Chiesa italiana comincia a lavare in pubblico quei «panni sporchi» (e speriamo che altri, in Italia, seguano l’esempio).
La critica è libera, necessaria e spesso salutare. Ma dire che ciò che fa la Chiesa contro gli abusi è niente è semplicemente una falsità. I cattolici italiani, infine meritano più rispetto e, in generale, lo meritano i lettori di qualunque giornale. Offrire commenti separati dalle cronache dei fatti, non può significare non dar conto dei fatti. E neanche presentarli in modo distorto. A pensarci bene, proprio questa attitudine realizza una forma di cinismo.
Marco Tarquinio, direttore “Avvenire” 20 novembre 2022
www.avvenire.it/opinioni/pagine/editoriale-direttore-marco-tarquinio-articolo-lucetta-scaraffia-su-stampa- chiesa
www.msn.com/it-it/notizie/other/a-proposito-di-cinismo-chiesa-e-abusi-sui-minori/ abusi-ar-AA14jfu9
Gli errori dei vescovi sulla pedofilia
Il direttore di Avvenire Marco Tarquinio non ha trovato altro argomento per replicare alle critiche da me avanzate su questo giornale all’inchiesta promossa dalla Conferenza episcopale italiana sugli abusi sessuali nell’ambito della Chiesa, che appellarsi a quanto ha fatto la Chiesa stessa per contrastarli. Una giustificazione quanto mai generica, perché non si può certo negare che nell’inchiesta presentata dalla Cei – così come in tutti i discorsi che l’hanno preceduto – manchi un aspetto decisivo: quello della giustizia dovuta alle vittime (nel documento è assente la stessa parola). Giustizia intesa sia come tribunali a cui rivolgersi affinché vengano puniti i colpevoli, sia intesa come risarcimenti dovuti dall’organizzazione ecclesiastica per i danni inferti dai suoi membri: danni, è bene ricordarlo, che durano tutta la vita.
Lo stesso Tarquinio, poi, cade in un’altra brutta abitudine tipica delle gerarchie ecclesiastiche: per attenuare le proprie colpe citare gli analoghi abusi che vengono commessi anche nell’ambito di famiglie, associazioni sportive, ecc. secondo lui non altrettanto sanzionati dall’opinione pubblica. Non trova di meglio invece che ripetere che in questo campo la reazione della Chiesa sarebbe un esempio per tutti. Ma ancora una volta bisogna ricordarlo: la Chiesa non è una istituzione qualsiasi. Essa rappresenta la testimonianza di Dio sulla terra, quindi il male che ad essa e ai suoi membri è imputabile è mille volte più grave. Senza contare che spesso capita che essa si serva della propria autorevolezza proprio per mettere a tacere le vittime. Proprio per questo noi credenti non possiamo non trovare particolarmente scandalosa la sistematica cancellazione delle vittime e la continua virtuale protezione dei colpevoli. Noi che vorremmo che la Chiesa fosse impegnata a difendere verità e giustizia, e non vorremmo che soffocasse l’una e l’altra in un ammasso gelatinoso di provvedimenti tappabuchi, infarciti di progetti di “accompagnamento” e di “riabilitazione” inutili e rivestiti di falsa compassione, equamente distribuita fra vittime e colpevoli.
Lo ripeto ancora una volta: la prevenzione è vera e efficace solo se prima si agisce con coraggio per appurare la verità e si procede a processare i colpevoli portandoli davanti alla giustizia.
{Ciò agirebbe anche per la deterrenza [dall’inglese. deterrence]: potere di distogliere da un’azione dannosa per timore di una punizione. Ndr}
Lucetta Scaraffia “La Stampa” 21 novembre 2022
www.lastampa.it/editoriali/lettere-e-idee/2022/11/21/news/caro_tarquinio_sulla_pedofilia_sbagli-12252591
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221119scaraffia.pdf
Primo report Cei sugli abusi: mille parole, qualche opera e tante omissioni
«Non sono azioni scenografiche, i numeri dicono che c’è una sensibilità che si estende»: suona come una excusatio non petita la frase pronunciata dal segretario generale della Cei mons. Giuseppe Baturi alla conferenza stampa di presentazione, il 17 novembre – con lo slogan “Proteggere, prevenire, formare” – del primo Report sulla rete territoriale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili.
www.chiesacattolica.it/primo-report-nazionale-sulle-attivita-di-tutela-nelle-diocesi-italiane
TESTO integrale www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2022/11/17/PrimoReport.pdf
TESTO sintesi www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2022/11/17/PrimoReport_Sintesi.pdf
News Ucipem n. 937, pag.16
Perché a giudicare dalle cose che mancano e da quelle scarsamente comprensibili, l’impressione che si ricava è proprio quella di una grande azione scenografica. E suona anche come una sorta di giustificazione il mantra «È un primo passo» ripetuto fino alla nausea da tutti i relatori. Un primo passo, già, ma in quale direzione? Perché a leggere con attenzione le tabelle e i dati delle 41 pagine del Report – elaborati dall’Università Cattolica di Piacenza sulla base di tre questionari somministrati ai diversi referenti e a successive interviste telefoniche – si ha l’impressione che i limiti metodologici dell’operazione – già evidenti quando il card. Matteo Zuppi, neopresidente della Cei, la presentò, il 27 maggio scorso, troncando la speranza di chi voleva una commissione indipendente che facesse verità sul fenomeno – abbiano condizionato pesantemente i risultati, e che l’elefante abbia partorito un topolino, come prevedibile.
Le 41 pagine del Report, in realtà (che si vorrebbe annuale; ma già mons. Lorenzo Ghizzoni, presidente del Servizio tutela minori della Cei, sospirava “speriamo…”) altro non sono che un’analisi dello «stato dell’arte nel biennio 2020-2021 in merito all’attivazione del Servizio diocesano o inter-diocesano per la tutela dei minori» (SDTM/SITM), del Centro di ascolto e del Servizio regionale per la tutela dei minori (SRTM) nelle diocesi italiane». Ovvero, una sorta di “inventario” dei centri presenti nelle 226 diocesi italiane, con i dati sulla modalità di intervento, sugli operatori, sulle attività esercitate. A vedere i dati assoluti, ad esempio, sembrerebbe di poter constatare un profluvio di incontri formativi ma, estrapolando il dato, emerge che questi incontri sono stati, in ogni diocesi, 4 o 5, e peraltro nemmeno in tutte (90,3%).
I dati più interessanti, però, sono quelli che riguardano, ancora a monte, l’adesione delle diocesi al rilevamento: si scopre infatti che delle 226 diocesi italiane, solo 166 sono quelle che hanno risposto (che diventano 158 considerando che otto servizi sono a carattere interdiocesano). Quindi: ben 60 diocesi non hanno risposto, quasi un quarto del totale. E tra queste, si trova clamorosamente quella di Piazza Armerina, che pure è sede del caso Rugolo (www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221114tourn.pdf) pedo criminale sotto processo canonico e civile. Come mai così tante diocesi hanno potuto impunemente sottrarsi a questa indagine?
Altro dato sconcertante riguarda i centri d’ascolto: sui 90 attualmente esistenti (nel 70% delle diocesi), solo 30 hanno ricevuto segnalazioni. Troppo poche, il che significa, o potrebbe significare, che qualcosa è partita storta nell’ideazione stessa dei centri. Ad esempio, il fatto che il referente diocesano sia in più della metà delle diocesi un prete, è un forte deterrente alla denuncia di un abuso. Quanto ai Servizi regionali per la tutela dei minori (16, poiché alcune regioni sono accorpate), essi offrono quasi esclusivamente iniziative di carattere formativo, coordinate da referenti che sono per lo più sacerdoti (10 su 16) e hanno competenza psicologiche (8) e canonistiche (5).
I dati. Formazione, iniziative in collaborazione con altri enti, ecclesiali e no (ma si scopre che la cooperazione con enti non cattolici, con enti locali e società civile [Tribunale per i minorenni, consultori familiari] è molto debole), estensione capillare della sensibilità su questi temi sono tutte fasi doverose, certamente, ma per una istituzione che vuole fare tutto in casa risultano inevitabilmente misure parziali e costringono a tempi molto lunghi. Due anni (o, piuttosto, «un anno e mezzo», come stato precisato, considerando l’emergenza pandemica e il lockdown), sono un periodo di osservazione molto breve.
D’altra parte, occorre osservare che è molto alto, per questo arco temporale molto ridotto (e considerando che sfuggo a questo conteggio le segnalazioni arrivate alle autorità civili, oltre ovviamente a tutto il sommerso), il dato di 86 contatti nel biennio, per un totale di 89 presunte vittime (33 tra i 15 e i 18 anni e 28 trai 10 e i 14 le fasce di età prevalenti) e di 68 presunti autori di reato; i presunti reati segnalati (79) si riferiscono tanto a casi recenti (52,8) quanto a casi del passato (47,2%) già conclusi nel loro iter o ancora al vaglio delle autorità. Quanto ai presunti autori, si tratta per il 58,8% di persone tra i 40-60 anni all’epoca dei fatti e per il 44,1% di chierici, per il 33,8% di religiosi e per il 22,1% di laici. E mentre le «numerose opzioni» offerte alle vittime dai Centro d’ascolto comprendono, banalmente, per lo più (43,9%) “Informazioni e aggiornamento circa l’iter della pratica”, seguite dall’“incontro con l’ordinario” (24,6%) e solo nel 14% da un accompagnamento psicoterapeutico, ai presunti soggetti abusanti vengono proposti “comunità di accoglienza specializzata” e “accompagnamento psicoterapeutico”.
Assenze significative. Al di là dei dati numerici, che fanno comunque riflettere, il tono dell’iniziativa l’hanno dato i relatori CEI alla conferenza stampa (accanto a loro, la ricercatrice Barbara Barabaschi e il prof. Paolo Rizzi dell’Università Cattolica di Piacenza, autori della ricerca, don Gianluca Marchetti, direttore del Servizio tutela minori della Diocesi di Bergamo, Chiara Griffini, referente del Servizio tutela minori della Diocesi di Piacenza-Bobbio). Ma, in primo luogo, ha sconcertato la clamorosa assenza del card. Zuppi, che pure aveva presentato con enfasi, lo scorso maggio, la “via italiana” della lotta agli abusi.
Si deve registrare anche l’assenza di qualsiasi riferimento a un risarcimento per le vittime: il termine non compare una sola volta nelle pagine del Report. E infatti, come è stato sottolineato da parte Cei, per ora non sono contemplati. Contemplata, invece, una sorta di “manleva” nei confronti delle vittime che non vogliono denunciare alla magistratura, con la firma di una dichiarazione nella quale confermano la loro decisione di escludere il ricorso alle autorità civili. Una misura fatta evidentemente per “pararsi” da futuribili accuse. Resta, ha detto don Marchetti, «la libertà di chiunque di rivolgersi a chi vuole, polizia o mass media o autorità giudiziarie».
Quanto alla parte ancora mancante della ricerca CEI, quella sui dati 2000-2021 in possesso del dicastero vaticano per la Dottrina della Fede (i protocolli sono solo ora in via di definizione, è stato detto), è stata clamorosa, in conferenza stampa, la rivelazione del dato numerico sui casi vaticani, da sempre sconosciuto, che i vari presidenti CEI succedutisi nel tempo dichiaravano aggirarsi sotto al centinaio. «Il numero dei fascicoli transitati dalla CDF dal 2000 è di 613», è stato infatti comunicato.
Un altro “buco nero” è quello relativo alla collaborazione con l’Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile afferente al Ministero della Famiglia, organismo già in sé piuttosto evanescente, alla quale la Chiesa italiana sarebbe invitata nella veste di osservatore permanente.
È stato invece presentato come un sesto punto, assente dalla strategia esposta da Zuppi a maggio, e dunque inserito di recente, il piano di collaborazione tra Cei e Commissione per la tutela dei minori del Vaticano, che lavorerà a livello di scambio di informazioni. Ancora una volta, non è stato spiegato dai rappresentanti della CEI perché non si sia scelta la strada di una commissione indipendente come in tanti altri Paesi. «Abbiamo assunto un approccio articolato che prova ad avanzare insieme, un tentativo di costruire un percorso», hanno detto i rappresentati Cei; «Tutto è perfettibile, abbiamo appena ricevuto questi dati e faremo le nostre valutazioni», ha detto mons. Baturi; «il cambiamento di mentalità sta proprio nell’uscire dalla logica del singolo caso, bisogna affrontare in modo sistematico in termini di accertamento della verità». Certo. Poi, però, di fronte a una domanda sulla Francia e sui numerosi casi di vescovi abusatori o insabbiatori emersi in questi giorni, mons. Ghizzoni stringe le spalle: «Colpisce e fa star male, ma cosa si può dire?». Già. Peraltro, Vos estis lux mundi, il motu proprio di papa Francesco del 2019 che cerca di mettere spalle al muro i vescovi insabbiatori, costringendoli all’obbligo morale di denunciare alla CDF casi di cui siano a conoscenza, è giudicata da Ghizzoni passibile di mitigazioni, in una prossima versione 2.0, forse più canonisticamente raffinata.
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 40 26 novembre 2022
Pedofilia, perché in Italia i preti sotto accusa riescono sempre a cavarsela
In Italia si parla poco e malvolentieri degli abusi del clero. Anzi, pare che quanto più emergono i dati allarmanti delle inchieste in altri paesi europei tanto più si voglia tacere, anche se ultimamene non si osa più, da parte clericale, vantare l’apparente minore coinvolgimento italiano. I motivi di questo silenzio sono molti, radicati nella storia: una istituzione ecclesiastica sempre molto legata al potere, cattolici che si sentono più aderenti a una parte politico-sociale che credenti i quali cercano di realizzare l’insegnamento evangelico.
Così, mentre altrove in Europa è la stessa comunità cattolica che spinge le gerarchie a fare chiarezza sul tema degli abusi con inchieste indipendenti, da noi si evita di pensarci. Il risultato è che le poche notizie che filtrano dalla cortina di omertà che copre tutto sono da decenni di tipo scandalistico. L’argomento si presta, e molto, alle descrizioni pruriginose, diffuse da rotocalchi e programmi televisivi.
I pochi dati. Ma niente di serio è stato fatto finora, se non la raccolta dati organizzata da una vittima, Francesco Zanardi, nel sito Rete L’Abuso, che raccoglie testimonianze, articoli di giornali, documenti processuali degli ultimi dodici anni. Una raccolta che – pur composta da materiale eterogeneo e difficilmente classificabile in un insieme coerente – è utilissima e fondamentale per farsi una prima idea del fenomeno in Italia. Tutto quello che si rivela sul tema abusi del clero in Italia viene da lì.
Su questo materiale abbiamo lavorato in cinque donne – Lucetta Scaraffia, Anna Foa, Franca Giansoldati, Mariella Balduzzi, Mariangela Rosignoli, quattro delle quali nonne – per molti mesi, e il risultato è nel libro Agnus dei. Gli abusi sessuali del clero in Italia, uscito da Solferino nel maggio del 2022. Pur non potendo trasformare i dati raccolti in un sistema di classificazione sistematico, ci siamo rese conto che analizzando queste fonti era possibile arrivare ad alcune conclusioni importanti. Le più rilevanti riguardavano, soprattutto, gli aspetti finanziari del problema, dei quali si parla in genere poco o niente.
Pagare il silenzio. Innanzi tutto le vittime sono sempre appartenenti a famiglie disagiate, non poche addirittura a famiglie assistite economicamente dalle parrocchie. Famiglie per le quali qualche regalo del parroco può essere sufficiente a far chiudere gli occhi, se non bastasse la paura di perdere i pochi soccorsi che ricevono. Famiglie che non conoscono avvocati, che hanno paura di entrare in un tribunale, quindi candidate naturalmente a non denunciare in caso di abuso. In corrispondenza allo stato di indigenza delle famiglie degli abusati vi è spesso la capacità del prete abusatore di raccogliere soldi grazie a collette varie, per esempio in occasione di feste religiose, che gli garantiscono la quantità di denaro liquido necessario al mantenimento della dipendenza delle vittime. Nel caso poi di una denuncia da parte della vittima il denaro è doppiamente necessario, ma questa volta interviene direttamente la diocesi, che – come è capitato – ricorre ai fondi che le arrivano dall’8‰ (destinati invece alla carità, al mantenimento degli edifici di culto e così via) per tacitare lo scandalo. Il primo tentativo è quello di ottenere il silenzio della vittima versando una somma di denaro in cambio della rinuncia a parlare. Il fatto che le somme stanziate in questi casi siano ridicolmente basse (dai 10.000 ai 25.000 euro) dà l’idea dello stato di indigenza delle famiglie coinvolte, per le quali evidentemente costituiscono somme importanti. Se la vittima e la sua famiglia non accettano il patteggiamento, il denaro della diocesi – e questa volta in misura decisamente maggiore – diventa risorsa fondamentale per pagare l’avvocato del prete accusato, quasi sempre un ottimo difensore.
Il potere degli avvocati. In alcuni casi sono stati arruolati anche professionisti di grido, come Carlo Taormina, mentre nella diocesi di Milano molto spesso il difensore, Mario Zanchetti, è stato anche il preside della facoltà di Giurisprudenza della Cattolica. Avvocati molto più bravi di quelli che possono permettersi le vittime, tanto che grazie a loro spesso i processi finiscono con la prescrizione o nel nulla per vizio di forma.
Un esempio: Riccardo Seppia, considerato dal giudice del primo processo un delinquente comune, era parroco di Santo Spirito a Sestri Ponente. Giudicato colpevole in prima e seconda istanza di reati molto gravi, come violenza, cessione di droga e induzione alla prostituzione di giovanissimi – pena di nove anni, sei mesi e venti giorni – è stato prosciolto per vizio di forma nel ricorso in Cassazione. È evidente che ha potuto usufruire di un avvocato bravissimo, pagato dalla curia. Nella parrocchia di Selva Candida, vicino a Roma, le numerose accuse di molestie che arrivavano nei confronti del parroco Ruggero Conti venivano sottovalutate davanti alla sua eccezionale abilità di “attrarre capitali”, necessari per realizzare opere d’importanza sociale. Le vittime faticarono molto a trovare ascolto.
I condannati- Un altro aspetto interessante emerso dal nostro lavoro è stata la scoperta che fra i preti condannati i pedofili costituiscono probabilmente un numero esiguo. Le ragazze o i ragazzi abusati infatti sono tutti tra i dodici e i quattordici anni, scelti perché soggetti più facilmente controllabili e riducibili al silenzio che non una donna o un uomo adulto, ma non per l’età giovane in sé. La pedofilia ricompare però nel corso del procedimento penale. In genere, il sacerdote accusato in prima istanza nega tutto, a lungo. Quando le prove lo sommergono, cerca una scappatoia: dice di essere malato, cioè di essere pedofilo. A questo punto la gravità del reato si stempera, e quasi sempre invece di finire in prigione il prete in questione viene riassegnato all’istituzione ecclesiastica perché lo recuperi con un percorso terapeutico. Percorso che avviene in edifici per preti “in crisi”, prevede in genere periodi non lunghi di cura blanda, con psicologi a loro volta sacerdoti, e permette poi abbastanza rapidamente di tornare a esercitare la missione in parrocchie lontane da quelle dello scandalo. Certo, la chiesa lamenta un numero sempre minore di sacerdoti e quindi non rinuncia facilmente ai suoi figli consacrati, anche se colpevoli di odiosi abusi. E così, di conseguenza, aumenta il numero dei sedicenti pedofili.
Atti impuri. Ma c’è anche una ragione di fondo che impedisce alla chiesa di affrontare seriamente la questione abusi: nel Codice di diritto canonico l’abuso e lo stupro non sono classificati come reati contro la persona, ma come trasgressioni al sesto comandamento: non commettere adulterio, non commettere
atti impuri. Questo tipo di trasgressione è un peccato per chi la commette, ma non viene preso in considerazione il danno inferto all’altra persona: è il colpevole che compie atti impuri al centro dell’attenzione dell’istituzione ecclesiastica, non la sorte della vittima, sospettata comunque anch’essa di avere provato piacere, quindi di avere trasgredito al sesto comandamento. Una sbagliata concezione della sessualità e il rifiuto a passare dal peccato al reato stanno quindi all’origine dello scandalo che sta rovinando la chiesa.
Tornando ai problemi della chiesa italiana, certo una indagine indipendente, con la prevedibile emersione di numerosi casi di abuso, le porterebbe, con le ovvie conseguenze di risarcimenti da pagare, una perdita economica gravissima, che significherebbe anche una perdita di potere sociale. Ed è anche vero che la disillusione spingerebbe molti credenti ad abbandonare la pratica religiosa, oltre che a cancellare l’8‰. Ma questo abbandono temuto sta avvenendo lo stesso, se pure in modo meno clamoroso: le chiese dopo il Covid non sono tornate a riempirsi, quelli per cui la messa domenicale era solo un’abitudine hanno appunto perso l’abitudine. A questi si aggiungono coloro che vivono una grave delusione a proposito del clero, alimentata in misura determinante dagli abusi. In chiese come quelle tedesca e francese, la percezione di questa crisi è grave e allarmante. Da noi si fa finta di niente, senza pensare che lo scandalo degli abusi, e del modo in cui sono gestiti, costituisce un veleno sottile che sta corrodendo tutto, se non si pone pronto e coraggioso rimedio. Se non lo si affronta con verità e giustizia.
Anna Foa e Lucetta Scaraffia “Domani” 24 novembre 2022
www.editorialedomani.it/politica/mondo/pedofilia-perche-in-italia-i-preti-sotto-accusa-riescono-sempre-a-cavarsela-f4e89cl3
Bonus della Lega per il matrimonio in chiesa
Cinque leghisti hanno presentato un progetto di legge che prevede un bonus per chi si sposa in chiesa. Ovviamente l’iniziativa è stata pesantemente bollata da tutti. Ma, come tutte le cose strampalate, anche questa è interessante: la proposta strana mette in luce verità che strane non sono.
- Prima verità. La Chiesa è marginale e marginale resta proprio perché Chiesa. Non si può rilanciare la Chiesa con il sacramento del matrimonio e tanto meno con un bonus dello Stato che lo premia. Se quella legge passasse quanti si sposerebbero in chiesa perché credenti e quanti invece perché beneficiari del bonus? Dunque: più la Chiesa fa la Chiesa e meno vantaggi può trarre da stampelle che le vengono da “fuori”.
- Seconda verità. Ovviamente le critiche alla iniziativa strampalata della Lega non si sono fatte attendere. Prendo dall’articolo di Adriana Logroscino, Corriere della Sera di oggi, pagina 11: “Unanimi le critiche: la pd Simona Malpezzi parla di proposte «incostituzionali e assurde», per Mara Carfagna di Azione «la Lega è rimasta al Papa Re». Per Benedetto Della Vedova, di +Europa, «la proposta ricorda la fascistissima tassa sul celibato». Ma anche dalla maggioranza Maurizio Lupi dice «no a proposte bislacche»”.
La sollecitudine con cui tutti si sono affrettati a bollare l’iniziativa leghista rivela però un’altra, diversa realtà. Critiche giuste, intendiamoci, ma rivelatrici comunque. La società che rinnega padri e madri. E anche madre Chiesa. La Chiesa è in non-simpatia o in chiara antipatia a molta pubblica opinione. Ai posteri la sentenza sui perché di quella non simpatia e di quella antipatia. Sentenza ardua perché i perché sono tanti.
Forse semplifico un po’ troppo. Ma ho la sensazione che la società – quella italiana soprattutto – sta vivendo, nei confronti di “madre Chiesa”, una fase che culturalmente si potrebbe definire “adolescenziale”. L’adolescente si convince di crescere perché contesta padre e madre. E, siccome non è ancora cresciuto – è soltanto adolescente, infatti – supplisce alla incompleta crescita con un eccesso di contestazione. È cresciuto poco, contesta molto.
Ecco, mi pare che la società – molta società moderna, italiana soprattutto – è molto adolescente e adolescente rimane. Anche perché avendo ucciso molti padri e molte madri – tra cui il Padre che sta nei cieli, e, appunto, madre Chiesa che sta in terra – si sente smarrita. Non possiede più riferimenti importanti che le regalano sicurezza ed è costretta a cercare quella sicurezza in se stessa. Ma non la trova per il semplicissimo motivo che non ce l’ha. E allora, non trovando qualcosa su cui appoggiarsi, critica quello su cui si appoggiava. La critica così feroce e così condivisa alla Chiesa rivela, mi pare, e il vuoto di legami e il desiderio spasmodico di trovarli.
