UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
News UCIPEM n. 934 – 30 ottobre 2022
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L ’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
CONTRIBUTI PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA
02 ABUSI Abusi di potere, spirituali e sessuali: le suore latinoamericane si raccontano
03 Donne consacrate abusate da preti in Africa: suor Lembo ne svela i meccanismi
04 BETTAZZI MONS. LUIGI Ivrea. Incontro nel salone dei 2.000
05 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 39, 26 ottobre 2022
07 CHIESA DI TUTTI L’economista eretico vicino a Francesco: «Il mercato? È una pseudo teologia falsa»
09 CITTÀ DEL VATICANO Coppie gay, la benedizione del coordinatore dei vescovi Ue “Non sono mele guaste”
10 DALLA NAVATA 31° Domenica del tempo ordinario – Anno C
10 Commento
11 DONNE NELLA (per la ) CHIESA Tra resistenza e speranza, l’impegno delle donne per la pari dignità nella Chiesa
13 Documento di lavoro del Sinodo: comunicato di Donne per la Chiesa
14 ECOLOGIA Femminismo ed ecologia
24 FRANCESCO VESCOVO ROMA Chiesa e sessualità: il Papa smonta tutti i falsi miti in un solo discorso
25 PASTORALE Chiesa che verrà. Don Matteo: “Imparare lo stile dell’intercessione”
26 Procreazione Medi. Assistita Relazione al parlamento sullo stato di attuazione della legge n.40\2004
27 RIFLESSIONI A proposito di agonia del cristianesimo. Il linguaggio religioso non dice più niente.
28 SIN0DALITÀ Cammino: in “dialogo” per “sentire assieme cosa oggi la Chiesa è chiamata ad essere
29 SINODO CONTINENTALE Il Sinodo prende il largo
32 Dove? Quando? Come? L’impatto del Sinodo sull’avvenire della Chiesa
33 SINODO NEL MONDO Sinodo, Grech: non spingiamo agende, ascoltiamo senza esclusioni
35 Sinodo, nel Documento della fase continentale la voce degli ultimi e degli “esclusi”
38 Hollerich: la Chiesa deve cambiare, rischiamo di parlare a un uomo che non c’è più
ABUSI
Abusi di potere, spirituali e sessuali: le suore latinoamericane si raccontano
Il 55,2% delle religiose in America Latina e nei Caraibi ha subito abusi di potere e/o sessuali all’interno della vita religiosa, ovvero nell’ambito della loro congregazione, comunità o in un ambiente ecclesiale legato ai luoghi o alle istituzioni appartenenti alla Chiesa.
Gli abusi sono stati esercitati da superiori nel 51,9% dei casi, da sacerdoti nel 34,2% , da formatori nel 23,1% e infine da vescovi nel 10%.
Sono dati che emergono da un’indagine condotta dalla Commissione per la cura e la protezione dei bambini, adolescenti e adulti vulnerabili della Confederazione latinoamericana dei religiosi e delle religiose (CLAR), cui hanno risposto 1.417 suore provenienti da 23 Paesi dell’America Latina e dei Caraibi. I risultati del sondaggio, anonimo, sono pubblicati nel libro Vulnerabilidad, abusos y cuidado en la vida religiosa femenina (Editorial Claretiana).
Il questionario somministrato dai ricercatori comprendeva 40 domande su sei diverse categorie di tematiche per ottenere informazioni relative a due domande specifiche: c’è o non c’è abuso di potere, coscienza e sessualità nella vita religiosa in America Latina? Come viene percepito questo tipo di maltrattamento dalle monache del continente?
Fra le 40 domande, anche quelle sui tre principali tipi di abuso che ogni donna, comprese le religiose, possono subire: abusi di potere, di coscienza e sessuali.
I Paesi in cui è stato ottenuto un numero maggiore di risposte da parte delle religiose sono il Messico (429 risposte), Brasile (170), Argentina (129), Perù (113), Ecuador (79). I Paesi da cui è arrivata una minore quantità di risposte sono Nicaragua (14), Cuba (13), Stati Uniti (139, Panama (11) e Paraguay (7).
I ricercatori assicurano che quasi la metà delle risposte, precisamente il 48,6%, appartiene a suore di età compresa tra i 45 ei 65 anni. Si tratta di donne che hanno esperienza di vita religiosa e diversi anni nelle loro congregazioni. Il 39,4% delle religiose che hanno risposto, 559 soggetti, svolge il proprio apostolato nei centri educativi.
- Dai dati raccolti risulta che, sebbene il 61% neghi l’esistenza di abusi spirituali, il 30% è convinto del contrario. Sono i superiori quelli che esercitano maggiormente questo tipo di abusi con il 25,5% dei casi; seguono i sacerdoti con il 16,2% e i formatori con il 15,7%. È comunque il 39,4% delle donne che hanno affermato di aver assistito a situazioni di abuso spirituale nei confronti di un’altra persona. Per quanto riguarda le molestie sessuali, il 14,3% delle suore rivela di aver ricevuto molestie da un sacerdote, il 9,7% da laici e l’8% da altre suore.
- Il 19,8% delle suore dichiara di essere stato vittima di abusi sessuali. 112 di esse affermano che ciò ha influito sulla loro vita religiosa, 105 ritengono di no, e solo 9 di loro hanno ricevuto sostegno terapeutico all’interno della comunità per affrontarne le conseguenze psicologiche. Per quanto riguarda il consumo di materiale pornografico, 1 religiosa su 3, ovvero il 33%, sostiene che sia un problema; solo l’1,7% si dichiara consumatore di questi contenuti.
Secondo la presidente della CLAR, Liliana Franco, la realizzazione del libro è stato un processo che rappresenta il frutto della consapevolezza della dimensione profetica della vita consacrata. Ciò implica accettare che esistono modalità relazionali lontane dalla volontà di Dio che generano abusi di potere, abusi di coscienza e abusi sessuali e che spetta a loro, da religiose, renderli visibili perché «dare la parola all’abuso» è il modo in cui «possiamo intraprendere cammini di giustizia, di riparazione». «È una situazione dolorosa» quella che emerge dal sondaggio, ha dichiarato, «una situazione che è profondamente commovente e che ci deve portare, come CLAR, a fare un’opzione: essere una mano tesa, una presenza che accompagna e aiuta in questi processi di ricostruzione, riparazione, giustizia»
Eletta Cucuzza Adista Notizie n° 37 29 ottobre 2022
Donne consacrate abusate da preti in Africa: suor Lembo ne svela i meccanismi
Suore abusate da preti in Africa è il soggetto di un libro uscito il mese scorso in Francia (Religieuses abusées en Afrique, faire la vérité, ed. Salvator, Paris) a firma di suor Mary Lembo, della congregazione delle Suore di Santa Caterina d’Alessandria; nata in Togo, è psicoterapeuta e formatrice per seminari e case religiose. Non è un lavoro nuovo, anche se inedito, quello ora pubblicato, nel senso che è il testo della tesi che la religiosa ha discusso alla Pontificia Università Gregoriana, nel 2019, presso il cui Centro per la protezione dei minori ha lavorato. Di passaggio a Parigi nei giorni 10-12 ottobre, suor Lembo è stata intervistata dal settimanale La Vie.
Mary Lembo racconta che, nel contesto del suo lavoro, le suore le «confidavano di avere una relazione con un uomo, ma non per loro scelta, e che non potevano uscirne» perché «il loro male veniva da più lontano»: «erano vittime di sacerdoti che le aggredivano sessualmente, le violentavano nell’ambito del rapporto pastorale. Questo è stato il punto di partenza della mia ricerca», informa; perciò «quando sono stata invitata a Roma per lavorare in un centro della Chiesa per la tutela dei minori e insieme mi è stata offerta una borsa di studio per approfondire la mia ricerca, ho deciso di investire me stessa su questa questione delle donne consacrate maltrattate dai sacerdoti», una situazione «del tutto diversa e molto meno documentata rispetto a quella degli abusi sui minori».
Ricorda quanto fu scioccante la sua prima intervista con una donna consacrata: «Visse situazioni di indicibile orrore: violentata più volte da un sacerdote con cui collaborava, questi le impedì di usare la contraccezione e la costrinse più volte ad abortire. Ha finito per lasciare la vita religiosa. Quando ho ricevuto questa testimonianza, ero all’inizio della mia ricerca e ho esitato a portarla avanti: avevo paura per la mia vita, per la mia comunità, volevo addolcire le mie parole», ma «non potevo tacere, dovevo continuare».
Quanto sia amplio il fenomeno, Mary Lembo non sa dire: «servirebbe una ricerca quantitativa su grandi gruppi, statistica (…). Non ho dati complessivi, anche perché non era il mio obiettivo: volevo partire dalle testimonianze, per approfondire, per capire i meccanismi di abuso, le situazioni in cui si trovano queste monache e perché per loro è difficile uscirne, sempre con l’obiettivo di migliorare la formazione». Ed è emerso un percorso comune a molte consacrate: il più delle volte, «quando una ragazza pensa di farsi suora, chiede a un sacerdote di accompagnarla spiritualmente. Si apre a lui, gli confida le sue paure, le sue esitazioni, le sue tentazioni e difficoltà come persona e come donna». Solitamente, osserva, le donne consacrate «entrano nella vita religiosa molto giovani, a volte anche prima dei 18 anni, quando il loro corpo diventa quello di una donna».
«Nell’ambito di questo rapporto pastorale – seguita – si può verificare un transfert (…) verso questo sacerdote che lei ammira, che la ascolta, la sostiene» e «questo mette la donna consacrata in una situazione di fragilità. Perché se il sacerdote gli fa delle avances, la sua risposta può essere confusa. È in questi momenti che, secondo le testimonianze che ho raccolto, il sacerdote ne approfitta. In questo rapporto asimmetrico, che contiene una forma di dipendenza (spirituale, fraterna, affettiva, ma anche a volte finanziaria, perché capita anche che il sacerdote presti un aiuto economico a certe giovani in formazione), il consenso non vale». Ma «l’abuso può verificarsi anche nel contesto della collaborazione pastorale»: la donna consacrata «può dipendere dal sacerdote per un aiuto, per organizzare un’attività, per viaggiare con la sua macchina in luoghi remoti… e si sente in debito con lui».
Per quanto riguarda questi sacerdoti è possibile che abbiano una cattiva comprensione del celibato sacerdotale, o che se siano in malafede e attuino una forma di manipolazione. Comunque il problema, ritiene suor Lembo, è a monte, nella «formazione nei seminari», «troppo teorica e non sufficientemente esplicita. Il più delle volte i giovani entrano in seminario subito dopo il diploma di maturità, a 17 o 18 anni, cioè in pieno periodo di maturazione sessuale. Vengono rinchiusi nei seminari nove mesi all’anno, viene loro impedito di entrare in contatto con le donne… E poi li inviano a uno stage parrocchiale dove si confrontano quotidianamente con le donne, ma in una posizione di autorità, rispettati, messi su un piedistallo dai fedeli!».
Insomma, secondo la suora togolese, quando «gli aggressori godono di questa autorità» è segno che c’è in generale una «immaturità sottostante»: «spesso la violenza sessuale dei chierici non nasce direttamente da un rapporto conflittuale con la sessualità, ma è un modo di dominare gli altri, di utilizzare gli altri per soddisfare bisogni di cui non sono pienamente consapevoli».
La conclusione di Mary Lembo è che bisogna insistere sulla «formazione teologica delle future religiose in Africa». «I seminaristi – considera – studiano teologia per otto anni, mentre le monache apprendono le basi della formazione biblica e teologica. Ma questo a volte può mantenere il clericalismo tra le consacrate, che possono rivolgersi al sacerdote che ha fatto più studi… e quindi quello che dice è più esatto. Ma questo non è vero! Le monache devono poter sviluppare uno spirito più critico».
Eletta Cucuzza Adista Notizie n° 37 29 ottobre 2022
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MONS. LUIGI
Ivrea. Incontro nel salone dei 2.000
La conferenza di domenica sera con il vescovo Luigi Bettazzi, 33 anni di episcopato ad Ivrea.
Le profonde riflessioni dell’uomo di fede su scienza e intuizione, i temi di stretta attualità come il nuovo governo, nel giorno del suo insediamento, e quello sull’aborto nuovamente messo in discussione, sono stati al centro della conferenza tenuta dal vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi nell’affollato Salone dei 2000 della Ico di Ivrea.
Salone dei 2000 della Ico di Ivrea. Parla Adriano Olivetti
Domenica sera, partendo dalla stretta attualità del governo di destra, identificato da Dio, patria e famiglia, Bettazzi ha premesso: «Ho una certa stima per Giorgia Meloni, per gli altri che compongo la maggioranza no». Il presule, a un passo dal compiere 99 anni, ha poi dato il suo tagliente giudizio: «La famiglia alla quale loro pensano è solo quella tradizionale composta da un uomo e una donna, con l’esclusione di tutto il resto; la patria è quella da difendere contro i migranti; e il Dio di cui parlano è quindi a modo loro».
Luigi Bettazzi alla domanda sul tema dell’aborto ha ricordato a tutti i presenti in sala: «Ho detto all’inizio di questa serata che avrei seminato dei dubbi e ho invitato a uscire chi si sentisse turbato». Poi ha chiarito la sua posizione spiegando di aver scritto e inviato anche a Papa Francesco un appunto in cui sostiene che: «L’aborto può essere un peccato di altro genere ma non è un omicidio; l’ovulo fecondato può essere paragonato a una radice ma non ancora a un albero; quindi si può considerare un uomo solo dal quinto-sesto mese di gravidanza quando, anche se dovesse mancare la madre, il bambino può continuare autonomamente a vivere».
Il vescovo emerito di Ivrea ha quindi aggiunto: «La cosa importante è una vera educazione sessuale anche per l’uomo, visto che l’aborto è sempre una vera tragedia per la donna; una tragedia che si consuma nel completo disinteresse dell’uomo. Questo è un argomento sul quale vorrei che si possa discutere».
La conferenza. Si è aperta con la riflessione sulle sue ultime pubblicazioni: “Sognare eresie. Fede, amore e libertà” (Edb 2021) ed “Io e noi. Riflessioni politiche e religiose”, (La Meridiana 2022).
«Sono partito dall’idea dell’Io e del Noi – ha esordito monsignor Bettazzi – e dal presupposto di non confondere ragione e intuizione. Il mondo del Noi è quello dell’intuizione e dell’esperienza che ci fa arrivare fino a Dio; quello dell’Io è il mondo della scienza, che ci dice quale è la struttura delle cose ma è anche il mondo della violenza, mentre solo l’apertura verso il Noi ci indica la strada della Pace».
Il tema della pace, sempre molto caro al vescovo emerito di Ivrea, è coniugato ripetutamente nei suoi scritti con quello della libertà dell’uomo, affrontati anche nei documenti finali del Concilio Ecumenico Vaticano II (Bettazzi è l’unico testimone conciliare europeo rimasto tra i cinque ancora viventi nel mondo). «L’unica condanna contenuta nei documenti conciliari è quella della guerra totale (Abc – Atomica, Biologica, Chimica); e la pace non nasce dalla guerra che provoca solo altre folli guerre – ha ricordato Bettazzi.
Alla domanda finale sulla chiesa che sogna oggi, Bettazzi ha concluso. «Sogno una chiesa che ascolti Papa Francesco il quale, seguendo le due anime del Concilio, è molto impegnato a sostegno della pace dei poveri in questo mondo ingiusto, e nella sinodalità, nella quale ogni cristiano deve dare qualcosa alla chiesa al servizio della quale, superando il clericalismo, devono essere tutte le gerarchie ecclesiastiche».
Sandro Ronchetti La sentinella del Canavese 26 ottobre 2022
CISF – CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA
Newsletter CISF – N. 39, 26 ottobre 2022
- Per legge e per amore”, una bella docu serie per conoscere meglio l’adozione. È andata in onda a inizio anno ma le quattro puntate sono ancora disponibili sulla pagina YouTube di Tv2000: è la docuserie “Per legge e per amore”, che mette al centro della narrazione le storie di chi ha vissuto l’esperienza dell’adozione in prima persona.
www.youtube.com/watch?v=PdiNV1c7_t4&list=PL6AqvbxnE8H6EthwsUcxaVSQUA21P_x-o&index=5
Genitori adottivi, bambini adottati, adottati ormai adulti raccontano le loro vite prima e dopo l’adozione, le motivazioni, le difficoltà incontrate, le gratificazioni. Storie a lieto fine, in grado di dare forza e speranza a chi è incerto se intraprendere o meno questo percorso [un breve trailer 30 sec]
www.youtube.com/watch?v=WCLgFfesWx4
√ Verso il CISF family report 2022. Famiglia&digitale. Costi e opportunità. Sarà pubblicato il prossimo 30 novembre “Famiglia&Digitale. Costi e opportunità” (Edizioni San Paolo), il nuovo rapporto del Centro Internazionale Studi Famiglia che si presenta in una versione a cadenza annuale e con un rinnovato impegno di lettura della realtà delle famiglie, in tempi segnati da crisi e complessità. Per avvicinarci all’uscita del volume, che fonda la sua analisi su una ricerca su oltre 2mila famiglie con figli, il direttore CISF Francesco Belletti introduce in questa intervista il tema del CISF Family Report [su YouTube – 5 min 50 sec]
www.youtube.com/watch?v=0KrTHcA02Ac&t=23s
- Incontro pubblico su “politica fiscale e famiglia“. Appuntamento il prossimo 5 novembre 2022, alle ore 9.30 a Bologna (presso la sala polivalente della parrocchia di S. Maria della Misericordia, piazza di porta Castiglione 4) per un incontro pubblico dedicato alla fiscalità a misura di famiglia come investimento per il futuro, organizzato dal partito Insieme Emilia Romagna. Interverranno, tra gli altri, Vera Negri Zamagni, docente di Storia Economica presso l’Università di Bologna, e Francesco Belletti, direttore Cisf [anche in diretta su Facebook a questo link]
www.facebook.com/people/Insieme-Emilia-Romagna/100079115648569
- FAFCE: una risoluzione sul lavoro familiare non pagato. A fine ottobre la FAFCE-Federation of Catholic Family Association ha tenuto la sua riunione semestrale del Consiglio, con più di 50 delegati provenienti da 22 paesi europei. Nell’occasione ha riconfermato per i prossimi tre anni il suo presidente, Vincenzo Bassi, i due vicepresidenti e i componenti dell’ufficio di presidenza. La riunione ha portato all’approvazione di una risoluzione “Family unpaid care work: the heart of intergenerational solidarity”, che “rifiuta una soluzione unilaterale all’assistenza all’infanzia in Europa, che, sotto la giusta volontà di sostenere l’equilibrio famiglia-lavoro dei genitori, mira a garantire il loro massimo tasso di occupazione, a scapito delle famiglie e nel lungo periodo della sostenibilità dei nostri mercati del lavoro”. [il link al testo]
www.fafce.org/fafce-fall-2022-board-resolution-family-unpaid-care-work-the-heart-of-intergenerational-solidarity
- Finlandia/anche i social tra le cause del declino della natalità. Uno studio di un gruppo di ricercatori dell’Università di Helsinki, pubblicato su Marriage and Family Review ha esplorato le regioni del declino della natalità in Finlandia (sceso da 1,87 figli per donna nel 2010 a 1,35 nel 2019 – da Statistics Finland, 2020). Secondo gli studiosi, tra i cambiamenti nello stile di vita della popolazione che potrebbero aver influenzato gli atteggiamenti nei confronti della natalità c’è la rapida diffusione dei social media, che sono diventati una parte diffusa e radicata della vita quotidiana. Oltre l’80% dei finlandesi di età compresa tra 20 e 44 anni afferma di essere sui social media più volte al giorno o costantemente. Il tempo trascorso sugli schermi può significare tempo perso da altre attività, scrivono i ricercatori, contribuendo a una minore soddisfazione relazionale e aumentando lo stress e l’elevata reattività, l’instabilità e l’incertezza, e plasmando narrazioni su come la genitorialità influenzerebbe le proprie prospettive future nella vita. [il testo integrale]
www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/01494929.2022.2083283?scroll=top&needAccess=true
- Officine UNICEF, come costruire patti educativi di comunità. Sono interamente disponibili online i materiali e le video-conferenze del corso di formazione interprofessionale su normativa, politiche, strumenti e metodi per la costruzione di patti educativi di comunità che è stato organizzato in ottobre da UNICEF Italia, insieme a Con i Bambini e Arciragazzi [qui i materiali].
www.unicef.it/media/officine-unicef-al-via-il-corso-di-formazione-interprofessionale-per-patti-educativi-comunita
Sulla pagina Lost in education è possibile inoltre scaricare il quaderno metodologico che raccoglie le strategie, gli strumenti e le lezioni apprese durante il progetto.
www.francoangeli.it/Ricerca/scheda_libro.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_26_10_2022&id=27931
√ ISTAT: calano i posti al nido, costi maggiori e difficoltà delle famiglie a pagare le rette. L’Istat ha fotografato la situazione (per il biennio 2020/2021) dei servizi educativi per la prima infanzia in Italia [qui il report integrale].
Per effetto della pandemia ci sono state alcune variazioni significative: dalla fine del 2020 sono attivi 13.542 servizi con oltre 350mila posti (il 49,1% in strutture pubbliche). I posti sono in lieve calo (-2,9%) a causa soprattutto delle sospensioni del servizio nell’intero anno 2020/2021. Tra le criticità̀ emerse: maggiori costi (segnalati dal 74% dei Comuni), carenza di risorse economiche (37%), difficoltà delle famiglie nel pagare le rette (29%). Il tasso nazionale di copertura si attesta al 27,2%, ancora al di sotto dell’obiettivo del Consiglio UE di Barcellona (che si sarebbe dovuto raggiungere entro il 2010), pari al 33% di copertura dei posti rispetto ai bambini.
