News UCIPEM n. 568 –18 ottobre 2015

 

 

NEWS UCIPEM n. 568 –18 ottobre 2015

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ABBANDONO                                  Emergenza: I neonati non riconosciuti: uno al giorno.

ADOTTABILITÀ                             Legami duraturi da salvaguardare. Tutelati i minori in affido.

Sì alla continuità affettiva. Tutelati i minori in affido.

Quattro articoli rivoluzionari a garanzia dei più deboli.

ADOZIONI INTERNAZIONALI    Prosegue il calo: meno 10% rispetto al 2014.

AFFIDO CONDIVISO                      Un genitore chiede di trasferirsi coi figli: i criteri per il giudice.

CASA FAMILIARE                          Separazione: casa alla donna anche per i conviventi non sposati.

Centro Italiano di Sessuologia                      Dalla lettura della domanda sessuologia alla consulenza sessuale

CHIESA CATTOLICA                    Rivalutare la tenerezza. (Bianchi)

Sinodo: veri e falsi problemi.

Comunione ai risposati non è questione dottrinale ma disciplinare.

Carlo Maria Martini al Sinodo: che cosa avrebbe detto.

Sinodo dei Vescovi: per una lettura di genere.                   

Commissione Adozioni Internazionali  Adozioni, una commissione fantasma

CONSULENZA FAMILIARE          Rinnovo degli organi direttivi dell’A.I.C.C.e F.

CONSULTORI FAMILIARI                       Il ruolo dei consultori d’ispirazione cristiana.

Le sfide e le opportunità – i nuovi scenari aperti

CONSULTORI Familiari UCIPEM Roma 1. I bisogni fondamentali dell’uomo: pretesa o percorso?

Taranto Ottava Giornata di studio.

Venezia Mestre. Convegno “per una didattica inclusiva.

COPPIA                                             Come gestire una lite di coppia.                              

DALLA NAVATA                            29° domenica del tempo ordinario – anno B -18 ottobre 2015.

FORUM ASS.ni FAMILIARI                       Unioni civili. Non basta decidere, bisogna decidere bene.

 

FRANCESCO vescovo di ROMA    Chiedo perdono per gli scandali a Roma e in Vaticano.

NULLITÀ MATRIMONIALE         Sposarsi da cattolici: una questione pastorale.

OMOFILIA                                       Sull’omosessualità: uno sguardo nuovo?

PARLAMENTOCamera Assemblea           Affido familiare

Senato 2° Comm. Giustizia   Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili

Aula.               Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili

SINODO SULLA FAMIGLIA          Qual è il ruolo di Papa Francesco.

Sinodo: via tedesca all’accordo?

Il Sinodo come cantiere per un nuovo linguaggio sulla famiglia.

Chiarezza e onestà: Cavalcoli sui divorziati risposati

La misericordia di Bergoglio crea scandalo. (Bianchi)

Matrimonio a tappe? Non va disprezzato.

La teologia tedesca: tra carità e verità.

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ABBANDONO

Italia. Emergenza abbandono. I neonati non riconosciuti: uno al giorno.

            (…) Il mancato riconoscimento di un bambino appena nato non è un evento così remoto. Secondo un’indagine effettuata dalla Società Italiana di Neonatologia (SIN) tra luglio 2013 e giugno 2014 sono stati 56 i neonati non riconosciuti dalle mamme su un totale di 80.060 bambini nati (il totale dei nati in Italia supera le 500 mila unità. Potenzialmente i non riconosciuti potrebbero essere uno al giorno). Numeri importanti che non tengono conto della realtà sommersa dei bambini partoriti e mai ritrovati. Perché a differenza di quanto si possa pensare sono ancora poche le donne che sono a conoscenza della possibilità di partorire in maniera anonima. Non solo, dai dati emerge il profondo disagio sociale ed economico nell’affrontare l’arrivo di un neonato.