Ma, siccome non si troveranno, continueranno e la ricerca e il tentativo di prendere le distanze dai padri e dalle madri del passato. In altre parole, forse – forse: perché è difficile essere sicuri su situazioni così complesse – la società accentuerà le sue inquietudini e la Chiesa dovrà sempre più prendere atto della sua marginalità.
Alberto Carrara La barca e il mare novembre 2022
CHIESA NEL MONDO
Verso l’implosione”. Della Chiesa di Francia e non solo
Dialogo tra Franco Garelli e Danièle Hervieu-Léger
Nei giorni scorsi Molte Fedi sotto lo stesso cielo ha ospitato un dialogo online tra Franco Garelli α1945 e Danièle Hervieu-Léger α1947
Questa è la trascrizione della prima parte della serata. La offriamo a noi lettori come un contributo, serio e in alcuni passaggi molto provocatorio, per ragionare su come stare da credenti nel nostro tempo.
Per cominciare, vorrei domandare a Danièle perché questo titolo, “Verso l’implosione?”, in una Francia dove – malgrado il peso delle statistiche – si osserva come dici tu una certa vitalità del cattolicesimo di base, come è apparso (per esempio) nel periodo della pandemia.
Ho scelto questo titolo con p. Jean-Louis Schlegel α1946 SJI perché vorremmo mettere l’accento sulla situazione di decomposizione interna dell’istituzione stessa. È da tanto tempo che sociologi e storici studiano l’erosione della presenza del cattolicesimo nella società francese, ma l’idea centrale in quest’opera è che l’affondamento viene ”anche dall’interno, perché la Chiesa” è sempre meno capace di rispondere all’evoluzione del mondo che la circonda. In effetti, l’ipotesi che sostengo in questo libro è che la Chiesa sia contaminata da un sistema “romano”, da un sistema clericale che ha messo in atto a partire dal Concilio di Trento per affrontare la minaccia dello scisma e poi sino al XIX secolo per contrastare gli effetti della modernità politica e riassicurarsi il proprio potere nella società. Un sistema difensivo, che io chiamo sistema romano e che è stato elaborato per affrontare le minacce esterne, è diventato il veleno della Chiesa. Una vera e propria palla al piede ed è questo sistema che oggi la minaccia di più.
Uno degli aspetti che mi ha colpito di più nel leggere il tuo testo è il carattere «infiammabile» del cattolicesimo francese, che si manifesta – ancora oggi – attraverso dei confronti interni «virulenti»; dei conflitti non solo politici, ma anche teologici e pastorali; delle «correnti inconciliabili»; una «propensione francese per l’isterizzazione dei dibattiti religiosi». Le differenti anime del cattolicesimo non hanno veramente nulla in comune? E tutto questo accade – per usare le tue parole – «con l’impotenza dell’istituzione stessa di stabilire una cornice e un percorso condivisibili da tutti i fedeli per dare contenuto all’ideale di unità di cui si avvale la Chiesa».
Questo carattere “infiammabile” del cattolicesimo francese e più generalmente della scena religiosa francese, viene da una lunga storia. Nel nostro immaginario nazionale la religione è associata strutturalmente alla violenza, e questo in effetti, per me, ha un punto di partenza nelle guerre di religione del XVI secolo. Sono queste guerre di religione che hanno veramente associato, e in un modo così stretto, religione e violenza in Francia. Tutta la storia del cattolicesimo in Francia è scandita da conflitti estremamente violenti, che hanno coinvolto nello stesso tempo una dimensione propriamente religiosa e teologica e una dimensione politica.
Ciò non risale alla Rivoluzione francese, né alla costituzione civile del clero, né allo scontro del XIX-inizio XX secolo, tra la Chiesa e la Repubblica. Viene innanzitutto e davanti a tutto da questa violenza religiosa entrata all’interno della sfera religiosa e in particolare nella sfera cattolica, che abbiamo visto nel XVII secolo, per esempio, nella repressione del giansenismo, nella rievocazione dell’Editto di Nantes, in una serie di situazioni cruciali in cui la nazione si è fratturata in due, e noi portiamo ancora questa eredità di conflittualità.
Allora non vuol dire che la violenza dei conflitti ideologici, teologici, politici nel cattolicesimo francese significhi automaticamente che queste correnti cattoliche opposte non abbiano nulla da dirsi – bisogna sapere che con il nostro miglior nemico si hanno giustamente delle cose da condividere, ed è questo che rende la situazione complicata – ma è vero che i conflitti che oggi attraversano il cattolicesimo sono estremamente violenti.
Un’altra domanda su una questione centrale del testo: tu riprendi e rafforzi la tua tesi sull’esculturazione, cioè sull’uscita o l’allontanamento o l’espulsione del cattolicesimo dalla cultura comune. Nella tua analisi sorge una domanda intrigante: è la cultura che espelle il cattolicesimo o è quest’ultimo che viene espulso per sua colpa?
Rispondo innanzitutto ritornando sulla nozione dell’esculturazione. In effetti ciò che bisogna pensare è che la matrice culturale del cattolicesimo in Francia, la maniera con cui il cattolicesimo è durato così a lungo, modellando la cultura sia sociale che politica e non solamente religiosa in Francia, è sopravvissuta implicitamente ma molto fortemente alla laicizzazione delle istituzioni acquisita con la modernità politica e anche, abbastanza lungamente, sino agli anni ‘70, alla secolarizzazione della mentalità.
Questa matrice culturale, bisogna comprenderlo, è particolarmente visibile nella maniera in cui in Francia si pensano le istituzioni civili e le istituzioni politiche: non si capisce nulla in rapporto alla società francese, all’università, alla scuola, allo Stato stesso, all’ospedale etc., se non comprendiamo a quale punto questa matrice cattolica ha modellato il nostro rapporto con tutto il nostro paesaggio istituzionale.
Faccio solo un esempio: un filosofo e uomo politico del XIX secolo parlava dello Stato dal punto di vista completamente laico, dicendo che lo Stato deve essere morale e insegnante. È la replica di “Mater et Magistra” (Giovanni XXIII 1961) e quindi c’è questa compenetrazione tra la cultura politica e istituzionale e la Chiesa. Ora, a partire dagli anni ‘70, è questa matrice culturale che si disfa, ovvero non è più possibile oggi dire – come J. Paul Sartre α1905 ω 1980) diceva ancora negli anni ‘50 – «in Francia siamo tutti cattolici»: sappiamo bene che da lungo tempo i francesi non sono tutti cattolici, ma potevamo ancora dire che il cattolicesimo parlava un po’ a tutti. Oggi è finito. Il cattolicesimo è una minoranza religiosa tra le altre, in una società che perde sempre di più il tappeto culturale modellato dal cattolicesimo che – oso dire – si ritira da sotto i piedi dell’istituzione e in cui la matrice culturale cattolica oggi parla “a sprazzi”. Restano delle tracce, non è completamente sparita, ma nello stesso tempo è sommersa dalla cultura dell’individuo e della realizzazione di se stesso. In tutto ciò le responsabilità, le cause di questo fenomeno, sono da entrambe le parti: sia dalla parte della società che dalla parte della Chiesa, che è assolutamente incapace di reagire a questo processo.
Ancora su questo tema, tu dici che l’esculturazione è un processo molto graduale, perché il cattolicesimo ha plasmato profondamente il nostro mondo culturale. Che cosa resta allora del cattolicesimo esculturato?
È ciò che dicevo poco fa: ne restano delle tracce, ne restano dei pezzi che risorgono regolarmente ad esempio nel dibattito sulla scuola, nei dibattiti sulla concezione del bene pubblico, nei dibattiti sulla dimensione morale del politico. Ci sono ancora tanti tipi di tracce, ma la coerenza di questa matrice è esplosa fortemente a partire dal tornante culturale del XX secolo con un’affermazione sempre più chiara dell’autonomia degli individui, non solamente nell’ordine politico ma nell’ordine della loro vita personale e intima.
Alla base dell’esculturazione c’è la distanza della Chiesa e del cattolicesimo dalla “modernità psicologica”. È una categoria molto interessante questa. Puoi illustrarci questo importantissimo punto?
La questione dell’autonomia e del conflitto, il problema che l’affermazione moderna dell’autonomia pone alla Chiesa – semplicemente perché l’affermazione dell’autonomia del soggetto si pone in contraddizione con la pretesa della Chiesa di detenere il monopolio della verità – questo conflitto storico, strutturale proprio della Francia, tra la modernità e la Chiesa Romana evidentemente è approcciato perlopiù attraverso la questione dell’autonomia del soggetto cittadino. Da quel punto di vista, la Rivoluzione francese fu un ribaltamento totale. Che cosa fa la Rivoluzione francese? Afferma che il soggetto cittadino è autonomo ed è capace, con altri soggetti cittadini, di produrre il senso della storia che vogliono condurre collettivamente. E questa è una rottura culturale e politica evidentemente maggiore: la Chiesa farà di tutto per tentare di combattere questa autonomia. Il XIX secolo, il confronto, la guerra delle due France, il confronto tra la repubblica e la Chiesa nel XIX secolo è veramente il dibattito intorno all’autonomia del soggetto cittadino.
La legge non cade dal cielo, la legge sorge dal corpo cittadino. Allora questa centralità dell’autonomia politica è fondamentale, ma quello che avviene – un nuovo ribaltamento, una svolta degli anni 1970 – è l’avvenimento che Jean Baudrillard (α1929 – ω2007) ha chiamato la modernità psicologica, ovvero non più l’autonomia del soggetto cittadino ma anche l’autonomia del soggetto privato, del soggetto che interviene nella sfera nella quale la Chiesa post rivoluzionaria ha dovuto ripiegare il suo spazio d’influenza. Dunque, è il tempo dell’autonomia del soggetto nella sua vita familiare, coniugale, intima: è l’avvento del soggetto degli affetti. E la Chiesa, che era stata straordinariamente destabilizzata dall’avvento del soggetto politico, era riuscita ad adattarsi alla situazione ripiegando il suo lavoro di influenza sulla sfera familiare. Ed è a partire dal XIX secolo che la Chiesa ha una vera ossessione intorno al tema della sessualità, della coniugalità, con lo sviluppo familiare estremo; ebbene, quella situazione è completamente percossa dall’avvento del soggetto degli affetti che dice “sono io il padrone della mia vita personale, della mia vita intima, delle mie scelte amorose, e nessuna istanza può intaccare questa autonomia”.
“Da laico nella città” – Rubrica a cura di Daniele Rocchetti
CONCILIO VATICANO II
A sessant’anni dal Concilio. Autocoscienza della Chiesa
Fermarsi a riflettere sui sessant’anni del dopo Concilio è cosa impegnativa per un verso e fertile per un altro se si sfugge a ricordi facili. Il Concilio è una parte della Chiesa e dell’evangelizzazione. Bisogna informarsi, capire ed essere cauti nei facili giudizi e nelle semplificazioni. Bisogna avere una prospettiva generale della storia Chiesa. È cosa problematica la rivisitazione storica dei Concilii nei loro dati generali. Luigi Sandri ha scritto, nella sua Storia dei Concilii [Dal Gerusalemme I al Vaticano III, Il Margine 2013] quanto non si dice mai nella vulgata della catechesi ordinaria nelle nostre Chiese. Eppure arricchirsi di come la struttura ecclesiastica sia riuscita a farsi largo nei primi secoli, da Nicea in poi, a strutturarsi come potere e a sopravvivere all’ondata della modernità dal 1789 in poi, serve a meditare sui misteri della sopravvivenza della parola di Dio nella storia, anche attraverso la sua struttura istituzionale. Le informazioni ci sono, lo Jedin [Hubert Jedin α1900 –ω1980] ha raccolto tutti i documenti approvati dai Concilii e una bibliografia semplificata dovrebbe essere messa a disposizione di chi non teme di leggere gli scostamenti dall’Evangelo che hanno percorso la storia della Chiesa insieme a passi in avanti, spesso controversi.
I titoli dei venti concili ecumenici ci dicono una cosa sorprendente: è stato assente (o molto carente) nel tempo il ruolo del Concilio nel discutere su cosa fosse la Chiesa, su come funzionasse, su come dovesse essere corretta, pur in presenza di tante sollecitazioni. Il problema principale era quello dell’Anatema sit, cioè la condanna della deviazione dalla linea ortodossa, delle affermazioni dogmatiche. Altre decisioni ne sono state una conseguenza. Il Vaticano II, solo per questa sua nuova missione specifica, può essere considerato un avvenimento “rivoluzionario” nella storia della Chiesa. Non dimentichiamolo. Questo nuovo ruolo del Concilio (un Vaticano III magari del tutto ecumenico?) in futuro non potrà essere modificato.
Il “nostro” Concilio. Ora dobbiamo riscoprire il “nostro” Concilio, nel suo sviluppo, nelle sue dinamiche, senza fermarsi ai sedici documenti votati (alcuni dei quali di scarso interesse o difficili da comprendere). Bisogna conoscere i vari passaggi, chi erano i padri conciliari, come avvenne la comunicazione e altro ancora. È noto che il contributo più completo è prezioso è quello della Scuola di Bologna di Alberto Melloni. Ci sono poi tanti altri contributi, per esempio di Loris Capovilla, di Marco Roncalli… Per capire il “quotidiano” del Concilio ci sono le raccolte dei resoconti quotidiani su Le Monde” e sull’Avvenire d’Italia da parte di Henry Fesquet e di Raniero La Valle. Vi si legge la freschezza delle notizie, delle contraddizioni, dell’affermarsi di una libertà di parola e di proposta che esisteva già tra molti padri conciliari, cresciuta nei decenni precedenti e che doveva venire a galla provenendo dalle scuole teologiche del Nord Europa (Rahner, Kung, Frings, Suenens, Schillebeeckx…). Molti padri conciliari leggevano queste cronache per capire bene che cosa si era detto veramente nel giorno precedente nelle assemblee plenarie (gli interventi erano sempre in latino e molti dei duemila padri conciliari capivano poco!). Per la gran parte dei padri italiani erano cose fuori dal mondo quelle che si dicevano, chiusi nell’ordinaria amministrazione delle loro curie e con un cattolicesimo estraneo al modernismo, a Mazzolari, a Milani ecc… Insomma si tratta ora di conoscere meglio. In particolare alle giovani generazioni potrà apparire, quella di allora, una condizione quotidiana della vita cristiana nel nostro paese ben diversa da quella ora un po’ più comprensibile (religiosità popolare, devozioni ben maggiori di ora, liturgia intoccabile e incomprensibile, appartenenza al blocco democristiano-cislino…).
Il messaggio teologico-pastorale. Così la comprensione del Vaticano II esige da una parte un interesse di tipo storico, laico, attento alle contraddizioni tra uomini, gruppi di pressione, sorveglianza e intervento da parte del papa e dall’altra richiede la capacità di mettere in luce gli aspetti di rottura col passato di tipo teologico-pastorale che sono quelli più interessanti e importanti. Non c’è nessun “mito complessivo” nei confronti di un Concilio che ben poco avrebbe fatto e che quindi non meriterebbe molto ascolto e rispetto (come sostiene Marco Marzano sul numero del 7 ottobre di Micromega). La rottura col passato è quella che più ci interessa ed è quella che appare più facilmente; non sono novità difficili da individuare come peraltro una gran parte del popolo cattolico ha capito abbastanza rapidamente. La nuova valorizzazione delle Scritture, un nuovo rapporto con le altre confessioni cristiane e con le altre religioni, la liberalizzazione in materia di libertà religiosa, il rinnovamento del modo di pregare, l’importanza del Popolo di Dio (clero e laici insieme in cammino e non solo vescovi e clero) protagonista della vita della Chiesa e di un nuovo rapporto col “mondo” e con il vivere ogni giorno dell’uomo e del credente. Una delle conseguenze dirette del nuovo corso sono le due grandi encicliche, la Pacem in terris del 1963 e la Populorum Progressio del 1967 che hanno avuto e hanno una dimensione universale, che indirizzano un messaggio all’umanità come nessuna altra autorità ha avuto e ha nel mondo. Sono due encicliche prodotto del Concilio! Queste indicazioni per il futuro per la Chiesa hanno costituito per una vasta area del mondo cattolico non tanto un avvenimento quanto un’esperienza. Il dettato dei singoli documenti veniva scavalcato da una situazione nuova nella vita quotidiana e nella comunità ecclesiale che avrebbe contribuito per un certo verso a partecipare agli stessi movimenti del ‘68 nelle scuole, nelle fabbriche e nella Chiesa! Allora si iniziò a parlare di “Spirito del Concilio” da usare per esplorare terreni nuovi: l’omosessualità, il ruolo della donna (trascurato nel Concilio), il senso stesso della celebrazione eucaristica, la disciplina rigorosa della struttura gerarchica e tanto altro. Dallo spirito del Concilio nascono la teologia della liberazione e i movimenti ecumenici, una maggiore laicità nell’azione politica, una maggiore ricchezza di riflessione sulle trasformazioni del modo di produrre, di commerciare, di gestire la ricchezza secondo criteri di equità.
Il dopo Concilio. Ma i sessant’anni come sono poi continuati? È una storia complessa che, dal nostro punto di vista, parte con sicurezza da una constatazione: la ventata di rinnovamento ha tenuto nonostante la struttura istituzionale gerarchica della Chiesa sia rimasta tutta in piedi e ciò abbia avuto effetti prevalentemente negativi. C’è stato “troppo poco Concilio”, le Chiese sono sempre divise e il contrasto al cambiamento ha ancora radici profonde e circola una eccessiva uniformità. La struttura così pesante e decisionista condiziona la periferia diffusa. Quindi la recezione del Concilio ha trovato un ostacolo forte nel pontificato che, se una parte, è stato positivo segno di universalità (e quanto è necessaria!) in una umanità conflittuale molto diseguale, dall’altra ha troppi passaggi rigidi (la recente riforma della Curia non ha veramente modificato la situazione).
Detto ciò, lo spirito del Concilio percorre la Chiesa. È innegabile, sono tanti i credenti, i gruppi, le associazioni che hanno un loro percorso che, senza rompere formalmente, vivono un Vangelo nuovo, partecipano all’Eucaristia con i fratelli protestanti (e viceversa), aderiscono a un marxismo antidogmatico, pensano a soluzioni diverse per quelli che si chiamavano “principi non negoziabili”, vogliono studiare le altre religioni, educano i figli a leggere il Vangelo. E via di questo passo. Una azione controcorrente nella Chiesa non ha ora la vivacità di un tempo.
Papa Wojtyla e papa Ratzinger sono stati a latere del Concilio, qualche volta controcorrente, hanno di fatto ostacolato la strada nuova. Ratzinger ha sposato l’ermeneutica della continuità (il Concilio è coerente col passato!) Wojtyla aveva già preso strade con intendimenti simili, sponsorizzando i movimenti fondamentalisti, penalizzando la teologia della liberazione e altro ancora (per esempio nelle nomine episcopali, selezionate a senso unico). Non è stata una vita facile. Invece di avere il complesso della Chiesa orientato a capire e cambiare ci sono stati ostacoli nei sacramenti e nei ministeri, nelle preghiere e nei riti, alcune volte ancora quelli del Concilio di Trento.
Due ermeneutiche. L’ermeneutica della discontinuità è stata condivisa in modo diffuso, anche se non ha organizzato un proprio “partito”, mentre i fautori della conservazione si sono attestati in facoltà teologiche, in movimenti fondamentalisti, in riviste e usando la liturgia contro il Concilio. Ma la elaborazione della scuola di Bologna ha argomentato con scritti non contestabili. E la discontinuità è stata condivisa dal basso in un’area non piccola. Nel nostro Paese il 15 settembre del 2012 sono stati quasi mille i partecipanti a un’assemblea organizzata solo dal “basso” tenutasi al teatro Massimo a Roma di ripresa e di ricordo del Concilio. Più di cento le associazioni promotrici e firmatarie di questo incontro di “Chiesaditutti-chiesadeipoveri” (che in seguito ha tenuto altre assemblee nazionali). È stata una riscossa, una volontà di dire “ci siamo” mentre permaneva il pontificato di Ratzinger.
Ora con papa Bergoglio. Con papa Bergoglio siamo nell’oggi e viviamo ogni giorno la ripresa di punti di vista che erano stati accantonati. «La Chiesa deve essere in mezzo al popolo, non sopra il popolo», dice il papa. Lo stesso attuale percorso sinodale vorrebbe indicare questa direzione. Per il resto il messaggio più dirompente di papa Bergoglio è quello che riguarda la tutela dell’ambiente, le ignobili disuguaglianze tra i popoli che sono in crescita, la guerra mondiale a pezzi. E le radici nel Concilio del suo magistero vengono abbastanza spesso richiamate. Papa Bergoglio poi si trova frenato in tante questioni sul funzionamento di un’istituzione così complessa ed estesa (ministeri, liturgia, nomine, ruolo della donna, gestione dei beni della Chiesa, opposizione di aree di vescovi, situazione della Curia ecc…). Ma per chi elabora, propone e agisce controcorrente ci sono le condizioni per continuare a essere protagonista nei tentativi di riforma in un clima agevole all’ombra del papa e senza temere interdetti.
Vittorio Bellavite, già coordinatore di Noi siamo Chiesa Adista Segni Nuovi n. 40 del 26 novembre 2022
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
L’offensiva della Chiesa sui diritti dei migranti “Subito lo Ius Culturæ”
«Serve un piano serio di rivisitazione della casa dopo sessant’anni, sia garantita a tutti. Prima gli italiani? Lo sono anche quelli che arrivano e arriveranno». «Speriamo che la discussione sullo Ius si risolva presto. Da tanti anni siamo passati dallo Ius Soli allo Ius Culturæ: troviamo la via d’uscita perché possa essere data l’opportunità a tantissimi che vogliono essere italiani». Immigrazione e diritti. Dall’accoglienza, intesa come gestione dei flussi, ma anche come diritto alla casa, alla riforma della legge sulla cittadinanza. Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, torna a pungolare la politica e il governo su uno dei temi che più gli stanno cari e sui quali anche recentemente è intervenuto sostenendo che «quello delle migrazioni è un problema che va affrontato insieme, l’Europa deve aiutare tutti i Paesi, compresa l’Italia, che sono più esposti all’immigrazione».
Il capo dei vescovi italiani non cita direttamente l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, ma è evidente che il suo ragionamento nasce anche dalle decisioni prese nelle scorse settimane sui respingimenti e i ricollocamenti dei migranti. E sugli impatti che queste scelte stanno avendo a livello europeo, come ha ricordato recentemente su Famiglia Cristiana il presidente della Fondazione Migrantes monsignor Gian Carlo Perego. «Siamo in un momento particolare – osserva Zuppi -. Il nostro Paese è una comunità all’interno dell’Europa, con un umanesimo a cui non dobbiamo mai venire meno, e che ha tanto da fare oggi. Mi auguro che tra dieci anni vi sia molta struttura in più e un sistema che forse noi non vedremo, ma è questo il grande ruolo della politica e dell’uso delle cose comuni».
Anche il luogo da cui il presidente della Cei sceglie di dire queste cose, l’assemblea nazionale dell’Anci (l’associazione dei Comuni italiani) in corso in questi giorni alla fiera di Bergamo, dimostra che l’approccio del capo dei vescovi italiani è insieme ideale e pragmatico, vicino ai problemi concreti (come appunto quello di garantire a tutti un tetto) e alla capacità di trovare soluzioni che caratterizza l’azione degli amministratori locali. Proprio riferendosi ai sindaci. Infatti, Zuppi sottolinea che «esprimono la comunità e hanno il vantaggio della prossimità». Le parole dette a Bergamo dal cardinale rilanciano anche le riflessioni del settimo Festival della Migrazione, organizzato dalla Fondazione Migrantes, che si è aperto ieri in Emilia-Romagna. Un segnale che quella della Chiesa italiana sui migranti è un’offensiva mirata. «La nostra rassegna è un laboratorio importante per superare ritardi ideologici, pregiudizi e paure intorno ai migranti e occidentali coincide con la storia della progressiva affermazione dei diritti di cittadinanza, attraverso un duplice movimento: l’aumento del numero e del tipo di diritti riconosciuti e garantiti ai cittadini; la crescente estensione della classe dei cittadini, di coloro cioè che hanno titolo a godere di tali diritti. In un processo di democratizzazione, pertanto, una mobilità crescente e diffusa chiede non di limitare, ma di estendere la cittadinanza».