√ MATERNITÀ E DINTORNI. Il Movimento della Vita dell’Umbria propone un corso di approfondimento che affronta i grandi temi dell’attualità ma anche il percorso fatto in 50 anni di servizio. In particolare, la formazione prenderà le mosse da cosa significa essere volontari della vita in tutte le sue fasi e in tutte le condizioni, specialmente le più fragili, o in quelle in cui la vita si mostra in tutta la sua misteriosa potenza: la maternità̀. Le lezioni si potranno seguire online sul canale Youtube del settimanale “La Voce”, www.youtube.com/lavocepg
a partire da mercoledì 26 ottobre, un mercoledì al mese (30 novembre, 25 gennaio, 22 febbraio, 29 marzo, 26 aprile 2023) [qui per info e programma completo]
- Dalle case editrici
- S. Livingstone, A. Blum-Ross, Figli connessi. Come la tecnologia plasma la vita dei bambini, Erickson, Trento, p.352
- Y.Agid, Invecchiare? È divertente. Il cervello, padrone del tempo, Carocci, Roma, p.204
- Mathonat, O., Vedi alla voce aspettare. Il cammino di una coppia senza figli, San Paolo, Cinisello B. 2022, pp.160
Una storia vera, di quelle che è impossibile smettere di leggere: Olivier e Joséphine Mathonat sono una coppia piena di sogni e progetti che, con il trascorrere del tempo, sperimenta in modo sempre più faticoso e drammatico l’infertilità. (…) (Benedetta Verrini)
- Save the date
- Incontro (Padova) – 31 ottobre 2022 (inizio ore 18.30). “La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2022” presentazione del Rapporto, a cura dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, presso la Libreria ItalyPost di Padova [qui per info e programma]
- Webinar (EU) – 1° novembre 2022 (13-14 CET). “Changing family formation and child well-being”, a cura di Einstein Center for Population Diversity [qui per info e iscrizioni]
- Congresso (INT) – 9 novembre 2022 (14-17.30 UTC+1). “Breaking barriers: Local family policies for young people’s future. European Congress of Family Friendly Municipalities”, a cura di ELFAC, in presenza a Bruxelles e in diretta streaming [qui per info e programma]
- Webinar (EU)) – 15 Novembre 2022 (9.30-12.30). “HEUNI Day. Perspectives on the future: migration flows, globalisation, rational and humane criminal policy and beyond”, organizzato da European Institute for Crime Prevention and Control [qui per info e programma]
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CHIESA DI TUTTI
L’economista eretico vicino a Francesco: «Il mercato? È una pseudo teologia falsa»
intervista a Gaël Giraud a cura di Paolo Bricco
I tre voti sono povertà, castità e obbedienza. Per me il più difficile da rispettare è l’obbedienza». Gaël Giraud, 52 anni, è un gesuita. Ha avuto una vocazione tardiva. È entrato nella Compagnia di Gesù a trentaquattro anni. È diventato sacerdote a quarantatré. Prima ha lavorato nelle banche d’affari: «Stavo per diventare un operativo. Mi occupavo di modelli matematici applicati alle scelte di business e di investimento. Vivevo fra Parigi e New York. Un giorno in banca mi chiesero di trasferirmi definitivamente a New York per fare il trader a Wall Street. La tentazione fu grande. In banca, nei primi anni Duemila, quel cambiamento di posizione equivaleva al raggiungimento di una grande prosperità economica personale. Nella finanza gli stipendi erano altissimi e, soprattutto, i bonus garantiti dalle banche al raggiungimento dei risultati potevano rendere ricco. Ne parlai anche con la mia fidanzata di allora. Decisi per il no. Non me ne sono mai pentito», racconta.
Siamo a Roma da Matermatuta, un ristorante di pesce che si trova nel rione Monti. Il giardino interno è ricco di alberi e di piante. Il tavolo è appartato. Giraud ha un dottorato di ricerca in matematica conseguito alla Sorbona, a cui poi si è aggiunto quello in teologia preso al Centre Sèvres, l’università dei gesuiti a Parigi. È un economista. Giraud critica alcuni eccessi – o, meglio, alcuni errori – quantitativi. Ma soprattutto critica alcune astrazioni e alcuni postulati dell’economia neoclassica che – a suo avviso – ne rendono debole il metodo, fallaci le analisi e sbagliate le previsioni. La sua costruzione concettuale non ha nulla di provinciale, moralistico e retorico, ma è ben integrata nei circuiti dell’accademia internazionale: Giraud insegna negli Stati Uniti a Washington alla Georgetown University, dove è suo collega alla McCourt School George Akerlof, premio Nobel
per l’economia nel 2001.
Il suo pensiero è uno dei noccioli duri del tentativo operato dalla chiesa di Bergoglio di dotarsi di una visione economica alternativa, in grado di rendere l’economia un corpo vivo, una parte del tutto, un elemento innestato in altri elementi, come la valorizzazione e il rispetto dell’ambiente, a cui è dedicata l’enciclica di papa Francesco del 2015 Laudato si’, in cui la cura della casa comune (l’ambiente) fa il paio con la cura degli altri (gli esseri umani). «Qui è bellissimo», dice osservando le piante che adornano il giardino e gli alberi che lo circondano. «Come ho conosciuto Bergoglio? È successo per caso. A noi gesuiti è vietato cercare un contatto diretto con il papa. Sennò lui, che è gesuita, non vivrebbe più. Nel 2018 alcuni ambientalisti francesi, sia cattolici sia laici, mi chiesero, dopo avere letto i miei libri sulla transizione ecologica, di accompagnarli a Roma a una udienza dal Santo Padre, dove io potessi portare il mio contributo», spiega mentre mi porge una copia del suo ultimo libro, La rivoluzione dolce della transizione ecologica. Come costruire un futuro possibile, pubblicato in Italia dalla Libreria Editrice Vaticana. Per antipasto il cameriere ci porta degli scampi, dei gamberi rossi e dei gamberi viola. Lui prende anche un carpaccio di pescato con della misticanza, delle erbette aromatiche e olio agli agrumi. Io, invece, scelgo un fiore di zucca, con baccalà mantecato e crema di peperoni arrosto. Nell’aria, intorno a noi, c’è la dolcezza che sanno esprimere le sere di Roma fra la fine di settembre e i primi di ottobre.
Gaël è una persona estremamente complessa. Non è complicata. Perché è molto lineare nei suoi comportamenti, nelle sue elaborazioni, nel suo modo di fare. Non sembrano in lui esistere doppi fondi o ambiguità sostanziali che non siano quelle che naturalmente appartengono a ogni essere umano. È però una persona complessa. È tranquilla. Ma fatica a uniformarsi al pensiero prevalente fissato dagli altri e deve usare molto impegno per rimanere, con equilibrio, nelle gerarchie. È nato e cresciuto a Parigi, nel quindicesimo arrondissement: «Oggi è un quartiere bobo, abitato da bourgeois bohemian, ma quando io ero piccolo era un quartiere operaio, che viveva intorno alla fabbrica della Citroën. Ho ancora negli occhi gli operai in tuta blu che bevono caffè e vino ai banconi dei bar. Mio padre Antoine era un architetto e un pittore. Mia madre Yvette era, anche lei, architetta. Lavoravano insieme. Lei si arrabbiava tantissimo con lui perché non si faceva mai pagare. Non riusciva proprio a farlo. Era un artista. Per lui tutto era dono. Soltanto che, poi, lei doveva fare tornare i conti a casa».
Già prima dell’ingresso nella Compagnia di Gesù, Gaël ha avuto esperienze non ordinarie. «Una delle cose più importanti nella mia vita – racconta mentre beve acqua minerale – sono stati i due anni, fra il 1995 e il 1997, che ho trascorso in Ciad, nella città di Sahr. Sahr si trova nella savana. Intorno la natura è selvaggia. Elefanti e giraffe, ippopotami e rinoceronti. Nella città la vita non è semplice. Io ho scelto di non abitare nei compound per i bianchi, che sono un mondo a parte in cui si vive agiatamente ovunque in Africa. Ho preferito una casa africana, senza luce e senza acqua. Da volontario laico, ho insegnato in un liceo dei gesuiti matematica e fisica a ragazzi fra i quindici e i diciotto anni. La mia casa era aperta. Accoglievo i bambini di strada che vivevano senza
famiglia e che campavano di stenti e espedienti. Ogni mattina, prima di andare a insegnare, preparavo la colazione a chiunque di loro la desiderasse. La vita è strana e bellissima. Quando, rientrato in Europa, mi sono dedicato alla ricerca al Cnrs, il Centre national de la recherche scientifique, e all’insegnamento alla Sorbona, il primo studente di cui ho seguito a Parigi la dissertazione per il PhD in economia matematica era un ragazzo del Ciad, mio allievo al liceo dei gesuiti di Sahr».
I camerieri gli portano vermicelli con le cozze al pesto di cime di rapa. Io, invece, prendo spaghetti alle vongole. Con il primo beviamo un calice di vino dell’Alto Adige, il Cosmas 2021, un Sauvignon blanc. Nel 2015 lui è stato nominato capo economista dell’Agence française de développement, l’organismo statale dedicato allo sviluppo dei Paesi più poveri. Sottolinea Giraud: «La mia critica è duplice. È teorica nei confronti dell’economia neoclassica. Ed è pratica verso i meccanismi di funzionamento dei mercati. L’economia neoclassica usa una matematica troppo elementare. La teoria dell’equilibrio è semplicistica. Bisogna usare i sistemi che si adoperano nella fisica e nella chimica, che considerano ogni variabile rispetto alle altre, in un movimento dinamico e non lineare. Dobbiamo adattare i modelli alla realtà e non piegare la realtà ai modelli. La matematica più complessa serve il primo intento. La rigidità delle ipotesi poste dall’economia neoclassica, come il paradigma delle aspettative razionali, serve invece a piegare la realtà ai modelli».
Quindi, in Giraud non esiste un generico rifiuto dei metodi quantitativi. Anzi, per lui la matematica va usata di più e meglio. La sua è una voce critica doppia. Non solo ermeneutica. Ma anche concreta: «So qual è la differenza fra la complessità del reale e i presupposti di razionalità che vengono teorizzati nei modelli dell’economia neoclassica e che vengono dichiarati nelle procedure e nelle compliance delle istituzioni finanziarie. Io ho lavorato nelle banche. Le istituzioni finanziarie sono organismi burocratici che tendono ad autoperpetuarsi. E che spesso fanno esattamente ciò che, secondo i principi di razionalità, non dovrebbero fare».
Il pesce è molto buono. Prendiamo entrambi del pescato del giorno al vino bianco e ai carciofi. Due anni fa alla Georgetown Giraud ha fondato l’Environmental Justice Program: sedici studiosi – economisti, matematici, filosofi, sociologi, biologi – elaborano modelli ibridi e sistemi dinamici in cui gli scenari economici vengono determinati dai cambiamenti climatici e dalla geofisica: «Pensiamo alle riserve dei minerali. Immaginiamo quello che capiterà all’economia internazionale nel 2060, quando vi sarà il picco dell’estrazione del rame, che è essenziale per il funzionamento delle nostre società». Per ora, però, il modello è focalizzato soprattutto sul rapporto fra economia e ambiente. A Georgetown il gruppo di Giraud ha analizzato l’economia del sud degli Stati Uniti: «Nel 2075 il Texas, la Florida e la California subiranno una desertificazione naturale che avrà ripercussioni demografiche, economiche e migratorie. Gli equilibri interni agli Stati Uniti si deterioreranno. Le sedi locali della Federal Reserve si sono interessate a questi risultati. E, ora, anche la Division Financial Stability, che supporta il board della Federal Reserve a Washington, vuole lavorare sul nostro modello».
Arrivano i caffè. È troppo tardi, nella serata romana, per indulgere in dessert e in vini dolci. «La cosa che mi ha più stupito è avere toccato con mano, sia dal punto di vista astratto che pratico, la trasformazione del mercato in un idolo pagano. Il mercato è onnisciente, onnipotente, benevolente, perfetto. Sono tutti attributi di Dio. Ma questa pseudo teologia moderna è falsa, non funziona e non fa bene agli uomini e alle donne», dice mentre si alza dal tavolo Gaël Giraud, uomo appassionato, matematico irrequieto, economista eretico.
Paolo Bricco “Il Sole 24 Ore” 16 ottobre 202
www.ilsole24ore.com/art/l-economista-eretico-a-francesco-il-mercato-e-pseudo-teologia-falsa-AEvhDG7B
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202210/221016giraudbricco.pdf
CITTÀ DEL VATICANO
Coppie gay, la benedizione del coordinatore dei vescovi Ue “Non sono mele guaste”
La contrarietà alla benedizione delle coppie gay si scioglie come neve al sole se si va al fondo della semantica. «Se rimaniamo all’etimologia di “bene-dire”, pensate che Dio possa mai “dire-male” di due persone che si vogliono bene? », si domanda il cardinale Jean-Claude Hollerich. Gesuita come il Papa, il porporato lussemburghese non è uno qualunque: ai vertici degli organismi di raccordo dei vescovi europei (presidente della Comece, vicepresidente della Ccee), è relatore generale — colui che tirerà le fila delle discussioni — del Sinodo globale che Francesco ha da poco prolungato di un altro anno, fino a ottobre del 2024.
E se già in passato Hollerich ha chiesto di ripensare questioni assodate — il celibato obbligatorio, la formazione dei sacerdoti in seminari, il ruolo delle donne nella Chiesa — ora consegna le sue aperture niente meno che all’Osservatore Romano . In un’intervista al direttore Andrea Monda e al giornalista Roberto Cetera tocca un ampio ventaglio di questioni, dalla rivoluzione antropologica in corso («La nostra pastorale parla a un uomo che non esiste più») al rischio che i populisti falliscano «la sfida del governo», dalla necessità di testimoniare con credibilità il messaggio evangelico alla Chiesa del futuro, che in Europa sarà «molto più piccola ma anche più viva».
Il cardinale lussemburghese sa ribaltare le prospettive: «Chi è fuori della Chiesa certe volte capisce il Vangelo meglio di chi ci sta dentro », afferma. Non è progressista, nel senso classico del termine: con il quotidiano della Santa Sede condanna l’eutanasia («Mi ha terrorizzato vedere nei Paese Bassi l’estensione della pratica dell’eutanasia anche ai malati psicologici »), critica la proposta al Parlamento europeo di attribuire all’aborto lo «status di diritto fondamentale », elogia la più controversa delle encicliche di Paolo VI: «Humanæ Vitæ è un testo meraviglioso. È veramente un peccato che sia passato alla storia solo per il giudizio sugli anticoncezionali».
Sulla morale sessuale, però, ha una posizione molto avanzata. Se i vescovi fiamminghi del Belgio hanno recentemente aperto alla benedizione delle coppie gay, «francamente — chiosa Hollerich —la questione non mi sembra decisiva. Se rimaniamo all’etimologia di “bene—dire”, pensate che Dio possa mai “dire—male” di due persone che si vogliono bene?». Il porporato spiega che sarebbe più interessante approfondire altre questioni, capire a cosa è dovuta «la crescita vistosa dell’orientamento omosessuale nella società» o, tema tabù in molti ambienti ecclesiali, il fatto che «la percentuale di omosessuali nelle istituzioni ecclesiali è più alta che nella società civile ».
Ma «tanti nostri fratelli e sorelle », puntualizza, «ci dicono che, qualunque sia l’origine e causa del loro orientamento sessuale, di certo non se lo sono scelto. Non sono “mele guaste”». Non c’è «lo spazio per un matrimonio sacramentale tra persone dello stesso sesso», puntualizza Hollerich, «perché non c’è il fine procreativo che lo caratterizza, ma questo non vuol dire che la loro relazione affettiva non abbia nessun valore». Il «Regno di Dio», però, «non è un club esclusivo. Apre le sue porte a tutti, senza esclusioni».
Iacopo Scaramuzzi “la Repubblica” 25 ottobre 2022
Coppie gay, la benedizione del coordinatore dei vescovi Ue “Non sono mele guaste”
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DALLA NAVATA
XXXI Domenica del Tempo Ordinario Anno C
Sapienza 11,23. Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato;
Salmo 144, 08. Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Paolo, 2Tessalonicesi 01,11. Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.
Luca 01,09 Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto
Commento
La narrazione del Vangelo di oggi è piuttosto inattuale. Si parla, infatti, di un uomo in ricerca e questo dato è strano nel nostro contesto culturale.
È inattuale la ricerca di un senso che possa orientare la vita, che possa offrire un orizzonte nel quale incanalare le proprie forze. È inattuale perché il nuovo contesto postmoderno, come ci ha insegnato Zygmunt Bauman, più che la ricerca, stimola lo schiacciamento sul presente. Se la ricerca di un senso della vita indica un movimento interiore che spinge anche ad una ricerca di luoghi e persone, gli stimoli che troviamo nell’attuale contesto culturale conducono le persone in due direzioni. Da una parte, a sfruttare tutto ciò che è possibile nel presente; dall’altra a cambiare velocemente situazione, quando quella attuale è esaurita. Che cosa può dire, allora, la storia di Zaccheo all’attuale situazione culturale? A mio avviso può dire qualcosa sul tema dell’identità e dell’autenticità della vita.
La storia di Zaccheo fa riferimento, infatti, al tema dell’identità che nell’epoca moderna, a partire da John Locke dal suo Saggio sull’intelletto umano, chiama in causa la memoria. L’identità ha a che vedere con le scelte fatte durante la storia personale, scelte che devono essere in continuità con i punti di riferimenti presi dal soggetto. L’insoddisfazione assieme al senso di colpa dicono di situazioni percepite come incoerenti al quadro generale e che mettono in discussione l’identità personale.
L’insoddisfazione manifestata da Zaccheo, che provoca la ricerca di qualcuno che lo possa aiutare, rivela un’identità ferita dal vuoto delle cose materiali. È proprio lui ad affermarlo: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Non si dà via qualcosa d’importante. A Zaccheo, le cose che possedeva, non gli bastavano più. Era un uomo ricco, ma infelice. Per questo desidera vedere Gesù.
Già questa mi sembra un’indicazione importante. L’insoddisfazione percepita per la delusione di ciò che veniva dalla sua ricchezza, lo conduce verso Gesù. Apprendere ad ascoltare l’amarezza che proviene dall’insoddisfazione è un primo passo importante, che può produrre un cammino nuovo nella propria vita. Zaccheo insegna a non fuggire dalle proprie frustrazioni riempiendo il vuoto esistenziale con la materia o, come viene suggerito dall’attuale contesto culturale, a spostarsi velocemente in una nuova situazione, ma a sopportare il dolore, lasciarlo parlare, smettere le maschere dell’ipocrisia, per ascoltare ciò che il malessere esistenziale ha da insegnarci. In questo cammino di ricerca, che è allo stesso tempo interiore ed esteriore, Zaccheo comprende che non è solo: Gesù stesso lo vede e lo chiama. «Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia».
È la dimensione trascendente della vita che, nel caso specifico di Zaccheo, viene scoperta nella percezione che l’esistenza non può esaurirsi appena sul piano materiale. Non c’è, allora, solamente l’uomo e la donna alla ricerca di Dio, ma Dio stesso, come direbbe Abraham Joshua Heschel, è in una continua ricerca di noi. È interessante notare come questo incontro tra Dio e l’uomo avviene in uno spazio vuoto dell’anima, reso tale dalla materia. Tutto può contribuire a condurci a Dio, anche le esperienze che in apparenza giudichiamo negative ma che, se ascoltate, possono offrire indizi importanti per fare spazio al mistero. Zaccheo per essere visto da Gesù e incontrare il suo volto, ha avuto bisogno di salire su un sicomoro.
Forse il testo ci vuole suggerire che, ad un certo punto del cammino, quando abbiamo già preso sul serio la nostra vita ponendoci in ascolto delle frustrazioni incontrate in essa, abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia una mano, che ci aiuti a “salire” per incontrare lo sguardo di Colui che può riempire di senso la nostra vita e, renderla così, più autentica.
Paolo Cugini, presbitero della diocesi di Bologna, già missionario fidei donum in Brasile. Ha contribuito a fondare e ad accompagnare nei primi anni il gruppo cristiani LGBT di Reggio Emilia.
Adista Notizie n. 32. www.adista.it/articolo/68693
DONNE NELLA (per la ) CHIESA
Tra resistenza e speranza, l’impegno delle donne per la pari dignità nella Chiesa
Le donne cattoliche lottano per “pari dignità e pari diritti” nella Chiesa: lo hanno dimostrato simbolicamente con un pellegrinaggio a Roma (1- 4 ottobre), durante il quale una delegazione di membri del Consiglio direttivo del Catholic Women’s Council (CWC), rete globale che riunisce più di 60 organizzazioni di donne cattoliche nei cinque continenti, ha consegnato in Vaticano, per l’Ufficio del Sinodo, le conclusioni del processo sinodale svolto.
Il lavoro di riflessione e discernimento si è dipanato tra marzo e giugno ed è stato condiviso in cinque incontri di ascolto internazionali. Fondamentali le questioni sul tappeto: condizione delle donne nella Chiesa, potere e partecipazione, strutture e trasparenza, vita sacramentale, resistenza e speranza, declinate con spirito inclusivo a partire dalla ricchezza di culture e di background che non compongono una unica voce femminile, bensì una pluralità di approcci, dispiegata anche nel cammino sinodale.
Il rapporto si basa anche su un sondaggio (“International Survey of Catholic Women, ISCW), commissionato dall’organismo Catholic Women Speak e condotto da due ricercatrici australiane, Tracy McEwan e Kathleen McPhillips (Università di Newcastle) e dalla teologa e saggista inglese Tina Beattie (Università di Roehampton, Londra). Finanziato dalla Fidel Götz Foundation (fondazione con base in Liechtenstein attiva dal 1969 per l’uguaglianza di genere e la giustizia sociale), pubblicato in otto lingue e somministrato tra marzo e aprile scorsi, ha ottenuto 17mila risposte da 104 Paesi, fornendo un quadro sul sentire femminile nella Chiesa di ampiezza senza precedenti.
Inoltrato alla Segreteria generale del Sinodo dei vescovi lo scorso 20 settembre, nella persona della sottosegretaria suor Nathalie Becquart, costituirà la base di una pubblicazione che ne analizzerà i dati dal punto di vista sociologico e che vedrà la luce all’inizio del 2023.
«Malgrado le nostre differenze, la piena partecipazione delle donne alla Chiesa istituzionale e alla vita sacramentale è l’unico segno efficace dell’impegno dei vertici ecclesiali per la costruzione di una Chiesa veramente sinodale», afferma il rapporto del CWC, che rende conto della frustrazione e della sofferenza vissute dalle donne cattoliche di tutto il mondo rispetto all’abuso di potere, al clericalismo, alla discriminazione, al sessismo sperimentati all’interno della Chiesa: il trattamento di cui le donne sono oggetto, espressione di una cultura patriarcale ed esclusivamente maschile, argomenta il documento, è all’origine di violenze di genere e di abusi di ogni genere, da quelli sessuali a quelli spirituali e di coscienza, tanto nella Chiesa quanto nella società.
Un “censimento” del sentire femminile. Quattro le macro-conclusioni cui il sondaggio (pubblicato integralmente sul sito di Catholic Women Speak), conduce:
- la prima è che «anche quando le donne hanno notevoli difficoltà con le istituzioni e le strutture cattoliche, la loro identità cattolica è molto importante per loro«: «Molte di coloro che hanno risposto alle domande aperte – si legge – hanno sottolineato l’importanza della loro fede, la centralità dell’Eucaristia nella loro vita e la loro partecipazione attiva alle parrocchie e alle comunità ecclesiali, pur esprimendo alti livelli di frustrazione o insoddisfazione», nonché «la giustizia sociale e l’assistenza ai poveri e ai vulnerabili come vitali per la loro comprensione di ciò che significa essere cattoliche».
- Un secondo dato importante è che la maggior parte delle donne cattoliche vede con favore la riforma della Chiesa: e non soltanto rispetto al ruolo delle donne. Le intervistate hanno sottolineato la necessità di «riformare gli insegnamenti della Chiesa sulle questioni relative alla sessualità, compreso il rispetto per la libertà di coscienza e il ruolo delle persone LGBTIQ all’interno della Chiesa; i ruoli di leadership delle donne nelle parrocchie e nelle istituzioni cattoliche; le questioni liturgiche relative al linguaggio inclusivo, alla predicazione e, per alcune, all’ordinazione delle donne al sacerdozio e/o al diaconato, e al secondo matrimonio dopo il divorzio». Una minoranza di intervistate ha invece espresso una preferenza per il ritorno della Chiesa a un modello preconciliare di autorità, sacerdozio e liturgia.
- Un terzo elemento importante è che le intervistate hanno «identificato l’abuso sessuale, fisico ed emotivo di donne, bambini e altri soggetti vulnerabili come un problema dominante. Una maggioranza sostanziale si è detta preoccupata per la prevalenza di abusi, razzismo e sessismo nei contesti ecclesiali».