            Nel 62,5% dei casi si tratta di neonati non riconosciuti da madri straniere e nel 37,5% da mamme italiane. Le mamme che scelgono di non riconoscere i loro bambini hanno un’età compresa tra i 18 e i 30 anni nel 48,2% dei casi. Per quanto riguarda i motivi dell’abbandono, al primo posto troviamo il disagio psichico e sociale (37,5%), seguito dalla paura di perdere il lavoro o più in generale dai problemi economici (19,6%). La paura di essere espulse o di dover crescere un figlio da sole in un Paese straniero è un motivo scatenante per il 12,5% delle donne immigrate; segue la coercizione per il 7,1%; la giovane età (5,4%); la solitudine (5,4%) e la violenza (1,8%).

            Come aiutare queste mamme in difficoltà? Agevolando e incrementando l’informazione per arrivare direttamente a queste donne in difficoltà attraverso ambulatori, centri di assistenza sociale, consultori e parrocchie. Ma soprattutto comunicare loro in modo capillare l’esistenza di culle per la vita, come quella alla Family house di Ai.Bi. dove poter lasciare alle cure di altri il proprio per prevenire l’abbandono c’è la forte necessità di assicurare sostegno e assistenza alle donne in difficoltà rafforzando le politiche per la famiglia e per l’infanzia, favorire una maggiore integrazione e collaborazione tra attività ospedaliera e territoriale e assicurare una migliore presa in carico della madre e del bambino da parte di Consultori e Servizi sociali.

Fonte: www.lastampa.it                    Ai. Bi   13 ottobre 2015

www.aibi.it/ita/italia-emergenza-abbandono-i-neonati-non-riconosciuti-uno-al-giorno

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ADOTTABILITÀ

Legami duraturi da salvaguardare. Tutelati i minori in affido.

Legge 19 ottobre 2015, n. 173 Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare.

GU Serie Generale n. 252 del 29 ottobre 2015. Entrata in vigore 13 novembre 2015.

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/10/29/15G00187/sg

Sono quattro le novità introdotte da questa legge.

  1. Corsia preferenziale affidatari. In caso di adozione è prevista una corsia preferenziale a favore di chi ha il bambino in affido. Il tribunale dei minori dovrà infatti tener conto, nel decidere sull’adozione, dei «legami affettivi significativi» e del «rapporto stabile e duraturo» consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria. La corsia preferenziale opera però solo se gli affidatari rispondono ai requisiti per l’adozione (stabile rapporto di coppia, idoneità all’adozione e differenza di età con l’adottato).
  2. Tutela della continuità affettiva. Continuità affettiva con gli affidatari (come ad esempio il diritto di visita) anche in caso di ritorno alla famiglia di origine e adozione o nuovo affido ad altra famiglia. Il giudice peraltro, nel decidere sul ritorno in famiglia, sull’adozione o sul nuovo affidamento dovrà ascoltare anche il minore.
  3. Più poteri in tribunale. Si ampliano i diritti degli affidatari: chi ha il minore in affido è legittimato a intervenire (c’è l’obbligo di convocazione a pena di nullità) in tutti i procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, affidamento e adottabilità relativi al minore. È poi prevista la facoltà di presentare memorie nell’interesse del minore.
  4. Adozione degli orfani. Accanto ai parenti (fino al sesto grado) e alle persone legate da un rapporto stabile preesistente alla perdita dei genitori, anche l’affidatario potrà ora chiedere l’adozione di un orfano. In tal caso l’adozione è consentita anche alle coppie di fatto e alle persone singole.

Sì alla continuità affettiva. Tutelati i minori in affido.

Sì alla continuità affettiva. Tutelati i minori in affido.