E di immigrazione, ieri, rivolgendosi soprattutto all’Unione Europea che stenta a trovare una soluzione condivisa, ha parlato anche il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano: «Ancora oggi continua a essere drammatico il numero delle vittime nel mare ed è sempre più urgente una risposta politica».
www.lastampa.it/audio/audioarticoli/2022/11/23/audio/loffensiva_della_chiesa_sui_diritti_dei_migranti_subito_lo_ius_culturae-12258495
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221124moscatelli.pdf
CONSULTORI UCIPEM
Portogruaro. Consultorio familiare Fondaco una vocazione d’aiuto che dura da 40 anni
sabato 3 dicembre 2022 ore 16.00 Municipio di Portogruaro – Sala Consiliare
L’incontro fa memoria dei quarant’anni di impegno e servizio gratuito del Consultorio Familiare Fondaco a sostegno di persone, coppie e famiglie in situazione di difficoltà. Gestito e animato da un’associazione di volontariato, il Fondaco è un consultorio di ispirazione cristiana, socio U.C.I.P.E.M. (Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali).
Attivo anche sul fronte della promozione e prevenzione, il nostro consultorio negli anni ha proposto per primo alla comunità portogruarese percorsi formativi su svariate tematiche relazionali, educative, affettive, a sostegno della formazione personale di giovani e adulti, della vita di coppia, della genitorialità, della procreazione responsabile, della conoscenza di sé ecc.
Dal 2017 il Fondaco è iscritto all’elenco regionale dei CFSE (Consultori Familiari Socio Educativi), unità di offerta compresa nel sistema dei servizi previsti dal Piano socio-sanitario regionale della Regione Veneto, che svolge attività nell’area socio-educativa. Collabora in rete con le istituzioni pubbliche, i servizi socio sanitari, associazioni e istituti scolastici in una Alleanza educativa per la famiglia.
Soci fondatori, volontari e professionisti di diverse stagioni di vita del Consultorio offriranno testimonianza su esperienze, aspetti e risultati dell’attività consultoriale che dagli anni Ottanta del secolo scorso continua, come vocazione d’aiuto, in risposta ai bisogni della famiglia e delle persone, individuati secondo le finalità statutarie, sullo sfondo dei mutamenti sociali, culturali e normativi che hanno coinvolto anche l’istituto familiare.
Marina Moro, presidente e don Giuseppe Bortolin, direttore
www.consultoriofamiliarefondaco.it
Roma 1. Centro la famiglia I corsi incontri in presenza
I figli crescono – i genitori invecchiano quando la relazione cambia…
Il giovedì dalle 17:45 alle 19:30 ogni 15 giorni
www.centrolafamiglia.org/_files/ugd/78dbaf_6cd965260fbf4a19aabe8798913ea305.pdf
Over 60 la forza dell’età incontri di gruppo per figli di genitori anziani
il venerdì dalle 10:35 alle 12:30 ogni 15 giorni
www.centrolafamiglia.org/_files/ugd/78dbaf_2546a8c251304eb3b3c42c770040713a.pdf
Alla ricerca della nostra essenza. “…perché ho bisogno della tua presenza
Il sabato dal 3 dicembre 2022 al 4 marzo 2023, dalle 9,30 alle 17
–www.centrolafamiglia.org/_files/ugd/78dbaf_f3cab3dd58a64da8b0811e13db26d29f.pdf
Consulenza in francese e inglese
www.centrolafamiglia.org/consulenze-in-lingua
www.centrolafamiglia.org/home
DALLA NAVATA
Prima domenica di avvento – Anno A
Isaia 15, 01. Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Salmo 121, 08. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: «Su di te sia pace!». Per la casa del Signore
nostro Dio, chiederò per te il bene.
Paolo Romani 13, 11. Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal
sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.
Matteo 24, 37. Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo».
Commento di p. Ernesto Balducci, scolopio (α 1922 – ω 1992)
Il regno di Dio noi spesso lo sogniamo in tutta la sua compiuta perfezione ma allora esso stimola quello che gli psicologi chiamano il desiderio infantile dell’onnipotenza. Le fiabe, delizia della nostra infanzia, ci davano appagamento perché esse assicuravano la corrispondenza fra l’avvenimento e il desiderio. Non possiamo vivere la fede con la logica della favola; non possiamo fare della fede una specie di sollecitazione del desiderio infantile dell’onnipotenza. Il regno di Dio è un germoglio di giustizia, un germoglio che va fatto crescere. Non è l’appagamento del desiderio che ci viene promesso; ci viene promessa l’efficacia della responsabilità. La giustizia non è impossibile, trasformare questo mondo secondo giustizia non è impossibile: è importante tenerlo presente. Questa è già un’affermazione che urta contro l’opinione di tanti cristiani, che a partire dal concetto che il mondo è nel peccato e che per ciò non si può affatto cambiare, giustificano l’esistente. Usciti dalla suggestione dell’onnipotenza puramente immaginaria come quella delle favole, noi entriamo nell’età adulta della responsabilità. Io so che devo farmi responsabile della giustizia perché fiorisca in questa terra.
Questa scelta non mi porta via dalla traiettoria della promessa di Dio, mi ci mette dentro: questa è una prima certezza di fondo. Quante volte, mentre manifestiamo la passione per la giustizia o per la pace, ci vengono fatte obiezioni del genere: voi pregate poco, pregate di più! È un modo di utilizzare la preghiera come alibi, come rifugio infantile. Si prega sì, ma con lo zaino sulle spalle; si prega con la spada dell’impegno in mano. La preghiera è nel ritmo della vita, è l’accettazione con tutto il cuore della prospettiva del regno; dobbiamo pregare non fuggendo per la verticale dove poi ci impigliamo nelle nuvole dell’immaginazione facendoci un Dio che ci dia consolazione perché rassomiglia a noi, ma ponendoci dinanzi alla prospettiva dell’impossibile diventato possibile.
L’altro compito è quello indicato dalla Scrittura. «State attenti che i vostri cuori non appesantiscano in dissipazioni». Erano tempi, quelli, in cui la dissipazione poteva essere provocata soltanto dalla sregolatezza dei sensi, del resto non ignota nemmeno ai tempi nostri. Ma che ne sapevano allora delle dissipazioni a cui siamo sottoposti? Noi che siamo delle coscienze sommerse ogni giorno da oceani di informazioni dissipanti? Noi che ci facciamo l’immagine del mondo dalla prima facciata del giornale che leggiamo? Noi siamo dissipati, perché le verità vere, quelle decisive, nessuno ce le dice. Siamo – per riprendere una immagine abusata, forse un po’ retorica – come i famosi viaggiatori del Titanic nel 1912 che danzavano, ballavano, brindavano mentre il transatlantico era vicino all’iceberg dell’urto. Siamo dissipati, ci occupiamo immensamente di frivolezze ed eludiamo i pericoli essenziali. Quello delle armi ad esempio. Se noi ci stiamo armando, nel tempo stesso in cui facciamo i bilanci per rubare i soldi in tasca ai poveri, siamo dissipati e siamo fuori della verità. La dissipazione ci serve per rimanere tranquilli nella falsità, con la bussola dell’opinione sulla stella polare del potere.
Siamo dissipati e allora, dice la Scrittura: «in quel momento vi piomberà addosso all’improvviso – come sono terribilmente vere queste parole nell’era atomica! – come un laccio si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia della terra». È una possibilità, tutti lo riconoscono, ma è una possibilità che non deve essere pensata e deve esser detta con cautela: su ventiquattro ore di trasmissione appena mezzo minuto, in modo che la verità sia detta, ma non funzioni! Il nostro compito è di lottare contro la dissipazione, di spezzare tutte le cortine della mala informazione che mirano a tenerci lontano dalla verità che riguarda il futuro della terra che ci è affidata.
Ernesto Balducci: da “Il Vangelo della pace” vol. 3 anno C
www.fondazionebalducci.com/27-novembre-2022-prima-domenica-di-avvento-anno-a
DIVORZIO
Europa. Riconoscimento tra Stati
Riconoscimento, in uno Stato membro, di uno scioglimento del matrimonio convenuto in un accordo tra i coniugi e pronunciato da un ufficiale dello stato civile di un altro Stato membro
Sentenza della Corte nella causa C-646/20 | Senatsverwaltung für Inneres und Sport
Riconoscimento automatico dei divorzi extragiudiziali: un atto di divorzio redatto da un ufficiale dello stato civile di uno Stato membro, contenente un accordo di divorzio concluso dai coniugi e confermato da questi ultimi dinanzi a detto ufficiale, in conformità alle condizioni previste dalla normativa di tale Stato membro, rappresenta una decisione ai sensi del regolamento Bruxelles II bis
Nel 2013, TB, di nazionalità tedesca e italiana, e RD, di nazionalità italiana, si sono sposati in Germania. Nel 2018, a seguito di un procedimento di divorzio extragiudiziale ai sensi del diritto italiano, essi hanno ottenuto un certificato di divorzio rilasciato dall’ufficiale dello stato civile italiano.
I servizi dello stato civile tedeschi hanno rifiutato la trascrizione di tale divorzio con la motivazione che esso non era stato previamente riconosciuto dall’autorità giudiziaria tedesca competente. Investita della controversia, la Corte federale di giustizia tedesca si chiede se la nozione di «decisione» di cui al regolamento Bruxelles II bis in materia di riconoscimento delle decisioni di divorzio comprenda il caso di divorzio extragiudiziale derivante da un accordo concluso dai coniugi e pronunciato dall’ufficiale dello stato civile di uno Stato membro conformemente alla legislazione di quest’ultimo.
Con la sua sentenza odierna, la Corte, riunita in Grande Sezione, dichiara che un atto di divorzio redatto da un ufficiale dello stato civile dello Stato membro di origine, contenente un accordo di divorzio concluso dai coniugi e confermato da questi ultimi dinanzi a detto ufficiale, in conformità alle condizioni previste dalla normativa di tale Stato membro, rappresenta una «decisione» ai sensi del regolamento Bruxelles II bis.
La Corte precisa, anzitutto, che, in materia di divorzio, la nozione di «decisione» contenuta in tale regolamento comprende qualsiasi decisione di divorzio emessa nell’ambito di un procedimento giudiziario o extragiudiziale, purché il diritto degli Stati membri attribuisca competenze in materia di divorzio anche alle autorità extragiudiziali. Pertanto, qualsiasi decisione emessa dalle autorità extragiudiziali competenti in materia di divorzio in uno Stato membro deve essere riconosciuta automaticamente, fatto salvo il rispetto delle condizioni previste dal citato regolamento.
La Corte ricorda inoltre la sua giurisprudenza secondo cui, nell’ambito di applicazione del regolamento Bruxelles II bis rientrano soltanto i divorzi pronunciati da un’autorità giurisdizionale statale o da un’autorità pubblica, o sotto il controllo della stessa, il che esclude i meri divorzi «privati». Essa ne deduce che qualsiasi autorità pubblica chiamata ad adottare una «decisione» deve mantenere il controllo sulla decisione di divorzio, il che implica, in caso di divorzio consensuale, che essa debba procedere ad un esame delle condizioni del divorzio alla luce del diritto nazionale nonché della veridicità e della validità del consenso dei coniugi al divorzio.
La Corte chiarisce che il requisito di un esame è il criterio che consente di distinguere la nozione di «decisione» da quelle di «atto pubblico» e di «accordo tra le parti», contenute anch’esse nel regolamento Bruxelles II bis. Essa precisa che tale criterio, al pari della norma relativa agli atti pubblici e agli accordi tra le parti, è stato ripreso e chiarito nell’ambito del regolamento Bruxelles II ter, che ha sostituito il regolamento Bruxelles II bis a decorrere dal 1º agosto 2022.
Per quanto riguarda il caso di specie, la Corte rileva che, in quanto autorità legalmente costituita, l’ufficiale dello stato civile italiano è competente a pronunciare il divorzio in modo giuridicamente vincolante, registrando per iscritto l’accordo di divorzio redatto dai coniugi dopo aver effettuato un esame. Esso si sincera infatti del carattere valido, libero e informato del consenso dei coniugi a divorziare e verifica altresì il contenuto dell’accordo di divorzio alla luce delle disposizioni giuridiche in vigore, assicurandosi che l’accordo riguardi unicamente lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con l’esclusione di qualsiasi trasferimento patrimoniale o del coinvolgimento di figli che non siano maggiorenni ed economicamente autosufficienti. La Corte conclude che si tratta quindi effettivamente di una «decisione» ai sensi del regolamento Bruxelles II bis, che deve essere automaticamente riconosciuta dai servizi dello stato civile tedeschi.
Il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione. La Corte non risolve la controversia nazionale. Spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.
Comunicato stampa n. 183/2022 Lussemburgo, 15 novembre 2022
DONNE
Chi ha paura delle donne
A fondamento della violenza maschilista contro le donne si ritrova sempre una medesima aspirazione: strappare, straziare, ferire, rigettare, sopprimere la loro libertà. La giustificazione ideologica di questa tremenda intenzione ha come punto perno la rivendicazione di una superiorità ontologica e morale del maschio sulla femmina che troverebbe una sua codificazione ideologica nella lettura dogmatica (e distorta) del testo biblico. Superiorità ontologica: il corpo della donna proverrebbe da quello del maschio — dalla sua famigerata “costola” — dunque ne sarebbe espressione solo secondaria e fatalmente minorata. Superiorità morale: la femminilità troverebbe in Eva il suo simbolo malefico che incarnerebbe una tentazione peccaminosa in grado di sospingere l’umano verso la follia della trasgressione, verso una libertà senza giudizio che lo sprofonderebbe nella natura diabolica e perversa della sessualità.
Nella storia secolare dell’Occidente questa superiorità ontologica e morale del maschio è stata veicolata da diversi dispositivi repressivi apertamente sessuofobici. Innanzitutto quello dell’esclusione della donna dalla vita della città: senza parola, senza lingua, senza nome, senza diritti. Ma più subdolamente e più capillarmente attraverso la via della maternità come emendazione della peccaminosità femminile. Strategia di purificazione della sensualità demoniaca di Eva attraverso la sua metamorfosi nel carattere immacolato della vergine Maria.
L’Occidente patriarcale ha particolarmente insistito su questo punto: il destino ineludibile di una donna è quello della maternità. È, infatti, nell’identificazione della donna alla madre che esso ha inteso risolvere il temibile problema dell’eccedenza anarchica della libertà della donna. In questa prospettiva il materno si è configurato non solo come destino biologico necessario della donna — iscritto nella Legge della natura — ma come negazione della sua stessa esistenza. In molti uomini, ancora oggi, trasformare la donna nella madre dei propri figli è un modo per esercitare coscientemente o inconsciamente un dominio appropriativo sulla sua libertà. Con l’aggiunta inevitabile che in questo modo la donna che diviene tutta-madre scompare di fatto come donna (“autorizzando”, tra l’altro, l’uomo a ricercare in altre donne l’appagamento del proprio desiderio).
Questo teorema patriarcale della maternità come emendazione della femminilità avalla, in realtà, la violenza dell’uomo sulla donna. Non a caso molti uomini esercitano la loro violenza quando incontrano il carattere irriducibile della libertà femminile. Accade, in particolare, quando finisce un legame di coppia. In quelle circostanze l’uomo abbandonato non intende riconoscere il diritto di scelta della donna. La violenza, sino all’estremo atroce del femminicidio, è allora un modo per provare a farsi nuovamente padrone della libertà della donna, di sottomettere in modo brutale l’indipendenza del suo desiderio, di togliere alla donna ogni diritto di parola e, dunque, di scelta.
Non a caso, ne “L’amica geniale” di Elena Ferrante la violenza maschilista si trova rappresentata, in una delle sue scene più eloquenti, quando il fratello maggiore di un ragazzino che a scuola ha dovuto riconoscere la superiorità intellettuale di Lila nei suoi confronti, intende ristabilire il primato dei maschi sulle femmine cercando di trafiggerle letteralmente la lingua con uno spillo. È questo il sadismo che caratterizza, anche dal punto di vista clinico, la violenza maschilista: impadronirsi della libertà della vittima rendendola un oggetto inerme. Nondimeno, il paradosso che si è storicamente determinato consiste nel fatto che tanto più l’uomo si cimenta in questa impresa di assoggettamento sadico della libertà della donna, quanto più è costretto a verificare il destino fallimentare di questo progetto, ovvero a riconoscere il carattere indomabile della libertà della
donna.
È quello che sta accadendo oggi nelle strade dell’Iran. La repressione delle donne promossa dal regime patriarcale-religioso degli ayatollah si è da sempre esercitata sul presupposto della minorità ontologica e morale della donna. Non a caso esso affida ad una vera e propria polizia morale di tipo medioevale la sorveglianza del corpo delle donne. Non è qui solo la sessualità a dover essere occultata dal velo della repressione, ma è la libertà stessa — della quale la sessualità è una espressione fondamentale — ad essere costantemente perseguitata. È questa la radice ultima della violenza maschilista sulle donne: la libertà irriducibile della donna terrorizza il potere del patriarcato religioso che la deve a tutti i costi domare, disciplinare, estirpare come fosse una cancrena.
Massimo Recalcati “la Repubblica” 25 novembre 2022
www.repubblica.it/commenti/2022/11/24/news/femminicidi_violenza_contro_donne-375997720
DONNE NELLA (per la) CHIESA
Video registrazioni di lectio magistralis di Lilia Sebastiani a Terni
Ternana, insegnante, Lilia Sebastiani è una teologa di fama internazionale, particolarmente esperta delle tematiche riguardanti il ruolo della donna nella Chiesa
- Autorità, ministerialità e profezia delle donne nel Nuovo Testamento 11 ottobre 2021
- “Autorità, ministerialità e profezia delle donne nella prima Chiesa” 10 gennaio 2022
A domanda non rispondo (o non so rispondere)
Cronache dalla conferenza stampa di presentazione del primo “Report nazionale della CEI sulla tutela dei minori e delle persone vulnerabili” nelle diocesi italiane.
È stato presentato il primo “Report nazionale della CEI sulla tutela dei minori e delle persone vulnerabili” nelle diocesi italiane. Alle numerose domande poste dai giornalisti presenti alla conferenza stampa, i referenti (Monsignor Giuseppe Baturi, Segretario Generale della CEI e Monsignor Lorenzo Ghizzoni, referente della CEI per la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori) hanno risposto in maniera, a nostro parere, sconcertante.
Qui trovate la trascrizione di alcune domande/risposte.
D. Perché non commissionare un rapporto a un’entità terza, anche senza nulla togliere alla terzietà della Università cattolica che “elabora” questi dati, ma proprio nel momento della raccolta a monte?
R. (Il Report) è un tentativo nuovo articolato che si avvale già di centri di indipendenti nella capacità di lettura di questi dati messi a disposizione poi nella loro elaborazione
D. Prevedete risarcimenti?
R. (Sul) tema del risarcimento … non siamo ancora giunti a determinazioni più precise.
D. All’interno del report si afferma che è stata rilevata una prevalenza di provvedimenti disciplinari superiori anche al numero di indagini previe: allora io volevo chiedere ragione di questo..
R. Il report fotografa le attività e la costituzione dei centri di ascolto dei servizi; non è immediatamente questo studio di quelli che sono le conseguenze … quello che si rileva e in questo frangente va letto in questo, occorrono ulteriori approfondimenti ma non è l’obiettivo né del report.
D. Io personalmente mi attendevo che il Cardinale Zuppi oggi fosse qui anche a raccontarci questa attenzione nei confronti delle vittime come si è dispiegata nel tempo.
R. Beh sì sull’ascolto delle vittime … io posso aggiungere una nota: negli ultimi anni negli ultimi anni sappiamo dai vescovi, dai dialoghi tra vescovi eh? a cena, a pranzo quando ci troviamo insieme nei corridoi eccetera io poi vengo eh è informato su questo sappiamo dai vescovi che c’è stato una crescita di preoccupazione notevolissima e c’è stata anche un’attenzione notevole dei vescovi a fare con sempre più precisione quello che si deve fare.
D. Visto che non c’è nel report un elenco delle diocesi che hanno risposto avete detto 168 volevo sapere se per esempio la diocesi di Piazza Armerina è compresa in queste diocesi che hanno risposto?
R. Stanno verificando a memoria difficile ricordarsi
D. Lei dice i vescovi inadempienti sono stati anche in qualche modo sanzionati, vorrei sapere se sono stati sanzionati? Tra le sanzioni diciamo così per i sacerdoti responsabili di abusi è anche prevista (prevedete) anche la segnalazione da parte del vescovo dell’ordinario all’autorità giudiziaria?
R. Ho detto che le norme di Vos estis Lux mundi prevedono che se un vescovo è inadempiente può essere sanzionato e è un sì che io sappia che io sappia no… poi sono cose che si c’è un tribunale della Santa sede e quindi mentre per quanto riguarda la denuncia noi abbiamo nelle linee guida approvate dalla Santa Sede un numero specifico che dice appunto che non c’è per la legge italiana l’obbligo né da parte dei vescovi né di qualunque altro cittadino italiano di fare denunce su questo tema.
[Concordato e non essere dipendenti pubblici]
R. Ecco, faremo ogni sforzo perché tutti possano partecipare dando risposte a questi questionari così somministrati quindi continueremo la nostra azione di sollecitazione di di persuasione di di pressione, ma molto dipende…
D. Domanda relativa ai 613 o se vogliamo anche solo casi distinti naturalmente mi rendo conto ai 68 presunti autori di reato che sono stati evidenziati nel report; ci sono delle stime è possibile anticipare delle stime circa i casi di archiviazione e i casi in cui effettivamente c’è stato un comportamento pedofilo e di grave accertato?
R. Non abbiamo statistica
D. Mi riferisco in particolare al recente monito del Santo Padre sulla diffusione della pornografia tra i sacerdoti e anche tra le tra le suore e volevo sapere se è previsto qualcosa di specifico su questo campo che in qualche maniera è connesso comunque al discorso degli abusi?
R. Noi abbiamo nel cammino di formazione dei religiosi delle religiose e dei seminaristi… abbiamo sempre un percorso di formazione sul tema della castità, castità in vista del celibato dobbiamo evidentemente formare anche all’uso dei mezzi di comunicazione in modo particolare all’uso della rete e dei social anche per coloro che… è un grosso capitolo dell’educazione della formazione che è davanti a noi…
D. Sui 613 fascicoli sono ricompresi anche i casi segnalati soltanto all’autorità giudiziaria civile o a questi 613 fascicoli per una completezza di indagine vanno sommati anche quei casi che invece sono arrivati solo alla segnalazione delle autorità civili?
R. Allora naturalmente questa indagine che faremo questa ricerca col dicastero dottrina della fede riguarda le denunce in ambito canonico… non so non so non saprei dire in che misura è stata realizzata in Italia una condivisione per un’aggregazione dei dati e che ha a disposizione delle singole amministrazioni statali.
D. Sulla ricerca viene specificato qual è il ruolo dei laici di questi 68 presunti abusatori volevo sapere anche qual è il ruolo dei chierici e dei religiosi cioè sono parroci, personale dei seminari, o quant’altro?
R. Non abbiamo il dettaglio dei profili dei chierici c’era una macro classe distinta dai laici
D. Considerando il carattere di serialità di questo di questo crimine che qui si parla di 89 segnalazioni, quindi sulla base di questi dati preliminari che tipo di che interpretazione date al fenomeno?
R. Ma questo studio noi l’abbiamo avuto pochi giorni fa e quindi certamente sarà utile come avevamo annunciato a maggio per una riflessione per cambiamenti, conversioni di stili, ma anche di strutture e quindi ne faremo oggetto di riflessioni in tutti gli ambiti della Cei, non l’abbiamo fatto perché davvero è arrivato adesso, perché ci si era dati come scadenza quella del 18 novembre, cioè la giornata di preghiera, e quindi si è fatto un po’ di corsa e quindi torneremo a fare…
D. Si intravede un come dire un carattere un problema di carattere strutturale o ancora non solo strutturale ma anche culturale? Che tipo di interpretazione iniziate a dare a questo a questo studio ai risultati di questo studio?