- Un’ultima importante constatazione è che le donne cattoliche sono profondamente preoccupate per la trasparenza e la responsabilità nella leadership e nella governance della Chiesa. Una maggioranza sostanziale delle intervistate, recita il documento, «ha individuato nel clericalismo un impatto negativo sulla vita della Chiesa. C’è stato anche un alto livello di accordo sull’urgenza di un modello di Chiesa meno gerarchico e autoritario, con una maggiore collaborazione e condivisione di responsabilità e autorità». È stato sollevato anche il problema della giustizia economica negli affari ecclesiastici, tra cui «la mancanza di una retribuzione adeguata per le donne che lavorano nella Chiesa, sia laiche che religiose».
Tra resistenza e speranza. Le sollecitazioni del Catholic Women’s Council si muovono nella tensione tra resistenza e speranza: nella difficoltà di essere parte di un’istituzione radicata in strutture discriminanti, le donne di tutto il mondo sperimentano nuovi modi di essere e vivere la Chiesa, dando un’impronta fortemente inclusiva alle comunità, e a partire dalla loro fede si impegnano affinché il raggiungimento di uguaglianza, dignità e piena partecipazione non resti solo una speranza, chiedendo alla gerarchia della Chiesa di informare tutti i processi elettorali e decisionali a un criterio di parità di diritti, di opportunità e di peso “politico”.
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 35 15 ottobre 2022
Documento di lavoro del Sinodo: comunicato di Donne per la Chiesa
Il Comunicato dell’Associazione Donne per la Chiesa in merito al Documento di lavoro per la tappa continentale del Sinodo “Allarga lo spazio della tua tenda”.
L’associazione Donne per la Chiesa ha letto con interesse il documento di lavoro per la tappa continentale del Sinodo e tale lettura ha suscitato in noi alcune considerazioni.
Innanzitutto condividiamo che l’esperienza del Sinodo sia fin qui stata un’eccezionale opportunità di partecipazione e di dialogo ed apprezziamo che il DTC non sia un documento conclusivo, ma pensato per suscitare ulteriore riflessione e che consideri esplicitamente un “tesoro squisitamente teologico (quello) contenuto nel racconto dell’esperienza di ascolto della voce dello Spirito da parte del Popolo di Dio”. È inoltre importante che siano stati menzionate esplicitamente sia le resistenze di parte del clero al processo sinodale, che la ferita aperta degli abusi come ostacoli al cammino.
Venendo alle considerazioni che toccano più da vicino la nostra mission associativa, al punto 60 si parla del “ruolo delle donne e la loro vocazione, radicata nella comune dignità battesimale, a partecipare alla vita della Chiesa in pienezza”, non possiamo che rallegrarci, ben sapendo che però parole simili erano emerse anche dei documenti finali dei sinodi sui giovani e sulla regione Panamazzonica, ma da allora ben poco è stato concretamente fatto dal momento che certamente l’apertura di lettorato e accolitato alle donne non sono passi sufficienti e infatti è riemerso ad ogni latitudine. Non si tratta di “valorizzare le donne”, le donne sanno valorizzarsi da sé, si tratta semplicemente di riconoscerne l’uguaglianza e di comprendere, finalmente, che il mancato riconoscimento dell’autorità delle donne mette in crisi l’intera autorevolezza della Chiesa.
Spiace che alle donne, ancora una volta, siano attribuite azioni prettamente sentimentali: “le donne amano, le donne provano tristezza”, quando la verità delle nostre comunità è che le donne sono parte attiva della chiesa (anzi la parte più attiva) e che, se da una parte esigono il giusto riconoscimento, dall’altra sono pronte e protese ad esercitare la loro autorità “senza chiedere il permesso”.
Al n .61 si afferma che “La Chiesa si trova ad affrontare due sfide correlate: le donne rimangono la maggioranza di coloro che frequentano la liturgia e partecipano alle attività, gli uomini una minoranza; eppure la maggior parte dei ruoli decisionali e di governo sono ricoperti da uomini. È chiaro che la Chiesa deve trovare il modo di attirare gli uomini a un’appartenenza più attiva alla Chiesa e di permettere alle donne di partecipare più pienamente a tutti i livelli della vita della Chiesa.” La scelta delle parole in questa conclusione è precisa: “appartenenza” resta un termine riservato all’ambito maschile, mentre alle donne non rimane che la parola “partecipazione“. Di fatto c’è una resistenza anche solo a nominare il fatto che la Chiesa appartiene anche alle donne, all’interno della quale esse possano e debbano avere ruoli decisionali e di governo.
È indubitabile che la questione dell’ordinazione delle donne (n. 64) vede posizioni diversificate ed apprezzando che sia stata almeno NOMINATA all’interno di un documento ecclesiale, vorremmo che venisse riconosciuto il fatto che il discernimento di cui si parla deve essere condotto anche e soprattutto a partire dalle esperienze reali e concrete di donne che si sentono chiamate a servire la Chiesa nel presbiterato. Allo stesso modo, quando si parla di carismi e ministeri laicali, auspichiamo che si voglia, in questa seconda fase e per il futuro, partire dalla concretezza e dalla creatività che lo Spirito suscita già oggi nelle comunità.
In merito alla questione dell’aborto (n. 37) ci aspettiamo che la Chiesa oltre a voler preservare e proteggere “la vita del nascituro”, sia altrettanto attenta e sollecita nel preservare e proteggere la vita e la salute delle donne che non hanno bisogno di educazione, ma di sostegno e soprattutto di rispetto
www.adista.it/articolo/68922
ECOLOGIA E FEMMINISMO
Femminismo ed ecologia
Intervista ad Antonietta Potente, teologa e religiosa
Antonietta: Vi ringrazio per questa grande fiducia che dimostrate nei confronti della mia storia. È una parte di me, che certamente sento molto, che non riesco mai a togliermi di dosso, che ha segnato davvero il mio modo di vedere la vita. Anche restando qui in Europa. In Bolivia le persone con cui ho vissuto, che sono la famiglia che mi ha ospitato, dicevano l’ultima volta che sono andata, qualche anno fa: “Tu sei una di noi che sta in Europa. Stai lavorando lì, e questo va bene. Noi ti aspettiamo e ti aiutiamo”, riferendosi ai loro rituali che sono come una benedizione prima di partire. Ed è vero, io sento che là c’è dell’altro mio sangue io non so, a volte pensavo che forse è una reincarnazione, forse prima ero una Inca, non lo so, forse una pietra ai piedi delle grandi montagne, anche se io sono terribilmente marina, quindi quello non l’ho mai rinnegato, nemmeno stando ad altitudini notevoli. Quindi, io, se vi parlo, vi parlo della mia esperienza e di quello che ho potuto comprendere.
Poi certo quando ero docente all’università di Cochabamba abbiamo lavorato molto in questo senso, da quando incominciammo a fare una teologia cosiddetta indigena. Sono stati anni intensi. Per cui era normale con gli studenti in tutte le materie, almeno quelle che guidavo io, affrontare sempre questa grande relazione con la vita indigena. Poi io che lavoravo nell’ambito dell’etica, avevo sempre presente questo grande e complesso soggetto che è l’universo. Anche lì le università erano influenzate di più dall’Occidente. Ma c’è stato un grande contributo del Brasile nell’ambito della teologia, penso non solo a Ivone Gebara ma anche a Leonardo Boff, che ha dato un contributo davvero notevole. Però quando andai, per esempio, a un congresso di teologia della liberazione e si parlava del corpo, io sentii già uno stacco tra la riflessione teologica non indigena e quella indigena. A me toccò parlare del corpo, io dissi che non ero indigena, che avrebbero dovuto invitare altre, però avevano voluto dare a me quel tema: il corpo nelle culture indigene. D’altra parte quando finii di parlare alcuni erano veramente felici – c’era anche Ivone – e dicevano che quella che avevo portato era un’altra prospettiva. Credo che la cultura boliviana abbia questo di più. E non lo dico perché ho vissuto lì, ma perché ho visto tanti altri paesi. La Bolivia ha questo di più indigeno, come ce l’ha il Guatemala per esempio. Anche proprio numericamente è un paese indigeno. Credo che questo per forza segni, naturalmente chi vuole lasciarsi segnare. C’è chi vive lì e continua a essere sicuro di quello che sa e quindi non lascia che le altre e gli altri gli insegnino qualcosa che possa sviarlo da quel che sa.
Chiara: Se vuoi possiamo cominciare da quello che tu hai appena detto, cioè che hai sentito uno scarto tra il modo di porsi, del parlare, del sentire il corpo nella riflessione indigena e in quella non indigena. Allora potresti incominciare – almeno questa è la prima domanda – a dire quale sia la differenza che hai sentito tra un corpo nella riflessione indigena e un corpo nella riflessione non indigena. In un certo senso è importante incominciare dal corpo perché il corpo è la porta d’entrata rispetto al sentire la terra e il cosmo.
Antonietta: Per prima cosa è sempre molto difficile parlarne perché per loro non è una questione ideologica. Cioè non c’è una riflessione vera e propria. Forse adesso sì per il processo di trasformazione che vivono. Sono stati gli intellettuali e soprattutto gli uomini a cercare di fare delle riflessioni e a sistematizzare tutta questa loro esperienza. Però il mio modo di procedere è diverso: io parlo della mia esperienza nella vita quotidiana con questa famiglia indigena, che è quella che mi ha permesso di entrare nel mondo indigeno. Non c’è una sistematizzazione, non c’è un pensiero sul corpo, né uno sulla relazione con la terra. Io sentivo che queste persone vivono in uno stato pre-teorico, originario, ecco, sì, originario. Direi che nella relazione sono casti, cioè non hanno intermediari, non hanno ideologie. Parlo di gente molto semplice, anche quelli che hanno studiato, perché i più giovani – due dei più giovani, un ragazzo e una ragazza – nella mia comunità, quella dove vivevo, avevano studiato, però questa relazione con la vita, anche loro ce l’hanno in modo spontaneo.
Se tu chiedi loro, probabilmente sorridono, non ti dicono granché, oppure ti dicono che l’hanno imparata da quelli prima di loro. Cioè c’è sempre qualcuno che trasmette questa relazione con la vita. Per esempio, quelli che chiamano los antepasados, o la madre. La famiglia che mi ha accolto era formata soprattutto dalla madre e da cinque figli (tre maschi e due figlie), una donna abbastanza avanti con l’età, anche i figli erano piuttosto grandi. Dunque, la relazione con la vita è qualcosa che viene trasmessa. Per poter vivere bene questa relazione e poter sapere certe cose, te lo devono insegnare, non lo impari dai libri, non lo impari dalle teorie. Per esempio, a conoscere le piante qualcuno te lo deve insegnare, così come a sapere come curare con queste piante. Cercare di capire come muoversi, e dunque qualcuno deve insegnarti a leggere le foglie di coca.
Esiste quindi una relazione diretta tra quello che è un corpo, un corpo molto complesso, e la “terra”. Mi immagino che voi leggerete, se trovate autrici latinoamericane, la questione della cosiddetta Pachamama. La Pachamama è stata tradotta dagli spagnoli, che non ci capivano un granché al loro primo impatto con questi popoli, con “madre”, in riferimento a mama, mentre pacha l’hanno tradotta con “terra”. Ma pacha nella mentalità o meglio nel vivere andino, che è più di una mentalità, – io sto parlando dell’esperienza andina, perché poi in Bolivia ci sono tutti i rami delle popolazioni Guaraní, Guarayo, Toba etc. –, nell’esperienza andina pacha non è terra, è molto di più: è tutto questo spazio, visibile e anche invisibile. Per cui c’è la terra di sotto e c’è questa terra diciamo intermedia, che è la nostra, che è fatta di terra, di animali, di piante e di persone. E c’è la terra che noi non vediamo, che è il luogo di quelli che hanno già abitato questa terra, che sono gli antepasados e che restano sempre presenti. Senza il permesso degli antepasados non si fa nulla, neanche un incontro si può fare, senza chiedere permesso agli antepasados, agli antenati. Per cui la relazione è una relazione molto complessa dove ci sono tanti corpi, c’è il corpo di queste persone, cioè il corpo umano, che a differenza di culture amazzoniche o dove fa più caldo, è un corpo più coperto perché fa freddo. Lo vedi anche poco, d’estate… ma sennò lì devi stare sempre ben vestito. Ora, questo corpo sa di avere una relazione profonda con altro. Lo sa, non solo perché qualcuno gliel’ha insegnato, ma perché, se è capace di guardare, lo coglie dalla vita stessa. Ha una relazione con tutte queste realtà che per loro hanno un nome e sono dei soggetti. La terra è un soggetto e alla terra si dà da mangiare e nelle feste è la prima che deve essere servita. La si serve in modo reale, come una persona. Si prepara il primo piatto, tu servi dalla pentola il primo piatto e lo dai alla terra, lo porti fuori alla terra. Allora il corpo è reale. La domanda che si presenta è: cosa c’è dietro a questa comunicazione con il corpo? È così anche con il sole: se il sole si oscura, pensano che c’è qualcosa che non è più in armonia e allora tutti, uomini, donne, bambini e animali si riuniscono e nel momento dell’eclissi tutti si battono sul corpo, si autoflagellano ma non in modo forte, anche gli animali, perché tutti devono piangere, perché è successo qualcosa e ha nascosto questa armonia.
Ora io posso comprendere che, per una mentalità occidentale, ad esempio, di tutti quelli che erano in Bolivia e che venivano dall’Europa o dal Nord America, una cosa del genere poteva sembrare un po’ folle, ma in quel contesto ti rendi conto che c’è un legame veramente stretto con la vita. È in questo contesto che entra e prende senso la questione del bisogno, e cioè che esiste un legame stretto tra la mia vita come essere umano e la vita in generale, o meglio questa vita che è della terra, delle piante, e di quello che semini. Per cui, ad esempio, i gesti che si fanno normalmente tra persone, come dare un bacio, sono gesti che si fanno anche con il raccolto. Forse questo era vero anche per noi prima, non conosco le nostre società contadine, io purtroppo sono cittadina e per di più di mare. In altre parole in questo conteso il corpo non è sublimato. Il corpo è curato ma può essere curato solo dalla terra, da questo ambiente. Tutto deve in qualche modo restare in relazione, tu non puoi sottrarti. Se rompi questa relazione, allora succede qualcosa anche a te. Per cui, quando tu sei malata e devi curati, devi coinvolgere la terra, non bastano le medicine normali, ma devi coinvolgere in qualche modo la terra, magari facendole un’offerta. Questi rituali si fanno a volte in giorni della settimana particolari, altre volte quando appunto si percepisce nella comunità che c’è bisogno di un aiuto particolare e di risistemare degli equilibri. Io ho ricevuto dei rituali sul corpo tante volte e non solo quando ero verso la fine del mio periodo con loro, quando sono stata malissimo e poi sono venuta via. Devo dire che loro fecero una diagnosi molto vera sul mio stare male. È attraverso i rituali che fanno la diagnosi e, guarda caso, la diagnosi riguarda sempre l’armonia. Ovvero, il tuo esserti – diciamo – spostata da qualche relazione. Ma altre volte sono stata davvero curata. E non curano solo con le erbe, curano con la terra, per esempio con i minerali, con delle pietre particolari soprattutto quelle friabili. Poi con l’insieme del rituale, che ha una precisa gestualità.
Allora direi che il corpo è un corpo in relazione e non vive senza questa relazione, sia con il presente sia con il passato. Anche se questo è un concetto molto relativo nel mondo andino, il concetto di tempo è abbastanza particolare perché sono soprattutto il passato e il presente i momenti importanti, di cui bisogna sempre fare memoria. Con altre parole, è il passato che ha originato questo presente; il futuro è nel presente: non esiste di per sé un concetto di futuro.
Ora mi sembra che l’aspetto più importante sia questo: il corpo è in relazione, e questo è il bisogno di tutti. Ora questo si vede anche proprio nel modo in cui la vita si svolge in una comunità indigena. Perché un bambino, quando ha un anno, viene inserito nella comunità e già viene considerato come un membro che può avere delle responsabilità, anche se certamente relative. Ad esempio viene fatto un rituale, per il qual si regala a questo bambino o bambina un animale. Questo rituale l’hanno fatto anche a me, quando ho compiuto il primo anno di vita nella comunità e mi hanno regalato un agnellino, che io ho dovuto far crescere, con qualche complicazione perché io andavo all’università, tornavo, prendevo questo agnellino, lo a pascolare dove c’era un po’ d’erba, io mi portavo un libro e l’agnellino mangiava. E così l’ho fatto crescere. Quando me l’hanno consegnato io l’ho dovuto tenere le prime notti con me con tutto quel che ne consegue, perché era piccolo. Questo lo fanno con tutti e io lo racconto perché mi sembra importante scoprire che essere membra di una comunità implica che tutti e tutte hanno da compiere qualcosa. È allora che le relazioni si moltiplicano. Che i bambini lavorino è normale in quelle comunità. Mentre in Europa ci scandalizziamo che i bambini lavorino – non parlo di sfruttamento minorile sul lavoro. Ripeto: tutto questo nell’ambito di un’armonia. Da tener conto che oggi ormai nelle periferie delle città c’è di tutto, ma nelle comunità più legate ancora al loro sapere, cioè al loro gusto profondo della vita, ogni membro della comunità, da un anno di vita in poi, ha il suo posto. Così come ogni animale. Ad esempio, non si può lasciare un animale senza nome perché si pensa che non vivrà, ogni gallina, in casa nostra, aveva un nome. E questo nome è interessante perché è legato sempre o alle caratteristiche esteriori dell’animale oppure a quello che ti fa ricordare il suo comportamento. Ci sono delle feste dove viene fatto una specie di battesimo degli animali, del gregge per esempio, il 24 di giugno, che è la notte più lunga dell’anno e più fredda perché laggiù è inverno.
Questa è la relazione con il corpo: sono corpi in relazione, che devono prendersi cura gli uni degli altri. Dove tutte e tutti hanno una responsabilità. E questa è una responsabilità che a volte diventa discernimento sul comportamento di chi, per esempio, è diventato violento e pericoloso per la comunità, ad esempio di violenza sulle donne. In questi casi diventano molto molto rigidi. Sono capaci, se questa persona non cambia la sua vita e persiste nell’atto di violentare qualcuna, di ucciderlo. Veramente. Tant’è vero che, quando in Bolivia c’è stato il governo indigeno, che è durato fino al 2019, ha dovuto fare due tipi di legislazione, una per le comunità campesinas e una per la città, perché hanno un altro tipo prospettiva; un altro tipo di visione anche etica, direi.
Consideriamo questa visione: da un lato c’è il dover prendersi cura personalmente degli altri e d’altra parte però è la natura che si prende cura, è la terra, sono le piante. Però è strano perché quando tu chiedi alla terra lo chiedi anche a los antepassados, a quelli che hanno vissuto prima. Emerge la visione di una comunità completa, c’è il presente c’è il passato, ti cura la terra, ti curano le piante, alcune pietre e chi è vissuto prima di te. Proprio su questo punto io noto che non è così in Occidente. In Occidente noi addirittura abbiamo l’idea di poter salvare la natura. Si parlava – adesso un po’ meno per fortuna – di porsi come salvaguardia del creato. Ma questo è assurdo, prima di tutto perché siamo noi che l’abbiamo distrutto e poi non si può continuare nelle relazioni a tenere sempre la parte, che mi sembra una parte molto patriarcale e maschilista, di chi in qualche modo pensa che deve sempre prendersi cura. Invece nella loro visione è anche la terra che si prende cura, sono anche quelle e quelli che non ci sono più. Questo è vero anche in tante altre culture nelle quali la questione dei morti è molto importante; in Bolivia mi sembra interessante perché comunque i morti sono nominati sempre in relazione a questo gesto che tu fai alla Pachamama. In questo senso la Pachamama comprende tutto: non comprende solamente quel territorio lì, quella terra che tu hai.
Se poi uno vuole fare un po’ di filosofia e aggiungere qualcosa di teorico, ricordo che nel mondo Aymara e Quechua è presente un tipo di sistema binario, fondato sulla coppia: la donna prepara il solco, l’uomo semina. Anche la luna e il sole hanno dei ruoli. Il sole si chiama Tata Inti, e significherebbe papà sole; la luna è Killa ed è la madre. C’è dunque questo senso della coppia, dell’andare in coppia. Tanto che – vi dico sinceramente – il comprendere che io per esempio non mi ero sposata e non avevo intenzione di sposarmi, loro l’hanno capito solo appunto perché io tutta la mia vita l’ho giocata con loro, cioè erano loro la mia coppia, nel senso di chi comunque completava la mia vita, secondo la loro mentalità. E questo senso della coppia è presente anche nella natura, negli alberi. Quindi l’albero che dà frutto è femmina e quello che non dà frutto è maschio. Questo è chiaro, e anche è vero.
Tornando al corpo, allora il corpo non è solo il mio corpo, è proprio il luogo dei corpi, sono tanti corpi in relazione, non c’è un’idea sul corpo, e infatti ciascuno si pensa in relazione, in relazione con un compagno o una compagna, o in relazione con una comunità, o in relazione con un figlio – molto importante – o figlia. Per la donna è importantissimo avere una figlia o un figlio. Per cui è il corpo soprattutto a svelare questa forza delle relazioni. Non so se risulta chiaro.
Caterina: Io avrei una domanda, ho dei termini sbagliati per farti questa domanda, però cerco di spiegarmi: come è concepita la terra? C’è un senso di proprietà o comunque – lo posso dire meglio così – il prendersi cura della terra spetta a una generazione specifica oppure è di tutti? Le persone hanno una proprietà, nel senso che quegli alberi sono i miei alberi, questi animali sono miei animali e quindi mi devo prendere cura di loro, e quindi c’è un’idea della proprietà oppure appartiene alla comunità?
Antonietta: C’è un’idea di proprietà comunitaria o di gruppo familiare – ti parlo del posto in cui sono nate queste persone, con cui io sono in rapporto come la mia seconda famiglia. Sono nate sui 4.000 metri, tra Potosí e Oruro, lì andavamo d’estate perché avevano ancora i lama, e per esempio loro ti dicevano: “Questa grande montagna è nostra, o è dei Tacachiri, che è il cognome, quell’altra è di altri perché era di un’altra comunità. Ora le comunità si ingrandiscono, si restringono, nel senso che una comunità normalmente prima si ingrandiva, perché si sposavano, avevano figli, si ampliava. Però se la donna per esempio andava a vivere nella comunità del marito, diventava parte di quella particolare comunità e diventava proprietaria di quel luogo. Non c’è tanto un’idea di proprietà individuale, non c’era per lo meno, poi chi scende in città purtroppo deve cambiare mentalità. In più ci sono anche delle leggi differenti ma per loro la proprietà è di quelle comunità. Mettete in conto che il termine famiglia non lo usano gli indigeni, è entrato in un momento successivo, quando la Chiesa ce l’ha messo in testa, con il nuovo diritto, ma non esisteva. Tant’è vero che nella nuova costituzione, da quando era stato eletto un governo indigeno, si era tolto subito l’articolo che riguardava la famiglia e la parola famiglia era sparita e si metteva comunità, perché comunità è per loro il grande significato della vita, è la grande relazione. In questo senso questa comunità può avere delle proprietà. Poi chi mi dice che quel cerro, come si dice là, quella montagna sia esattamente di qualcuno. Una montagna non è chiusa, e sanno che ci possono portare a pascolare i lama, l’alpaca, però non è che ci siano dei segni di possesso o riconoscimento.
Caterina: Mi chiedevo su chi ricade la responsabilità, tu hai detto che tutti devono fare delle cose però immagino che ci sia una gradazione a seconda anche dell’età, come hai detto tu.