R. Vedremo un po’ però i cambiamento di mentalità e questo in fondo noi eravamo in fondo avevamo provato ad affrontare …in modo sistematico il fenomeno per vedere delle costanti e per agire su questo in termini di prevenzione, di formazione, di accertamento della verità, di accompagnamento, percorsi dolorosi ma necessari di guarigione e in punizione e repressione evidentemente secondo tutta la scala, e quindi per quanto ci riguarda nell’intenzione faremo di tutto, …e quindi in questa azione che si sta facendo si sta cercando di provocare una lettura globale del fenomeno ai fini di predisporre una reazione adeguata
D. È di poche ore fa la notizia che il dodicesimo vescovo francese l’ex arcivescovo di Strasburgo ha dichiarato di aver abusato di una di una donna, di una ragazza, allora perché son 12 in Francia evidentemente non si tratta di mele marce ma è una situazione che probabilmente dice qualcosa di più sullo stato della Chiesa francese. Mi chiedevo, In Italia i vescovi sono più virtuosi?
R. Sui 12 vescovi sui 12 vescovi cioè è una cosa che colpisce e che fa star male però non so cosa dire
D. Possiamo pensare che ci siano in quei chierici di cui che sono stati denunciati, anche dei vescovi oppure in quei 613 fascicoli alla congregazione alla fede lo possiamo escludere non abbiamo voi che pensate?
R. Se nei 613 fascicoli verranno fuori anche dei vescovi che sono stati colpevoli e su cui sui quali è stato sono stati fatti dei provvedimenti, vedremo…
Ed è tutto vero:
di Stefania Manganelli Roma, 17 novembre 2022
www.donneperlachiesa.it/2022/11/18/report-abusi-20221117/
video registrazione https://youtu.be/JuioBkOi6H4http://www.donneperlachiesa.it/2022/11/18/report-abusi-20221117/
ECUMENISMO
Paolo Ricca: «Gesù ha bisogno di molti “Pietro”».
Per la prima volta nella storia, un pastore valdese parla nella Basilica di san Pietro
Lo scorso 22 novembre, invitato dal cardinale Gianfranco Ravasi, il teologo ha partecipato a una Lectio Petri, insieme al teologo ortodosso laico, Dimitrios Keramidas e al cattolico Dario Vitali.
Cettina Militello ha moderato l’incontro, che si è tenuto lo scorso 22 novembre.
Paolo Ricca (α 1936) ha parlato dell’interpretazione del versetto biblico: “su questa pietra edificherò la mia chiesa”. Il “Tu es Petrus”, afferma il teologo, è insieme al “Tu es Christus” del versetto 16. Tu es Petrus è l’eco del Tu es Christus che Pietro ha appena pronunciato nei confronti di Gesù. Queste due dichiarazioni, sostiene Paolo Ricca, sono inseparabili. [Matteo 16,15]
«Il Tu es Christus è la madre del Tu es Petrus. Pietro si chiamava in realtà Simone. Gesù gli cambia nome (come Giacobbe, a cui Dio cambia nome in Israele). Gesù dice: ‘ora ti chiamerai Pietro, perché sei roccia e su questa roccia voglio costruire la mia chiesa’. Roccia? Pietro? – si chiede Ricca – Ma conoscete Pietro? Era tutto, fuorché una roccia. Generoso, sì. Impulsivo, ma uno che dovrà piangere su sé stesso amaramente, perché proprio lui rinnegherà per tre volte il suo maestro che amava tanto. Roccia? Sì, roccia, con le sue contraddizioni, come noi, con le nostre contraddizioni siamo stati chiamati a un compito più grande di noi, come quello di Pietro. Gesù trasforma in una roccia questo giovane, che non era una roccia. E perché? Perché è il primo fra tutti, di fatti Matteo lo chiama protos, protos, in greco. Il primo in che senso?».
In che senso, dunque, Pietro è il primo? Risponde Ricca: «è il primo che dice Tu es Christus. Nessuno lo aveva detto. Nessuno se ne era accorto, nessuno forse aveva il coraggio di dirlo. È questo il primato, se vogliamo chiamarlo così». E conclude dicendo: «Pietro è il primo, ma non è l’unico. Gesù risorto chiamerà Paolo, il quale fonderà molte chiese sullo stesso fondamento di Pietro, cioè sul Tu es Christus. E io mi chiedo se Gesù non voglia fare anche di noi dei tanti piccoli “Pietro”. Gesù ha bisogno di molti “Pietro”, non basta uno. E forse questa sera vuole fare anche di noi dei piccoli “Pietro”, delle piccole rocce domestiche, sulle quali lui, Gesù, vuole costruire la sua chiesa. La chiesa cristiana non è nata nelle basiliche, è nata nelle case, la prima forma della chiesa cristiana è la chiesa domestica. E allora questa potrebbe essere la Lectio Petri. Un insegnamento. Gesù ha bisogno di molti piccoli “Pietro” per la sua chiesa in una Europa largamente secolarizzata, e anche in questa città».
Queste le parole del teologo, che ha parlato «Di fronte all’altare che porta le reliquie di Pietro, che con una certa prepotenza architettonica ci ricorda il primato» ha detto Militello introducendo Ricca. Il quale ha esordito con un solenne ringraziamento, le cui parole sono state: «Cari fratelli e sorelle, non posso iniziare questo intervento se non ringraziando dal profondo del cuore la fondazione ”Fratres Omnes” per l’invito a partecipare a questa Lectio Petri. È sicuramente la prima volta nella storia millenaria di questa Basilica che un pastore della chiesa valdese, quale io sono, parla qui, gli viene data la parola, in libertà e fraternità. Non era mai successo nella storia. È un fatto assolutamente nuovo, una di quelle cose nuove, di cui parla il profeta Isaia, che Dio crea nella storia del suo popolo. Una di quelle primizie dello Spirito di cui parla l’apostolo Paolo. E quello che non vediamo qui oggi. E che cos’è questa cosa nuova? È la chiesa ecumenica che avanza e oggi prende corpo, anche qui, proprio qui in questa Basilica molto significativa da tutti i punti di vista per tutta la cristianità. Proprio qui la chiesa ecumenica, cioè la chiesa di tutti i cristiani, prende corpo. Diventa visibile. È una cosa straordinaria, una cosa per la quale possiamo solo ringraziare Dio che non si stanca di creare cose nuove, anche e proprio nel nostro tempo. È proprio la chiesa dei ”Fratres Omnes” anzi tutto cristiani. Lo siamo sempre stati, Fratres Omnes, ma solo nel nostro tempo ce ne stiamo accorgendo, lentamente, e alcuni non se ne sono ancora accorti».
Diversi i commenti sui social, con centinaia di condivisioni e interazioni. Fra i post, segnaliamo quello di Paolo Sassi, «caro amico della Comunità di sant’Egidio», come lo chiama lo stesso Ricca. «Tra la cattedra di Pietro e il baldacchino di Bernini, Paolo Ricca ha parlato “in libertà e fraternità”, con passione ed emozione» ha commentato sulla sua pagina Facebook.
Qui il video integrale: https://youtu.be/PaEdjtbRvj8
Nev – Notizie Evangeliche quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
riforma.it/it/articolo/2022/11/24/paolo-ricca-gesu-ha-bisogno-di-molti-pietro-la-prima-volta-nella-storia-un?utm_source=newsletter&utm_medium=email
FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Nella teologia più spazio alle donne. Verso la tradizione «fedeltà creativa»
Tre “direttrici” nel solco del Concilio Vaticano II «bussola sicura per il cammino della Chiesa».
www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2022/november/documents/20221124-cti.html
Linee guida e insieme stile di lavoro in un momento «arduo» eppure «carico della promessa e della speranza che scaturiscono dalla Pasqua del Signore». Nell’udienza alla Commissione teologica internazionale, il Papa indica le priorità da seguire nel servizio di studio, approfondimento e inculturazione del Vangelo. Un percorso che senza nessun «indietrismo», per usare un’espressione cara al Pontefice, deve giocoforza coniugare la memoria viva con l’apertura matura e attenta al futuro. Va in questo senso, ed è la prima direttiva, «la fedeltà creativa alla tradizione». Si tratta – osserva Francesco – «di assumere con fede e con amore e di declinare con rigore e apertura l’impegno di esercitare il ministero della teologia – in ascolto della Parola di Dio, del sensus fidei del popolo di Dio, del magistero e dei carismi, e nel discernimento dei segni dei tempi – per il progresso della Tradizione apostolica, sotto l’assistenza dello Spirito Santo, come insegna la Dei Verbum ». Detto in modo più diretto, la tradizione, l’origine della fede, o cresce o si spegne.
«Perché – osserva il Pontefice –, diceva uno, credo fosse un musicista, che la tradizione è la garanzia del futuro e non un pezzo di museo. È quello che fa crescere la Chiesa dal basso in alto, come l’albero: le radici. Invece un altro diceva che il tradizionalismo è la “fede morta dei vivi”: quando tu ti chiudi. La tradizione – voglio sottolineare questo – ci fa muovere in questa direzione: da giù in su: verticale». Si muove in senso contrario a quest’atteggiamento la logica del “si è fatto sempre così”, che poi significa tornare indietro, non rischiare. «Una dimensione orizzontale –aggiunge il Papa – che ha mosso alcuni movimenti ecclesiali, a restare fissi in un tempo».
Il riferimento è a realtà nata alla fine del Vaticano II, «cercando di essere fedeli alla tradizione», che oggi «si sviluppano in modo da ordinare donne, e altre cose, fuori dalla direzione verticale, dove cresce la coscienza morale e così la coscienza della fede», secondo «quella bella regola di Vincenzo di Lérins: “ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur ætate“ (cioè “per consolidarsi con gli anni, sviluppandosi nel tempo, approfondendosi con l’età”».
La seconda direttrice concerne l’opportunità, «di aprirsi con prudenza all’apporto delle diverse discipline grazie alla consultazione di esperti, anche non cattolici, come previsto dagli Statuti della Commissione». Vuol dire anche far tesoro del «principio dell’interdisciplinarietà: non tanto nella sua forma “debole” di semplice multidisciplinarità, come approccio che favorisce una migliore comprensione da più punti di vista di un oggetto di studio; quanto piuttosto nella sua forma “forte” di transdisciplinarità, come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di luce e di vita offerto dalla sapienza che promana dalla rivelazione di Dio»
La terza direttrice, infine, è quella della collegialità che «acquista particolare rilevanza e può offrire uno specifico contributo nel contesto del percorso sinodale, in cui è convocato tutto il popolo di Dio. Lo sottolinea – aggiunge il Papa – il documento elaborato in proposito, nel precedente quinquennio, su La sinodalità nella vita
e nella missione della Chiesa.. «Come per qualsiasi altra vocazione cristiana – recita il testo – anche il ministero del teologo, oltre ad essere personale, è comunitario e collegiale. La sinodalità ecclesiale impegna dunque i teologi a fare teologia in forma sinodale, promuovendo tra loro la capacità di ascoltare, dialogare, discernere e integrare la molteplicità e varietà delle istanze e degli apporti».
In questo senso appare molto importante il contributo femminile. «Credo che si dovrebbe aumentare il numero delle donne – osserva il Papa – non perché siano di moda ma perché hanno un pensiero diverso dagli uomini e fanno della teologia qualcosa di più profonda e più saporita». Da loro cioè può venire un contributo fondamentale al compito affidato ai teologi che «devono andare oltre, cercare di andare oltre». In questo consiste anche la differenza con il catechista che «deve dare la dottrina giusta solida; non le eventuali novità». Mai dare catechesi ai bambini e alla gente con dottrine nuove che non sono sicure – avverte il Papa –. «Questa distinzione non è mia, è di sant’Ignazio di Loyola, che credo capisse qualcosa meglio di me!».
Riccardo Maccioni “Avvenire” 25 novembre 2022
www.avvenire.it/papa/pagine/papa-servirebbero-piu-donne-tra-i-teologi
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221125maccioni.pdf
MATRIMONIO
Un matrimonio da portare in detrazione: il bonus e Don Abbondio
La proposta di “incentivare il matrimonio cattolico” con un bonus, che preveda la possibilità di detrarre il 20% delle spese sostenute per la cerimonia fino al tetto massimo di 20.000 euro, ha suscitato immediatamente reazioni sdegnate. Un quadro molto preciso delle questioni è stato delineato a caldo da Luciano Moia ieri su “Avvenire” (in un puntuale articolo che si può leggere)
www.avvenire.it/famiglia/pagine/non-basta-un-bonus-per-sostenere-il-matrimonio
Le parole chiare di questo testo recepiscono anche le dichiarazioni ferme di Mons. Paglia, che suonano così:
“Il matrimonio per la Chiesa è un sacramento e un sacramento non si compra. Il credente che sceglie la celebrazione del matrimonio in Chiesa, non si fa convincere a questo passo dalle detrazioni economiche”.
Non si deve dimenticare, tuttavia, come mette bene in luce lo stesso Moia nella seconda parte del suo articolo, che questa “riduzione economico-giuridica” del matrimonio non è solo frutto di una “grossolana svista” di alcuni parlamentari leghisti, ma è anche il risultato di una “storia” di cui la Chiesa cattolica deve assumere una parte non piccola di responsabilità. Vi è una autocritica ecclesiale che è intrinseca al “rilancio sano” della scelta matrimoniale. Lo ha detto chiaramente papa Francesco in quel “decalogo di autocritica” che troviamo all’inizio di Amoris Lætitia e dove precisa: “Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità.” (AL 35)
Questa autocritica è particolarmente ardua, perché cozza contro un “sistema” che ha fatto del principio di autorità la sua ragion d’essere, la sua identità e il suo onore. Vorrei soffermarmi brevemente su questo punto.
a) La relazione tra “bonus” e “tametsi”. Due parole latine ci sono utili, per capire la deriva “giuridico-economicistica” nella quale siamo caduti, quasi senza accorgercene. Ci aiuta in modo elegante ancora L. Moia, che all’inizio del suo articolo ricorda come Don Abbondio, nel cap. 2 dei Promessi sposi, propone a Renzo una piccola lezione sul matrimonio: «“Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?” “Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?” “Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, si sis affinis, …” cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. “Si piglia gioco di me?” interruppe il giovine. “Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”»
La scena è carica di quella ironia che Manzoni sapeva orchestrare con tanta abilità. Ma rappresenta una comprensione del matrimonio che da circa un secolo era divenuta possibile in Europa, dopo il decreto Tametsi (1563). Con il quale la Chiesa cattolica assumeva come criterio di validità del sacramento del matrimonio la sua “forma canonica”. Per la prima volta il matrimonio diventava totalmente interno ad un “ordinamento giuridico”. La proposta di legge della Lega resta, sostanzialmente, in questa logica: e intende incentivare la scelta del matrimonio “religioso” mediante un “bonus”.
È curioso leggere la definizione che il Vocabolario Treccani dà di “bonus”: “Sconto, abbuono, spec. in ambiti come le assicurazioni e i trasporti.” Che si tratti il matrimonio come una assicurazione o un contratto di trasporto non è cosa nuova. Molta parte delle politiche economiche “a favore della famiglia” funzionano così: con sconti, detrazioni o incentivi, creano le condizioni perché la unione, la generazione o la cura-assistenza possano risultare economicamente più vantaggiose. La riduzione “economica” di un sacramento è certo cosa grave: ma non ha cominciato a farlo lo Stato, bensì la Chiesa, in tutt’altro tempo e con ben altri intenti. Però la sovrapposizione completa e tendenzialmente totalizzante e tra “ordinamento ecclesiale” e “logica matrimoniale” è nata proprio a metà del XVI secolo, nella reazione della Chiesa cattolica alle trasformazioni moderne. È la modernità cattolica ad aver inventato questa possibilità.
b) Conseguenze inattese di una scelta contingente. Un sacramento “non si compra” né si sottopone a condizioni, si dice giustamente. Ma la “forma canonica” è precisamente una “condizione” perché il sacramento sia valido. Da questa scelta, discussa allora e discutibile anche oggi, discendono una serie di conseguenze inattese: ad es. la tendenziale applicazione, sempre più estesa, delle “condizioni di nullità” ad ogni vincolo matrimoniale; la pretesa che solo l’ordinamento ecclesiale fondi un legame valido; la lotta contro ogni normativa civile circa il matrimonio e la parallela contrapposizione tra ordinamento canonico e ordinamento civile, fino alla possibilità – davvero estrema – per cui l’ordinamento civile costruisce una legge che favorisce la scelta dell’ordinamento canonico (cosa che, sul piano civile, cozza contro il principio costituzionale di parità di trattamento).
Può essere sorprendente, ma è un buon segno, che oggi sia venuto dal mondo ecclesiale cattolico la protesta contro un provvedimento che attesterebbe “una scelta discriminatoria tra matrimonio religioso e matrimonio civile”. Questa è una buona notizia. Ma dietro alla questione rimane il problema strutturale e sistematico della “cecità” dell’ordinamento canonico rispetto agli altri ordinamenti. Questo punto critico rimane intatto, finché la logica totalizzante e totalitaria di “Tametsi” resta lo stile di fondo del modo di pensare il matrimonio, con una esclusiva attribuita all’ordinamento ecclesiale che fatica a comporsi con le logiche della natura e della città. E che pertanto, in caso di crisi, preferisce “dichiarare la nullità del vincolo” piuttosto che riconoscerne altre forme. D’altra parte la stessa nullità non è stata elaborata, fin dall’origine, assimilando matrimonio e contratto? Qui sta il punto debole della tradizione, che AL ha iniziato a modificare.
c) Il bonus come condicio e il valore gratuito del matrimonio. Si è detto, a ragione, il matrimonio è una scelta libera, che non può essere condizionata da un “bonus”. Questo però vale per ogni matrimonio. Ma le politiche di incentivi lavorano precisamente sulla “convenienza”. Che cosa accadrà se, come è probabile, il bonus verrà esteso ad ogni matrimonio (religioso e civile)? Si chiederà forse al cattolico, che decide di sposarsi in Cristo, di sottoscrivere una dichiarazione di “rinuncia al bonus”? Oppure il ricorso al bonus potrà essere usato, domani, come “motivo di nullità”? In realtà le politiche di incentivo alla unione e alla generazione prendono. spesso la figura di “vantaggio economico”.
Di questo non ci si deve scandalizzare troppo. Piuttosto deve essere arricchita la percezione delle “diverse forme di legame familiare”, e delle loro differenze, senza introdurre, per legge, forme di discriminazione o di disparità maggiori di quelle che già esistono di fatto. Tuttavia il fatto che un soggetto possa portare in detrazione, nella prossima dichiarazione dei redditi, le spese che ha sostenuto per i fiori o per il pranzo del matrimonio, mi pare un modo per ridurre ulteriormente quella esperienza di gratuità che proprio un matrimonio religioso dovrebbe garantire, quasi a simbolo massimo di ogni convivenza di fatto. Il matrimonio “religioso” è una differenza di grazia, una differenza gratuita. Così l’incentivo economico, inventato per favorire una esperienza, si capovolgerebbe, facilmente, in un più radicale svuotamento simbolico dell’atto matrimoniale, dei suoi linguaggi contingenti e della sua potenza vitale. Non c’è festa senza consumo, senza perdita, senza pura gratuità. Contraddire questa sapienza umana ed ecclesiale, per un piatto di lenticchie, sarebbe un modo, indiretto ma feroce, con cui non da Don Abbondio, ma proprio con le nostre mani saremmo condotti, quasi inconsapevolmente, a “prenderci gioco di noi stessi.”
Andrea Grillo blog Come se non 22 novembre 2022
www.cittadellaeditrice.com/munera/un-matrimonio-da-portare-in-detrazione-il-bonus-e-don-abbondio/
MIGRANTI
L’offensiva della Chiesa sui diritti dei migranti “Subito lo Ius Culturæ”
«Serve un piano serio di rivisitazione della casa dopo sessant’anni, sia garantita a tutti. Prima gli italiani? Lo sono anche quelli che arrivano e arriveranno». «Speriamo che la discussione sullo Ius si risolva presto. Da tanti anni siamo passati dallo Ius Soli allo Ius Culturæ: troviamo la via d’uscita perché possa essere data l’opportunità a tantissimi che vogliono essere italiani». Immigrazione e diritti. Dall’accoglienza, intesa come gestione dei flussi, ma anche come diritto alla casa, alla riforma della legge sulla cittadinanza.
Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, torna a pungolare la politica e il governo su uno dei temi che più gli stanno cari e sui quali anche recentemente è intervenuto sostenendo che «quello delle migrazioni è un problema che va affrontato insieme, l’Europa deve aiutare tutti i Paesi, compresa l’Italia, che sono più esposti all’immigrazione». Il capo dei vescovi italiani non cita direttamente l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, ma è evidente che il suo ragionamento nasce anche dalle decisioni prese nelle scorse settimane sui respingimenti e i ricollocamenti dei migranti. E sugli impatti che queste scelte stanno avendo a livello europeo, come ha ricordato recentemente su Famiglia Cristiana il presidente della Fondazione Migrantes monsignor Gian Carlo Perego. «Siamo in un momento particolare – osserva Zuppi – Il nostro Paese è una comunità all’interno dell’Europa, con un umanesimo a cui non dobbiamo mai venire meno, e che ha tanto da fare oggi. Mi auguro che tra dieci anni vi sia molta struttura in più e un sistema che forse noi non vedremo, ma è questo il grande ruolo della politica e dell’uso delle cose comuni».
Anche il luogo da cui il presidente della Cei sceglie di dire queste cose, l’assemblea nazionale dell’Anci (l’associazione dei Comuni italiani) in corso in questi giorni alla fiera di Bergamo, dimostra che l’approccio del capo dei vescovi italiani è insieme ideale e pragmatico, vicino ai problemi concreti (come appunto quello di garantire a tutti un tetto) e alla capacità di trovar-e soluzioni che caratterizza l’azione degli amministratori locali. Proprio riferendosi ai sindaci, infatti, Zuppi sottolinea che «esprimono la comunità e hanno il vantaggio della prossimità».
Le parole dette a Bergamo dal cardinale rilanciano anche le riflessioni del settimo Festival della Migrazione, organizzato dalla Fondazione Migrantes, che si è aperto ieri in Emilia-Romagna. Un segnale che quella della Chiesa italiana sui migranti è un’offensiva mirata. «La nostra rassegna è un laboratorio importante per superare ritardi ideologici, pregiudizi e paure intorno ai migranti e finalmente governare un fenomeno che segnerà il nostro futuro – ha spiegato monsignor Perego presentando l’iniziativa – La storia dei processi di democratizzazione delle società politiche occidentali coincide con la storia della progressiva affermazione dei diritti di cittadinanza, attraverso un duplice movimento: l’aumento del numero e del tipo di diritti riconosciuti e garantiti ai cittadini; la crescente estensione della classe dei cittadini, di coloro cioè che hanno titolo a godere di tali diritti. In un processo di democratizzazione, pertanto, una mobilità crescente e diffusa chiede non di limitare, ma di estendere la cittadinanza». E di immigrazione, ieri, rivolgendosi soprattutto all’Unione Europea che stenta a trovare una soluzione condivisa, ha parlato anche il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano: «Ancora oggi continua a essere drammatico il numero delle vittime nel mare ed è sempre più urgente una risposta politica».
Francesco Moscatelli “La Stampa” 24 novembre 2022
www.lastampa.it/cronaca/2022/11/24/news/loffensiva_della_chiesa_sui_diritti_dei_migranti_subito_lo_ius_culturae-12258401
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221124moscatelli.pdf
RIFLESSIONI
Enzo Bianchi “Cosa c’è di là. Inno alla vita”
Un estratto del libro “Cosa c’è di là” (Il Mulino) in uscita oggi.
Su questa terra che tanto amo, ho sempre cercato l’eternità. Parlare della morte è per me un parlare della vita, è guardare in faccia la fine inesorabile per vedervi la forza della vita che è segnata da immortalità. Sono passati quasi cinque anni dalla pubblicazione del mio libro: La vita e i giorni, il mio De senectute, scritto ascoltando semplicemente e quotidianamente il mio corpo, attento allo scorrere del tempo e osservando quelli che diventavano vecchi come me e con me. Senza tralasciare la meditazione sulla vecchiaia ho sentito l’urgente bisogno di interrogarmi sulla mia attesa, la mia speranza, i miei dubbi sull’aldilà. L’«al di là della morte»! D’altronde questo limite, la fine della vita umana, è sempre stato molto presente nella mia esistenza perché fin da piccolo l’ho conosciuta: ha spezzato i miei affetti più cari, e mi ha obbligato a sentirla sempre incombente, reale, brutale, una nemica. Ho cercato nella mia vita cristiana di tener sempre presente l’evento della morte e di desiderare la vita eterna come mi insegnavano i miei maestri spirituali, ma anch’io ho sentito la tentazione di distrarmi e di dimenticare di dover morire. Ho sempre ripetuto il versetto del Salmo 90: «La nostra vita arriva a settant’ anni, a ottanta se ci sono le forze», e ho sempre cercato di contare i miei giorni per giungere al cuore della sapienza, ma ancora oggi la morte sta davanti a me come un enigma, un’ingiustizia: ogni volta che muore qualcuno tra coloro che amo mi sento ferito, mi sento più povero, e piango non solo con le lacrime degli occhi ma con quelle del cuore che nell’amare gli altri desidera che vivano per sempre.
Lo so, lo so che «l’amore s’ha da reinventare», come scriveva Arthur Rimbaud, ma quando interviene la morte non lo si reinventa più: lo si ricorda, lo si rivive, lo si invoca, ma non lo si reinventa. E questo amore è mortale anche per chi resta. Non a caso, come affermava Gabriel Marcel, nella relazione amorosa quando uno dice all’altro «ti amo», in realtà gli dice: «Tu non devi morire! Quindi ti amo per sempre, eternamente», anche se non sa cosa significa «eternamente». La morte non solo non esclude un inno all’amore, ma lo esalta e gli dà la forza dell’immortalità. Lo sappiamo e lo crediamo: l’amore vince la morte! Forse noi non sappiamo cantare trionfalmente: «O morte, dov’è la tua vittoria?», perché la morte è ovunque, e tuttavia quando l’umanità è capace di amare la fa arretrare e la vince. So che è un azzardo parlare della morte, e quindi di Dio, in questo libro: niente è più incerto e rischioso, ma cercherò con semplicità di dire solo ciò che mi è possibile dire. Perché Dio nessuno l’ha mai visto, la sua presenza è elusiva e per noi resta inconoscibile.
Quanto alla morte, anch’io la conoscerò solo quando sarà la mia ora, e prima posso solo prevederla, immaginarla, prepararla, ma resterà sempre un evento che non riesco a realizzare… Morte e aldilà, per un credente in Dio, sono realtà ultime dalle quali nessuno mai è tornato a noi per farcene un racconto. Sono un enigma che speriamo di vedere risolto in un mistero, una rivelazione su di noi e sul senso di questo mondo. Parlare della morte è quindi per me un parlare della vita, è guardare in faccia la fine inesorabile per vedervi la forza della vita che è segnata da immortalità. Ho sempre detto e scritto che l’importante non è la meta, ma in questa sera del mondo è più importante camminare insieme, credere in un orizzonte comune di credenti in Dio e di non credenti in lui, e in questo cammino custodirci gli uni gli altri. So che la terra promessa è stata promessa perché noi camminiamo, e so che da tre millenni chi cerca la terra promessa non riesce mai ad abitarla. Ma non per questo il cammino si svuota di senso: è molto più decisivo sentirci viandanti, nomadi, capaci di stringerci insieme nella notte, che giungere alla meta. Anche nello scrivere queste pagine ho fatto un pezzo di strada non da solo ma con tanti compagni e amici: mi sono sempre sentito in una carovana e mai un disperso nel deserto. Neanche l’esilio mi ha destabilizzato rispetto alle convinzioni che mi hanno ispirato una vita intera e mi hanno permesso di conoscere l’amore che anche quando è contraddetto e tradito resta la realtà più grande e più bella che possiamo vivere. Siamo mortali ma non per la morte, e non siamo «una parentesi tra due nulla» come affermava Jean Paul Sartre! Basta che ci guardiamo negli occhi, che ci stringiamo la mano, che ci baciamo guancia a guancia per sentire nel cuore e comprendere che possiamo sperare in un aldilà! Io vorrei che queste pagine fossero capaci di dire quel che vivo nella brevità dei giorni, ma amando la terra come me stesso, nella viva comunione che non conosce né confini, né barriere, né muri, ma solo la fragilità che a volte impedisce la bellezza. Perché se gli umani diventano cattivi è perché hanno paura della bellezza: non la bellezza salverà il mondo ma la bellezza sarà il mondo!
In tutte le culture si è sentito il bisogno di affermare che esiste una lotta, una guerra contro la morte: chi la combatte? L’amore (éros contro thánatos), una divinità che riporta la vittoria, una conquista dell’umanità che tarda a venire? Ciò che abita le nostre profondità, questa vita che vuole vincere la morte, è solo un anestetico per paura della morte? È una proiezione dei nostri desideri di eternità? E ancora, come prepararsi a morire accettando che il limite del nostro vivere sia avvolto nella nebbia e nell’oscurità, sia pensato fra tanti dubbi e nessuna certezza, tutt’al più sia accompagnato da alcune convinzioni, come la fede, che lo rendono visibile tra le realtà invisibili? La mia lunga vita, nella quale ho potuto dedicare tanto tempo del giorno e della notte al pensare, mi ha fornito alcune indicazioni, che posso giudicare feconde. E a chi fa fatica a trovare senso nella vita sento di dire che se la vita ha un senso è perché lo si può trovare nelle vite degli altri, quando mi prendo cura di loro, quando mi dedico o combatto per una causa giusta, quando so dire non solo «io» ma «tu e io», «noi insieme». Si può sentire la vita assurda, come scriveva Camus, insignificante, come affermava Cioran, o tragica, come la leggeva Nietzsche, ma nessuno può dire che l’amore non abbia senso: è l’amore che crea il senso, che permette di sostenere l’enigma della morte e che rende il vivere una vita! A chi riesca difficile spegnere l’angoscia del pensiero della morte, suggerisco che la strada da seguire è solo quella dell’amore, vivendo in pienezza la vita, per quel tempo che ci è concesso.
Enzo Bianchi La stampa 25 novembre 2022
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/11/enzo-bianchi-cosa-ce-di-la-inno-alla.html
Com’è profondo il male
colloquio con Andrea Toniolo e Luigi Zoja a cura di Ida Bozzi
Non che il mondo, prima, fosse un luogo tranquillo. Ma il nuovo millennio, aperto con l’apocalisse dell’11 settembre 2001, è continuato con la crisi economica del 2008, con il disastro nucleare di Fukushima nel 2011, con gli attentati islamisti del 2015. Per non parlare della pandemia globale iniziata nel 2020, della guerra in Ucraina e quindi nel cuore dell’Europa nel 2022, e del cambiamento climatico che pare un cataclisma appena agli albori. Sembra urgente capire che cos’è il male, come ci riguarda, che cosa possiamo fare. Ne parlano due libri, entrambi del 2022:
- Male. (Edizioni Messaggero Padova) di don Andrea Toniolo, preside della Facoltà Teologica del Triveneto,
- Dialoghi sul male (Bollati Boringhieri) dello psicoanalista e sociologo Luigi Zoja:
«la Lettura» ha chiesto ai due autori di confrontarsi sulla domanda di tutti intorno al male.
Che cos’è il male?
Andrea Toniolo α1964— Luigi Zoja α1943
Credo che esistano tre «fili» del male, tra loro intrecciati:
- il male come sofferenza fisica e/o psichica;
- il male morale, come malvagità, cattiveria;
- il male metafisico, il male dell’essere, cioè la fragilità che caratterizza l’essere nel mondo.
La riflessione chiama in causa il tema della fede e delle religioni, della filosofia e della psicologia, e soprattutto la vera fonte di ogni pensiero, la vita, ed è legata alla mia professione non solo di teologo ma anche di pastore che si prende cura delle fatiche della sofferenza. Ad esempio, nel mio caso, l’accompagnamento al lutto di una coppia che ha perso per il covid una figlia di 32 anni.
La morte degli innocenti…
Andrea Toniolo — Il male della natura, quello che non ha spiegazioni, ha messo in crisi anche i grandi autori del Novecento, e penso a Dostoevskij, alle pagine dei Karamazov, penso al Camus de La peste. Uno degli atteggiamenti fondamentali da assumere, accompagnando le persone nel dolore, è l’ascolto del cammino che la sofferenza fa nel cuore, senza arrivare a «soluzioni», lo diceva bene il teologo Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) nel suo libro Resistenza e resa. Non c’è solo il nulla, il vuoto. Io ricordo l’esperienza di quella coppia: avevano bisogno di parlare, di ripercorrere la storia, e di aiuti psicologici, però alla fine hanno riconosciuto il grande aiuto che viene anche da una prospettiva religiosa. Non perché «risolve», ma perché permette di vivere la vita con un atteggiamento di fiducia e di speranza. Certo, il male della natura, soprattutto quello che sembra non avere responsabilità umane (è facile incolpare Dio o la natura quando magari c’è dietro la responsabilità di qualcuno) è un male da vivere comprendendo la realtà della creazione nel suo carattere di fragilità. La fragilità non è solo un limite: come diceva il teologo Romano Guardini, è anche un segno dell’apertura trascendente a qualcos’altro.
Luigi Zoja — Trovo molte concordanze con Toniolo, non solo nelle letture: non c’è nessuna ingenua tematica consolatoria, c’è un combattimento contro il male. Mi è capitato di farlo con molti pazienti, contro il male assurdo, cioè la perdita inattesa, la perdita di un figlio più che di un genitore. E peggio ancora che per una malattia, per suicidio: ci sono molti suicidi di adolescenti. Mi è capitato di accompagnare un genitore dopo il suicidio di un figlio; e mi è capitato anche, se vogliamo spingerci un po’ più in là con la metafora, di accompagnare in sofferenze anche spaventose un genere di paziente non frequente ma che esiste, e cioè il sacerdote, persona per definizione tormentata e che combatte, e che può essere o sentirsi orfana, del genitore madre Chiesa. Qui vorrei aggiungere alla riflessione il nome di un autore fondamentale della e sulla modernità, Max Weber, che parla della Entzauberung der Welt: il «disincanto del mondo». Il disincanto del mondo è dove tutto perde di senso, e quindi anche la morte non ha più senso, ognuno deve acquistarselo individualmente; così come la fede non ha più come referente il Dei gratia, ma è una più sofferta lotta individuale a cui grandi contenitori, come la Storia o l’istituzione Chiesa, non offrono più una risposta automatica. E contrariamente a una visione che ci viene dai serial e dai telefilm americani, la psicoanalisi dà un aiuto e può restituire «senso», ma non conferendo alla vita del paziente un ordine interpretativo. Non: « Vai dall’analista, lui ti spiega e poi ti senti meglio». Sei tu che, narrando il caos delle tue sofferenze, gli conferisci un ordine non interpretativo, ma narrativo. La narrazione è quello che ci salva: lo sappiamo dai grandi autori, non importa se credenti o laici o atei, ma che cercano un referente superiore.
Andrea Toniolo — Una delle esperienze che ho incontrato e sulle quali ho riflettuto (e che intercettano molto il lavoro della psicologia) è il rapporto, nella nostra coscienza, tra il male e Dio. Cioè, una delle grandi fatiche è proprio quella di liberare le persone da un certo concetto di Dio, deus ex machina, Dio onnipotente, Dio che interviene; un’immagine che crea cortocircuiti, perché se non interviene non è Dio, non è buono, quando invece il Dio di Gesù Cristo, il Dio che il cristianesimo propone, risponde al male e alla sofferenza con la solidarietà, soffrendo. Altra grande deviazione che è già nella Bibbia, con Giobbe, è quella della retribuzione, cioè di associare una sofferenza a una colpa, e quindi a una punizione; anche questo è un lavoro ai confini tra psicologia, religione, aiuto pastorale. Sono i residui della vecchia religione che anche Bonhoeffer tentava di scalfire, che rendono più sofferente l’animo umano e religioso.
Luigi Zoja — Noi spesso ci rifacciamo, se vogliamo discutere sul male, a pensatori protestanti come Bonhoeffer, mentre da noi c’è una specie di isolamento, perché il pensiero cattolico è considerato più rigido, meno aperto e meno psicologico. In realtà è solo uno stereotipo, si può guardare sotto la crosta: un lavoro congiunto, teologico e psicologico, è meno diffuso ma è assolutamente possibile e ci sarà sempre più spazio per farlo. Si dimentica che esiste anche un pensiero cattolico che si pone il problema del male, come abbiamo sentito un momento fa, e che il più noto libro di Jung è la Risposta a Giobbe, mentre per me il più importante tra gli epistolari di Jung è l’epistolario tra Jung e padre Victor White, un domenicano inglese, proprio su questo tema.
Anche le barriere tra le varie forme del monoteismo, quando si tratta di chiedersi qual è il rapporto tra Dio e il male, per fortuna saltano, e possiamo andare a una profondità maggiore.
Andrea Toniolo — Raccolgo questo invito al lavoro congiunto, anche nel contesto italiano dove, è vero, c’è un po’ più di fatica, anche se poi le esperienze diverse nel mondo cattolico ci sono. Ne ho viste durante un periodo di studio negli Stati Uniti, sul pastoral counseling, una modalità che è un incrocio tra aiuto psicologico e pastorale. Sul tema: non esiste male individuale che non abbia una risonanza collettiva o che sia isolato dal male sociale. L’essere umano è sempre un essere con. Parlando di strutture del male, nel libro, affronto la questione della responsabilità del male collettivo, che è più difficile da individuare e da cui facciamo fatica a tirarci fuori: pensiamo alle grandi mistificazioni nei periodi dittatoriali. C’è anche un bel film sulla vita di Franz Jägerstätter (La vita nascosta, di Terrence Malick, 2022, ndr), un contadino austriaco che reagì da solo di fronte a un popolo esaltato, da solo di fronte a Hitler e di fronte al regime nazista. Oltre alla questione della responsabilità collettiva, in questo caso il vero male è la mistificazione dei mali sociali, quando vengono presentati o spacciati come bene. Ci siamo dentro tutti: il telefono che sto usando in questo momento è costruito con il coltan, un materiale per produrre il quale si sfruttano i bambini del Congo. Dall’altra parte, esiste la resistenza al male, anche collettivo. La storia ci consegna quelli che chiamo profeti, anche laici, che hanno saputo anche da soli o con pochi, con la forza del bene, resistere al male: ci insegnano che è possibile. È possibile anche reagire al male sociale, dove entra in gioco il capro espiatorio: è facile accusare gli altri.
Luigi Zoja — Se cerchiamo un comune denominatore, il male è la totale mancanza di senso. Penso, nel caso del ragazzo suicida, di cui conosco solo ciò che ha lasciato scritto, e in altri giovanissimi, che il male è la mancanza di senso, tipica del postmoderno, in ambienti anche relativamente benestanti, colti, ipertecnologici, e che porta all’estremo il fatto di non percepire l’essere con. L’uomo è un animale che fin dalla preistoria vive in gruppi, in famiglie, in bande; l’isolamento è anche anti-istintivo, non ci rendiamo conto che soffriamo di questo. Penso ai disastri della sessualità, che sta crollando proprio tra i giovanissimi, ovviamente non per mancanza di libertà, ma per mancanza di senso, perché viene conosciuta sullo smartphone, come fatto individuale, e non è più collegata con quell’evento che si è sempre chiamato amore, nelle sue più diverse sfumature.
La tecnologia è un elemento negativo?
Luigi Zoja — Offre moltissime informazioni e dà vantaggi immensi, ma a costo di pagarli con la mediazione di uno schermo assolutamente freddo e tecnico, che non fa vedere anche le sofferenze che ci sono dietro. Un altro concetto che ho elaborato è quello della asimmetria del male, che si manifesta in tutte le epoche e naturalmente viene amplificato oggi dalla tecnologia. Per dirlo in due parole: noi pensiamo per polarità opposte, per comodità della nostra mente, maschile-femminile, vecchio-giovane, e anche male-bene, ma qui l’asimmetria è forte, nel senso che a volte basta un attimo — facciamo attenzione a questo — per compiere il male, la scelta egoista, oppure con la tecnologia la scelta militare, schiacci un bottone e un’arma distrugge mille o un milione di persone; molte di queste persone possono forse guarire, ma per guarirle ci vuole tempo, tanto tempo. Pensiamo all’abusatore di bambini o al violentatore di donne, che per concedersi un attimo di cosiddetto piacere, un solo attimo, condanna la vittima ad anni di terapie, se va bene, per cercare di ritrovare un equilibrio scosso. L’esempio l’ho trovato in Sant’Almachio, che è il santo del 1° gennaio, ucciso in un attimo, in tempi in cui non c’era la tecnologia: aveva disturbato lo spettacolo dei gladiatori. Si era già, naturalmente, in era cristiana, nel 404, a Roma, e lui dice no allo spettacolo dei gladiatori, e viene ucciso dal pubblico. In un attimo. Lui aveva dedicato la vita a redimere Roma, e in un attimo è ucciso. Perché? Perché è prevalsa una cosa che prevale anche oggi: l’evento mediatico, tutti preferivano lo spettacolo splatter, la violenza. Ci sentiamo spesso impotenti come alleati del bene, anche perché uno può dedicare la vita e le energie al bene, e poi in un attimo viene distrutto.
Andrea Toniolo — C’è un bel testo di una psicologa francese, Catherine Ternynck, L’uomo di sabbia (Vita e pensiero, 2012, ndr), che affronta la perdita di senso di un eccessivo individualismo, ma anche di altri contesti… Un religioso cinese mi spiegava che in Cina ci sono state molte conversioni al cristianesimo, sia protestante sia cattolico, per il superamento del senso di vuoto che ha lasciato la Rivoluzione culturale. Il male, quello che percepisco, la malinconia, che è «la felicità della tristezza» come diceva Victor Hugo, ci appartiene. Un teologo come Romano Guardini nel Ritratto della malinconia diceva: «La malinconia è troppo dolorosa e affonda troppo le sue radici nel nostro essere perché la si debba abbandonare nelle mani degli psichiatri». Non è per essere critici. Ma è per dire che la realtà umana è segnata da questo stato d’animo che dice la sproporzione di ciò che siamo, lo scarto tra ciò che desidero e ciò che realizzo. Commentata bene dalla Ternynck, è la parabola evangelica in cui il ricco va da Gesù e gli chiede che cosa deve fare per avere la vita eterna, e lui gli risponde: hai già tutto, ma ti manca qualche cosa.
Luigi Zoja — Conosco quasi a memoria il testo di Romano Guardini, che naturalmente parla di psichiatria e non di psicoanalisi, il che mi fa pensare a un’altra variabile di cui non abbiamo parlato: il destino. Non viviamo più nel mondo classico, nell’ananke [divinità del destino], però esiste qualcosa di organico, di psichiatrico: si nasce anche con un certo corpo e con un certo temperamento, le nostre caratteristiche vengono da come ci educano i genitori, da come educhiamo noi stessi (e da un lavoro psicoanalitico come autoeducazione), ma c’è anche chi nasce più… Più come? Bisogna fare una distinzione tra depressione e malinconia, che nel linguaggio corrente confondiamo. La depressione è una sindrome, la malinconia è anche un tratto culturale, se non esistesse non avremmo la metà della musica e i tre quarti della poesia. Purché non si cada in un tipico eccesso da postmoderni, va riconosciuto il fattore personale e perfino creativo della malinconia.
Abbiamo detto dei limiti della tecnologia. Ora: il mondo digitale può in qualche modo essere d’aiuto?
Andrea Toniolo — Sono preside della Facoltà Teologica e ho a che fare con studenti che con la pandemia sono finiti tutti online. L’esperienza del covid ha demitizzato, o disincantato, per usare il termine di Weber, quest’idea che i giovani sono virtuali e amano il virtuale. In realtà no, sono molto reali, sono carnali, hanno bisogno di corpo più di quanto pensiamo. Avevo proposto, anche per la crisi energetica, di introdurre qualche giorno online. Mi hanno risposto: ci chieda tanti altri sacrifici, ma non di rimetterci online, noi vogliamo venire in presenza. I giovani hanno bisogno di presenza e relazione fisica, e penso che Zoja sappia bene tutti gli effetti che sugli adolescenti ha avuto il tempo del lockdown. La realtà di internet rappresenta anche il «cestino» dell’odio, dove le persone scaricano l’odio viscerale che provano; ma non sostituirà mai la realtà antropologica.
Luigi Zoja — C’è stato un dibattito negli ultimi due decenni sulle sedute psicoanalitiche in video o in presenza, io ero quasi sempre tra chi più chiedeva la presenza. È fondamentale. Certamente il virtuale provoca una perdita, ma sul tema che stava toccando Toniolo, che riguarda il male più che la privazione di rapporto, cioè l’aggressività, tipica degli ultimi anni nei social, esistono studi di università americane: le neuroscienze e altre discipline dicono che comunque il nostro sistema neuronale, il cervello, ha bisogno di una certa quantità di secondi per dare una risposta morale, etica, a una circostanza che gli viene presentata. Quindi un sistema di comunicazione come le chat di internet, che riduce sempre di più i tempi e che premia i tempi sempre più brevi, tende a escludere l’elemento morale, mentre condensa ed enfatizza l’elemento aggressivo, se non immorale.
Non a caso emergono politici che passano messaggi violenti e li passano attraverso strumenti violenti.
Ma si può dire: «Putin è cattivo»?
Andrea Toniolo — Domanda difficile, lascio a Zoja la risposta.
Luigi Zoja — Ho visto molti filmati su Putin, sto guardando le interminabili interviste di Oliver Stone, così come ho sempre guardato i filmati su Hitler e conosco a memoria il film di Franz Jägerstätter (l’ho fatto proiettare al Congresso junghiano internazionale, per dire quante cose abbiamo in comune), doppia figura del martire cristiano e del profeta in senso ebraico. Chi è cattivo oggi? Ricordo una frase in una prefazione a Se questo è un uomo di Primo Levi, che dice: «I mostri esistono, purtroppo». E chiediamoci allora se Putin è un mostro o no, quando lo vediamo a quel tavolo immenso che mette distanza anche materiale con gli altri: fa paura, in effetti. Viene subito da pensare a Hitler che a un certo punto non è più apparso in pubblico e ha solo dato ordine di continuare fino al massacro finale. Quello è il fanatico: quindi l’isolamento è male, e torniamo a quello che abbiamo detto prima. Però Primo Levi continua: «I veri mostri esistono, ma di solito sono troppo pochi per contare veramente», salvo in alcune circostanze storiche, come la grande inflazione della Germania negli anni Venti, o più di recente il crollo dell’Unione sovietica. «Quello che è pericoloso è l’uomo comune», conclude Levi. Il vicino che denuncia il vicino ebreo, quello è il grande problema. Il conformismo è un problema. Il puntare l’indice all’esterno, che ti impedisce di girare l’indice a 180 gradi verso te stesso e chiederti: «Ma chi sono io, come contribuisco al male, io?».
Andrea Toniolo — Ci sono alcune figure per le quali sembra facile rispondere alla domanda: chi sono i cattivi? Abbiamo parlato di Putin, abbiamo affrontato la figura di Hitler, in campo teologico affrontiamo anche il tema del demoniaco, personificazione del male. Hannah Arendt avrebbe risposto che sono persone banali. Ci preoccupa l’aspetto del male più invisibile: Hitler non è salito al potere con colpi di stato ma con un processo democratico, con una maggioranza che l’ha seguito.
Luigi Zoja — Un po’ di colpa ricade anche su di noi; quando per esempio guardiamo la televisione, e arriva un documentario storico, che ci parla di come si è arrivati a certe mostruosità che si sono legalizzate in un sistema, e noi con il telecomando cambiamo canale.
di Ida Bozzi “la Lettura” supplemento del “Corriere della sera “ 20 novembre 2022
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221119toniolozojabozzi.pdf
SACERDOZIO
Silenzio e dialogo. Segreti di essere prete
Uno stralcio dell’intervento di Timothy Radcliffe, teologo e biblista, contenuto nel volume a firma di Papa Francesco “Secondo lo stile di Dio. Riflessioni sulla spiritualità del presbitero” (Libreria Editrice Vaticana), che presenta l’intervento del pontefice al recente Simposio internazionale “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, tenutosi nel febbraio scorso in Vaticano.