Antonietta: Eh sì, infatti, tutti devono fare qualcosa in base alle loro capacità. A un bambino non farai fare il capo della comunità. Però lo manderai appena può, o la manderai se è una bambina, a portare i lama, a custodire il gregge, anzi quasi sempre sono bambini e bambine e donne che custodiscono il gregge. Non c’è la consuetudine che sia il capofamiglia a portare i soldi, e questo rimane anche quando si avvicinano di più alla città. Quasi sempre sono le donne a farlo. L’economia la reggono loro. E credo che questo concetto di proprietà comunitaria non derivi da ideologie, poi è stato rivestito da qualcuno anche da ideologie, ma non derivava da ideologie, derivava proprio da un bisogno di vivere. E dal fatto che tu nasci in quel territorio. È vero che oggi si spostano ma prima non era tanto così. Quel territorio è la casa. La tua prima casa è il luogo dove stai. Per cui quando si parla di madre non è solo quella che ti fa nascere. Già questo termine “madre” porta il significato della cura: ti senti curato dalla Madre Terra, perché dà da mangiare. Però la Madre Terra non da sola perché poi c’è bisogno della pioggia, c’è bisogno del sole giusto, c’è bisogno dell’inverno, non soltanto delle stagioni ma del più freddo meno freddo, cioè c’è un ciclo vitale – diremmo noi – molto connesso. E anche quando vanno in città, anche quando vivono nelle periferie, per esempio le donne con cui lavoravamo, nella periferia di Cochabamba, continuano a vivere così. È un senso che persiste. A me sembra proprio una cosa che hanno dentro. Ora io non so i bambini, che poi incominciano a vivere in città, se continuano questo sentire, però chi ha vissuto per lungo tempo con questa sapienza – gli non se la dimentica tanto facilmente. Anche quando studiano, per esempio uno della mia comunità, il ragazzo aveva studiato biologia e poteva studiare tutto quello che gli insegnavano all’università, tutte le varie teorie, ma quando doveva scegliere, sceglieva il consiglio di uno della comunità. Tutti dicevano: “guarda che hai studiato…”. No, no, no. Tant’è vero che poi lui adesso fa il medico naturalista, cura solo con piante boliviane. E allora secondo me è proprio un legame viscerale con la terra e ogni suo frutto e se l’hanno chiamata “mamma”, si tratta di un legame viscerale.
Chiara: Quando tu hai detto: le donne lavorano, poi ho letto anche il libro di Mariateresa sul movimento delle donne contadine del Sud del Brasile, sento una forza delle donne. Non che gli uomini non ci siano, non esistano, però si sente che le donne hanno un’importanza maggiore in quel contesto. Allora come si potrebbe dire questo? Non mi sembra si tratti di matrilinearità, ma sicuramente c’è una forza maggiore delle donne, forse perché sono quelle che lavorano di più… se volevi dire qualcosa di più su questo.
Antonietta: A me sembravano le più creative. E poi è vero, gli uomini ci sono proprio poco. Non sono molto presenti; solo alcuni. Per esempio anche nelle riunioni, se vai nelle riunioni delle comunità andine, ti sembra, che siano gli uomini a decidere e a parlare, ma ai loro piedi ci sono le donne, e se ci fai caso, sono le donne che suggeriscono. Ora la gestione dell’economia, anche nella città, nelle periferie, se sono donne indigene, ce l’hanno loro. A me sembra che il patriarcato in quei luoghi sia stato portato proprio con la colonizzazione e l’evangelizzazione. Io non so se si può parlare di una genealogia matrilineare, forse no. Però mi ha sempre dato l’idea stando là che il patriarcato è faccenda della colonizzazione e dell’evangelizzazione, cioè è stato marcato in modo molto forte e d’altronde nel loro modo di sentire la vita e anche al di là della vita, sono stati segnati tanto, tanto dal cristianesimo, anche se poi non vanno a messa, anche se poi non gliene importa nulla, anche se poi, per fortuna, hanno trasformato le feste del cristianesimo. Ad esempio, il venerdì santo è il giorno in cui si mangia di più, dodici piatti, perché è per consolare gli apostoli. E poi la Chiesa ogni anno metteva su degli avvisi, invitando a mangiare il giovedì santo. Ma noi lo facevamo il venerdì. Oppure il giorno di Corpus Cristi, a giugno. È una festa che loro chiamano la festa del corpo ed è il giorno che si mangia dolce e frutta al mattino a una certa ora, non si va a lavorare, perché laggiù è ancora festa di precetto anche a livello dello Stato, e quindi ritrovandoci tutte e tutti in casa, a una certa ora della mattinata si mangiano dei dolcini e frutta, tanta frutta. Quando io chiesi perché mi dissero: “Perché è il giorno della cura del corpo”. Corpus Cristi era diventato questo e io ero molto contenta. Queste sono riletture delle feste, fatte da loro, ma il cristianesimo ha avuto un peso molto grande, per cui le donne oggi si devono comunque anche liberare da questo patriarcato e lo stanno facendo. In certi casi lo fanno molto più di noi, ma in altri casi è più difficile. Per questo si formano insieme proprio anche per liberarsi, per essere più forti. Imparano a leggere insieme, imparano a fare dei lavori per poter aumentare le loro entrate nell’economia domestica, per essere più forti, per avere uno spazio molto più grande.
Chiara: Ci dicevamo, quando ci siamo preparate per impostare il lavoro da fare assieme per l’intervista, che c’è una forma di femminismo implicito nei paesi dell’America Latina. Non so se in realtà si può chiamare femminismo, però, da quello che tu dici, è evidente che è presente un formarsi, leggere, lavorare assieme per liberarsi assieme, per essere più forti tra donne. Del femminismo è presente l’aspetto per cui c’è una forza delle donne che viene dalla relazione con le altre. Molto probabilmente è sbagliato usare la parola femminismo, ma certo c’è la consapevolezza di una forza femminile la cui fonte è data dal legame con le altre.
Antonietta: Un’energia che si scambiano moltissimo e si aiutano, per esempio ci sono donne che hanno mariti violenti e queste si incontrano con altre per far qualcosa, per imparare qualcosa, sulla salute, come curare i figli, alimentazione, e sono aiutate da altre donne.
Anna Maria: Le cose che stai dicendo mi richiamano l’esperienza che ho vissuto in Brasile, adesso tenete conto noi eravamo nel Nordest del Brasile, nel Piauì, che è in realtà la zona più povera del Brasile. Lì abbiamo conosciuto diversi gruppi di donne, alcune anche produttrici, nel senso che avevano delle piccole cooperative. Poi naturalmente abbiamo conosciuto anche docenti universitarie, una in particolare mi ricordo dell’Università del Maranhão, che era una donna di una forza incredibile. Ecco e lì in quella zona del Brasile molte sono donne-capofamiglia, anche se hanno il marito formalmente ma è emigrato al Sud del Brasile, che è più ricco, per trovare lavoro e opportunità. Allora la grande contraddizione che io ma anche le altre con cui eravamo in questo progetto, altre italiane, la contraddizione che ho vissuto e che non mi è mai andata giù era che questa forza, che era una forza veramente visibile di queste donne appunto quelle che avevano famiglia erano le capofamiglia, poi c’erano anche donne sole, poi soprattutto questi legami comunitari tra donne per darsi autorità, per darsi forza erano visibilissimi, ma l’ideologia paritaria, quella vissuta soprattutto nelle accademie e nelle università, comprese anche le colleghe nostre, le nostre partner del progetto, anche afrodiscendenti avevano in mente questo schema della parità e non vedevano la forza, neanche la propria, non solo quella delle altre donne ma neanche la propria. Poi il progetto è sfociato in diverse azioni anche sul territorio di Teresina eccetera e anche in elaborati che hanno dato vita a un master, gli elaborati degli studenti del master, a parte che citavano tutti autori, questo lo sa Mariateresa perché gliel’ho detto varie volte, autori occidentali. Freire neanche quasi lo nominavano. Ma ecco con questa visione, come dire completamente colonizzata. Io ero interessata a cose diverse.
Antonietta: Io parlo appunto di donne delle periferie che non hanno un lavoro, che lavorano in casa e che si riunivano appunto per esprimere anche il loro talento artistico: il teatro. Mi sembra davvero, davvero bello. Una cosa che vorrei sottolineare, che a differenza di altri popoli loro non sono animisti. Però è strano perché, anche se non sono animisti, ogni creatura è un soggetto, un soggetto con le sue caratteristiche. A me questo è sempre piaciuto perché, anche se appunto non vengo dalla campagna, però il gatto, il cane ce l’ho sempre avuto, e anche il mare e ho sempre pensato che avessero un’anima, che fossero come delle persone, questo quando ero piccola, il mare come qualcosa da rispettare. Ecco lì ho trovato questa cosa, ho trovato questo grande rispetto soprattutto per la terra, per non fare danno. Anche gli animali, appunto questo fatto dei nomi perché altrimenti non vivono; molti hanno detto che è animismo e panteismo ma non lo è. Quando si fa un rituale, per esempio il giorno di carnevale, si fa un rituale dedicato alla casa, soprattutto alla terra e alla casa. Per esempio nella mia comunità, la mamma più anziana, portava l’incenso e il copal [l copàle (o coppàle) è la denominazione commerciale di una resina vegetale, subfossile o fossile, nota fin dall’antichità. Sul piano commerciale e gemmologico viene distinto dall’ambra], e davanti ai piatti nella cucina lei faceva una preghiera perché non manchi mai da mangiare o nella mia stanza dove c’erano tanti libri, perché la Anto abbia salute, possa studiare bene, imparare tante cose. Questo non è animismo, ma è la cura della vita; tutto è importante, tutto va custodito.
E credo che qui c’è anche un’altra questione: vivere e lavorare la terra nelle Ande è duro, questo forse Chiara appunto se lo ricordava, io avevo detto che era pesante, non è romantico, poi quando fa freddo fa freddo, lì non c’è niente per scaldarsi, non usano fuoco anche perché legna ce n’è poca, anzi se vai più in alto non ce n’è, a 4.000 metri non ce n’è. Non c’è niente di romantico, l’armonia non è facile. Non è una terra che rende, se vai nel tropico è diverso: butti un seme e il giorno dopo spunta qualcosa, li no, lì devi entrare in un contatto con questo ambiente, devi proprio prendertene cura. Quindi loro lo sanno che è dura quella vita lì. Quando io chiesi di andare a vivere con loro, perché avevo conosciuto appunto queste due persone più giovani, il ragazzo e la ragazza, mentre io chiedevo anche il permesso alla mia congregazione, loro chiesero permesso alla comunità per potermi portare a vivere lì. La mamma, la più anziana, disse: “ditele che viene a soffrire. Che ci pensi bene perché qui viene anche a soffrire”.
Chiara: Ma perché tu hai voluto andare a vivere con loro?
Antonietta: Perché vivere da italiana in un Paese totalmente differente con una forte cultura, vivere tra di noi suore anche se molto inserite (eravamo in tre) in una grande periferia, non mi bastava. A me mancava proprio un’altra anima, la lettura della vita da un’altra parte. E non bastava lo sforzo mio, lo sforzo nostro. Io volevo proprio vivere in minoranza. Perché notavo che, anche quando venivano le mie due compagne di comunità a trovarmi quando già vivevo con questa comunità indigena, appena ci univamo diventavamo un gruppo a parte. Ma per stare in questi Paesi devi essere in minoranza, altrimenti… Io insegnavo all’università, averi potuto affrontarlo solo da un punto di vista intellettuale, che era già interessante ma non bastava. Avevo anche dei colleghi indigeni, soprattutto nell’ambito dell’antropologia. Però era diverso, anche perché chi ha studiato lo ha fatto con strumenti dell’Occidente.
Io avevo proprio bisogno (di vivere in minoranza), sennò sarei tornata in Italia. A parte che avevo detto che se non me lo lasciavano fare le mie consorelle, l’avrei fatto lo stesso, non mi importava. Però questi sono i miei capricci, ma o facevo quello o tornavo in Italia. Perché è proprio diverso. È vero che tu puoi sentire gli aneddoti raccontati dal missionario o dalla missionaria, che ti diranno sempre delle disgrazie di questi popoli, ma vivere in minoranza ed essere ospitata è diverso. Per esempio loro (gli andini) ti dicono che le disgrazie non si raccontano, che è una cosa loro, che dobbiamo lottare insieme senza farci tanti problemi. Allora ti cambia la prospettiva, cioè io lo considero sempre un ribaltamento, nell’utero, e rinasci in un altro mondo.
Mariateresa: Volevo fare una domanda riprendendo un aspetto che avevi accennato poco fa rispetto alla questione del dualismo. Rispetto all’idea che il patriarcato è stato portato dal colonialismo e dall’evangelizzazione e quindi è necessario fare cammini di liberazione. Tu pensi che questa cornice simbolica del dualismo sostenga questo tipo di percorso di liberazione o pensi che magari può essere un limite? Te lo chiedo perché spesso mi è capitato in incontri internazionali, in incontri realizzati in Brasile in cui però erano presenti donne di diverse parti dell’America Latina. Ho percepito che questo è un elemento di conflitto molto grande, nel senso che molte non indigene vedevano questo dualismo come una cornice simbolica che può proprio ostacolare un percorso di liberazione delle donne. Tu che cosa ne pensi?
Antonietta: Io credo per la mia esperienza, per quello che mi hanno insegnato, più che dualismo io lo leggo in modo diverso e me l’hanno sempre descritto così. Mi ricordo, perché ho avuto la fortuna di insegnare in questa università, in questa facoltà teologica andina di metodisti, dove erano tutti Aymara o Quechua, e in un seminario che avevano chiamato “sulla differenza di genere” era venuta fuori questa questione. Cioè la donna fa il solco, l’uomo semina, certi lavori li fa la donna, certi lavori li fa l’uomo, questa cosmovisione del sole e della luna. Però veniva fuori non come Due, ma come reciprocità. Era molto forte questo discorso della reciprocità. Ora, io so che per molti di noi, anche la reciprocità può diventare pericolosa. Ma per loro non è il problema notte-giorno, luna-sole, ma è un ciclo di reciprocità, cioè serve il sole come serve la luna, serve il giorno, serve la notte, serve la pioggia. È importante un bambino, una bambina nella comunità perché fa certe cose, è importante una donna, è importante un uomo. Cioè al di sotto di questo poi ci sono le disarmonie come tra tutti gli esseri umani, io parlerei più che altro di questo forte senso di reciprocità. Molto forte, tanto che non si possono vedere da soli. Una donna resta da sola (tranne che in città dove accade più di frequente) con molta fatica e lo vede come un grande dramma dentro di sé. Eppure la cosa buffa è che restano quasi tutte sole, almeno nella città, perché in città gli uomini sono molto infedeli. Tutte le donne della mia comunità – tranne una, che resiste – sono tutte da sole, anche le più giovani. Magari si sono unite con qualcuno, si sono sposate ma dopo un anno lui le ha tradite. Però nella mentalità resta questo aspetto della reciprocità.
Anche l’Umano, parlando in termini nostri, è il reciproco della Terra, di quello che la Terra dà, di quello che la Terra ti suggerisce, perché tutti insegnano qualcosa. Io ho imparato là che tutti insegnano qualcosa, ti rimandano a qualcosa di diverso. Un giorno che ero nell’altra comunità, la comunità religiosa dove ogni tanto andavo, c’erano state delle divergenze tra di noi, nel modo di vedere la vita, e uscendo vidi un bambino con un agnellino. E quel bambino con il suo agnellino mi insegnò qualcosa: ad essere semplice, per esempio e ad essere mite. Questa reciprocità so che crea conflitto oggi, tra le donne e tra le femministe. Però c’è, io posso trovarmi in accordo o in disaccordo, ma nella cultura che ho conosciuto io c’è.
Chiara: Una cosa, che è emersa tra di noi quando ci siamo trovate l’ultima volta per impostare il discorso per questa intervista, una cosa che caratterizza in un certo senso l’ecofemminismo dell’America latina, è il coinvolgimento del senso di giustizia. Mentre all’interno dei movimenti ecologisti USA-EU, occidentali diciamo, è importante ma non è così strutturalmente presente, così profondo. Il legame ecologia-giustizia nella cultura europea è più di ordine intellettuale, mentre in questo diverso contesto è qualcosa che si sente. Non soltanto perché è stata presente la teologia della liberazione. Non credo che si possa ridurre a questo. Dalle cose che abbiamo detto finora non sta emergendo un concetto di giustizia come lo intendiamo in Europa. Mi sembra si stia delineando un concetto di giustizia incarnato nella reciprocità e nella relazione costitutiva, più che un concetto di giustizia per il quale ci dev’essere una giusta distribuzione dei beni fra tutti, in modo aprioristico e astratto. Mi sembra più legato a delle pratiche, ed è questo che vorrei chiederti. Perché noi in Europa ci avviciniamo alla questione della giustizia sempre a partire dalla nostra formazione: la distribuzione dei beni, in modo che non vi sia troppa differenza tra situazioni. Certo Simone Weil critica questo concetto di giustizia e ne propone un altro, ma qui faccio riferimento al concetto di giustizia più diffuso. Mentre, da quello che tu hai detto, emerge un concetto di giustizia diverso, che sta più nelle cose.
Antonietta: Intanto vorrei dire che il Brasile è già un mondo a parte rispetto al mondo andino. In quello che ho potuto sperimentare e vivere, la giustizia lì è davvero legata a dei bisogni. Niente di teorico, non importa nulla delle ideologie, ma è giusto quando qualcosa ti è dato perché ne hai bisogno. E il bisogno viene soddisfatto con “quanto basta”. Oggi c’è, domani non ce l’ho più. Oggi magari ho tanti soldi e faccio festa, chiamo amici e parenti e mi spendo tutto, noi occidentali guarderemmo male questo atteggiamento, pensando “oddio, sono matti, e domani?”. Domani non ce l’hanno più, venderanno qualcosa se ne hanno bisogno. Secondo me è un po’ l’anima della giustizia, è la pura concretezza. È vero che l’anima non è concreta, eppure è proprio quello: io non discuto sulla mia giustizia. Discuto che ho bisogno di queste cose. Riprendo l’esempio che facevo prima: non abbiamo l’acqua, passano due mesi, tre mesi, ci chiedono dei soldi e noi non li abbiamo. Bisogna fare qualcosa e mettersi insieme. Quando abbiamo avuto l’acqua, quello è stato un percorso di giustizia. Ma anche lì, non è che poi si è andato avanti, ma nessuno lo ha teorizzato. “Quanto basta” e il “quanto basta” è legato al presente. Non nella teoria, no se vai a chiederlo a un sociologo, probabilmente no anche se è indigeno e soprattutto se è un uomo. Ma nella vita, vi sto dicendo quello che ho sentito nella carne, che era così: quanto basta. È il sufficiente, che a volte può essere abbondanza, ma non è per tenere. La logica dell’accumulo lì non funziona e per questo, forse, dovremmo domandarci che proposte politiche facciamo noi a livello mondiale, perché lì siamo di fronte a una mentalità dove l’accumulo non esiste. È ancora più certo della questione della proprietà privata, non hanno la testa per accumulare e hai voglia a dire che poi si diventa vecchi, che non c’è la pensione, oppure c’è ma non serve, tutte queste cose. Il quanto basta ha un’energia maggiore. È affascinante in una certa prospettiva, duro e destabilizzante in un’altra. In effetti ce lo chiediamo, non c’è solo lo sfruttamento delle multinazionali etc etc, ma come mai non scatta mai niente in questi Paesi? Oppure scatta, purtroppo, il Caudillo, il dittatore, perché mi assicura questo, questo e quest’altro, oggi.
Chiara: Ha probabilmente anche a che fare con il fatto che il futuro non è la dimensione temporale importante. Accumulare ha a che fare con le immagini di quando saremo vecchi etc, invece questo modo di vivere è molto legato al presente.
Antonietta: Al presente e a quello che chiamano “fatalismo”, che non è fatalismo ma una sorta di abbandono. Sento in questi giorni che c’è una zia che ha bisogno di ossigeno e non c’è più ossigeno, questi fanno di tutto per cercarlo. A parte che costa caro e quindi è quasi impossibile comprarlo. E poi ti dicono che se non lo trovano è così, o ci pensa Dio.
Mariateresa: C’è anche il grande tema dei diritti della Terra, che entra nella questione della Costituzione boliviana, che è stata cambiata di recente. Anche lì, almeno da come ne parli, mi rendo conto che il diritto non è una proprietà privata, fondata su una concezione del soggetto indipendente, ma sulla relazione.
Antonietta: Sì, credo che davvero le “teorie del diritto” siano nostre, o americane, o anglosassoni. Lì c’è questo “di che cos’ha bisogno la Terra?”. Ma vorrei sottolineare questo: non è che gli indigeni quando vanno nelle città abbiano una grande coscienza ecologica. Forse voi che siete state in Brasile l’avete visto. Per esempio, la plastica è dappertutto. Io la prima volta che andai su a 4.000 metri, c’erano le pile della radio buttate da tutte le parti. E io a dire “ma no, ma raccogliamole le pile, perché…”. Questo mondo li ha resi anche ignoranti. Non è colpa loro, che ne sanno se le pile fanno bene o fanno male. Sono abituati che alla terra davano solo cose naturali. Nella periferia di Santa Cruz de la Sierra, dove ho vissuto quattro anni, c’è molto vento la periferia era costruita sulla sabbia, dove prima c’era un fiume. Era impressionante perché c’erano sacchetti di plastica di tutti i colori che volavano dappertutto e non sapevi se erano fiori o no. Per cui questo è un grande problema secondo me. La forza della globalizzazione ha accelerato tutto e nessuno ha dato degli strumenti per comprendere che cosa stava succedendo. E la loro sapienza non ce la fa su questo punto. Non ci pensano, oppure sì, cominciano a pensarci i più giovani perché studiano, ma gli anziani no. Le pile stanno lì, che importa? Poi non ci sono neanche i mezzi, non è che là c’è la raccolta differenziata. In comunità tra tutti riuscivamo a fare qualcosa, la carta la bruciavamo o la portavamo in un centro dove ne facevano carta igienica. E quando c’è lo scambio (di beni) lo fai, però poi non ci sono i mezzi. Lì dove vivevamo e dove loro vivono ancora non passa nessuno a raccogliere la spazzatura, perciò ti arrangi o la porti in città, però la città è una delle più contaminate dell’America latina. È quasi a livello di Città del Messico. Città del Messico è più grande, e infatti è la più inquinata in assoluto. I camion e i mezzi di trasporto sono vecchi, le macchine riutilizzate venti volte, perciò i tubi di scappamento vi potete immaginare. La questione è dunque molto complessa. Con il governo indigeno c’era stata sì, nella nuova Costituzione, la questione dei diritti della Terra ma poi nella pratica la cosa è stata molto difficile. E credo che questo sia ciò che patiscono tutti i popoli. L’ho visto anche in Africa.
Annamaria: Stavo pensando, mentre parlavi, che non si possono fare grandi generalizzazioni, anche sul Latino-america, perché le situazioni sono in realtà molto varie. E non solo le differenze tra città e campagne, foreste etc., ma anche differenze di storie culturali. Giustamente hai nominato l’evangelizzazione e la colonizzazione. Pensando a un Paese come L’Argentina, di cui so molto poco ma di cui mi sono occupata di recente, e anche lì senza fare generalizzazioni perché io ho più presente la situazione della Patagonia, lì che è una grande consapevolezza femminista non ricalcata sui femminismi occidentali. Ni Una Menos è nato lì, le battaglie sull’aborto sono state vinte proprio di recente dopo decenni. Ad ogni modo, le mobilitazioni delle donne, che non vivono nei territori – ad esempio dei Mapuche – ma che vivono in città relativamente piccole della Patagonia, molte sono attiviste femministe ma sostengono molto ad esempio le lotte dei Mapuche [popolo amerindo]. Rispetto a quello che tu hai raccontato il discorso sulla terra lì è molto diverso, lì purtroppo c’è anche una questione di diritti perché il discorso dei diritti è entrato a seguito delle espropriazioni che si sono succedute a partire dalla metà dell’Ottocento, magari anche prima, fino ai giorni nostri. Come per i Benetton, che continuano a ottenere l’espropriazione dei territori Mapuche, perché sostenuti dai vari governi argentini. Lì è venuta fuori per forza la questione dei diritti, ma anche lì da quello che ho capito c’è non solo un grande senso della comunità, ma anche una difesa della terra come luogo e casa della comunità – non come proprietà. Certo, è la terra che ci dà da vivere – e in questo potrebbe essere simile a quello che hai detto sulla reciprocità della terra con quelli che la abitano – ma poi si sono infilati in questo imbuto della questione dei diritti.
Antonietta: I Mapuche sono una minoranza in Argentina e in Chile, anche se qui molto più organizzati. In Bolivia gli indigeni sono la maggioranza numerica. Secondo me allora è differente perché deve lottare molto di più, perché ne ha bisogno.
Annamaria: Sì, però la cosa interessante è che le donne euro-discendenti vivono e praticano un femminismo che non è il nostro, pur essendo non solo euro discendenti ma anche educate in un certo modo. Sono molto attente al rapporto con la natura, a prescindere dai Mapuche, e a quella semplicità del vivere a cui facevi riferimento tu. Non sono donne che mirino ad accumulare, assolutamente no, ma curano le relazioni, sia dentro la famiglia che al di fuori.
Antonietta: Credo che ci sia una relazione molto stretta tra il “quanto basta” e la semplicità – non ideologica ma reale – e tutta la problematica ecologica. Credo che quello sia il grande problema oggi in tutto l’universo, in tutti i Paesi. È la questione che noi siamo incalzate da questo sistema di grande produzione, che se non produce muore e che devi comprare, con tutto quello che significa, e lì invece c’è un’altra economia.
Annamaria: Sì è l’autoproduzione che orienta in una direzione diversa, lo sguardo, il modo di stare.
Antonietta: Il problema è vedere anche quanto loro possono resistere. Perché a volte questo “quanto basta”, in certe situazioni come ad esempio la pandemia, vuol dire miseria. Rasenta la miseria o diventa povertà. E ne soffre anche la natura, perché io mi immagino che là tutte queste campagne sanitarie sul “pulitevi le mani”, “comprate il gel”, e così via significhi poi rifiuti di plastica da tutte le parti, mascherine che volano. Perciò non so, per me è anche quella la sofferenza, non è solo la durezza del lavoro della terra. Quando scendi al confronto quotidiano con la vita non è facile rispettare. E forse per questo in quella cultura c’è la ciclicità del rituale, come per chiedere perdono alla Pacha Mama. Non è tanto Dio quello che stai disturbando ma è la terra, ed è vero. Questa mi sembra la grande durezza che anche noi, nei movimenti ecologisti, dovremmo ricordare. È bello leggere quelle cose sugli Indiani d’America del Nord, che sono bellissime, ma poi si va a vedere e la maggior parte di loro passa la propria vita seduto a bere nelle periferie delle grandi città perché non c’è stato un riconoscimento e una costruzione di un diritto per loro. Quindi ne soffre il corpo, ne soffre l’anima e ne soffre la natura che viene lasciata in mano a tutti.
Annamaria: Mi ha fatto sempre impressione la differenza tra povertà e miseria. Fuori delle grandi città c’è povertà, forse quella a cui tu facevi riferimento, ma quando poi queste persone arrivano nelle città, soprattutto le grandi città, lì questa povertà diventa davvero miseria. E non c’è niente da fare.
Chiara: A me sembra che questo concetto del “quanto basta” non sia povertà, tantomeno miseria, perché la povertà è un’altra cosa. Mi sembra che questo elemento del “quanto basta” sia ciò che serve anche a noi qui. Se pensiamo che il “quanto basta” sia povertà già a livello di rappresentazione non ce ne facciamo niente. Un’altra cosa che a me sembra è che non sia tanto una questione di diritto ma il fatto che mancano le parole per dire questa cultura in modo condiviso. Se ci fosse una possibilità di condivisione di questo tipo di cultura e quindi di significarla bene con le parole, sarebbe diverso. È una cosa che ci riguarda quella del “quanto basta”. Non a caso facciamo il Grande Seminario di quest’anno (2021) sui bisogni. È un tema difficile, che è legato a tanti aspetti e in particolare alla consapevolezza del limite. Ma soprattutto siamo impegnate a trovare le parole per esprimere ciò che riguarda i bisogni in modo diverso da quello corrente. Qui sta anche la sua forza: trovare parole per dire la situazione che viviamo. Altrimenti si è cancellate simbolicamente in questo tipo di esperienza da altri percorsi prevalenti.
Antonietta, sia tu che Mariateresa parlate spesso del “buen vivir”. Che cos’è? Mi sembra il momento giusto per chiederlo. Antonietta: Il buen vivir è il gusto pieno. La nostra casa, la comunità là, si chiamava Sumaj Causay Wasi che si traduce male ma sarebbe “la nostra lingua, la casa del buon vivere”. Ed era questo sogno che noi avevamo, e che abbiamo ancora adesso quando riusciamo a parlare insieme via zoom: il gusto pieno dello stare insieme. Lì – non so cosa dirà poi Mariateresa – è proprio legato allo stare insieme. Non esiste un buen vivir da sola. Esiste perché si incontra tutta la comunità, si condivide, si mangia, si beve, si fa festa. È molto forte il buen vivir in questo senso: è il gusto, o il piacere come direbbe Milagros (Marìa-Milagros Rivera Garretas, storica, filologa, traduttrice, saggista, insegna all’Università di Barcellona.). Il sentire il piacere, sentire un gusto condiviso insieme ad altre e ad altri.
Mariateresa: Sì, io lo sento anche un po’ attraverso l’affetto che io provo per il mondo dell’educazione, come una prospettiva in movimento in cui tutte e tutti hanno una possibilità di realizzarsi pienamente in rapporto agli altri. Lo vedo come una realizzazione piena, un percorso verso la pienezza dove non è solo l’umano che è coinvolto. Una cosa che mi ha colpita, devo dire, è che quando sono stata in Brasile – sono tornata nel 2015 – il buen vivir si percepiva come qualcosa di molto legato alla realtà indigena e andina. Invece adesso vedo che la discussione si sta arricchendo, nel senso che si stanno trovando altre assonanze, c’è una ricerca delle parole indigene delle varie realtà, dei vari contesti geografici dell’America latina. Una ricerca delle parole che le varie comunità e i vari popoli usano per dire questa pienezza della vita. Ma anche un mettersi in ascolto e in apprendimento rispetto a questa eredità indigena, questa genealogia di pensiero. Quindi è molto interessante anche in chiave de-coloniale perché vedo delle comunità politiche di uomini, ma anche di donne – c’è infatti una ricerca in chiave femminile e femminista sul buen vivir – in posizione di ascolto verso gli “universi indigeni”. Per me è molto interessante questo aspetto di ricerca che continua. Poi vedo che a volte è utilizzato anche come un modo per omogeneizzare il pensiero o per creare una categoria che finisce per perdere la sua fecondità.
Chiara: Scusate ma da dove nasce questa parola?
Antonietta: “Sumaj causay” nel processo di cambiamento della Bolivia, e nella Costituzione, era stato il motivo principale. Da lì avevano poi cominciato anche l’Equador e il Perù, le comunità indigene non andine lo avevano ripreso.
Chiara: Quindi diciamo che la Costituzione boliviana ha rilanciato una concezione diffusa di quello che simbolicamente apparteneva a tutti, veniva proposto come un orientamento.
Antonietta: Già esisteva ed esiste nella loro cultura. Tanto è vero che noi dicevamo che il Presidente ci aveva rubato l’idea. Io sono andata là nel gennaio del ’98 e avevamo subito cominciato a dire che la nostra comunità si sarebbe chiamata in questo modo. Ed è un concetto molto forte perché se vai a vedere in certi testi traducono il “Sumaj causay” come “la pace”. Ma non è solo la pace, è molto di più. Credo che sia molto importante quello che dice Mariateresa. E poi c’è un buen vivir delle donne, donne che si riuniscono e riscoprono il buen vivir, ma questo ve lo lascerei per il Grande Seminario di quest’anno (2021).
Caterina: Io vorrei fare una domanda rivolta a tutte. Questo concetto di buen vivir ha qualcosa di simile a un concetto che appartiene invece alla cultura italiana, quello della “dolce vita”. Che poi è stato trasformato nella cinematografia con tutto un aspetto estetico, negli anni ’50, però è un concetto anche precedente che riguarda molto il cibo, il piacere dei sensi, la gioia dello stare insieme.
Chiara: No, se tu hai seguito il film di Fellini, c’è un elemento di decadenza nella “dolce vita”, c’è un lieve senso di morte. È un bellissimo tema, ma con un tono crepuscolare. Nel film di Fellini la Roma della dolce vita ha come tono dominante un lasciarsi andare alle sensazioni, perdendo il legame con la vita. L’importante erano sì le sensazioni, ma fini a sé stesse, non come aspetto e apertura al mondo.
Annamaria: È una forma di disimpegno. È stato equivocato e continua ad essere equivocato qui in occidente il buen vivir, o come una “vita buona” nel senso di onesta, retta, oppure in senso economico, che credo siano stravolgimenti rispetto al significato del buen vivir di cui ci hanno detto Antonietta e Mariateresa.
Antonietta: Sì, io credo che ci sia sempre lo zampino maschile. Cioè noi donne lo sappiamo che il bene è un insieme di fattori e non un pezzo. Perciò credo che le donne ci debbono, ci dobbiamo, lavorare di più su questa questione, che è anche la questione dei bisogni. Perché gli uomini frammentano questo buen vivir, questo piacere. Quindi non si tradisce la sua origine (lavorandolo in senso femminile e femminista) perché nel buen vivir c’è questo progetto non di giustizia rivendicativa o di uguaglianza ma perché “ciascuno ha quanto basta”. Quello che basta è poi quello che ti serve, è il tuo piacere. Però penso che lo dobbiamo lavorare di più noi donne, perché quando viene messo in mano agli uomini – com’è successo in Bolivia – poi diventa ideologico oppure frammentato, il buen vivir che riguarda lo stare bene del singolo e basta.
Di Caterina Diotto Mariateresa Muraca Anna Maria Piussi Chiara Zamboni
www.diotimafilosofe.it/larivista/intervista-ad-antonietta-potente
FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Chiesa e sessualità: il Papa smonta tutti i falsi miti in un solo discorso
La Chiesa sessuofoba? Un antico pregiudizio venutosi a creare perché nell’insegnamento cattolico il sesso non è libertino ma, essendo un dono di Dio, va custodito e non svenduto.
In un discorso “a braccio”, Papa Francesco ha smontato in un solo colpo due falsi miti e ha riproposto l’insegnamento cattolico sulla sessualità. Sintetizziamo e schematizziamo i punti toccati nel suo intervento:
1) È falsa l’equazione sesso = peccato.
2) È falsa idea che la Chiesa accetti il sesso solo per procreare.
3) La sessualità va custodita e vissuta all’interno del matrimonio.
4) La sessualità non va scissa dall’amore.
5) La sessualità di cui parlano la Chiesa e Dio è solamente tra uomo e donna.
Ecco un estratto delle parole del Papa:
«La sessualità, il sesso, è un dono di Dio. Niente tabù. È un dono di Dio, un dono che il Signore ci dà. Ha due scopi: amarsi e generare vita. Gesù dice: per questo l’uomo, e anche la donna, lascerà suo padre e sua madre e si uniranno e saranno… una sola persona?…, una sola identità?…, una sola fede di matrimonio?… Una sola carne: questa è la grandezza della sessualità. E si deve parlare della sessualità così. E si deve vivere la sessualità così, in questa dimensione: dell’amore tra uomo e donna per tutta la vita. È vero che le nostre debolezze, le nostre cadute spirituali, ci portano a usare la sessualità al di fuori di questa strada tanto bella, dell’amore tra l’uomo e la donna. Ma sono cadute, come tutti i peccati. La bugia, l’ira, la gola… Sono peccati: peccati capitali. Ma questa non è la sessualità dell’amore: è la sessualità “cosificata”, staccata dall’amore e usata per divertimento. un’industria della sessualità staccata dall’amore, l’hai vista? Sì! Tanti soldi si guadagnano con l’industria della pornografia, per esempio. È una degenerazione rispetto al livello dove Dio l’ha posta. Custodite la vostra dimensione sessuale, la vostra identità sessuale. Custoditela bene. E preparatela per l’amore, per inserirla in quell’amore che vi accompagnerà tutta la vita.
In Piazza San Pietro una volta c’erano due persone anziane che celebravano il sessantesimo di matrimonio. Erano luminosi! E io ho chiesto: “Avete litigato tanto?” – “Mah, alle volte…” – “E vale la pena questo, il matrimonio?” – E questi due, che mi guardavano, si sono guardati tra loro e poi sono tornati a guardare me, e avevano gli occhi bagnati, e mi hanno detto: “Siamo innamorati”. Dopo 60 anni! E poi volevo dirvi: una volta un anziano – molto anziano, con la moglie anziana – mi ha detto: “Noi ci amiamo tanto, tanto e a volte ci abbracciamo. Noi non possiamo fare l’amore alla nostra età, ma ci abbracciamo, ci baciamo… Questa è la sessualità vera. Mai staccarla dal posto tanto bello dell’amore. Bisogna parlare così della sessualità.
Niente di nuovo, anche Benedetto XVI aveva ricordato che «la sessualità è un dono del Creatore, ma anche un compito che riguarda lo sviluppo del proprio essere umano. Quando non è integrata nella persona, la sessualità diventa banale e distruttiva allo stesso tempo».
Alateia 30 ottobre 2022
PASTORALE
Chiesa che verrà. Don Matteo: “Imparare lo stile dell’intercessione”
“Un infaticabile intercessore”. Così don Armando Matteo definisce il cardinale Martini, della cui lezione, a dieci anni dalla morte, ripercorre l’attualità. “Non è possibile desiderare di lasciare a chi verrà dopo di noi, nelle terre del benessere, l’eredità di una chiesa della stanchezza e della stanchezza di una Chiesa”
“Che cosa puoi fare tu per la Chiesa che verrà?”. Parte da questo interrogativo, esigente per ciascuno di noi, credenti e non credenti, e contenuto nell’ultima intervista rilasciata da Carlo Maria Martini al Corriere della Sera, pochi giorni prima di morire, l’ultimo libro di don Armando Matteo, “La Chiesa che verrà” (Edizioni San Paolo), che inizia con una commovente lettera intrisa di riconoscenza da parte dell’autore verso colui che definisce “un infaticabile intercessore”, che “ha preso per mano gli uomini e le donne seriamente pensosi, credenti e non credenti che fossero, e ha permesso loro di parlarsi, di incontrarsi, di fare insieme un pezzo di strada. L’uno con l’altro. Mai l’uno senza l’altro”. Dieci anni dopo quello che è considerato il “testamento spirituale” dell’arcivescovo di Milano, don Matteo considera ancora attuale e sanamente provocatoria la denuncia di Martini, secondo il quale la Chiesa, già da allora, era in ritardo di 200 anni rispetto all’andamento del mondo.
“Non è possibile desiderare di lasciare a chi verrà dopo di noi, nelle terre del benessere, l’eredità di una chiesa della stanchezza e della stanchezza di una Chiesa”, scrive l’autore del volume sulla scorta di Martini: “Oggi – attualizza don Matteo – gli uomini di Chiesa non possiedono alcuna autorità morale presso le nuove generazioni. La terribile vicenda della pedofilia del clero e gli scandali finanziari che spesso coinvolgono anche esponenti importanti della gerarchia hanno gettato un tale discredito che richiederà diverse generazioni prima di venire cancellato”. Il punto in questione, quindi, “non è la morale, ma “il senso di un’istituzione come quella della Chiesa”, la cui crisi viene riassunta così da Martini: “non riusciamo più a fare cristiani”.
In un tempo come il nostro, in cui domina quella che Papa Francesco definisce “egolatria”, secondo don Matteo “è tempo di riaprire oggi la questione decisiva dell’umano: la questione della sua destinazione. La nostra vita punta sempre alla vita d’altri. Noi siamo fatti per gli altri. Sono gli altri la meta del nostro cammino”: di qui la necessità di interrogarsi su “come riattivare il carattere generazionale e generativo dell’umano nel tempo del godimento, prima che sia troppo tardi”. Che fare, allora? Da dove partire per non arrendersi ad una situazione di quasi totale stallo, a dieci anni non solo dalla morte di Martini ma anche dall’arrivo di Papa Francesco, che esorta continuamente a considerare quella attuale non un’epoca di cambiamento ma “un cambiamento d’epoca”? La risposta sta proprio nell’invito di Martini all’intercessione. “I pochi o molti che vogliono lavorare per la Chiesa che verrà – sostiene l’autore del volume – devono assumersi il compito di mettersi a fianco degli adulti persi nei loro miti e riti giovanilistici e dei tanti cristiani e pastori bloccati nell’illusione che il nostro sia un semplice mondo che cambia e che tutto o quasi tornerà come sempre”. Per don Matteo, in altre parole, “è tempo di assumere responsabilmente lo stile dell’intercessione, del camminare in mezzo, del tendere una mano a chi sta alla destra e a chi sta alla sinistra, provando a convincere entrambi ad uscire dalla tentazione di esaltare unicamente il proprio piccolo universo mentale e di attendere la resa dell’altro alle proprie ragioni”.
“Intercedere – come spiega il cardinale Martini – non vuol dire semplicemente ‘pregare per qualcuno’, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa ‘fare un passo in mezzo’, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. Intercessione vuol dire allora, mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto. Si tratta di mettersi in mezzo. Non è neppure semplicemente assumere la funzione di arbitro o di mediatore, cercando di convincere uno dei due che lui ha torto e che deve cedere, oppure invitando tutti e due a farsi qualche concessione reciproca, a giungere a un compromesso. Intercedere è stare lì, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione”.
M. Michela Nicolais Agenzia SIR 29 ottobre 2022
www.agensir.it/chiesa/2022/10/29/la-chiesa-che-verra-don-matteo-imparare-lo-stile-dellintercessione
PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA
Relazione al parlamento sullo stato di attuazione della legge n.40\2004
Il Ministero della salute ha pubblicato il 18 ottobre 2°22 la Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 40/2004, redatta ai sensi dell’art. 15, comma 2, della legge, che riporta i dati del 2020 e descrive lo stato di attuazione della normativa in materia di procreazione medicalmente assistita (PMA).
Dall’analisi complessiva dei dati emerge innanzitutto, e per la prima volta, una significativa riduzione del numero complessivo di cicli di PMA (-19,1%), dovuta principalmente all’emergenza pandemica. Nello specifico, nel 2020 sono state trattare un totale di 65.705 coppie, di cui 57.656 con gameti della coppia, mentre le restanti 8.049 con gameti “donati” da soggetti estranei alla coppia. Le gravidanze ottenute con tutte le tecniche di procreazione assistita sono state 15.862, mentre il numero dei bambini nati vivi è stato di 11.305 (9.158 con gameti della coppia, 2.147 con gameti donati), pari al 2,8% del totale bambini nati nel 2020. La percentuale di bambini nati vivi da tecniche di PMA rispetto alle nascite nella popolazione generale, è risultato pari a 2,5%.
Nonostante la riduzione dei cicli di PMA effettuati nell’anno di riferimento, dalla Relazione emerge un quadro complessivo estremamente problematico, che necessita una più attenta e successiva analisi di approfondimento, soprattutto perché in gioco, in quest’ambito, vi è la dignità e la stessa vita umana.
Da una prima lettura dei dati contenuti nella Relazione, si segnala prima di tutto l’incremento dell’uso delle tecniche di PMA con gameti provenienti da donatori esterni alla coppia (c.d. fecondazione eterologa): tali tecniche rappresentano ormai l’11,6% di tutti i cicli di trattamento e il 19 % dei nati con PMA, con un totale di 2.959 gravidanze ottenute. Diminuisce, così, l’applicazione delle tecniche che utilizzano esclusivamente i gameti della coppia, che passa dall’89,1% all’87,1% . I gameti più utilizzati nelle donazioni sono gli ovociti che rappresentano il 9,9% delle tecniche applicate, in aumento rispetto all’8,3% del 2019.
I gameti utilizzati per l’eterologa sono, nella quasi totalità, “importati” da Banche estere. In particolare, per quanto riguarda le tecniche di II e III livello, sono stati realizzati 1.536 cicli con donazione di seme, di cui 1.453 con seme importato dall’estero, 6.738 cicli con donazione di ovociti, di cui 6.613 con ovociti importati e 513 con doppia donazione di gameti.
Si segnala, poi, il significativo aumento della tecnica di “freeze all” e, pertanto, della tecnica con la quale è interrotto il “ciclo a fresco” ed effettuato il congelamento di tutti gli ovociti prelevati e/o gli embrioni prodotti. Dai dati emerge l’aumento dell’applicazione della tecnica FER (Frozen Embryo Replacement), che riguarda il trasferimento di embrioni crioconservati, dal 26,4% al 28,4% (+2,0%) e la relativa diminuzione delle tecniche a fresco (-4,0%).
La Relazione riporta, poi, l’elevata l’età media delle donne che si sottopongono alle tecniche di PMA, con un aumento della percentuale di donne sopra i 40 anni. Le tecniche con donazioni di gameti, in particolare, vedono aumentare la loro applicazione in tutte le classi di età soprattutto nelle pazienti con almeno 43 anni.
Come riportato anche tabella contenuta a pag. 95 della Relazione, tra le Indicazioni di infertilità per le pazienti trattate con cicli di PMA che utilizzano ovociti donati e seme del partner nel 2020, quella principale, che riguarda il 40% delle pazienti che ricevono ovociti, è “l’avanzata età riproduttiva”, in età comunque potenzialmente fertile. La principale indicazione per i cicli con ovociti donati è, pertanto, l’avanzata età materna e non una specifica patologia: un’infertilità, pertanto, fisiologia.
Nella Relazione si descrive il ruolo del Registro Nazionale PMA, che svolge la sua attività nell’ambito del Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e Promozione della Salute (CNaPPS) dell’Istituto Superiore di Sanità. Tra le attività del Registro si riporta quella di effettuare il censimento degli embrioni crioconservati, dichiarati in stato di abbandono (D.M. 4 agosto 2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”) ma i dati complessivi o indicazioni più specifiche su tale attività non sono forniti.
Sono invece tantissimi gli embrioni prodotti e crioconservati nel solo anno 2020: dei 74.871 embrioni formati e trasferibili, sono stati trasferiti 32.339 (43,2%) e ne sono stati crioconservati 42.532, corrispondenti al 56,8% dei formati e trasferibili totali. Aumenta, così, anche il numero medio di embrioni crioconservati nei cicli di crioconservazione degli embrioni, passando da 2,6 a 2,7 per ciclo.