α1945 Londra
Sono entrato nell’Ordine dei frati predicatori col desiderio di diventare un fratello in mezzo ad altri fratelli. Arrivato al momento dell’ordinazione ho avuto qualche dubbio: mi ero sempre sentito a disagio di fronte a qualsiasi accenno di clericalismo e avevo accettato di essere ordinato perché lo desideravano i miei confratelli ed era utile per la predicazione. Mi sarebbe piaciuto leggere le parole del papa in quella circostanza! Infatti Francesco afferma che la vocazione al sacerdozio ministeriale dischiude nel prete «quel potenziale di Amore che abbiamo ricevuto nel giorno del nostro Battesimo». È proprio quello che ho scoperto anch’io, sperimentando inoltre che, da quando sono sacerdote, «la vita si complica sempre meravigliosamente». È attraverso le complicazioni, le piccole vittorie della grazia e i nostri fallimenti che accediamo all’eterna semplicità di Dio. Francesco esamina le quattro forme di vicinanza che sono alla base di questo amore: vicinanza a Dio, al vescovo, ai presbiteri, al popolo.
«Un sacerdote è invitato innanzitutto a coltivare questa vicinanza, l’intimità con Dio»: quando ero un giovane frate faticavo a capire il significato di questa affermazione. Ho una relazione personale con il Signore? Rimanevo coscienziosamente in silenzio nella cappella chiedendomi che cosa stessi facendo. Non sentivo nessuna voce. Non riuscivo a pensare a Gesù come a una specie di amico invisibile accanto a me. Stavo ingannando me stesso e il prossimo o gli illusi erano gli altri? Tuttavia continuai ad aspettare. Condividere questo silenzio con i confratelli e gli amici laici mi ha aiutato a sperare che un giorno avrei percepito più profondamente la vicinanza di Dio. Col tempo quello che sono arrivato a credere e a sperimentare è che questa intimità non significa che Dio mi è accanto come una persona sta vicino a un’altra. Il fatto che Dio si rivolga a me mi dona continuamente l’esistenza. «Io sono una missione» (Evangelii Gaudium, n. 273), esisto in quanto Dio mi ha trovato, come dice dolcemente Francesco, e che Dio chiama all’esistenza in ogni momento. Nella Bibbia, quando Dio si rivolge a qualcuno, solitamente la risposta che riceve è Hineni , “Eccomi”. La mia identità più profonda risiede in quella parola: “Eccomi”. Rimango seduto in silenzio, vulnerabile di fronte a Dio, e lascio svanire ogni altra sensazione superficiale di identità.
Sant’Agostino dice a Dio: «Tu eri con me e io non ero con te». Dio aspetta che io torni a casa, a me stesso, dove Lui è pronto ad abbracciarmi come il padre con il figliol prodigo. Ogni volta che ho perso il senso della mia vocazione ciò è avvenuto perché sono fuggito da quel silenzio in cui ho il coraggio di essere me stesso, nudo di fronte a Dio e senza vergogna. Spesso Francesco chiedeva ai suoi sacerdoti di Buenos Aires come si preparavano ad andare a dormire la sera: «E non passi dal Signore, almeno a dargli la buonanotte?». Questo devo farlo più spesso, non basta dire solo “Buongiorno”. Inoltre Francesco indica la desolazione come un momento d’incontro con Dio: «La via del deserto è la via che conduce all’intimità con Dio, a patto però di non fuggire, di non trovare modi per evadere da questo incontro». Di recente sono stato operato per un tumore alla mascella. Sono rimasto in ospedale per cinque settimane. Per un certo periodo la mia percezione di chi fossi è stata messa a dura prova. Scrittore e predicatore, non riuscivo a pensare con chiarezza e in qualche momento non avevo idea di dove mi trovassi. Normalmente mi piace fare tante cose, ma non riuscivo a far nulla.
In quell’umile condizione di privazione mi sono sentito più vicino che mai a nostro Signore che si è incarnato in un bambino indifeso, dipendente in tutto dagli altri. Per giorni e giorni ho sofferto di una terribile sete, ma l’unica cosa che potevo fare era inumidirmi le labbra. Pensavo ossessivamente alla sete che tormentò Israele mentre vagava nel deserto e continuavo a ripetermi: «Ti ho messo alla prova alle acque di Merìba» (Salmo 81,8). In quel deserto arido ho incontrato l’uomo che disse alla donna samaritana al pozzo: «Dammi da bere» (Giovanni 4,7) e che morì assetato sulla croce. In una tale desolazione tutto quello che abbiamo realizzato è come un nulla, crollano le immagini che ci siamo fatti di noi stessi e ci ritroviamo accanto al Figlio dell’uomo che si è fatto ultimo. […] Ho conosciuto molti ottimi vescovi, ma solo uno è stato per me un vero padre: Francesco, vescovo di Roma.
Dopo l’operazione sono rimasto addormentato per quasi trenta ore, riprendendo coscienza solo per pochi istanti mentre mi trovavo in terapia intensiva; in quel periodo il mio priore mi ha portato un biglietto scritto a mano per me. Arrivava da Francesco. È un tipico esempio del modo in cui esercita la sua paternità episcopale: il papa fa migliaia di telefonate, bussa alla porta di decine di persone e scrive lettere di suo pugno che stupiscono sempre chi le riceve. Francesco inizia la sua riflessione sulla vicinanza al vescovo parlando dell’obbedienza. Questa «non è un attributo disciplinare, ma la caratteristica più forte dei legami che ci uniscono in comunione». Essa comporta confronto, ascolto, in alcuni casi persino tensioni, ma mai rottura. Come domenicano, è questa l’obbedienza che devo, oltre che a Dio, anche ai miei confratelli riuniti in Capitolo o ai miei superiori. Nella tradizione domenicana l’obbedienza non è tanto una sottomissione della volontà quanto un’apertura delle orecchie – ob-audire – e quindi della mente. Il teologo domenicano Herbert McCabe ha scritto: «L’obbedienza diventa perfetta quando chi comanda e chi obbedisce arrivano a condividere la stessa visione. L’obbedienza cieca, nella nostra tradizione, non ha più senso di quanto ne abbia l’apprendimento cieco». Obbedienza significa aprire il cuore e la mente gli uni agli altri, cercando insieme di scoprire ciò che è buono e vero.
L’obbedienza, quindi, si radica nel dialogo. Soprattutto durante quel momento comunitario che è il capitolo, noi frati cerchiamo di entrare in dialogo con i fratelli con cui siamo in disaccordo, cercando di capire perché credono a cose che a noi sembrano sbagliate. L’obbedienza richiede la capacità di entrare nella loro esperienza, l’intelligenza di capire le verità che custodiscono, l’umiltà di imparare da loro. Il sacerdote dovrebbe eccellere nell’arte della conversazione. […]
L’unità all’interno delle diocesi e della parrocchia non consiste in un’uniformità frutto di imposizione, ma in un dialogo continuo che allarga e migliora la nostra mente superando divisioni etniche, ideologiche e generazionali. Così condividiamo la vita del Verbo di Dio, il cui ministero fu un dialogo continuo con amici e nemici, autorità religiose e mendicanti finché non fu messo a tacere sulla croce. Il terzo giorno, però, il dialogo riprese nel giardino: «Maria» – «Rabbunì». Nessun silenzio dovrebbe essere infinito. Ogni dialogo interrotto dovrebbe avere la sua mattina di Pasqua.
Timothy Radcliffe “Avvenire” 23 novembre 2022
www.avvenire.it/agora/pagine/silenzio-e-dialogo-segreti-dessere-pret-f5eca7cbf4c045fa9a5c7a1bec547768
SESSUOLOGIA
Pedofilia femminile
La maggioranza degli autori di reati sessuali su minore è di genere maschile e, per questa ragione, la ricerca si è concentrata su di loro, ma la rarità di casi in cui le donne sono autrici di violenza sessuale su minore non giustifica la volontà di non investigare su questi episodi. Una revisione della letteratura sui reati sessuali commessi contro i bambini mostra che sono state condotte relativamente poche ricerche sulle donne che commettono reati sessuali. È piuttosto diffusa la credenza culturale in base a cui una donna non sia capace di abusare sessualmente di un bambino proprio per una sua tendenza innata (idea socialmente costruita e coadiuvata da un sistema paternalistico) alla cura del bambino come madre, quindi a causa di questa distorsione percettiva non possiamo assumere come reale il dato fornitoci dalla letteratura. Un’altra spiegazione è che le donne autrici di reati sessuali sono raramente registrate nelle statistiche ufficiali e sono quindi difficili da raggiungere per clinici e ricercatori.
Quali sono stati i primi passi verso la scoperta delle sexual offender donne? Già negli anni 80 in Canada la Commissione Badgley scoprì che l’1% dei 727 colpevoli di reati sessuali di genere maschile nel corso dell’intervista ha rivelato di aver subito abusi sessuali da parte di una donna nel corso della loro fanciullezza. In una conferenza tenuta a Toronto nel 1991 Mathews, psicologo di comunità, evidenziò che se circa il 10% dei pedofili sono di genere femminile e in Canada 5 milioni di persone sono state abusate da bambini, quel 10% riguarderebbe circa 500 mila persone, quindi un numero da non sottovalutare. Egli stesso già affermava che la visione di child molestor femminili e di bambini di genere maschile abusati, rischiava di attuare un cambiamento degli stereotipi culturali contemporanei in quanto le donne erano associate alle figure di madri, nutrici, soggetti deboli, innocenti, ed erano – e per molti versi continuano ad essere – anche coloro anatomicamente predisposte a subire l’abuso e non a metterlo in atto.
A conferma di una visione stereotipata del genere femminile c’è l’esperimento di Broussard et altri del 1991 in cui venne riscontrato che i partecipanti tendevano a considerare l’interazione di un giovane maschio con una pedofila come meno rappresentativa dell’abuso sessuale su minori, inoltre le vittime maschili avrebbero subito meno danni rispetto alle vittime di altre situazioni interazionali. Ciò perché l’opinione pubblica è guidata da luoghi comuni quali: le donne non stuprano, le donne abusano i minori solo se costrette dal partner e quando lo fanno sono gentili ed amorevoli, le donne abusano solo di maschi, se sei una donna abusata da bambina da parte di un’altra donna allora sicuramente sei lesbica, gli uomini che affermano di essere abusati da una donna stanno fantasticando o mentendo.
Successivamente, Longdon nel 1993 affermò che “più a lungo continua la negazione, più a lungo stiamo potenzialmente mettendo a rischio i nostri figli. Non esiste un profilo di donna che abbia maggiori probabilità di abusare sessualmente. I sopravvissuti hanno subito abusi da suore, madri, zie, insegnanti, assistenti sociali, baby sitter e insegnanti della scuola materna.” Maggiormente da parenti stretti, madri, e ciò potrebbe essere dovuto a opportunità e accessibilità.
Tuttavia le ricerche si concentrano sull’eziologia e sulle motivazioni che sottendono all’abuso sessuale di minori da parte di donne. Infatti Turner e Turner nel 1994 studiarono un gruppo di 8 donne adolescenti abusanti e a loro volta abusate sessualmente o emotivamente durante l’infanzia: risultò che gli atti commessi dalle donne erano correlati al tipo di relazione disfunzionale instaurata con le rispettive madri, le quali non rivelarono mai di esser state anch’esse vittime di abusi sessuali.
A questo punto, appare chiaro quanto il maltrattamento subito dalle madri sia stato la causa di un mancato attaccamento salutare con il proprio figlio, influenzando così potenzialmente tutte le future relazioni del bambino. Le genitrici non erano in grado di curare i propri figli perché non solo mancavano dei modelli di ruolo appropriati per crescerli, ma anche perché erano state abbandonate dai compagni costringendole a rivolgersi alle loro figlie per soddisfare i propri bisogni.
Mathew, Matthews and Speltz nel 1989 tentarono di stilare una tassonomia [classificazione] delle donne pedofile:
- teacher/love offender, donne che non considerano errato il proprio comportamento, vedono i bambini come partner e il comportamento sessuale come un’esperienza positiva per entrambi;
- predisposed (intergenerational) offender, agiscono da sole durante l’offesa e in genere abusano dei propri familiari, hanno subito abusi sessuali in tenera età;
- male coerced offender, donne passive e impotenti, solitamente costrette dal marito a commettere l’atto sessuale per paura di essere abbandonate o di subire violenza per un rifiuto a partecipare.
Ad oggi non esiste nessuna profilazione delle female sexual offenders, ma pur essendo una popolazione piuttosto eterogenea, sono state trovate alcune caratteristiche comuni delle donne autrici di violenza sessuale e delle loro vittime: la media delle donne colpevoli sembra variare tra i 26 e i 36 anni; la maggior parte ha uno status socioeconomico piuttosto basso; più del 50% mostra problemi di salute mentale, in particolare abuso di sostanze, disordini della personalità (passivi e dipendenti) con autostima alquanto bassa; infine sembrano essere impulsive con esigui livelli di autoregolazione emotiva.
Una delle differenze più evidenti tra child sexual offender femminili e maschili riguarda l’affiancamento delle pedofile all’azione molestatrice del proprio partner, invece i pedofili raramente commettono tale reato in presenza di un’altra persona. Inoltre socialmente vi è l’idea che la donna tenda ad usare la violenza sui minor meno frequentemente rispetto agli uomini durante l’abuso sessuale sul minore, in realtà esiste un numero di donne – seppur limitato – che risulta più violento degli uomini, mettendo in atto con forza penetrazione orale, anale, genitale con oggetti o dita. Una differenza sostanziale è insita nelle possibilità di vicinanza con i bambini e soprattutto la possibilità di scelta della vittima: le donne, per il ruolo loro di nutrici, hanno maggiori possibilità rispetto all’uomo di avvicinare i bambini. Infine la fascia di età delle donne che commettono reati sessuali è tra i 26 e i 36 anni, differendo dalle loro controparti maschili in quanto questi agiscono in un’età più avanzata rispetto alle donne. Esistono, comunque, casi di donne preadolescenti di età inferiore a 26 anni che hanno commesso reati sessuali contro i bambini che rimangono in gran parte non rilevati perché la condotta si verifica di solito durante l’attività di cura del minore, come nell’attività di baby sitter.
Per ciò che riguarda il sesso delle vittime non vi è alcuna chiarezza a riguardo. Knopp e Lackey nel 1987 hanno riportato che su 646 abusi sessuali su minori commessi da donne, 329 su maschi e 317 su femmine; Faller nel 1987 ha affermato che 2/3 delle vittime erano femmine e 1/3 maschi; Fehrenbach nel 1988 rivelò che il 35,7% erano maschi e 57,1% femmine. Da questi dati si può notare una leggera propensione verso la scelta della vittima di genere femminile, però bisogna considerare anche un’alta percentuale di numero oscuro, cioè di violenze sessuali non denunciate da uomini in quanto vi è il mito della glorificazione di quei maschi (adolescenti) che riescono ad andare a letto con donne più anziane di loro.
Le vittime di abusi femminili soffrono in modo simile alle vittime di abusi maschili? Come le vittime di abusi maschili, le loro vite sono state drammaticamente colpite: fanno abuso di alcol e droghe, hanno tentato il suicidio, difficoltà ad avere relazioni stabili, rabbia irrisolta, vergogna e colpa, autolesionismo, depressione, sono anoressici e bulimici, agorafobici (paura degli spazi aperti).
Il modo in cui i membri di una società percepiscono e rispondono a determinati eventi fino a qualche anno fa era significativamente modellato dai rapporti culturali, sociali e mediali. La ricerca finora ha dimostrato che la rappresentazione mediatica degli autori di reati sessuali è assolutamente influenzata e mai imparziale. Non a caso, gli autori maschili di reati sessuali sono fortemente criticati nei resoconti dei media, mentre gli articoli sulle donne che commettono reati – e soprattutto a sfondo sessuale – di solito contengono attenuanti per giustificare o ridurre la gravità del comportamento offensivo. Le notizie dei media tendono a rafforzare gli stereotipi di genere tradizionali e, quindi, a sopprimere lo sviluppo di una consapevolezza pubblica sui reati sessuali commessi dalle donne. Tale percezione ineguale di uomini e donne che offendono sessualmente i minori si riflette concretamente nei giudizi della società. È di essenziale importanza il riconoscimento di una colpevolezza delle child molestor femminili da parte del grande pubblico e della loro esistenza, rendendo necessarie attività di sensibilizzazione al fenomeno.
dott.ssa Fabiola Balestrieri, sociologa e criminologa, esperta in psicopatologia del comportamento sessuale
Università di Bologna www.cisonline.net/news/pedofilia-femminile
SINODALITÀ
La Chiesa italiana verso il sinodo: cantieri e coordinamento
Una sessione straordinaria del Consiglio episcopale permanente della Cei, lo scorso 16 novembre 2022 dedicata al Cammino sinodale della Chiesa italiana, per dire, in buona sostanza, che va tutto bene, anche se in realtà il percorso procede con grande fatica e con una partecipazione ben al di sotto delle aspettative .
Una rete di referenti diocesani. «Il cammino che le Chiese in Italia stanno vivendo è un momento importante di ascolto, anche per capire perché tanti non si sentono ascoltati da noi; per non parlare sopra; per farci toccare il cuore; per comprendere le urgenze; per sentire le sofferenze; per farci ferire dalle attese; per parlare a tutti», ha spiegato, aprendo i lavori, il cardinale presidente della Cei, Matteo Zuppi. Secondo il capo dei vescovi italiani, «una delle novità più grandi, uno dei segnali più positivi è la rete dei referenti diocesani: circa quattrocento che in questi mesi si sono spesi nelle diocesi, promuovendo iniziative, producendo sussidi e inventando strade nuove per realizzare l’ascolto. Sono stati i primi – ha aggiunto – a mettersi in gioco, ad accettare la sfida del cambiamento, a sperimentare un modo diverso di lavorare insieme».
3 “cantieri” per aprirsi a mondi “lontani”. Il Consiglio permanente ha ribadito la validità dei gruppi sinodali, soffermandosi sulla proposta dei tre «cantieri sinodali» (della strada e del villaggio; dell’ospitalità e della casa; delle diaconie e della formazione spirituale) comuni a tutte le diocesi italiane. I cantieri, si legge nel comunicato finale del Consiglio episcopale permanente, «possono aiutare nell’esercizio di apertura ai mondi che non ci appartengono, quelli con cui pensiamo di non aver nulla da spartire perché sono lontani dall’esperienza cristiana o perché fanno paura».
Organigramma del Cammino sinodale. I vescovi hanno approvato il testo dell’organigramma del Cammino sinodale delle Chiese in Italia, nella cui premessa viene ricordato che «agli organi statutari della Cei (in particolare Assemblea generale, Consiglio episcopale permanente, Presidenza) spetta la responsabilità di accompagnare i lavori del Cammino sinodale e di compiere le scelte di fondo, in base alle specifiche competenze».
Per sostenere poi il percorso a livello nazionale, viene costituito un servizio di coordinamento composto dall’Assemblea dei referenti diocesani, dal Comitato nazionale del Cammino sinodale, dalla Presidenza del Comitato nazionale, di cui sono stati nominati i componenti già indicati nella sessione del Consiglio svoltasi a Matera dal 20 al 22 settembre 2022: mons. Claudio Giuliodori (assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore), mons. Antonio Mura (vescovo di Nuoro e di Lanusei, presidente della Conferenza episcopale sarda) e mons. Antonino Raspanti, vescovo di Acireale e presidente della Conferenza episcopale siciliana.
Luca Kocci Adista Notizie n. 40 26 novembre 2022
Due teologi interrogano il Concilio Vaticano II su questioni che non si era mai posto...
Il libro: Un catholicisme sous pression, di Brigitte Cholvy e Luc Forestier, ed. Salvator.
Qual è il punto in comune tra le questioni di genere, la violenza di origine religiosa, il ritorno di certi imperialismi, l’impatto del digitale nelle nostre vite, il Sinodo sul futuro della Chiesa o ancora l’urgenza del tema ecologico?
Per Brigitte Cholvy, professoressa emerita in teologia fondamentale all’Institut Catholique di Parigi, e Luc Forestier, professore di ecclesiologia e specialista della teologia dei ministeri, sono problemi che mettono “il cattolicesimo sotto pressione”. Lanciando alla Chiesa un invito urgente a riprendere nuovamente la riflessione teologica lì dove i “segni dei tempi”, per riprendere un’espressione ben nota del Concilio Vaticano II, arrivano a sconvolgerla a volte molto drammaticamente.
- le questioni di genere, sono la visione cattolica tradizionale del maschile e del femminile e il modo di pensare le relazioni tra uomini e donne ad essere messi in discussione. Per riflettervi, la nozione di “complementarietà” è pertinente? Come mantenere le differenze senza creare gerarchie?
- La violenza delle religioni, che affermano di essere universali ed esclusive, obbliga a riflettere sulla fraternità e sulle condizioni di un dialogo autentico. Ma il dialogo è compatibile con l’annuncio del Vangelo?
- Il ritorno degli imperialismi interroga la Chiesa sulla sua “cattolicità” e sulla sua “universalità”. Come articolare Chiese locali e primato romano, sforzo di inculturazione e chiamata all’universale?
- L’esplosione del digitale interroga il rapporto della Chiesa con la tecnica, col virtuale e col reale e, in contrappunto, chiama alla riflessione sulla “Presenza”.
- La sinodalità invita a riscoprire la “struttura apostolica dei ministeri”, piuttosto che continuare a confondere sacerdozio e presbiterato.
- Infine, l’urgenza ecologica pone il problema della salvezza dell’insieme della Creazione.
Sorprendentemente, per affrontare questi temi di bruciante attualità, gli autori si sono rivolti ai testi del Vaticano II, sessant’anni dopo la fine del Concilio, facendo “una scommessa” abbastanza audace: “È inimmaginabile che il Concilio non abbia più nulla da dirci, tenuto conto dell’autorità che gli riconosciamo e dell’atteggiamento di ampio dialogo con le nostre società a cui continua ad invitarci ancora oggi”. Quindi, a partire dalle loro “sei questioni contemporanee”, gli autori sono andati ad interrogare non solo i testi del Concilio, ma anche l’evento stesso e i sessant’anni di storia della sua ricezione. Facendo la scelta di tale “metodo rovesciato”, hanno indicato risorse fino ad ora poco identificate, in particolare “un ricorso singolare del Vaticano II alla Bibbia”. Un lavoro che ha confermato la loro “convinzione dell’attualità del Vaticano II, a condizione di non aver paura di interrogarlo”.
Questa rilettura critica del Concilio non si esime dall’evidenziare alcuni limiti dei testi conciliari, che talvolta faticano ad articolare alcune nozioni, come il carattere sacerdotale e apostolico dei ministeri ordinati. Essa mostra anche come certi progressi del Concilio, come l’interpretazione ecclesiale della nozione di carisma, o la necessità del dialogo interreligioso, sono state accolte poco o male.
“Volutamente limitato in ampiezza”, questo libro richiede, come anche gli stessi testi del Concilio, ulteriori “dibattiti e prolungamenti”. Ognuno dei problemi trattati avrebbe potuto in effetti essere oggetto di un libro a sé stante, tanto essi sono ardui e complessi. Ma l’interesse di questo libro sta proprio nella diversità dei problemi posti alla Chiesa dal mondo occidentale. Scritto a due voci, presenta anche il vantaggio di incrociare due specialità teologiche, l’antropologia e l’ecclesiologia, per mostrare la capacità della Chiesa ad entrare in reale dialogo con il mondo. Perché è “attraverso le storie umane che Dio parla e si rivela a coloro che vogliono aprire occhi e orecchie”.
Christel Juquois “La Croix” 24 novembre 2022 (traduzione: www.finesettimana.org)
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221125juquois.pdf
SINODO IN EUROPA
La forma dell’incontro e le argomentazioni in campo: episcopato tedesco e curia romana
La pubblicazione integrale delle tre relazioni che hanno strutturato l’incontro tra Vescovi Tedeschi e Curia romana, sull’Osservatore Romano, è la preziosa testimonianza di un desiderio di comunione e di unità che merita di essere sottolineato e valorizzato. Che il confronto abbia assunto non la consueta forma burocratica e chiusa, ma dimensione pubblica e condivisa, è un fatto di rilievo: già è un frutto “procedurale” del Cammino sinodale e del Sinodo universale. Ovviamente questo non nasconde, ma manifesta ancora meglio i punti di disaccordo, che però vanno inseriti in questo comune desiderio di unità. I tre testi (di Baetzing, Ladaria e Ouellet, che si possono leggere) offrono un quadro significativo delle preoccupazioni comuni,
www.osservatoreromano.va/it/news/2022-11/quo-269/documenti-l-incontro-inter-dicasteriale-con-i-presuli-tedeschi-i.html?fbclid=IwAR18yHxK9wxo0l5U4SmOaSV6bMjK7ouhBqrW5GSjlZhzXv2N7pey1rsy-_U
delle domande parzialmente diverse e di alcune risposte nettamente differenti alle medesime domande. Vorrei fare una analisi solo dei punti su cui le obiezioni della Curia sentono difficoltà, esaminando con una certa cura quale tipo di argomentazione viene proposto alla attenzione della controparte. Questo può essere utile per contribuire a sciogliere alcuni nodi delle questioni e a mostrare distanze e vicinanze forse inattese.