La percentuale di cicli a fresco che non arrivano al trasferimento aumenta dal 37,7% del 2019 al 44,1% del 2020. La causa principale è il congelamento di tutti gli embrioni ottenuti per il sopravvenuto rischio di sindrome da iperstimolazione ovarica severa (OHSS) per la paziente (11,1%). Si legge, inoltre, che “il congelamento di tutti gli embrioni ottenuti, per rischio OHSS, non per rischio OHSS e per l’esecuzione di indagini genetiche preimpianto comporta complessivamente l’interruzione di 8.325 cicli pari al 23,9% dei prelievi effettuati, Questo dato registra un consistente aumento a partire dalla rilevazione del 2013: se dal 2005 al 2012 la percentuale di prelievi interrotti era compresa tra un minimo di 0,6% nel 2008 ad un massimo di 1,8% nel 2011, dal 2013 questa percentuale aumenta fino a raggiungere il 23,9% nel 2020.
Visto il continuo aumento del numero di embrioni formati e crioconservati, che cresce e si somma anno dopo anno, è sempre più urgente e importante approfondire il tema, anche rispetto alle attività di censimento non riportate: la condizione di migliaia di embrioni in stato di abbandono non può essere così trascurata.
La Relazione riporta che è stato previsto un importante stanziamento per il Fondo per le tecniche di PMA: a causa del contenimento della spesa pubblica, a partire dal 2018 lo stanziamento era stato totalmente annullato, ma con la legge di bilancio n. 178/2020 (art. 1, commi 450 e 451), è stato disposto un incremento di 5 milioni di euro anni per il 2021, 2022 e 2023. Tali stanziamenti, sottratti ad altri ambiti della spesa pubblica (in anni, tra l’altro, di ripresa dopo i tanti danni causati dall’emergenza sanitaria) e che porteranno, inevitabilmente, alla “produzione” di migliaia e migliaia di altre vite umane sospese sotto azoto liquido, erano, poi, così necessari?
Rispetto ai dilemmi etici e giuridici legati all’uso delle tecniche di PMA, oggi sempre più problematici, non si può “nascondere la testa nella sabbia come lo struzzo”, riportando le parole del Santo Padre per le intenzioni di preghiera per il mese di marzo: “le applicazioni biotecnologiche devono essere sempre utilizzate a partire dal rispetto della dignità umana…gli embrioni umani non possono essere trattati come materiale usa e getta, di scarto – in questa cultura dello scarto entrano anche loro: no, non è possibile! …non possiamo permettere che sia il profitto economico a condizionare la ricerca biomedica”. Siamo, così, chiamati “a comprendere i profondi cambiamenti che stanno avvenendo con un discernimento ancora più profondo, ancora più sottile”, in grado di bilanciare il progresso tecnologico e la protezione della dignità umana.
Per approfondire: Relazione del Ministro della Salute al Parlamento sullo stato di attuazione della legge contenente norme in materia di procreazione medicalmente assistita -anno 2022, 26.10.2022
www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Docs/Ministero-della-Salute-Relazione-annuale-2022-sullo-stato-di-attuazione-della-legge-40-2004
Relazione+annuale+2022+sullo+stato+di+attuazione+della+legge+40-2004.pdf
Francesca Piergentili Scienza & Vita 26 ottobre 2022
www.scienzaevita.org/sv-lultima-relazione-al-parlamento-sullo-stato-di-attuazione-della-legge-n-40-migliaia-di-embrioni-scartati-e-dimenticati
RIFLESSIONI
A proposito di agonia del cristianesimo.
Il linguaggio religioso non dice più niente.
La liturgia non “parla” all’uomo d’oggi
In questo tempo di totale secolarizzazione del mondo in cui viviamo, occorre ripensare seriamente alla questione cristiana. I riferimenti etici e valoriali che fino a qualche decennio fa facevano da collante nelle nostre comunità, ora sono completamente saltati. Qualcuno ha parlato di “agonia del cristianesimo”. Si avverte il bisogno di fermarsi, di riflettere, per renderci conto del cambio antropologico in atto. Non bastano le toppe. Bisogna cambiare abito. Manca un paradigma comune, per cui si parla fra sordi. In una società di fatto diventata indifferente, il linguaggio religioso non dice più niente. Occorre ripartire da una prima evangelizzazione, o meglio, alfabetizzazione della fede.
Che cosa significano termini come alleanza, sacrificio, redenzione, salvezza…? Penso alla liturgia, al suo simbolismo, e ai vocaboli che usa: alleanza, sacrificio, memoriale, redenzione, salvezza…che cosa riescono a significare agli uomini di oggi che hanno perso ogni riferimento alla cultura biblica? Ma anche a vocaboli di uso più comune, ma che qui assumono una dimensione altra, come spirito, pace, rendimento di grazie, grazia, agnello di Dio…?
Allora il rito rimane qualcosa di sterile, un automatismo che al più si riduce a fenomeno emotivo. Ci si può chiedere. In che cosa crediamo? In che cosa credono quelli che ancora frequentano la chiesa? Anche Gesù se lo domandava di fronte a chi si reputava credente: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
- Qual è l’oggetto della fede? Forse i valori non negoziabili? Forse un’appartenenza sociale, un territorio, dove fino a qualche decennio fa risultava dominante la tradizione cristiana? Forse l’aderire al partito di “Dio, patria, famiglia”?
- O forse non mi faccio nessuna domanda, e mi va bene così.
- Così il concetto di Chiesa. Cosa si intende?
Mentre da un lato si assiste a un disfacimento del credo cristiano, dall’altro si fanno avanti forme di fondamentalismo, di ritualismo fine a se stesso, preconciliare, forme che si possono interpretare come un baluardo nei confronti della complessità e dell’incertezza del vivere quotidiano.
Spesso i praticanti sono i più lontani dal Vangelo. Ed è così, purtroppo, che spesso sono proprio i praticanti, quelli che abitualmente frequentano l’assemblea liturgica, i più lontani dal modo di pensare e di agire che ci ha comunicato Gesù.
Nel libro di Dominique Collin, “Il cristianesimo non esiste ancora”, si legge: Non è che la nostra pastorale non dice più il Vangelo, è che non lo dice come Vangelo”.
Non trasmette la bella notizia, la novità del Vangelo, la libertà del Vangelo, l’amore del Vangelo, lo stupore del Vangelo, la radicalità dell’Annuncio. Non trasmette Cristo, la sua persona, l’icona del Padre. Tutt’al più un insegnamento, ma anche questo epurato dalla sua forza che scardina ogni retorica religiosa e ogni autogiustificazione, per cui la Grazia si riduce a “merce a basso prezzo”. (Bonhoeffer)
Tornare alla radice. Questo per dire che urge tornare alla radice, al fulcro della fede (Martini intitolava la seconda Lettera pastorale alla diocesi di Milano “In principio la Parola), cioè all’essenziale del Cristianesimo, che si potrebbe riassumere in Amore e sequela, Amore e ubbidienza all’amore, fino ad assumere il sentire di Cristo, dove l’Amore è quello che viene da Dio, gratuito, preveniente, immeritato. Il resto è una conseguenza.
“Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21). È la gioia e la fatica della vita.
Ada Doni La barca e il mare
SINODALITÀ
Cammino sinodale:, in “dialogo” per “sentire assieme cosa oggi la Chiesa è chiamata ad essere
Sinodalità della Chiesa non implica un accordo pacifico su tutti gli ambiti, su tutti i temi. È proprio la diversità, sono proprio le tensioni – che sono presenti anche nella vita della Chiesa – a richiedere un confronto, un dialogo, cammini comuni per giungere a quel consenso, che non si identifica con un accordo unanime, un pensare tutti allo stesso modo, ma ad un sentire assieme cosa oggi la Chiesa è chiamata ad essere e come è chiamata a svolgere la sua missione”. Lo ha spiegato oggi pomeriggio don Antonio Mastantuono, pastoralista e vicepresidente del Cop, aprendo i lavori della 71ª Settimana nazionale di aggiornamento pastorale che ha preso il via oggi a Frascati sul tema “Dalla corresponsabilità alla ‘condecisione’. Nel cammino sinodale della Chiesa Italiana” per iniziativa del Centro di orientamento pastorale.
“Le tensioni – ha proseguito – fanno parte di un corpo vivo qual è la Chiesa, che registra anche le tensioni che sono presenti nella società, nella comunità degli uomini – non può sentirsi estranea – le vive, cercando di contribuire con quel dono che è la comunione ricevuta dallo spirito di Gesù Cristo, per far sì che anche la comunità degli uomini possa vivere le tensioni in maniera non distruttiva”. Nella sua relazione, don Mastantuono ha richiamato i “rischi da evitare” elencati da Papa Francesco: formalismo, intellettualismo, immobilismo. Poi si è soffermato su “chi decide”, osservando che “uno degli aspetti più controversi della valorizzazione della fede che è creduta e vissuta dai membri delle comunità cristiane per il cammino smodale è che, nella quasi totalità dei casi, questo processo ha comunque un carattere consultivo”. “Con questo termine – ha spiegato – si intende il fatto che quanto emerge dalla consultazione della base ecclesiale non vincola in alcun modo il pastore – parroco, vescovo o Papa che sia ma è semplicemente un aiuto offerto al suo discernimento personale che potrà anche essere rifiutato”. Una strada che “garantisce un’ottima efficienza dei meccanismi decisionali” ma che può portare ad “evitare di prendere sul serio la comunità”.
A. B. AgenziaSIR 10 ottobre 2022
SINODO CONTINENTALE
Il Sinodo prende il largo
Il sinodo della Chiesa universale sulla sinodalità arriva alla sua terza tappa: quella continentale. E cioè la preparazione e la celebrazione delle sette assemblee che forniranno l’instrumentum laboris per il sinodo previsto nel 2023 e nel 2024: Africa, Europa, Medio Oriente, Asia, Oceania, America del Nord e America del Sud. Il documento di lavoro per la tappa continentale (Allarga lo spazio della tua tenda) porta la data del 24 ottobre ed è stato presentato il 27.
www.synod.va/content/dam/synod/common/phases/continental-stage/dcs/Documento-Tappa-Continentale-IT.pdf
Esso conferma la sorpresa già registrata per il documento preparatorio del settembre 2021:
www.settimananews.it/sinodo/sinodo-il-documento-preparatorio
nelle 45 cartelle poche note, nessuna ridondanza nelle citazioni del magistero, adesione al processo in atto piuttosto che a indirizzi teologici predeterminati. La sua stessa struttura non viene piegata, come di consueto, alla scansione del titolo generale (Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione), ma segue la ricerca compiuta dalle Chiese locali e nazionali. Non mancano le sorprese che si possono enunciare prima di dare conto del testo.
Novità qualitative. Anzitutto l’ampiezza del lavoro di cui dà conto. Sono arrivate 112 risposte dalle 114 conferenze episcopali (di solito, non più di 60), tutte le 15 Chiese orientali cattoliche, 17 dicasteri vaticani (su 24), le Unioni dei superiori e superiore, un migliaio di contributi di singoli e gruppi, quasi 20 milioni di persone raggiunte dal progetto social “la Chiesa ti ascolta”.
L’allargamento del coinvolgimento era già evidente nel sinodo sulla famiglia e ancora più in quello sui giovani. Ora si è ulteriormente sviluppato. Un dato quantitativo che si salda con una novità qualitativa, quella della “restituzione”: si ascolta il popolo di Dio e il risultato è riportato ad esso in un circuito che rende evidente, da un lato, la profezia in atto nelle comunità cristiane e, dall’altro, il compito del discernimento che è proprio dei pastori.
Dalle diocesi si passa alle conferenze episcopali, ma il testo per le assemblee continentali torna alla verifica anche delle diocesi. «Se infatti possiamo riconoscere ciò che lo Spirito dice alla Chiesa ascoltando il popolo di Dio, a quel popolo che vive nelle Chiese dobbiamo restituire il documento» (card. Mario Grech in conferenza stampa).
Un circuito legato non tanto all’originalità organizzativa, quanto all’affidamento della forza dello Spirito che accompagna il cammino di ogni Chiesa. Non è un documento conclusivo, né magisteriale, ma «il racconto dell’esperienza di ascolto della voce dello Spirito da parte del popolo di Dio, consentendo di fare emergere il suo sensus fidei» (n. 8).
«Siamo di fronte a un dialogo ecclesiale senza precedenti nella storia della Chiesa, non solo per la quantità di risposte pervenute o di persone coinvolte, ma anche per la qualità della partecipazione» (card. Jean-Claude Hollerich, 26 agosto). Si tratta di «un processo innovativo, per non dire pionieristico: è una consultazione in dialogo che non è mai stata fatta» (p. Giacomo Costa, 26 agosto).
Convergenze impreviste. Una «nuova visione avrà bisogno di essere sostenuta da una spiritualità che fornisca strumenti per affrontare le sfide della sinodalità senza ridurle a questioni tecnico-organizzative, ma vivendo il camminare insieme a servizio della comune missione come occasione di incontro con il Signore e di ascolto dello Spirito. Perché ci sia sinodalità è necessaria la presenza dello Spirito e non c’è lo Spirito senza la preghiera» ( n. 72).
«Le strutture da sole non bastano: c’è bisogno di un lavoro di formazione continua che sostenga una cultura sinodale diffusa, capace di articolarsi con le specificità dei contesti locali» (n. 82). Una «spiritualità sinodale non potrà che essere una spiritualità che accoglie le differenze e promuove l’armonia, e attinge dalle tensioni le energie per proseguire il cammino» (n. 85): una spiritualità del “noi” ecclesiale.
La sorpresa degli estensori www.settimananews.it/sinodo/sinodo-la-esperienza-di-frascati
è la constatazione della singolare convergenza su molti punti di contributi che provengono da contesti ecclesiali e culturali assai diversi e che chiedono un profondo rinnovamento della Chiesa. In un rapporto immediato con le altre confessioni cristiane e con le religioni che operano negli stessi spazi delle comunità.
L’insieme dei lavori non ha privilegiato le funzioni e i ruoli interni alla Chiesa, ma ha fatto forza sulla comune chiamata battesimale: «Emerge una profonda riappropriazione della comune dignità dei battezzati, autentico pilastro di una Chiesa sinodale e fondamento teologico di quella unità capace di resistere alla spinta dell’omogeneizzazione per continuare a valorizzare la diversità di vocazioni e carismi che lo Spirito con abbondanza imprevedibile riversa sui fedeli» (n. 9).
Una scelta percepita dal clero, e in particolare dal clero giovane, come una penalizzazione, mentre in realtà persegue l’opposto: quanti sono chiamati a educare il popolo all’ascolto sono invitati ad imparare ad ascoltare. E così è anche del timore condiviso da alcuni circa una rimozione del ruolo della gerarchia e del magistero.
Esercitare in pienezza il compito del popolo di Dio garantisce il ruolo del primato petrino e della collegialità episcopale. Non c’è primato e collegialità pieni senza sinodalità, come non c’è sinodalità senza collegialità e primato. Non basta la pur apprezzabile “collegialità affettiva” di cui si parlava nel passato.
Le tappe e i capitoli. L’apertura del sinodo è avvenuta il 9 ottobre 2021 e, nelle Chiese locali, il 17. La prima fase si è svolta nelle diocesi e si è conclusa in una riunione pre-sinodale. Il loro contributo è passato al discernimento della Conferenza episcopale che ha inviato una sintesi alla segreteria del sinodo.
L’attuale documento per la tappa continentale nasce dai testi presentati per tornare alle Chiese locali e fornire una base per le assemblee continentali che non saranno composte solo di vescovi. Concluderanno i loro lavori al 31 marzo 2023 stilando un elenco di priorità. In tempo per elaborare l’Instrumentum laboris e entrare nella prima celebrazione sinodale nell’ottobre 2023 e in una seconda, l’anno successivo.
Dopo un’introduzione, il documento di lavoro per la tappa continentale “Allarga lo spazio per la tua tenda “ (Is 54,2) presenta, nella prima parte, i frutti dell’esperienza del camminare assieme: la gioia, l’appartenenza, la “conversazione spirituale”, la libertà.
Ma con ombre e inquietudini: la non facile comprensione, la resistenza di alcuni, l’equiparazione ai processi democratici, la «diffusa percezione di una separazione tra i presbiteri e il resto del popolo di Dio» (n. 19), il peso dello scandalo degli abusi, la domanda di trasparenza e di responsabilità. Le condizioni oggettive della pandemia, dei disordini sociali e delle guerre hanno pesato rendendo difficili gli incontri. Non mancano espressioni che testimoniano «la fine di uno smarrimento collettivo della propria identità di Chiesa locale» (n. 24).
Il breve capitolo secondo introduce l’icona biblica che accompagnerà il cammino sinodale, tratta da Isaia 54,2: «Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti». I teli vanne tesi per proteggere e permettere a più persone di entrare; le corde equilibrano la tensione con le modifiche apportate dal vento; i paletti assicurano stabilità «ma restano capaci di spostarsi quando si deve piantare la tenda altrove» (n. 26).
Cinque nuclei. Nel terzo capitolo emergono i cinque nuclei generativi di una sinodalità missionaria: l’ascolto, la missione, la comunione, la sinodalità, la liturgia.
- L’ascolto favorisce l’inclusione e l’accettazione reciproca e testimonia la disponibilità a coinvolgersi. Permangono difficoltà strutturali (forme autocratiche, disparità culturali), ma emerge soprattutto l’assenza dei giovani e di quanti si sentono esclusi dalla Chiesa.
- La missione non è una strategia o un contenuto dogmatico, ma si avvia con l’annuncio, il kerygma, di Cristo crocifisso e risorto per noi. Esso risuona nel nostro mondo e nella nostra storia, nonostante le ferite delle comunità, provate dal «tribalismo, dal settarismo, dal razzismo, dalla povertà e dalla disuguaglianza di genere» (n. 44). Assieme agli altri affrontiamo le sfide sociali e ambientali, alimentando un ruolo pubblico non contrappositivo e cercando la collaborazione ecumenica e interreligiosa. Sapendo anche resistere al potere e nelle condizioni di persecuzione.
- Per una comunione che significhi partecipazione e corresponsabilità è necessario de-strutturare un potere piramidale, liberarsi dal clericalismo e ripensare la partecipazione delle donne: «Si tratta di un punto critico su cui si registra un’accresciuta consapevolezza in tutte le parti del mondo» (n. 60). «Molte sintesi, dopo un attento ascolto del contesto, chiedono che la Chiesa prosegua il discernimento su alcune questioni specifiche: ruolo attivo delle donne nelle strutture di governo degli organi ecclesiali, possibilità per le donne con adeguata formazione di predicare in ambito parrocchiale, diaconato femminile. Posizioni assai più diversificate vengono espresse a proposito dell’ordinazione presbiterale per le donne, che alcune sintesi auspicano, mentre altre la considerano una questione chiusa» (n. 64).
- La sinodalità comincia a prendere forma e sollecita il rinnovamento delle strutture e l’adeguamento del diritto. E questo sia nelle Chiese locali come nella curia vaticana e nelle conferenze episcopali. Fino a chiedere un superamento della partizione consultivo-decisionale, troppo legata al diritto positivo e poco espressiva dell’identità ecclesiale (n. 78).Come già è stato accennato, vi è una diffusa esigenza di formazione alla sinodalità e di una spiritualità conseguente. Le sintesi sottolineano in molti modi il profondo legame fra sinodalità e liturgia, superando i protagonismi indebiti, la fragilità della predicazione, la difficile accessibilità ai sacramenti.
Nel quarto capitolo si invita a guardare all’ultimo tratto del sinodo, ma anche al suo prolungamento nella prassi della Chiesa. «Siamo una Chiesa che impara e per farlo abbiamo bisogno di un continuo discernimento che ci aiuti a leggere insieme la parola di Dio e i segni dei tempi, in modo da procedere nella direzione che lo Spirito ci indica » (n. 100). Si sollecitano le Chiese locali e le assemblee continentali e cogliere le intuizioni più efficaci del testo, le questioni e gli interrogativi da sviluppare e le priorità da riconoscere.
Nella trama rapidamente descritta emergono elementi poco consueti che vale la pena indicare. Come il delicato tema dei figli dei preti «venuti meno al voto di celibato» (n. 34) e l’accoglienza degli ex preti (n. 39) o le questioni sessuali più discusse come l’omosessualità. Non si teme di registrare la difficile appartenenza alla Chiesa di «divorziati risposati, genitori single, persone che vivono in un matrimonio poligamico, persone LGBTQ» (n. 39).
Non occasionale l’elenco dei gruppi più esclusi: «i più poveri, gli anziani soli, i popoli indigeni, i migranti senza alcuna appartenenza e che conducono un’esistenza precaria, i bambini di strada, gli alcolizzati e i drogati, coloro che sono caduti nelle trame della criminalità e coloro per cui la prostituzione rappresenta l’unica possibilità di sopravvivenza, le vittime della tratta, i sopravvissuti agli abusi (nella Chiesa e non solo), i carcerati, i gruppi che patiscono discriminazione e violenza a causa della razza, dell’etnia, del genere, della cultura e della sessualità» (n. 40).
Non consueta è la registrazione del disagio dei tradizionalisti, di quanti «non si sentono a proprio agio a seguito degli sviluppi liturgici del concilio Vaticano II» (nn. 38 e 92). Ai più disattenti si ricorda la realtà del martirio, ben oltre i confini confessionali (nn. 48 e 52).
Eppur si muove. Anche i protagonisti più convinti non nascondono i pericoli e le trappole contro cui il sinodo potrebbe infrangersi. Fra questi: la sua riduzione a slogan, tanto ripetuto quanto non vissuto, la mancata fermezza di farne uno stile (e la ripresa nel 2024 è una prima risposta), la riemersione del privilegio ai ruoli ecclesiali rispetto alla comune dignità battesimale, l’identificazione della sinodalità con le forme meramente democratiche, la sua interpretazione come «Chiesa liquida» senza gerarchia e ministeri ordinati.
È tuttavia difficile negare che la sinodalità sia oggi fortemente richiesta dalla coscienza credente. Si può distendere il suo sviluppo su una “lunga durata”. Dopo la centralità del servizio petrino (Vaticano I) e della collegialità episcopale (Vaticano II) la dimensione sinodale costituisce il frutto maturo della consapevolezza conciliare della priorità del popolo santo di Dio.
Lorenzo Prezzi Settimana news 29 ottobre 2022
www.settimananews.it/sinodo/sinodo-prende-largo
Dove? Quando? Come? L’impatto del Sinodo sull’avvenire della Chiesa
Si conclude la fase locale del cammino sinodale e già riparte quella continentale, in vista della conclusione-rilancio in programma a Roma per il 2023 e per il 2024. Dopo la fase locale, il processo sinodale della Chiesa, avviato nell’ottobre 2021 e destinato a protrarsi fino all’ottobre 2024, entra in questi giorni in una seconda fase, detta “continentale”. Il Documento di lavoro per questa tappa (DEC), pubblicato il 27 ottobre 2022, precisa il calendario e gli assi portanti del cantiere, ricordando che si tratta di imparare a «camminare insieme» perché «ciascuno possa trovare il proprio posto» in seno alla Chiesa.
I prossimi appuntamenti del sinodo sono fissati: le sette assemblee continentali – di Europa, Africa, Medio Oriente, Asia, Oceania, Nordamerica e Sudamerica – dovranno redigere il loro documento finale, in una ventina di pagine, e inviarlo al segretariato del Sinodo entro il 31 marzo 2023.
Sulla base di questi documenti continentali, il segretariato redigerà l’Instrumentum laboris entro giugno 2023. Questo testo sarà la base delle assemblee della Chiesa universale, che avranno luogo a Roma in due momenti: dal 4 al 29 ottobre 2023 e poi nell’ottobre 2024, come ha annunciato il Papa all’Angelus del 16 ottobre.
Le tre domande poste ai cattolici. In concreto, le assemblee continentali devono rispondere a tre questioni così formulate:
- Dopo aver letto il DEC in un clima di preghiera, quali sono le intuizioni che risuonano più fortemente con l’esperienza vissuta e le realtà della Chiesa sul vostro continente? Quali esperienze vi sembrano nuove o illuminanti?
- Dopo aver letto e pregato col DEC, quali tensioni sostanziali, o divergenze, emergono come particolarmente importanti, dal punto di vista del vostro continente? E di conseguenza, quali sono le questioni o i problemi che dovrebbero essere affrontati e presi in considerazione nelle ulteriori tappe del processo?
- Partendo da ciò che emerge nelle risposte alle due questioni precedenti, quali sono le priorità, i temi ricorrenti e gli appelli all’azione che possono essere condivisi con altre Chiese locali attraverso il mondo, e discusse nella prima sessione dell’Assemblea sinodale nell’ottobre 2023?
Il documento richiama anche la “questione fondamentale” che anima tutto il Sinodo:
- Come si realizza oggi, su più livelli (da quello locale a quello universale) quel “camminare insieme” che permette alla Chiesa di annunciare l’Evangelo, conformemente alla missione che le è stata affidata? E quali passi in più lo Spirito ci invita a porre, per crescere come Chiesa sinodale?
Una osmosi tra le Chiese locali e continentali. Per rispondere a queste tre domande, le assemblee continentali devono essere in dialogo con le Chiese locali. Così il DEC sarà mandato a tutti i vescovi diocesani, i quali sono invitati (con le loro équipes), ad «ascoltare le voci delle altre Chiese» e a «rispondervi sulla base delle [loro] proprie esperienze».
Ogni Conferenza Episcopale dovrà in seguito sintetizzare le riflessioni delle differenti diocesi sulle tre questioni, e tali conclusioni saranno trasmesse alla loro assemblea continentale. Quest’ultima, precisa il Segretariato per il Sinodo, deve essere “ecclesiale” e non soltanto “episcopale”. In altre parole, la sua composizione deve riflettere «la diversità del Popolo di Dio: vescovi, preti, diaconi, uomini e donne consacrati, laici e laiche».
Il documento continentale chiede di «prestare un’attenzione particolare a un’adeguata presenza dei giovani», ma anche «di persone che vivano in condizioni di povertà o di emarginazione», di «delegati fraterni di altre confessioni cristiane», di «rappresentanti di altre religioni» e «di persone senza affiliazione religiosa».
Di nuovo, all’uscita dalle assemblee continentali i vescovi sono invitati a incontrarsi al fine di «rileggere collegialmente» questa esperienza sinodale. Essendo «rispettosi del processo che ha avuto luogo» e fedeli «alle differenti voci espresse», precisa il testo.
Per tutti questi incontri, il Sinodo stabilisce il metodo «della conversazione spirituale», e ciò in tre fasi:
- la presa di parola di ogni partecipante;
- la risonanza dell’ascolto degli altri;
- il discernimento dei frutti da parte del gruppo.
Uno stato permanente di missione
«Il nostro processo sinodale non è che un primo passo», si legge nel documento continentale. I redattori pensano di fatto a «un orizzonte di lungo termine», sul quale la Chiesa diventerà «meno una Chiesa di mantenimento e di preservazione» e più in «permanente stato di missione».
Col questo Sinodo, la Chiesa si situa «in apprendimento» ed è chiamata a «una conversione continua, individuale e comunitaria». Una conversione che riguarda anche il piano istituzionale e pastorale, concludono gli esperti: i cattolici, nel loro insieme, aspirano a «una riforma continua della Chiesa, delle sue strutture e del suo stile», nel solco dell’aggiornamento permanente predicato dal Concilio Vaticano II.
Anna Kurian [traduzione dal francese di Giovanni Marcotullio] Aleteia 27 ottobre 2022
Sinodo, Grech: non spingiamo agende, ascoltiamo senza esclusioni
Il segretario generale del Sinodo presenta in Sala Stampa vaticana il Documento per la tappa continentale del percorso sinodale. Con lui, tra i relatori, il teologo Coda, il gesuita Costa e l’esperta Anna Rowlands; collegato dal Giappone anche il cardinale Hollerich. Sulla questione di un maggiore spazio alle donne: “La loro presenza non sia la ciliegina sulla torta, ma sia costitutiva”
“Noi non stiamo spingendo nessuna agenda. Era nostra responsabilità restituire al popolo di Dio quello che ci è stato consegnato. Il mio collega, il cardinale Hollerich, una volta ha detto: abbiamo una carta bianca, non c’è scritto niente. Il nostro dovere è di accompagnare la Chiesa affinché arriva al momento del Sinodo dei vescovi. Ma se noi vogliamo svolgere la nostra missione, dobbiamo ascoltare. E ascoltare tutti senza escludere nessuno”.
Il processo appena concluso e le prospettive per il futuro, il cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo, le inquadra in queste poche righe di risposta ai giornalisti riuniti in Sala Stampa vaticana per la presentazione del Documento per la tappa continentale, la seconda fase del percorso avviato dal Papa nell’ottobre 2021 che si concluderà con l’assise dei vescovi in Vaticano nel 2023 e nel 2024.
Il processo appena concluso e le prospettive per il futuro, il cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo, le inquadra in queste poche righe di risposta ai giornalisti riuniti in Sala Stampa vaticana per la presentazione del Documento per la tappa continentale, la seconda fase del percorso avviato dal Papa nell’ottobre 2021 che si concluderà con l’assise dei vescovi in Vaticano nel 2023 e nel 2024.
Sinodo, nel Documento della fase continentale la voce degli ultimi e degli “esclusi”
Profondo rinnovamento. Un documento che è “frutto di una sinodalità vissuta” da parte delle Chiese dei cinque continenti e di “molto lavoro” da parte della Segreteria generale del Sinodo, delle commissioni e del gruppo di esperti riunito per due settimane a Frascati per redigere il testo. A guidare i loro lavori il concetto di “restituzione”, ci ha tenuto a sottolineare Grech, per fugare ogni dubbio che vi fossero state aggiunte o sia dato maggiore spazio a un tema piuttosto che a un altro: “Il Documento è una fedele restituzione delle sintesi” inviate dalle diverse diocesi durante la fase consultiva. “Il lavoro del gruppo di esperti è stato improntato ad un’onestà intellettuale: non ci sono riflessioni teoriche sulla sinodalità̀, ma riprese della voce delle Chiese. Per tutti noi è stata una sorpresa ascoltare come, pur nella differenza di sensibilità̀, il Popolo santo di Dio converga nel chiedere un profondo rinnovamento della Chiesa”.
Fame di nuova fiducia nella Chiesa. La risposta è stata ampia e partecipativa, hanno sottolineato i relatori in Sala Stampa vaticana: oltre a Grech, anche il teologo Piero Coda, il gesuita Giacomo Costa, l’esperta Anna Rowlands, e collegato da remoto dal Giappone il cardinale Jean-Claude Hollerich, relatore generale del Sinodo. Ad eccezione di due Conferenze episcopali che non hanno preso parte al processo sinodale (“Non so perché, penso che ci siano ragioni oggettive”, ha tagliato corto Grech), tutti gli episcopati nel mondo, alcuni dopo iniziali resistenze o difficoltà, hanno inviato le loro risposte. E ciò che si evince da questi feedback è che ad ogni latitudine del mondo c’è “una fame” di nuova fiducia nella Chiesa, nella sua capacità di annunciare il Vangelo a “un mondo profondamente bisognoso”.
Abusi, tensioni, esclusioni. Tensioni e situazioni interne, tuttavia, mettono a dura prova la missione stessa della Chiesa. In primo luogo lo scandalo degli abusi da parte del clero, come rimarcato nel Documento e come ribadito oggi da Rowlands, docente di pensiero e pratica sociale cattolica all’Università di Durham in Inghilterra.
Nelle 45 pagine del testo, che riporta voci di Chiese provenienti da Usa, Bolivia, Lesotho, Terra Santa e molte altre, si parla inoltre di esclusione, di clericalismo, discriminazione e mancanza di ascolto reciproco: “I rapporti dicono che ci sono aspetti delle nostre relazioni, della nostra capacità di un’autentica unità nella diversità” che ostacolano il “camminare insieme”, ha detto la professoressa. Difficilmente si può recuperare fiducia e credibilità “se non riusciamo a essere noi stessi fratelli e sorelle, a sanare le nostre divisioni e i sospetti reciproci”.
Allargare lo spazio della “tenda”. Ciò di cui c’è bisogno è di allargare lo spazio della “tenda”, immagine biblica che richiama il comando del Signore al popolo d’Israele nel libro di Isaia, concetto guida nella redazione del Documento per la tappa continentale. Da questa tenda molti dicono di sentirsi esclusi, come si legge nel Documento, che elenca pure alcune categorie di gruppi e persone che oggi si sentono “esiliati” o “discriminati”: giovani, persone con disabilità, poveri, divorziati risposati, i genitori single, membri delle comunità Lgbtq. E soprattutto le donne, che “non domandano ruoli di potere” ma un riconoscimento della loro stessa presenza, nella società e nella comunità cristiana.
Hollerich: chi esclude un altro, ha un problema con Dio
Ci sono dei limiti a chi può essere fatto entrare in questa “tenda”? C’è chi, anche tra i cattolici, vuole che questa tenda non si allarghi? Queste alcune delle domande poste al cardinale Hollerich in conferenza. L’arcivescovo di Lussemburgo ha replicato: “Ci saranno gruppi seduti nella tenda che non sono molto contenti che alcune persone siano in un angolo”. Eppure in questo spazio sono invitati tutti: “Tutte le persone create e amate da Dio. Tutte…. Il nostro amore non è grande come l’amore di Dio. Quindi creiamo delle segregazioni”. Ricordiamo però, ha aggiunto il porporato, che “dobbiamo guardare a ogni persona come a una persona amata da Dio… Cristo è morto per ogni persona sulla croce, quindi se non sono capace di dare spazio a questa persona nella tenda, ho un problema con Dio”.
“Non è questione di mettere dentro e fuori”, ha fatto eco padre Costa: “Tanti si sentono esiliati nella Chiesa: da chi vorrebbe celebrare la Messa con il rito preconciliare agli omosessuali. Finché non c’è un modo di andare avanti insieme nessuno può star tranquillo, nemmeno chi sta dentro. Uno dei frutti del camminare insieme è rendersi conto di come crescere come Chiesa sinodale”, ha aggiunto il gesuita.
Più ampia presenza femminile, appello comune. Tra un cenno alla preoccupazione sulla casa comune, soprattutto da parte delle “comunità che stanno finendo sott’acqua”, e critiche sulla scelta di usare una parola come “discernimento”, definita da giornalisti in sala come di difficile comprensione, è stato centrale in conferenza stampa il tema delle donne. Del loro ruolo e della loro vocazione, del desiderio di vedersi riconosciute e valorizzate. Nel Documento emerge un appello condiviso nei vari Paesi. Sorprendente, hanno osservato i relatori, che tali questioni “sono state sollevate in tutti i rapporti, è un tema comune”.
La prospettiva è quella di una “grossa conversione”, ha detto sempre Costa, rimarcando “il desiderio del donne di avere la Chiesa alleata nel poter portare avanti un riconoscimento della dignità in senso molto più ampio in tutte le società in cui si vive”. L’appello è per la Chiesa, perché faccia in modo “che la metà dell’umanità sia rispettata e valorizzata”.
La parità con le donne, sfida dei teologi. “La partecipazione delle donne nella Chiesa è anche una sfida per la riflessione teologica”, ha aggiunto Grech. “Il mio invito ai teologi è di mettersi al sevizio della Chiesa e del popolo di Dio, in modo che alla luce della parola di Dio, della tradizione e il magistero, potremo trovare altri modi per la partecipazione di tutti”. Sfida subito raccolta da monsignor Coda, segretario generale della Commissione Teologica Internazionale, che ha affermato: “La teologia finora troppo poco si è sviluppata e ha dato parola a questa voce, perché è stata fatta soprattutto da uomini. Solo quando la voce teologica sarà di donne e uomini insieme, in un rapporto di reciprocità, nel riconoscimento della loro differenza, potrà venire in piena luce l’insostituibile contributo della donna”. “Francesco – ha ricordato Coda – ha detto a noi della Commissione Teologica Internazionale che la presenza delle donne non sia la ciliegina sulla torta ma che sia costitutiva. Per questo dobbiamo arrivare a una parità, perché finché la teologia è appannaggio del clero, non è possibile fare questa evoluzione”.
Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano Vatican news 27 ottobre 2022
www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2022-10/sinodo-documento-continentale-conferenza-stampa-grech-hollerich.html
Sinodo, nel Documento della fase continentale la voce degli ultimi e degli “esclusi”
Pubblicato il testo che sarà base dei lavori e “quadro di riferimento” della seconda tappa del percorso sinodale avviato dal Papa nel 2021. A comporlo, le sintesi provenienti dalle Chiese dei cinque continenti dopo la consultazione dei fedeli e non solo. Centrali la questione del ruolo delle donne, l’accoglienza di persone Lgbtq, lo scandalo degli abusi, le sfide di razzismo e tribalismo, il dramma delle guerre e delle violenze, la difesa della vita fragile. Ci sono i poveri e gli indigeni, le famiglie, i divorziati risposati e Pubblicato il testo che sarà base dei lavori e “quadro di riferimento” della seconda tappa del percorso sinodale avviato dal Papa nel 2021. A comporlo, le sintesi provenienti dalle Chiese dei cinque continenti dopo la consultazione dei fedeli e non solo. Centrali la questione del ruolo delle donne, l’accoglienza di persone Lgbtq, lo scandalo degli abusi, le sfide di razzismo e tribalismo, il dramma delle guerre e delle violenze, la difesa della vita fragile.
Ci sono i poveri e gli indigeni, le famiglie, i divorziati risposati e i genitori single, le persone Lgbtq e le donne che si sentono “escluse”. Ci sono le vittime di abusi o di tratta o di razzismo. I sacerdoti, gli ex sacerdoti e i laici, i cristiani e i ‘lontani’ dalla Chiesa, coloro che auspicano riforme su sacerdozio e ruolo femminile, e quelli che “non si sentono a proprio agio a seguito degli sviluppi liturgici del Concilio Vaticano II”. C’è chi vive in Paesi di martirio, chi ha a che fare quotidianamente con violenze e conflitti, chi combatte contro stregonerie e tribalismi. C’è insomma l’umanità intera, con le sue ferite e paure, con le sue imperfezioni e le sue istanze, dentro le circa 45 pagine che compongono il Documento per la tappa continentale.’
Le sintesi delle Chiese del mondo.
Si tratta del Documento che servirà come base dei lavori per la seconda tappa del percorso sinodale lanciato da Papa Francesco nell’ottobre 2021 con la consultazione del popolo di Dio. Proprio durante questa prima fase, i fedeli – e non solo – di ogni diocesi di ogni angolo del globo sono stati coinvolti in un processo di “ascolto e discernimento”. E i risultati di riunioni, convocazioni, dialoghi e iniziative innovative – su tutti, quella dei Sinodi digitali – sono confluiti in sintesi inviate alla Segreteria generale del Sinodo, ora raccolte tutte in un unico documento: il “Documento per la tappa continentale”, appunto.
Un “quadro di riferimento”. Sviluppato simultaneamente in due lingue (italiano e inglese), il testo – spiega il Dicastero – “intende permettere il dialogo tra Chiese locali e tra Chiesa locale con la Chiesa Universale”. Non un riassunto, non un documento magisteriale, dunque, né una mera cronaca delle esperienze locali, tantomeno “un’analisi sociologica o una roadmap con traguardi o obiettivi da raggiungere”: “È un documento di lavoro che cerca di far emergere le voci del Popolo di Dio, con le loro intuizioni, i loro interrogativi, i loro disaccordi”. Gli esperti che tra fine settembre e inizio ottobre si sono incontrati a Frascati per redigere il testo parlano di “un quadro di riferimento” per le Chiese locali e le Conferenze episcopali in vista della terza e ultima tappa, quella universale, con l’Assemblea dei vescovi celebrata a Roma nell’ottobre 2023 e, di nuovo, nel 2024, come recentemente annunciato dal Papa.
Nessuno escluso. Nel dettaglio, il Documento rileva “una serie di tensioni” che il percorso sinodale ha fatto emergere: niente di cui aver paura, ma qualcosa da articolare per “sfruttarle come fonte di energia senza che diventino distruttive”. La prima è “l’ascolto come apertura all’accoglienza a partire da un desiderio di inclusione radicale”. “Nessuno escluso” è infatti uno dei concetti chiave del testo.
Le sintesi mostrano infatti che molte comunità hanno compreso la sinodalità come “invito a mettersi in ascolto di coloro che si sentono esiliati dalla Chiesa”. Sono tanti e sono diversi a sentirsi “denigrati, trascurati, incompresi”, in primis “donne e giovani che non sentono riconosciuti i propri doni e le proprie capacità”. L’essere seriamente ascoltati è stata pertanto una esperienza “trasformativa”.
Ex sacerdoti. Tra coloro che chiedono un dialogo più incisivo e uno spazio più accogliente ci sono, ad esempio, gli ex preti che hanno lasciato il ministero per sposarsi. Nel Documento si segnala “l’importanza di prevedere forme di accoglienza e protezione per le donne e gli eventuali figli di sacerdoti venuti meno al voto di celibato, che altrimenti sono a rischio di subire gravi ingiustizie e discriminazioni”.
L’accoglienza alle persone omosessuali. Chiedono accoglienza soprattutto coloro che “per diverse ragioni avvertono una tensione tra l’appartenenza alla Chiesa e le proprie relazioni affettive”. Quindi divorziati risposati, genitori single, persone che vivono in un matrimonio poligamico, persone Lgbtq. “La gente chiede che la Chiesa sia un rifugio per chi è ferito e piegato, non un’istituzione per i perfetti”, si legge in un contributo proveniente dagli Usa. Mentre dal Lesotho arriva la richiesta discernimento da parte della Chiesa universale: “C’è un nuovo fenomeno nella Chiesa che è una novità assoluta in Lesotho: le relazioni tra persone dello stesso sesso. Questa novità rappresenta un motivo di turbamento per i cattolici e per quanti le considerano un peccato. Sorprendentemente ci sono cattolici in Lesotho che hanno cominciato a praticare questo comportamento e si aspettano che la Chiesa accolga loro e il loro modo di comportarsi. Si tratta di una sfida problematica per la Chiesa, perché queste persone si sentono escluse”.
Punti in comune e divergenze. Nonostante le differenze culturali, si notano somiglianze sostanziali tra i vari continenti riguardo a coloro che sono percepiti come “esclusi” nella società e nella comunità cristiana. D’altra parte, si riscontra un pluralismo di posizioni anche all’interno dello stesso continente o di uno stesso Paese. “Temi come l’insegnamento della Chiesa sull’aborto, la contraccezione, l’ordinazione delle donne, i preti sposati, il celibato, il divorzio e il passaggio a nuove nozze, la possibilità di accostarsi alla comunione, l’omosessualità, le persone Lgbtqia+ sono stati sollevati in tutte le Diocesi, sia rurali sia urbane. Sono emersi punti di vista differenti e non è possibile formulare una posizione definitiva della comunità su nessuna di queste tematiche”, affermano dal Sud Africa.
La voce dei poveri. Numerose sintesi esprimono rammarico e preoccupazione perché non sempre e non dovunque la Chiesa è riuscita a “raggiungere efficacemente i poveri delle periferie e dei luoghi più remoti”. Poveri intesi non solo come indigenti, ma anche anziani soli, indigeni, migranti, bambini di strada, alcolizzati e drogati, vittime di tratta, sopravvissuti ad abusi, carcerati, gruppi che patiscono discriminazione e violenza per razza, etnia, genere, sessualità. La loro voce appare il più delle volte perché riportata da altri. E quando appaiono nelle sintesi, questi volti e nomi “invocano solidarietà, dialogo, accompagnamento e accoglienza”.
La crisi degli abusi. Molte Chiese locali riferiscono di trovarsi di fronte a un contesto culturale segnato dal declino di credibilità e fiducia a causa della crisi degli abusi di membri del clero. “Una ferita aperta, che continua a infliggere dolore alle vittime e ai superstiti, alle loro famiglie e alle loro comunità”, si legge nel Documento, che cita un contributo dall’Australia che afferma: “Si è avvertita la forte urgenza di riconoscere l’orrore e il male causato, e di accrescere gli sforzi per tutelare le persone vulnerabili, riparare il danno perpetrato all’autorità morale della Chiesa e ricostruire la fiducia”. Un’attenta e dolorosa riflessione sul male degli abusi ha portato molti gruppi sinodali a chiedere “un cambiamento culturale” della Chiesa, in vista di una maggiore trasparenza e responsabilità.
Partecipazione e riconoscimento delle donne. L’appello a “una conversione della cultura” della Chiesa è legato alla possibilità di instaurare “nuove pratiche, strutture e abitudini”. Ciò riguarda anzitutto il ruolo delle donne e la loro vocazione “a partecipare alla vita della Chiesa in pienezza”. È un punto critico presente, in diverse forme, in tutti i contesti culturali e riguarda la partecipazione e il riconoscimento delle laiche come delle religiose. Da ogni continente arriva infatti l’appello affinché “le donne cattoliche siano valorizzate innanzi tutto come battezzate e membri del Popolo di Dio con pari dignità”. Quasi unanime l’affermazione che molte donne “provano tristezza perché spesso la loro vita non è ben compresa” e “il loro contributo e i loro carismi non sono sempre valorizzati”. La sintesi della Terra Santa è indicativa in tal senso: “In una Chiesa in cui quasi tutti coloro che prendono le decisioni sono uomini, ci sono pochi spazi in cui le donne possono far udire la propria voce. Eppure costituiscono la spina dorsale delle comunità ecclesiali, sia perché rappresentano la maggioranza dei praticanti, sia perché sono tra i membri della Chiesa più attivi”.
La richiesta concreta è quella di un “ruolo attivo delle donne nelle strutture di governo degli organismi ecclesiali, possibilità per le donne con adeguata formazione di predicare in ambito parrocchiale, diaconato femminile“. Posizioni assai più diversificate vengono espresse a proposito dell’ordinazione presbiterale per le donne: alcune sintesi la “auspicano”, altre la considerano “una questione chiusa”.
Due le sfide correlate che la Chiesa si trova ad affrontare: “Le donne rimangono la maggioranza di coloro che frequentano la liturgia e partecipano alle attività, gli uomini una minoranza; eppure la maggior parte dei ruoli decisionali e di governo sono ricoperti da uomini.
Discriminazione delle persone disabili. Di scarsa partecipazione e riconoscimento parlano anche le persone disabili: “Le forme di discriminazione elencate – la mancanza di ascolto, la violazione del diritto di scegliere dove e con chi vivere, il diniego dei Sacramenti, l’accusa di stregoneria, gli abusi – ed altre, descrivono la cultura dello scarto nei confronti delle persone con disabilità. Esse non nascono per caso, ma hanno in comune la stessa radice: l’idea che la vita delle persone con disabilità valga meno delle altre”.