Inizio esaminando le obiezioni sollevate dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, card. Ladaria.
Le difficoltà del Prefetto Ladaria Ferrer Card. Luis Francisco, S.I. (α 1944)
a) Ragionevole mi pare la domanda di un “genere letterario” meno ricco e articolato. La grande produzione che il Cammino Sinodale tedesco ha generato, ricordata nel dettaglio dalla relazione Baetzing, può sollevare problemi interpretativi, nel riferimento a fonti e a linguaggi non del tutto trasparenti per un lettore esterno. Su questo può essere prezioso uno “sguardo romano” che chiede spiegazioni e riferimenti. Non posso dimenticare, tuttavia, che una obiezione al Concilio Vaticano II è suonata, a suo tempo, esattamente nello stesso modo. Siccome i documenti del Vaticano II non parlavano il linguaggio della tradizione magisteriale classica, sembravano “poco rigorosi”, mentre costituivano piuttosto, già allora, un “evento linguistico” proprio per questo cambio sostanziale di registro. Qualcosa di simile ha affermato il Card. Schoenborn anche a proposito di “Amoris Lætitia”, che cambiava il modo di parlare sul matrimonio e sulla famiglia, rispetto agli stili affermati durante il XIX e XX secolo. D’altra parte, ripeto, mi pare ragionevole il richiamo ad una “sintesi” il più possibile chiara nel modo di usare le fonti, nei riferimenti alla tradizione, e nelle implicazioni che le scienze umane apportano alla coscienza ecclesiale e alla comprensione teologica.
b) Più complessa è la seconda preoccupazione, che mette a tema la correlazione tra struttura della Chiesa e esperienza degli abusi. La difesa della competenza episcopale e della Chiesa locale, come tale, non mi pare che implichi il ridimensionamento delle distorsioni che il potere, il ministero, la sessualità e il ruolo della donna comportano e su cui occorre una lucida capacità di riforma. La riduzione del mistero della Chiesa a “sistema di potere”, che nessuno può permettersi, non è però evitata dalla salvaguardia di una assoluta riserva episcopale, proprio perché una gran parte dei problemi discendono precisamente dalla assolutezza di questa riserva gerarchica. Che tutto il potere sia solo nel papa e nei Vescovi è la immagine di “piramide non capovolta” che fa problema. Qui tra Vangelo e forma culturale vi è una correlazione indissolubile. Vi è qui in gioco una comprensione dell’esercizio della autorità, che non può trovare soluzione in una forma monarchica, che sola garantirebbe il mistero della Chiesa e la Chiesa come mistero.
c) Il terzo punto, la sessualità, appare trattato con una duplice argomentazione del tutto classica. In primo luogo il riferimento decisivo sembra essere il CCC (Catechismo della Chiesa cattolica), che meriterebbe una protezione totale rispetto alle molte critiche ragionevoli proposte dal Cammino sinodale. Si dovrebbe evitare ogni turbamento del popolo di Dio, che sarebbe inquieto non per il permanere di testi inadeguati, ma per il loro cambiamento. Sembra apparire qui la stessa logica che fu utilizzata, dopo Amoris Lætitia, a difesa di coloro che “avevano obbedito alla Chiesa” e che ora trovavano possibile una diversa via e quasi si sentivano traditi dalla Chiesa. In fondo si tratta della resistenza del privilegio del “fratello maggiore” rispetto al riconoscimento del “figlio prodigo”. L’orizzonte della comunione, però, non è il CCC, ma la condizione del popolo di Dio in rapporto alla Parola, cui il CCC deve dare risposte plausibili sulla base di una lettura più complessa della tradizione. Qui mi pare la differenza non risolta dalla obiezione. Lo stesso mi pare valga per il riferimento, finale, al “carattere costitutivamente generativo e generazionale dell’essere umano”, che riprende il primato del bonum prolis sul bonum fidei e sul bonum coniugum. Già Amoris Lætitia notava come questa insistenza sul “bonum prolis”, per ogni relazione sessuale, non sia solo un servizio alla tradizione.
d) Sul quarto punto, sul ruolo ministeriale della donna, si fondono due argomentazioni, molto simili: da un lato si ribadisce la “mancanza di potere della Chiesa sulla ordinazione sacerdotale della donna”, di cui si lamenta che il Cammino non tenga conto. Nello stesso tempo si fa notare come “riconoscere di appartenere al corpo più grande della Chiesa” implicherebbe una piena sintonia su questo punto e comunque toni diversi. Forse questa polarizzazione dipende anche dalla mancata distinzione tra partecipazione della donna al sacramento dell’ordine (mai esclusa) e ordinazione sacerdotale (attualmente esclusa). Su questo punto, io credo, un reale avvicinamento delle posizioni sarebbe possibile e non così lacerante. Purché il segno dei tempi “donna” sia riconosciuto in tutta la sua dignità, senza “complessi di superiorità” e senza predeterminazioni a priori.
e) Il quinto punto rimarca la differenza tra magistero episcopale e papale e altre autorità ecclesiali (teologi, esperti, altri ministri). Anche in questo caso la argomentazione è quella della messa in guardia da una “sostituzione” o “assimilazione” tra soggetti diversi “per essenza”. Forse potrebbe essere utile tematizzare piuttosto la correlazione tra diverse autorità, di cui la Chiesa ha bisogno. Senza nulla togliere al carisma episcopale e papale, il riconoscimento di “altre autorità” mi pare uno dei principali scopi di ogni Sinodo e di ogni cammino sinodale. Significativo è il fatto che proprio all’inizio della sua relazione, G. Baetzing abbia ricordato come i 62 vescovi presenti fossero una minoranza rispetto ai responsabili del Cammino Sinodale tedesco, cui rivolgeva un profondo ringraziamento. Qui, come è evidente, è una esperienza di esercizio della autorità ad aver suggerito le parole e i toni diversi, in Germania e a Roma.
Le difficoltà del prefetto Marc Armand Ouellet ( α 1944) Vengo ora ai rilievi sollevati dal Prefetto della Congregazione dei Vescovi, Card. Ouellet. Dopo aver lodato l’impegno “tipicamente tedesco” nello studiare la crisi ecclesiale, il fenomeno degli abusi e le cause strutturali che lo hanno accompagnato e favorito, si solleva una prima obiezione: come è possibile che la agenda di teologi di trent’anni fa sia divenuta non solo il contenuto esplicito del cammino sinodale, ma la proposta maggioritaria dell’episcopato? E si fa l’elenco dei temi: “abolizione del celibato obbligatorio, ordinazione di viri probati, accesso della donna al ministero ordinato, rivalutazione morale dell’omosessualità, limitazione strutturale e funzionale del potere gerarchico, considerazione della sessualità ispirata alla Gender Theory, cambiamenti importanti proposti al Catechismo della Chiesa cattolica, eccetera.”
La prima tesi suona così: “sembra che la vicenda degli abusi, molto grave, sia stata comunque sfruttata per far passare altre idee non immediatamente connesse”. La argomentazione è puramente ipotetica, quasi rifiuta di riflettere davvero sul fenomeno e ritiene che il profilo “strutturale” del problema sia stato sopravvalutato e addirittura “sfruttato” come pretesto. Da ciò discende lo “scandalo dei piccoli”, che devono essere tutelati. Non si tratterebbe di una riforma necessaria, ma di un “cambiamento della Chiesa” e di una “rottura della tradizione” che porterebbe solo turbamento e disorientamento. Di qui la proposta di una “moratoria” (che ha suscitato immediatamente il brusio dei Vescovi in aula) così formulata: “Tenendo conto delle circostanze e delle tensioni acute che hanno accompagnato le sessioni al momento delle votazioni, avendo presente soprattutto la consultazione in corso per il Sinodo universale sulla sinodalità, ci pare necessaria una moratoria sulle proposte presentate e una revisione sostanziale da farsi in seguito, alla luce dei risultati del Sinodo romano“. È curioso che Ouellet dica non “Sinodo universale”, ma “Sinodo romano”: la percezione della sfida davanti ad un necessario “cambio di paradigma” appare sostanzialmente fraintesa e derubricata in semplice disobbedienza o rottura. Molto interessante è il fatto che il giudizio che accompagna la proposta di “moratoria” (non causalmente espressa attingendo ad un linguaggio bellico) suppone che questa “guerra alla tradizione” attribuita al Cammino tedesco sia fondata su un limite “apologetico”. Ecco il ragionamento specifico: “Il limite principale di questa proposta è forse una certa impostazione apologetica, basata sui cambiamenti culturali invece di poggiare sull’annunzio rinnovato del Vangelo. Voi possedete oro e argento, scienza e prestigio ampiamente riconosciuti e gestite tutto con generosità, non dimenticatevi di testimoniare con forza e semplicità la fede in Gesù Cristo di cui il vostro popolo è mendicante”.
Annunciare il Vangelo implicherebbe evitare ogni confronto vero con le sfide culturali, e restare semplicemente fedeli alla ripetizione del “depositum” nella versione garantita dal CCC? Il capovolgimento della difficoltà appare pieno e lampante. Una Curia Romana, che apologeticamente appare turbata dal Cammino sinodale tedesco, trova giusto contestare proprio ai testi del Cammino un approccio “troppo apologetico”! Sul senso della “apologetica” forse un confronto ulteriore gioverebbe.
In conclusione troviamo espresso apertis verbis anche il preteso collegamento tra questa posizione curiale e il magistero di papa Francesco, nei termini di una semplice “conversione spirituale”, sicuramente necessaria, ma che non si lascia sedurre dal confidare nelle riforme istituzionali. Neppure una traccia di “Chiesa in uscita”, di “ospedale da campo”, di “cambio di paradigma”, di “chiesa accidentata” appare in questa visione. Ecco il testo: “Con l’esempio e l’insegnamento di Papa Francesco, possiamo tornare allo spirito degli Atti degli apostoli, offrire anzitutto Gesù Cristo ai bisogni di cura e di conversione della nostra gente, non pretendere che le soluzioni culturali o istituzionali siano indispensabili per rendere credibile la figura di Gesù, pur proposta da ministri imperfetti ma fiduciosi nella grazia e misericordia divina. È questo il messaggio iniziale di Papa Francesco che bisogna ora riprendere e applicare alla revisione dei risultati del Cammino sinodale”.
La diffidenza verso ogni riforma istituzionale e verso ogni cambio di paradigma culturale appare qui chiarissima: è quasi un apriori indiscusso. La Curia tende a sottolineare una lettura del magistero papale di Francesco puramente spirituale e senza vere conseguenze istituzionali. “Non pretendere che le riforme siano indispensabili” significa, in realtà, potervi e dovervi rinunciare. Così però i sinodi rischiano di produrre solo “discorsi edificanti”. Il genere letterario sarebbe certo garantito, ma sarebbe troppo poco. I Vescovi tedeschi sanno, per studio e per esperienza, che senza riforme istituzionali e culturali, ben poco si potrà fare su abusi, potere, sessualità, ruolo della donna. Annunciare il Vangelo, senza affrontare questi nodi, rischia di essere solo una illusione autoreferenziale. I segni dei tempi sembrano maturi per imporre una nuova e diversa mediazione. Su tutto ciò la forma dell’incontro avvenuto, molto più che la qualità delle argomentazioni espresse, potrà dare ragionevole spazio di apertura ulteriore e di reciproco ascolto.
Andrea Grillo blog Come se non 25 novembre 2022
www.cittadellaeditrice.com/munera/la-forma-dellincontro-e-le-argomentazioni-in-campo-episcopato-tedesco-e-curia-romana
Celibato e donne prete il pressing sul Vaticano dei vescovi tedeschi
L’emorragia di fedeli in Germania ha toccato vette inedite: 360mila credenti hanno voltato le spalle alla Chiesa cattolica in quest’ultimo anno, dopo gli ennesimi scandali sui preti pedofili. E se c’era una cosa che il capo dei vescovi, Georg Bätzing, non poteva permettersi, era tornare a mani vuote dalla settimana di confronto con i maggiorenti della Curia romana sul “cammino sinodale” tedesco, il percorso riformista che, innescato dall’epocale crisi degli abusi sessuali, ha dato il via a proposte – benedizione delle coppie gay, ripensamento del celibato obbligatorio, donne diacono se non donne prete – che da mesi fanno salire l’apprensione in Vaticano. Spinta rafforzata dal fatto che i tedeschi sono tra i maggiori contribuenti delle finanze della Chiesa.
Venerdì era sembrato persino che la Curia potesse imporre una moratoria sulle riforme, in sostanza la fine del percorso sinodale. Proposta che, come recita un educato comunicato congiunto, «non ha trovato spazio». La discussione sui cambiamenti chiesti a gran voce dai vescovi tedeschi, dunque, continua. Bätzing, costretto a un funambolismo complesso tra le resistenze vaticane e le spinte riformiste delle sue parrocchie, non ha mancato di tirare qualche linea rossa, prima di tornare in Germania. Il capo dei vescovi tedeschi ha dichiarato che «i problemi che abbiamo messo sul tavolo non si possono più rimuovere». E su uno dei nodi principali posti dalla Chiesa tedesca, l’accettazione delle coppie dello stesso sesso, il vescovo non arretra e ha promesso di «benedirle, senza se e senza ma».
A Roma suggeriscono pazienza. Ma già in primavera la presidente del Comitato centrale dei cattolici, Irme Stetter-Karp, aveva puntualizzato che «bisogna affrontare in modo strutturale alcuni temi, soprattutto le strutture di potere e come il potere viene distribuito». Quanto alla ridefinizione del celibato, l’altra richiesta dirompente arrivata dai vescovi tedeschi insieme a quella di un maggiore coinvolgimento delle donne nella Chiesa, Stetter-Karp richiama la discussione avvenuta in seno al sinodo amazzonico e auspica che «ci possano essere in questo campo delle convergenze tra chiese nazionali». E che prima o poi arrivi anche «un’apertura da Roma».
L’irritazione dei vescovi tedeschi è palpabile anche per la scelta di papa Francesco di non presenziare al momento più vivo della discussione. «Servono coraggio e pazienza per trovare una soluzione», erano state le parole di Bergoglio, «la tensione è necessaria». E di certo questa non è mancata sotto le volte affrescate del Palazzo apostolico. Soprattutto quando il Papa ha deciso di disertare la discussione il giorno dopo, lasciando il campo alle due squadre. Che hanno ingaggiato non una resa dei conti ma comunque un confronto «tosto e civile» (parole di Bätzing), prolungatosi ben oltre l’orario previsto, e concluso con la diplomatica considerazione del cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, che «non si potrà non tenere conto » del confronto. Che, almeno, questa volta è stato diretto, schietto, concreto. «Come in famiglia», commentano gli ottimisti.
Papa Francesco sta in mezzo: è lui che ha rilanciato il metodo sinodale, ma vuole evitare le fughe in avanti. È consapevole che «quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo – quasi! – per il vescovo di un altro continente». Teme che i cattolici tedeschi divengano un po’ protestanti («In Germania c’è una Chiesa evangelica molto buona, non ce ne vogliono due»), ma sa che i problemi negli altri paesi sono analoghi. Il nodo, per la Santa Sede, è che una singola Chiesa non può «deliberare in modo vincolante» su temi che riguardano la dottrina della Chiesa universale. Ma alle «preoccupazioni», «perplessità » e «riserve» romane si contrappongono le impellenze dei tedeschi. Che respingono con sdegno il sospetto di voler fare uno scisma («Sono cose che si dicono da fuori per spaventare e intimidire»), ma vogliono recuperare credibilità, con risposte concrete, tra i fedeli che ogni anno lasciano la Chiesa.
Tonia Mastrobuoni e Iacopo Scaramuzzi “la Repubblica” 22 novembre 2022
www.repubblica.it/esteri/2022/11/22/news/papa_francesco_vescovi_tedeschi_riforme-375540389
SPOSI
10 critiche di Papa Francesco alle famiglie cristiane
Quante volte si predica bene e si razzola male… Una critica verso le famiglie cristiane, verso una serie di comportamenti e atteggiamenti che spesso vanno a minare il rapporto di coppia e gli equilibri della famiglia stessa.
Papa Francesco ha messo a nudo questi limiti, e li ha fatti nell’esortazione apostolica “Amoris Lætitia“. Ma sono critiche costruttive: il Papa non attacca alla cieca. Lo fa per ammonire la famiglia e fare in modo di ricucire le distanze tra i suoi componenti!
- La “piaga” dell’arroganza. La prima critica di Papa Francesco è rivolta a chi perde le staffe, e non ha pazienza nei confronti dei familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. «A volte accade il contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili». L’atteggiamento dell’umiltà «appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà».
- Rivestirsi di umiltà. La logica dell’amore cristiano, sostiene il papa, «non è quella di chi si sente superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma quella per cui “chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore” (Mt 20,27).Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore». Bisogna essere sempre «affabili» con quelli che ci circondano come insegna San Tommaso D’Aquino nella Summa Theologiæ (II-II, q. 114, a.2, ad 1). Insomma, sentenzia Francesco, vale anche per la famiglia questo consiglio: “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili” (1 Pt 5,5).
- Stop al pessimismo. Per disporsi ad un vero incontro con l’altro, prosegue Bergoglio, «si richiede uno sguardo amabile posato su di lui. Questo non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti».
- Non alimentare l’aggressività. Un altro limite del rapporto tra i componenti di una famiglia è identificato nella parola “paroxynetai”, che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. «Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima – ammonisce Francesco – non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci». Come cristiani, ricorda Francesco, non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9).
- Rancore e sacrificio. Un matrimonio vincente, una famiglia positiva è quella che abbatte un’altra parola chiave negativa: rancore. «Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona». La verità, evidenzia il papa, citando l’Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II Familiaris consortio (22 novembre 1981) è che «la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio».
- Mai rallegrarsi di un fallimento. Un altro virus da abbattere è «l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che si commette ingiustizia verso qualcuno. Questo è impossibile per chi deve sempre paragonarsi e competere, anche con il proprio coniuge, fino al punto di rallegrarsi segretamente per i suoi fallimenti». La famiglia dev’essere sempre «il luogo in cui chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo festeggeranno insieme a lui».
- Amore malgrado tutto. Gli sposi «che si amano e si appartengono», osserva il papa, «parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine». L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, «è amore malgrado tutto».
- Allargare la mente. Mai chiudere la propria mente, avverte Bergoglio. Troppo spesso ci si rinchiude nel silenzio, nello scarso dialogo, oppure se le opinioni sono divergenti si fa così fatica ad accogliere positivamente quelle dell’altra persona. «Ampiezza mentale, per non rinchiudersi con ossessione su poche idee, e flessibilità per poter modificare o completare le proprie opinioni». Questa è la ricetta che consiglia il pontefice per uscire dallo stallo. «È possibile che dal mio pensiero e dal pensiero dell’altro possa emergere una nuova sintesi che arricchisca entrambi».
- “Si’” al dialogo, “no” alla noia. Una famiglia vincente non può essere quella dove il dialogo è una componente secondaria. Per essere proficuo, il confronto al suo interno «richiede una ricchezza interiore che si alimenta nella lettura, nella riflessione personale, nella preghiera e nell’apertura alla società». Diversamente, «le conversazioni diventano noiose e inconsistenti. Quando ognuno dei coniugi non cura il proprio spirito e non esiste una varietà di relazioni con altre persone, la vita familiare diventa endogamica e il dialogo si impoverisce».
- Sessualità senza imposizioni. Un’ultima critica alle famiglie cristiane, ricordando l’Enciclica Humanæ Vitæ di Paolo VI, papa Francesco la rivolge sulla sessualità. E dice: «Anche nel matrimonio la sessualità può diventare fonte di sofferenza e di manipolazione. Per questo dobbiamo ribadire con chiarezza che “un atto coniugale imposto al coniuge senza nessun riguardo alle sue condizioni ed ai suoi giusti desideri non è un vero atto di amore e nega pertanto un’esigenza del retto ordine morale nei rapporti tra gli sposi”.
Gelsomino Del Guercio – Aleteia 11 novembre 2022
VIOLENZE
Violenza contro le donne: segno della postura di una civiltà, non malvagità di singoli individui
La violenza sulle donne, ieri come oggi, anche in Europa, nasconde il retaggio di una cultura in cui le donne non sono considerate pari agli uomini adulti, né per dignità né per diritti. Ed è proprio la loro differenza che le accomuna ad altre categorie di persone lo stesso “im-pari” come i bambini, i vecchi, i poveri di ogni sorta. Anche nel mondo biblico non mancano gli orrori della violenza sulle donne, al contrario, vasta è la gamma dei casi narrati atta a mostrare i tanti modi in cui le donne – nella società androcentrica e patriarcale – erano oggetto di violenza
La violenza sulle donne è un segno della postura di una civiltà, non è qualcosa che nasca come un fungo o che si possa spiegare con la malvagità o la patologia di singoli individui. La violenza sulle donne, ieri come oggi, anche in Europa, nasconde il retaggio di una cultura in cui le donne non sono considerate pari agli uomini adulti, né per dignità né per diritti. Ed è proprio la loro differenza che le accomuna ad altre categorie di persone lo stesso “im-pari” come i bambini, i vecchi, i poveri di ogni sorta. Le nostre istituzioni, per questo, dedicano una giornata alla donna – l’8 marzo – contro le discriminazioni nel mondo del lavoro – e una giornata – quella di oggi, 25 novembre – contro la violenza che le donne subiscono da fidanzati, mariti, ex-compagni, e – non dimentichiamolo – dai mostruosi mercanti di prostituzione e di tratta.
Donne che prima sono state volute e scelte e che si sono fidate e affidate ai mariti fino a renderli padri dei loro bambini e che, poi, vengono minacciate, pretese in possesso nell’anima e nel corpo, massacrate ed uccise da chi, spesso, distrugge anche sé stesso.
Nel mondo biblico non mancano gli orrori della violenza sulle donne, al contrario, vasta è la gamma dei casi narrati atta a mostrare i tanti modi in cui le donne – nella società androcentrica e patriarcale – erano oggetto di violenza. Un primo caso è quello dell’abuso del loro ruolo di madri che era il principale, il più importante. La donna sterile era considerata colpevole e, quindi, era diritto del marito prendere un’altra moglie, giacere con la sua schiava, o ripudiare la donna che aveva sposato se non gli avesse dato la discendenza. Anche la poligamia è una violenza contro la donna e così pure le leggi del ripudio che, non per nulla, Gesù andrà a criticare (cf Mt 19,3ss). Per non parlare dell’adulterio per cui la moglie veniva addirittura lapidata. Che dire poi delle figlie su cui i padri potevano tutto, persino offrirle “in sacrificio”? È la storia della figlia di Iefte che fu abbattuta sulla soglia della giovinezza, in adempienza della sciagurata idea di suo padre di fare un voto a Dio? (cf Gdc 11,29ss). Abuso di potere paterno sulle figlie, fatto passare per volontà di Dio. Nei casi appena descritti, la violenza più grave era, forse, quella della Legge che permetteva stabiliva tutto ciò.
Ma ci sono anche casi di violenza che, invece, la Legge, fortunatamente, puniva. Tutti ricordano il delitto di David su Betsabea nel quale il re abusa del suo potere per usare la moglie di un altro. Talis pater, talis filius: Amon – primogenito di David – si incapriccia per sua sorella Tamar e rifiuta di mangiare, fingendosi ammalato. Per farsi tornare l’appetito voleva le frittelle fatte da sua sorella! E così avvenne. Amòn si scapricciò, la violentò e, in men che non si dica: “concepì verso di lei un odio grandissimo: l’odio verso di lei fu più grande dell’amore con cui l’aveva amata prima” (cf 2Sam 13,15). Le donne non solo erano facile preda della violenza e dell’arbitrio maschile ma non avevano neppure il diritto di esprimere i loro sentimenti, di amare a loro volta: anche questa è violenza contro le donne!