Le testimonianze di persecuzione e martirio. Spicca nel Documento la testimonianza di fede vissuta fino al martirio di alcuni Paesi, dove i cristiani, soprattutto giovani, devono affrontare “la sfida di una sistematica conversione forzata ad altre religioni”. Molte le sintesi che sottolineano “l’insicurezza e la violenza con cui devono misurarsi le minoranze cristiane perseguitate”. Si parla di fanatismi, massacri o anche – afferma la Chiesa maronita – “forme di incitamento settario ed etnico” degenerate in conflitti armati e politici, che rendono particolarmente dolorose le vite di tanti fedeli nel mondo. Anche in queste “situazioni di fragilità”, tuttavia, le comunità cristiane “hanno saputo cogliere l’invito loro rivolto a costruire esperienze di sinodalità e a riflettere su che cosa significhi camminare insieme”.
Difesa della vita “fragile”. Ugualmente risalta l’impegno del popolo di Dio per la difesa della vita fragile e minacciata in tutte le sue fasi. Ad esempio, per la Chiesa greco-cattolica ucraina, fa parte della sinodalità “prestare particolare attenzione alle donne che decidono di abortire a causa della paura della povertà materiale e del rifiuto da parte delle famiglie in Ucraina; promuovere un’opera educativa tra le donne che sono chiamate a compiere una scelta responsabile quando si trovano ad attraversare un momento difficile della loro vita, con lo scopo di preservare e proteggere la vita dei nascituri e prevenire il ricorso all’aborto”.
Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano Vatican news 27 ottobre 2022
Hollerich: la Chiesa deve cambiare, rischiamo di parlare a un uomo che non c’è più
In una lunga intervista a L’Osservatore Romano, il cardinale presidente della Commissione che riunisce gli episcopati europei parla di quanto la fase di preparazione ai prossimi Sinodi stia facendo emergere l’urgenza di un cambio di passo della pastorale: pur fermi nel Vangelo dobbiamo essere capaci di annunciarlo all’uomo di oggi che per lo più lo ignora e questo implica la disponibilità a lasciarci trasformare anche noi
Jean-Claude Hollerich, 64 anni, cardinale arcivescovo di Lussemburgo, è presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea e vicepresidente del Consiglio delle Conferenze dei vescovi d’Europa, nonché Relatore generale al Sinodo sulla Sinodalità.
Con l’apertura della fase continentale del Sinodo sulla Sinodalità accoglie di buon grado di conversare con l’«Osservatore Romano» sull’andamento della più diffusa consultazione della storia della Chiesa in Europa, e dei suoi contenuti. Lo incontriamo nella chiesa parrocchiale di Roma di cui è titolare, mentre si intrattiene come un “buon parroco” con i bambini del corso per la prima comunione. «La chiesa non è questo edificio, spiega loro, chiesa significa assemblea. Chiesa siete voi. Perché, come dice Papa Francesco, senza i giovani non c’è chiesa, perché Dio è giovane». Poi ci viene incontro «sono proprio contento di essere titolare, non di una delle belle chiese del centro storico, ma di questa parrocchia di periferia; quando vengo qui ritrovo la gioia di fare il prete tra la gente».
Il mese scorso il cardinale Zuppi ci ha rilasciato una lunga intervista sul Sinodo della Chiesa italiana, nella quale, con molta onestà, non ha nascosto di aver registrato una partecipazione inferiore alle aspettative, in quantità e qualità. Qual è la visione che lei ha dell’andamento del Sinodo nel panorama europeo?
Sì, ho letto con molto interesse quell’intervista. Con altrettanta onestà mi sembra che le osservazioni di Zuppi possano valere anche per gli altri paesi europei, anche se con dei distinguo necessari tra paese e paese. Vedete, io credo che oggi in Europa siamo affetti da una patologia, che, cioè, non riusciamo a vedere con chiarezza quale sia la missione della Chiesa. Parliamo sempre delle strutture, il che non è un male certo, perché le strutture sono importanti e sicuramente devono essere ripensate. Ma non si parla a sufficienza della missione della Chiesa. Che è annunciare il Vangelo. Annunciare, e soprattutto testimoniare, la morte e risurrezione di Gesù il Cristo. Un testimoniare che il cristiano deve interpretare principalmente attraverso il suo impegno nel mondo per la salvaguardia del creato, per la giustizia, per la pace. L’insegnamento di Papa Francesco è tutto e nient’altro che l’esplicitazione del Vangelo. Non è difficile capirlo. Nel mondo secolarizzato di oggi l’annuncio diretto non sempre viene compreso, ma la nostra testimonianza sì. Veniamo osservati e valutati nel mondo per come viviamo il Vangelo. È un po’ come avviene per gli insegnanti a scuola: è importante certo quello che dicono, ma ancora più importante è ciò che comunicano di sé. Nel nostro caso quello che rileva è la coerenza con il Vangelo. Prendete ad esempio l’enciclica Laudato si’. Tanti l’hanno letta, anche tra i non credenti, anche tra chi non conosce il Vangelo. E tutti quelli che l’hanno letta ne hanno condiviso la valenza, l’importanza, l’urgenza. Ne ho avuto un diretto riscontro nei miei contatti quotidiani coi politici del parlamento e della commissione europea a Bruxelles. Tutti dunque hanno letto Laudato sì, e ne hanno ammirazione. E lo stesso è valso anche per Fratelli tutti. Cioè tutti riconoscono a Papa Francesco la paternità della proposta di un nuovo umanesimo. Che lui spesso propone in solitudine tra i grandi leader mondiali. Ma sta poi a noi saper spiegare che l’umanesimo di Francesco non è solo una proposta politica, ma è proclamazione del Vangelo. Chi è fuori della Chiesa certe volte capisce il Vangelo meglio di chi ci sta dentro. Papa Francesco ha dunque indicato questa modalità di annunciare il Vangelo, che parte dalla realtà, quella realtà che ci vede tutti creature e figli dello stesso Padre. Ma per rispondere alla vostra domanda iniziale: in tutti i paesi europei nei sinodi si è parlato molto di comunione, di partecipazione, ma assai poco di missione.
Sicuramente le difficoltà registrate nei sinodi dei vari paesi sono state influenzate da una certa difesa istintiva del proprio status da parte del clero e dall’altro lato da una persistente attitudine delegante dei laici.
Il concetto di sinodalità fu introdotto da Papa Paolo VI come esigenza di collegialità, di comunione tra i vescovi. Il Concilio Vaticano II aveva la preliminare necessità di completare ciò che era rimasto in sospeso con il Concilio Vaticano I, il cui focus era tutto sulla figura e le prerogative del romano pontefice. Per cui lo sforzo dell’assise è stato innanzitutto quello di definire il ruolo del vescovo. Ma nella Lumen Gentium si introduce per la prima volta il concetto di “popolo di Dio in cammino” e di Chiesa come “tempio dello Spirito Santo”, si esplicita il “sacerdozio universale” che riguarda tutti i battezzati. Ecco, io penso che queste giganti intuizioni dei padri conciliari non siano state ancora adeguatamente sviluppate. Però sono molto d’accordo con Papa Francesco quando dice che per attuare un concilio ci vogliono cento anni. Ne sono passati solo 60… mica siamo in ritardo (lo dice ridendo di gusto ndr)! Ma, battute a parte, dobbiamo essere consapevoli che il sacerdozio battesimale non toglie nulla al sacerdozio ministeriale. Tutti noi preti dobbiamo comprendere anzi che non c’è sacerdozio ministeriale senza un sacerdozio universale dei cristiani, perché da questo origina. Mi rendo ben conto che la difficoltà di assimilazione di un concetto, in fondo così elementare, è osteggiato da una formazione presbiteriale che ancora indugia su una «diversità ontologica» che non c’è. Su questo i teologi devono mettersi al lavoro e fornire definizioni più certe intorno al tema del carattere, e della grazia sacramentale. Ma soprattutto i vescovi devono mettere mano seriamente e profondamente alla formazione dei futuri preti. Noi abbiamo ancora oggi dei seminari che io definisco «tridentini liberalizzati». Noi non dobbiamo compiere ulteriori passi verso la «liberalità», ma intraprendere la strada della «radicalità». La formazione deve consistere nel mettersi alla prova del saper vivere oggi in maniera radicale il Vangelo.
Anche qui guardiamo a Papa Francesco: in Europa spesso si sente dire che Francesco è un Papa liberale. Papa Francesco non è liberale: è radicale. Vive la radicalità del Vangelo. È il paradigma integrale non solo della sua missione, ma della sua vita, perché ha interiorizzato la radicalità del Vangelo. Pensate alla sua radicalità nella misericordia, e anche nell’annuncio del regno di Dio. Vedete non si può tenere un giovane separato dal mondo, in una vita di tipo monastico per sei anni e poi lamentare che finisca col presupporre una propria diversità. Anche in questo caso non è un problema — lo ripeto — di strutture ma di missione. Bisogna comprendere, o meglio ricomprendere, cosa significhi essere pastori oggi. Come d’altronde tutti noi dobbiamo domandarci cosa significhi essere cristiani oggi. Questo è il punto. E questa domanda è anche la cifra di questo pontificato: accettare l’inadeguatezza di una pastorale figlia di epoche ormai passate e ripensare la missione. Una scelta che ha implicazioni teologiche pesanti e coraggiose.
E l’atteggiamento delegante dei laici?
Io penso che, tanto per gli esiti di questo Sinodo quanto a causa della riduzione delle vocazioni, l’equilibrio tra laici e clero sarà in futuro molto diverso dall’attuale. C’è però un ostacolo allo sviluppo di un dialogo costruttivo che deve essere preliminarmente rimosso. Mi riferisco al fatto che spesso il confronto ruoti intorno al solo tema del «potere». Il sinodo tedesco ad esempio è molto influenzato da questo argomento. Io penso che limitare il confronto intraecclesiale alla questione del potere sia profondamente sbagliato. Tanto da parte di chi «contesta» il potere, sia da parte di chi «difende» il potere. La Sinodalità va ben oltre il discorso sul potere. Se la gente percepisce l’autorità del vescovo o del parroco come «potere», beh allora abbiamo un problema. Perché noi siamo ordinati per un ministero, per un servizio. L’autorità non è potere.
Lei parla di una inadeguatezza della pastorale rispetto ai tempi. Perché? Che tempi viviamo?
È molto interessante quello che dice Zuppi nell’intervista a voi rilasciata, quando trattate il tema del cambiamento antropologico. E concordo con lui che questo sia il tema che più deve interpellarci. Vedete, la mia generazione ha vissuto e sta vivendo cambiamenti che nessuna generazione ha vissuto prima. Direi i più grandi dall’invenzione della ruota. Con la differenza che oggi tutto cambia con una velocità inusitata solo qualche decennio fa. Impressionante come, per esempio, un ragazzo di 15 anni sia già radicalmente diverso da uno di 20. Oggi non siamo in grado neanche di immaginarlo, ma ci saranno trasformazioni antropologiche molto molto grandi. Nella consapevolezza che l’uomo può influenzare solo parzialmente la propria evoluzione. Il punto che avete centrato e che deve essere ulteriormente sviluppato è che non parliamo di antropologia culturale, ma di cambiamenti che afferiscono anche alla sfera biologica, naturale.
E dunque anche la pastorale dovrebbe tenerne conto…
Non vorrei sembrare tranchant ma, con molta franchezza, la nostra pastorale parla ad un uomo che non esiste più. Dobbiamo essere capaci di annunciare il Vangelo, e far capire il Vangelo, all’uomo di oggi che per lo più lo ignora. Questo implica una grande apertura da parte nostra, e anche la disponibilità — pur fermi nel Vangelo — a lasciarci trasformare anche noi.
Quando parliamo ai cambiamenti antropologici il pensiero corre innanzitutto a quello della relazione uomo—donna. Il cambiamento più grande. Già Paolo VI lo aveva prefigurato
Humanæ Vitæ è un testo meraviglioso. È veramente un peccato che sia passato alla storia solo per il giudizio sugli anticoncezionali. Pensate per esempio all’idea che propone dell’amore sponsale come immagine del Dio Trinitario. Quando insegnavo in Giappone su questi temi disegnavo un triangolo esplicativo ai cui vertici c’erano: sessualità, dono della vita e amore sponsale. Oggi le cose nel mondo sono radicalmente cambiate. Prima si sono separate sessualità e dono della vita, e ora anche sessualità ed affettività. Molti giovani vivono la sessualità in maniera totalmente scissa dall’affettività. E non se lo sono inventati da soli, ma lo hanno imparato dal mondo degli adulti. Il matrimonio — non solo quello sacramentale — è una pratica ormai in disuso in gran parte dell’Europa. E lo stesso vale per la trasmissione dell’eredità, la gente in Europa sa vivere ormai senza l’eredità culturale dei genitori. Ogni generazione è praticamente un nuovo inizio. E il distanziamento anagrafico dato da una popolazione sempre più vecchia ostacola ancora più questa trasmissione.
Cardinale Hollerich, rimanendo su questo piano c’è il tema dell’adeguamento della pastorale a questi cambiamenti antropologici.
Certo. Ed è proprio la necessità pastorale che ha suscitato una riflessione sul tema dei generi, che ha suscitato qualche critica. Vede, c’è un presupposto che mi ha ispirato. Io cerco, per quanto mi è possibile nelle fatiche del mio ruolo, di mantenere un rapporto personale vivo con i giovani. Perché prima di essere cardinale sono un prete; un pastore. E io vedo costantemente è che i giovani smettono di considerare il Vangelo, se hanno l’impressione che noi stiamo discriminando. Per i giovani di oggi il valore più alto è la non discriminazione. Non solo quella di genere, ma anche etnica, di provenienza, di ceto sociale. Sulle discriminazioni si arrabbiano proprio! Qualche settimana fa ho incontrato una ragazza ventenne che mi ha detto «voglio lasciare la Chiesa, perché non accoglie le coppie omosessuali», io le ho chiesto «ti senti discriminata perché sei omosessuale?», e lei «No, no! Io non sono lesbica, ma la mia più cara amica lo è. Conosco la sua sofferenza, e non intendo essere parte di quelli che la giudicano». Questo mi ha fatto riflettere molto.
Però cardinale, le chiese protestanti che hanno un approccio più liberale, e benedicono le coppie omosessuali, non sembra che incontrino un maggiore gradimento tra i giovani…
Certo che no. Perché non basta. Occorre un più profondo cambiamento di paradigma culturale, e una conversione dello spirito. Non è un problema di diritto canonico, di norme o strutture. È quello che il Papa ha detto alla Chiesa tedesca. «Attenti a non cominciare dalle strutture; partite piuttosto dalla vita del popolo di Dio, dalla missione, dall’evangelizzazione». Annunciare il Vangelo oggi significa annunciare la gioia della vita in Dio, trovare il senso della vita in Gesù Cristo. Che non è una frase fatta, perché dobbiamo essere capaci di comunicare che vivere sulle orme di Cristo significa vivere bene, significa gustare la vita. Noi siamo chiamati ad annunciare una buona notizia, non un insieme di norme o divieti.
Dove la buona notizia è il kerigma originario…
Sì, certo. Vedete la post modernità, al pari del razionalismo che l’ha preceduta, cozza su un limite insuperabile. Che è la percezione angosciante della finitudine umana. Più cresce la capacità intellettuale e conoscitiva dell’uomo più risulta evidente la sua incapacità a rispondere al quesito che lo accompagna — razionalmente ma anche inconsciamente — in tutta la sua esistenza: «perché la vita finisce?», «perché questo mio “io” che nessun altro conosce nella sua profondità, è destinato a morire?». La mossa furba della civiltà dei consumi in cui viviamo, è quella di occultare ed esorcizzare la domanda, con l’inganno del mito di un’eterna giovinezza. Allora «nuova evangelizzazione» oggi è mostrare un’ostia elevata dicendo «Chi mangia di questo pane non muore più». Un’etica dell’amore — e della misericordia — è dunque succedanea alla rivelazione che «Non si muore più». Dovremmo gridarlo nelle piazze e dalle terrazze «Non si muore più!». E se non lo gridiamo, limitandoci a proporre un’etica del buon vivere, non possiamo poi lamentarci che non ci sono più credenti! Credere nella vita eterna, significa però credere che la vita eterna è già qui, ora. E che come tale va vissuta, e goduta. Sono molto spaventato in tal senso da una montante concezione funzionalistica della vita, per cui se non funziona la si butta. Mi ha terrorizzato vedere nei Paese Bassi l’estensione della pratica dell’eutanasia anche ai malati psicologici. Anche questo è frutto della pervadente ideologia consumistica: una volta se si rompeva la televisione la portavi dal riparatore, e le scarpe dal calzolaio; oggi li butti. E lo stesso vorrebbero fare con la vita, se non «funziona», se diventi un peso per la società ti buttano via. Lo stesso vale per l’inizio della vita: mi preoccupa sentire nel parlamento Europeo chi invoca l’attribuzione dello status di diritto «“fondamentale” all’aborto, perché se è un diritto fondamentale allora è un diritto assoluto e quindi non ammette più un rifiuto di coscienza. Anche questo è assurdo. Ricordiamoci sempre che la vita, anche se limitata, è bella».
Dunque ripartire da una tomba vuota una domenica mattina di primavera a Gerusalemme.
Certo. Questa è la bella notizia! E voglio aggiungere: tutti vi sono chiamati. Nessuno escluso: anche i divorziati risposati, anche gli omosessuali, tutti. Il Regno di Dio non è un club esclusivo. Apre le sue porte a tutti, senza discriminazioni. A tutti! A volte nella Chiesa si discute dell’accessibilità di questi gruppi al Regno di Dio. E questo crea la percezione di un’esclusione in una parte del popolo di Dio. Si sentono esclusi e questo non è giusto! Qui non è questione di sottigliezze teologiche o dissertazioni etiche: qui si tratta semplicemente di affermare che il messaggio di Cristo è per tutti!
Però, un problema teologico oggettivamente c’è. Lei stesso vi ha fatto riferimento nelle interviste passate, auspicando un ripensamento della dottrina.
Papa Francesco richiama spesso la necessità che la teologia sappia originarsi e sviluppare a partire dall’esperienza umana, e non rimanga il frutto della sola elaborazione accademica. Allora, tanti nostri fratelli e sorelle, ci dicono che , qualunque sia l’origine e causa del loro orientamento sessuale, di certo non se lo sono scelto. Non sono «mele guaste». Sono anche loro frutto della creazione. E in Bereshit si legge che ad ogni passaggio della creazione Dio si compiace del suo operato dicendo «..e vide che era cosa buona». Ciò detto voglio essere chiaro: non penso che ci sia lo spazio per un matrimonio sacramentale tra persone dello stesso sesso, perché non c’è il fine procreativo che lo caratterizza, ma questo non vuol dire che la loro relazione affettiva non abbia nessun valore.
I vescovi del Belgio si sono però espressi in favore della possibilità di benedire queste unioni.
Francamente la questione non mi sembra decisiva. Se rimaniamo all’etimologia di “bene—dire”, pensate che Dio possa mai “dire—male” di due persone che si vogliono bene? Mi interesserebbe di più discutere di altri aspetti del problema. Per esempio: la crescita vistosa dell’orientamento omosessuale nella società da cosa è determinata? Oppure perché la percentuale di omosessuali nelle istituzioni ecclesiali è più alta che nella società civile.
Cardinale Hollerich lei è il presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea. Stiamo vivendo un momento drammatico. Dopo quasi 80 anni la guerra ha fatto di nuovo la sua comparsa in Europa. Incredibilmente la minaccia nucleare mai come prima d’oggi è divenuta attuale. A fronte di ciò la presenza attiva dell’Europa politica promotrice efficace di pace, appare debole, flebile, inascoltata.
Dobbiamo fare la pace. Fare la pace tra le nazioni è come fare la pace tra gli uomini: occorre sempre un compromesso tra le rispettive presunte ragioni. Ognuno deve provare ad immedesimarsi nelle ragioni altrui, anche se non le condivide. E da lì trovare un compromesso. Diversamente possiamo avere una tregua dal conflitto armato, ma non una vera pace. La storia ci insegna che i conflitti latenti prima o poi esplodono in guerre. Anche questo era un conflitto che si trascinava da tempo, ma nessuno ha voluto veramente operare per la pace. Ciò detto, confermo quello che dite: l’Europa politica è molto debole. Lo è perché la priorità politica dell’Europa è mantenere uniti alle sue istituzioni i paesi che la compongono, e che presentano grandi diversità tra loro, specialmente dopo l’allargamento a 27. Ovviamente concentrandosi più sulle dinamiche interne, si indebolisce la proiezione esterna, il suo protagonismo politico. Ma i leader europei dovrebbero comprendere che l’equilibrio non si realizza ad intra, ma ad extra, attraverso politiche di confronto e di proposizione originale con le altre potenze. E questo costituisce oggi un grave vulnus negli equilibri mondiali perché l’Europa ha nel suo dna l’ispirazione alla pace. Anche le forze che si ispirano al popolarismo credo debbano impegnarsi a ridefinire la propria identità. Ormai “popolare” nel lessico comune europeo si identifica con “conservatore”, e questo non va bene. Occorre allora specificare il “popolare” nella tradizione dei democratici cristiani, che tanto hanno significato in molti paesi europei. Cioè recuperare quel profilo “sociale” dei popolari che il liberalismo ha un po’ offuscato. Anche perché il popolarismo è l’unico serio antidoto al populismo.
Però il populismo sembra essere tutt’ora crescente in molti paesi europei.
Il populismo laddove vince deve affrontare la sfida del governo. Il problema del populismo è che fornisce risposte semplificate alle questioni invece sempre più complicate che ci pone il mondo d’oggi. Pensiamo per esempio alle ricette sovraniste proposte ad un mondo che è invece sempre più inestricabilmente connesso. Mi preoccupa cosa può succedere qualora i populisti fallissero la sfida del governo. Irrimediabilmente addosserebbero la colpa a qualcuno altro: ai migranti, ai profughi, a Bruxelles. Inasprendo ancora più le tensioni sociali. E di questo proprio non c’è bisogno.
Ma lei crede che in Europa possano ancora oggi delle derive autoritarie, o come si dice oggi, autocrati?
Non so. Spero di no. Però credo che dobbiamo tutti avviare una riflessione sulle condizioni della democrazia. Abbiamo pensato fino ad oggi che la democrazia fosse l’unica forma politica possibile in Occidente. Ma anche in Occidente si avverte qualche scricchiolio. Dobbiamo pensare a cosa significhi essere oggi un paese, un continente democratico. Ci attende un inverno duro, in cui molti soffriranno il freddo, la povertà, la disoccupazione: sarà una prova per la tenuta della democrazia. Finora la democrazia si sosteneva attraverso il benessere della maggioranza, oggi questo non basta. È facile essere amici e democratici nel ricco pranzo della domenica, più complicato nel giorno di digiuno.
Un’ultima domanda cardinale. Come si immagina la Chiesa in Europa tra 20 anni?
Sarà molto più piccola. La maggioranza degli europei non conoscerà Dio e il suo Vangelo. Più piccola, ma anche più viva. Io credo che questa riduzione nei numeri sia, nel disegno di Dio, necessaria per acquisire un nuovo slancio. In alcune parti del nord Europa sarà prevalentemente una chiesa di migranti; i ricchi autoctoni sono i primi ad abbandonare la scialuppa, perché il Vangelo stride coi loro interessi. È il desiderio di Papa Francesco: una chiesa povera, una chiesa viva.
Andrea Monda e Roberto Cetera Vatican news 24 ottobre 2022
www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2022-10/cardinale-hollerich-intervista-osservatore-pastorale-sinodo.html
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