Ma c’è di più. Il “giusto” Lot, nipote di Abramo, mise a diposizione dei Sodomiti le sue figlie vergini purché non violentassero i suoi ospiti (cf Gen 19,8-9), così come il levita di Efraim gettò il corpo di sua moglie fuori di casa, al posto del proprio (cf Gdc 19,25). Ma se i sodomiti non vollero violentare le figlie di Lot, i figli di Israele violentarono la donna tutta la notte fino a farla morire. Quanto neppure Sodoma era riuscita a fare, lo fece, invece, il popolo di Dio! (cf Gdc 19,25).
In Israele alle donne era precluso entrare nelle stanze intime e sacre del Tempio e da questa esclusione tante altre violenze derivavano contro di loro. Nonostante i Vangeli, dove si riconosce e si esalta la dignità assoluta della donna, la Chiesa ha continuato a praticare le distanze sacrali e specialmente quando – dopo il Concilio di Trento – s’è fortemente clericalizzata. Quello che il Medioevo non faceva venne fatto in età moderna contro le donne. Vale la pena ricordare, infatti, la storia bella di Jacopa dei Settesoli, amica amata di frate Francesco, per la quale, venuta ella ad Assisi, egli disse: “fatela entrare e conducetemela, perché per frate Giacoma non va osservata la clausura stabilita per le donne” (dalla Leggenda Maggiore).
Rosanna Virgili Agenzia SIR 25 novembre 2022
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L’impatto delle violenze di genere e familiari sui minori
Le violenze domestiche contro le donne sono cresciute durante la pandemia. Quando presenti, ne sono vittima anche i minori, costretti ad assistere e spesso a subirle direttamente. Un quadro drammatico, in cui è importante il ruolo di tutele legali e centri antiviolenza.
- 16.272 chiamate da vittime al (1522 nel 2021: +3,6% sul 2020 e +88,2% sul 2019.
- Le chiamate da vittime sono cresciute nel 94% delle province rispetto a prima della pandemia.
- La tendenza alla crescita è segnalata anche da altre fonti, come gli accessi ai pronto soccorso.
- Le conseguenze più frequenti tra i minori che assistono sono inquietudine e aggressività.
- 0,29 case rifugio ogni 10mila donne in Lombardia, la regione dove sono più presenti.
Nel periodo pandemico, e in particolare durante le chiusure, si è registrato un picco delle violenze contro le donne in ambito familiare. Una crescita testimoniata dalle chiamate al 1522, dai contatti ai centri antiviolenza e dai dati dei pronto soccorso.
Quando presenti, ne sono vittima anche i bambini, costretti ad assistere alle violenze, se non a subirle direttamente. Per uscire da situazioni così drammatiche è cruciale il ruolo dei centri antiviolenza e delle tutele garantite a chi subisce gli abusi. Ma soprattutto deve aumentare la consapevolezza sulla violenza di genere, con un cambio di paradigma sociale e culturale profondo, che coinvolga tutti quanti. In modo che vi siano le tutele adeguate e che nessuna donna debba essere messa nella condizione di dover decidere se denunciare. Come invece ancora oggi spesso accade, specie nelle situazioni in cui sono presenti dei figli in famiglia.
Acquisire tale consapevolezza passa anche da capire quanto, come e dove incida il fenomeno, in modo da innalzare l’attenzione e dotarsi degli strumenti per intervenire con efficacia. A maggior ragione dopo il Covid, il cui impatto purtroppo si misura anche sulle violenze domestiche e di genere.
È urgente capire come rafforzare le misure esistenti e implementare nuove misure per proteggere e sostenere le donne vittime di violenza da partner e i loro figli durante e all’indomani del Covid-19, così come in altri potenziali situazioni di crisi
Ogni giorno decine di telefonate raggiungono il (1522, il numero verde per segnalare violenze di genere e stalking. Un servizio gratuito, attivo 24 ore su 24 e che garantisce l’anonimato. Attivato nel 2006, contribuisce all’attuazione da parte del nostro paese della convenzione del consiglio d’Europa per la lotta contro la violenza sulle donne. Un documento firmato a Istanbul nel 2011, sottoscritto e poi ratificato dall’Italia tra il 2012 e il 2013.
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per istituire a livello nazionale apposite linee telefoniche gratuite di assistenza continua, operanti 24 ore su 24, sette giorni alla settimana, destinate a fornire alle persone che telefonano, in modo riservato o nel rispetto del loro anonimato, delle consulenze su tutte le forme di violenza oggetto della presente Convenzione.
Su questa crescita hanno influito numerosi fattori, non ultimo la maggiore consapevolezza sul fenomeno e sul servizio stesso, promosso con apposite campagne informative.
Purtroppo sembra essere riconducibile anche alla contingenza della fase pandemica. In un report dedicato, l‘istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) ha sottolineato come durante il lockdown sia incrementato il rischio di violenze intime, ossia quelle da parte dei partner. Una dinamica, riconducibile alla convivenza forzata con il partner violento, che appare confermata dai dati nazionali. E che è verosimilmente sottostimata rispetto al
Negli ultimi anni la crescita è stata costante, e ciò può dipendere anche da una maggiore capacità e formazione degli operatori sanitari dei pronto soccorso nel “riconoscere” i casi di violenza.
Tuttavia l’aumento registrato nel primo anno di pandemia (+1,5 punti in un solo anno) appare particolarmente significativo. Nel 2020 l’emergenza sanitaria ha portato a un drastico abbattimento degli accessi al pronto soccorso, di conseguenza anche quelli per violenza sono diminuiti (-28% rispetto al 2019). Allo stesso tempo il tasso di accessi per violenza ogni 100mila accessi è fortemente aumentato: +19% tra 2019 e 2020.
Un’ulteriore conferma in questo senso arriva dal numero di donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza. A causa delle restrizioni del Covid, gli accessi alle case rifugio sono diminuiti. Ma il numero di donne che hanno contattato un Cav è cresciuto quasi dell’8% tra prima e dopo la pandemia.
Nel 2020, 54.609 donne hanno contattato almeno una volta i centri antiviolenza, in aumento di 3.964 unità rispetto al 2019. +7,8% la crescita delle donne che si sono rivolte ai Cav nel 2020 rispetto al 2019.
Fonti diverse che vanno nella stessa direzione di quanto visto con le telefonate al 1522. Per quanto parziale, l’analisi delle chiamate al numero verde da parte delle vittime offre un quadro abbastanza attendibile del fenomeno, come segnalato anche dall’istituto nazionale di statistica.
L’analisi del fenomeno della violenza e dello stalking che emerge dalla lettura dei dati del (1522 restituisce uno spaccato utile a comprenderne le dinamiche e le caratteristiche, che si avvicina sorprendentemente al profilo già rilevato dalle indagini campionarie condotte dall’Istat sulla stessa tematica.
Diventa quindi utile approfondire, attraverso le informazioni raccolte dal (1522, il profilo delle vittime e i motivi che più spesso portano a non denunciare, specie se in presenza di minori. Bambini e ragazzi che sono a loro volta vittime della violenza di genere, assistendovi e subendola.
Le vittime, tra violenze e mancate denunce. Premessa d’obbligo è che si tratta di dati la cui analisi è molto complessa, anche per la difficoltà per le vittime di fornire informazioni al telefono sulla propria situazione. A causa della convivenza forzata con il familiare violento, ciò è stato esasperato durante pandemia.
Va notato che nel 2020 la quota delle non risposte ai dati anagrafici delle vittime è decisamente aumentata, a causa di un aumento delle telefonate che si interrompevano anticipatamente durante il lockdown, cosa che può essere intesa come un indicatore di difficoltà nella permanenza al telefono da parte delle vittime.
Con questo caveat, è possibile ricostruire che il 97% delle vittime sono donne, aggregando i dati del 2021 e del 2022 (fino al primo trimestre). L’età più frequente è tra 35 e 44 anni (16% delle vittime) e nella fascia centrale – 25-54 anni – si concentrano quasi la metà dei casi, pari al 44% del totale. Tuttavia il dato sull’età non è disponibile per oltre una vittima su 4 (27,5%).
La principale violenza subita è generalmente di tipo fisico (nei primi tre mesi di quest’anno 1.308 casi su 2.966). Seguono quelle di natura psicologica (1.010 casi nello stesso periodo), sessuale (181 casi) e minacce (172).
Violenze che nella grande maggioranza dei casi avvengono nella propria abitazione: oltre il 70% sia nel 2021 che nei primi 3 mesi del 2022. E consistono in ripetuti episodi nel corso di anni (1.675 casi nel primo trimestre 2022) o mesi (672). Solo in 129 casi su 2.966 la chiamata è seguita a un unico episodio.
Del resto, sono anche molti i casi in cui una violenza subita non si traduce in una denuncia formale alle forze dell’ordine. Nei primi mesi del 2022, meno del 13% ha denunciato, quasi 3 vittime su 4 non hanno denunciato e un ulteriore 3% ha successivamente ritirato la denuncia. Per circa il 10% delle vittime non si conosce tale informazione.
Tra i motivi addotti più di frequente per la mancata denuncia, vengono segnalati il “non voler compromettere la famiglia” e la paura del violento. Dati che vanno letti in relazione con la presenza di figli nel nucleo, vittime a loro volta della violenza di genere e familiare.
La violenza assistita dai minori. Oltre il 50% delle vittime di violenza hanno figli: il 51% nel 2021 e il 54% nei primi 3 mesi del 2022. A loro volta, circa la metà delle vittime con figli è genitore di un minore di 18 anni. Situazioni che espongono anche bambine e bambini, ragazze e ragazzi alle violenze che avvengono nel nucleo familiare. Anche in questo caso, pesa l’alta quota di non risposte: in oltre un caso su 5 (22,6%) questa informazione non è disponibile.
Tuttavia i dati mostrano chiaramente che i ragazzi nella stragrande maggioranza dei casi assistono alle violenze e in diversi casi ne sono vittima in prima persona. La casistica più frequente è infatti quella dove la vittima con figli indica che questi non hanno subito direttamente la violenza, ma hanno assistito a quella perpetrata. Seguono le situazioni in cui viene dichiarato che i figli non assistono e non subiscono, quelle non note e quelle in cui i figli sono sia vittime che testimoni della violenza al proprio genitore.
La conseguenza più spesso segnalata per i figli che assistono è l’inquietudine (421 casi su 1.602 nel primo trimestre 2022). Seguita dall’aggressività (85 casi), da comportamenti adultizzati di accudimento verso i familiari (76) e dai disturbi del sonno. Anche in questo caso tuttavia, nella maggioranza dei casi non disponiamo di informazioni: la reazione dei figli delle vittime ad esempio nei primi mesi del 2022 non è indicata per 781 casi su 1.602).
Inoltre, come abbiamo visto in precedenza, solo in una minoranza dei casi queste situazioni portano a una denuncia. Si tratta di un aspetto cruciale, perché solo la possibilità di conoscere la situazione consente di intervenire in modo tempestivo e efficace, trasferendo la chiamata al servizio più utile, caso per caso. Dai centri antiviolenza alle forze dell’ordine, dai pronto soccorso al numero di emergenza per l’infanzia.
+15% vittime minori di 18 anni del reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina tra 2020 e 2021, in base ai nuovi dati del ministero dell’interno.
Centri antiviolenza e case rifugio sono il primo sbocco delle chiamate da parte delle donne che subiscono violenza. Approfondiamo come sono diffusi sul territorio nazionale.
La rete di centri antiviolenza e case rifugio. Il sistema di protezione per le donne vittime di violenza si regge sui centri antiviolenza (Cav) e sulle case rifugio per le donne maltrattate (Cr).
Strutture che devono avere dei requisiti minimi per operare, stabiliti con l’intesa stato-regioni nella conferenza unificata del 27 novembre 2014. Sulla base di questo accordo, sono le regioni ad accreditare i centri che ne fanno richiesta.
Per quanto riguarda i primi, sono strutture in cui vengono accolte, a titolo gratuito e indipendentemente dal luogo di residenza, le donne di qualsiasi età e i loro figli minorenni. Intervengono in tutti i casi in cui la donna abbia subito o sia esposta alla minaccia di violenza di qualsiasi tipo. 15.387 le donne che nel 2020 hanno concordato con il centro antiviolenza un percorso personalizzato di uscita dalla violenza.
Le case rifugio sono luoghi che garantiscono un alloggio sicuro e gratuito alle donne che hanno subito violenza e ai loro bambini. Una mappatura non è possibile data la necessità di garantire a queste strutture la massima sicurezza e protezione. Le Case Rifugio sono strutture dedicate, a indirizzo segreto, che forniscono alloggio sicuro alle donne che subiscono violenza e ai loro bambini a titolo gratuito e indipendentemente dal luogo di residenza, con l’obiettivo di proteggere le donne e i loro figli e di salvaguardarne l’incolumità fisica e psichica.
La regione con più case rifugio è la Lombardia, sia rispetto alle donne residenti (0,29 case ogni 10mila donne) che rispetto a quelle vittime di violenza (3,97). Segue il Friuli-Venezia Giulia (0,24 ogni 100mila residenti e 3,74 ogni 10mila vittime).
Case rifugio più diffuse in Lombardia, centri antiviolenza in Molise, Umbria e Abruzzo
Numero di case rifugio e centri antiviolenza ogni 10mila donne residenti (2020)
Per quanto riguarda i centri antiviolenza la prima regione è il Molise (0,26 ogni 10mila donne, 3,28 rispetto alle vittime). Segue l’Umbria, considerando entrambi gli indicatori.
Il sostegno alle vittime e l’investimento educativo necessario. Intervenire nel contrasto delle violenze di genere e domestiche richiede quindi un complesso coordinato di interventi. Dalla possibilità di segnalazione e consulenza, attraverso il numero verde dedicato, alle strutture rivolte all’accoglienza delle donne che escono da una situazione di violenza, spesso con i propri figli.
Fino a tutele ulteriori in situazioni ancora più drammatiche, purtroppo non infrequenti. 116 donne vittime di omicidio volontario nel 2020. Nel 2019 erano state 111 (Istat). Situazioni che richiedono un intervento ancora più particolare, come previsto dalla legge 4 del 2018 che tutela gli orfani a causa di crimini domestici. Giovani ai quali vengono riconosciute tutele processuali ed economiche, come il diritto al patrocinio gratuito a spese dello stato, la possibilità di modificare il proprio cognome o quella di accedere alla pensione di reversibilità.
Oltre a borse di studio, finanziamenti per il reinserimento lavorativo e per l’assistenza psicologica e sanitaria.
La prevenzione passa anche da un investimento educativo sulla parità e il rispetto di genere. Accanto a questo tipo di interventi, è evidente l’urgenza di intervenire anche sulla prevenzione. Parliamo di un vero e proprio investimento educativo che miri a trasmettere a bambini e ragazzi tutti gli strumenti per essere parte attiva del contrasto alla violenza di genere. Dagli aspetti culturali già evidenziati, come la parità di genere e il rifiuto della violenza, alle modalità concrete per contrastare i casi di violenza, quando avvengono. Per esempio l’importanza della denuncia e il ricorso all’aiuto offerto da associazioni e centri antiviolenza.
I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. La fonte dei dati sul numero di chiamate da vittime al 1522 è Istat.
La violenza contro le donne
Quando si parla di violenza di genere, è sempre presente il rischio che l’attenzione si concentri solo nel momento in cui, come purtroppo accade di frequente, del tema si occupa la cronaca nera. In particolare in occasione delle sue manifestazioni più estreme, in primis il femminicidio. In questa tendenza si cela però un duplice pericolo. Da un lato, quello di trattare il fenomeno come episodico, legato a singoli casi criminali che – più o meno spesso – ottengono l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Dall’altro lato, è altrettanto concreto il rischio di deviare il dibattito pubblico stesso, che finisce con l’alimentarsi solo di particolari provenienti dai singoli casi giudiziari.
La mancanza di un dibattito basato sui dati rischia di favorire una sottovalutazione del fenomeno. Nonostante una letteratura scientifica molto approfondita, e il lavoro di raccolta dati svolto da alcuni anni dagli istituti di statistica, nel dibattito corrente difficilmente invece il tema viene affrontato in senso più ampio. Trattando ogni situazione come un caso di cronaca a sé stante, viene eluso qualsiasi tipo di riflessione sul tema come vera e propria piaga sociale, nelle sue implicazioni culturali e nelle sue conseguenze per l’intera società. In assenza di un dibattito strutturato, basato anche sui dati, ne escono sminuite la stessa portata del fenomeno e le sue radici più profonde. Radici che affondano in una mentalità maschilista tutt’altro che sconfitta o in via di estinzione.
A dimostrarlo, non ci sono solo le preoccupanti notizie provenienti dall’estero, come l’uscita dalla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne della Turchia, il 20 marzo 2021, e la possibilità concreta che anche la Polonia segua la stessa strada, dopo che l’Ungheria lo scorso anno non ne ha ratificato il testo. Decisioni politiche non sempre motivate ufficialmente, ma dietro cui si affacciano argomentazioni che era ragionevole considerare ormai escluse da qualsiasi tipo dibattito. (…) secondo i conservatori la Carta danneggia l’unità familiare, incoraggia il divorzio e i suoi riferimenti all’uguaglianza venivano strumentalizzati dalla comunità Lgbt.
Ma lo dimostrano anche i dati più recenti sul grave aumento di violenze domestiche durante la pandemia, registrato in molti paesi tra cui il nostro. Lo scoppio dell’emergenza Covid ha significato notevoli cambiamenti nella vita quotidiana delle persone, in particolare per le misure restrittive ai fini di contenimento del contagio, come il lockdown. Le politiche di contenimento hanno consentito di ridurre il numero di contagi giornalieri, limitando l’impatto sanitario del Covid. Allo stesso tempo, sono state poste da subito, nel dibattito pubblico, una serie di questioni. Una delle implicazioni più rilevanti è quella relativa alla violenza domestica. La raccomandazione di stare a casa per molte donne ha infatti significato rimanere a stretto contatto per quasi tre mesi con il proprio partner violento.
L‘Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) ha sottolineato nel suo ultimo report come durante il lockdown sia incrementato il rischio di violenze intime, ossia quelle da parte dei partner. Una questione che ha da subito riguardato numerosi paesi europei, compresa l’Italia.
Il tutto in un contesto di insicurezza economica, ansia per il possibile contagio e per le limitazioni sociali prolungate. A tal proposito Eige mostra come questi sentimenti dovuti a una situazione emergenziale hanno per esempio contribuito all’aumento del consumo di alcol.
Durante la pandemia si è registrato un aumento delle segnalazioni di violenze. Le conseguenze immediate sulle vittime, donne e figli inclusi, si sono tradotte in paura e percezione di vulnerabilità. Inoltre, la necessità di stare a casa ha aumentato la difficoltà di trovare adeguate motivazioni per lasciare l’abitazione. Sia per denunciare l’episodio violento, sia per separarsi dal compagno, in quanto sarebbe ulteriormente più complicato trovare un’altra abitazione. Di conseguenza, il sentimento di non poter cambiare la situazione presente in molte donne porta a un possibile isolamento sociale e dunque una difficoltà maggiore nel chiedere aiuto.
Infatti, i primi dati rilasciati da Istat mostrano come le chiamate al numero antiviolenza siano impennate durante i mesi di lockdown in Italia, pari al 73% in più rispetto al 2019. Violenze che riguardano migliaia di donne ogni giorno e che, oltre al contesto creatosi con il lockdown, accadono anche nei luoghi di lavoro, per strada, a scuola. Considerando il numero di denunce, che sono rappresentative di una parte solo minoritaria delle violenze fisiche, si osserva comunque una netta tendenza all’aumento. Basti pensare che nei mesi tra marzo e giugno del 2020 sono stati riferiti al 1522 (il numero verde anti violenza e stalking) 1.673 episodi di violenza in più rispetto al 2019.
Superate le 3.000 violenze fisiche riferite al (1522. Numero di rapporti al 1522 effettuati da donne per tipo di violenza di genere subita (marzo-giugno 2013-2020)
Se poi si osserva il numero degli esiti estremi di queste violenze, gli omicidi, nel corso di tutto il 2020 ce ne sono stati 112 con una donna come vittima. E al 9 maggio 2021 sono già 38 omicidi volontari con vittime donne. Di queste, 34 sono state uccise in ambito familiare e in 25 casi l’autore dell’omicidio è il partner o l’ex partner.
Un fenomeno che va combattuto anche sul piano culturale ed educativo. Tutti questi dati ci ricordano come il problema non sia affatto sporadico (non lo era neanche prima della pandemia, del resto), e non vada quindi trattato come tale. La violenza di genere e la sua manifestazione più grave, il femminicidio, devono essere considerati come una questione culturale che fonda le radici in una concezione patriarcale della società. Una mentalità purtroppo molto più radicata di quanto si pensi comunemente e che, anche quando non irrompe nella cronaca giudiziaria, emerge nelle manifestazioni di mascolinità tossica e in una visione degradante del ruolo della donna. Si tratta dell’idea, spesso interiorizzata, che la donna ricopra un ruolo ancillare, totalmente o parzialmente subalterno nella società. Tale concezione è alla base delle discriminazioni in ambito familiare, sociale e lavorativo. E, nei casi più gravi, alimenta nell’uomo la convinzione di poter disporre della propria partner, innescando il meccanismo che è alla base delle violenze di genere e dei casi di femminicidio.
Appare quindi evidente che, per essere efficace, il fenomeno vada contrastato nelle sue radici culturali ed educative. In primo luogo, con politiche attive volte a ridurre i tanti gap tra uomini e donne nei diversi ambiti, dal lavoro svolto, al salario, alla divisione equa delle mansioni familiari. Ma anche attraverso un investimento educativo a partire dalle generazioni più giovani, che educhi alla parità di genere, al rispetto reciproco, al rifiuto di ogni forma di violenza.
Un investimento educativo che parta dai più piccoli, che spesso costituiscono l’altra faccia della violenza domestica. Tra le vittime ci sono anche i figli: che assistono, o anche subiscono direttamente, le violenze.
Una situazione che ha il suo estremo nei casi di femminicidio, con gli orfani di crimini domestici e di violenza di genere. Un esito così drammatico da essere stato tutelato da una legge apposita in cui viene dedicato un fondo di aiuti ai figli orfani di madre. Nel 2020 sono circa 2.000 le ragazze e i ragazzi, sia maggiorenni che minorenni, aventi diritto a un sussidio finanziario proprio a seguito dell’omicidio della madre per mano del partner o di un familiare.
Accanto a questo tipo di interventi, è essenziale intervenire soprattutto sulla prevenzione. L’investimento educativo di cui parliamo deve puntare a trasmettere a bambini e ragazzi tutti gli strumenti per essere parte attiva del contrasto alla violenza di genere. Dagli aspetti culturali già analizzati, come il ruolo paritario della donna e il rifiuto della violenza, alle modalità concrete per contrastare i casi di violenza, quando avvengono. Ad esempio l’importanza della denuncia e il ricorso all’aiuto offerto da associazioni e centri anti-violenza.
È urgente capire come rafforzare le misure esistenti e implementare nuove misure per proteggere e sostenere le donne vittime di violenza da partner e i loro figli durante e all’indomani del Covid-19, così come in altri potenziali situazioni di crisi.
Per approfondire maggiormente questi aspetti, il presente report si compone di due capitoli.
- Nel primo capitolo abbiamo affrontato il tema del femminicidio, un dramma che colpisce ogni anno circa 100 donne. Partendo da una ricostruzione comparativa a livello Ue, abbiamo approfondito la situazione italiana, delineando anche l’evoluzione del fenomeno negli ultimi anni. Per concludere poi con un approfondimento sui figli orfani di madri a seguito di un femminicidio, fornendo una fotografia di quanto accaduto nel 2020 in Italia.
- Nel secondo capitolo, invece, è stato descritto il fenomeno della violenza di genere in Italia in quanto strettamente legato al femminicidio. Infatti, nel capitolo vengono analizzati due indicatori utili a capire l’ampiezza del fenomeno: le chiamate al 1522, il numero antiviolenza, e l’evoluzione dei reati spia. Infine, tra le vittime della violenza di genere ci sono spesso anche i figli, che assistono o subiscono violenza. Una tematica di cui trattiamo nell’ultima parte del capitolo.
Principali dati e indicatori sulla violenza di genere. I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi alla violenza di genere sono di fonte Istat e Eurostat.
www.openpolis.it/esercizi/la-violenza-contro-le-donne
www.openpolis.it/limpatto-delle-violenze-di-genere-e-familiari-sui-minori
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