Con 385 voti a favore, due contrari e tre astenuti, la Camera ha approvato, ieri sera, in via definitiva, pressoché all’unanimità, la proposta di legge “Sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare”. Fortemente voluta dal Tavolo delle associazioni delle famiglie affidatarie (di cui fanno parte, tra gli altri, l’Anfaa e la Comunità Papa Giovanni XXIII), la legge prevede una sorta di “corsia preferenziale” per le famiglie affidatarie, nel caso il minore a loro affidato fosse dichiarato adottabile. Questo con l’obiettivo di «tener conto – si legge all’articolo 1 – dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria», se, naturalmente, ciò risponde «all’interesse del minore», la legge «tutela la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento», anche qualora «il minore faccia ritorno nella famiglia d’origine o sia dato in affidamento o in adozione ad altra famiglia

L’approvazione della legge è stata salutata con soddisfazione dall’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie (Anfaa), che dedica questa “vittoria” a «tutti i bambini che, a causa di un’erronea interpretazione della normativa, non hanno più potuto mantenere rapporti con gli affidatari che li avevano amorevolmente accolti e cresciuti per anni». Secondo Anfaa è anche «importante il riconoscimento, sancito espressamente da questa legge, del ruolo degli affidatari che i giudici minorili debbono necessariamente convocare, pena la nullità del provvedimento, prima di decidere sul futuro dei minori da loro accolti».

Paolo Ferrario           Avvenire         15 ottobre 2015

Quattro articoli rivoluzionari a garanzia dei più deboli.

Ci hanno lavorato per anni: prima la petizione promossa dalla Gabbianella, poi nel 2012 un documento intitolato “La tutela della continuità degli affetti dei minori affidati”. A firmarlo, le più autorevoli e stimate associazioni che hanno fatto dell’affido dei bambini in difficoltà la loro missione, da Cnca ad Anfaa, da Associazione Giovanni XXIII a Famiglie per l’accoglienza. Ieri quel progetto è diventato legge. Quattro articoli appena per una rivoluzione, che non è (o perlomeno non è solo) la possibilità data ai genitori affidatari di legittimare come figlio, in presenza dei requisiti, il bambino che divenga adottabile nel corso dell’affido. Questa è certamente una novità positiva, che «premia» la generosità di tante famiglie. Ma la rivoluzione non è (solo) questa.

L’asse portante della riforma è che i Tribunali devono garantire sempre la «continuità affettiva» dei bambini in difficoltà affidati a famiglie di supporto. A essere garantiti non sono dunque solo i minori che grazie a questa legge verranno adottati dai loro genitori-bis. Ad avvantaggiarsene saranno anche e soprattutto quelli che non resteranno nella casa in cui sono cresciuti per un tempo più o meno lungo: quella casa per loro non sarà mai cancellata, resterà sempre un luogo di relazioni forti. In molti casi questo già succedeva, in altri, troppi, no. Qualche Tribunale applicava il contrario, e cioè la pratica della “decantazione affettiva”: nel passaggio obbligato da una famiglia a un’altra, o nel ritorno alla famiglia di origine, si prevedeva un periodo in comunità, in modo che il bambino potesse “staccarsi” per poi ripartire con altri affetti, un’altra vita. Una pratica devastante, che trasformava i bambini in pacchi postali e che d’ora in poi non potrà più accadere. Si è detto che la riforma crea disparità tra le coppie, che potranno adottare i figli affidatari perché in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge (sposati, abbastanza giovani…), e i single, ai quali l’adozione resta preclusa. È una critica pretestuosa, che nasconde in molti casi altri intenti, tra cui quello del tutto improprio di arrivare a una modifica della stessa legge sull’adozione, con l’apertura ai singoli e di rimando alle coppie omosessuali. Ma l’affido non può essere un cavallo di Troia per altri scopi: non lo merita. Pretestuosa, ancora, perché i casi in cui i bambini vengono dichiarati adottabili in corso di affido sono davvero pochi. Pretestuosa, infine, perché proprio lo spirito della legge, il suo asse portante, è la continuità affettiva: chi ha cresciuto un bambino in un momento difficile della vita, sia anche un single o una coppia già anziana, non sarà escluso dal suo futuro. E comunque rimangono in vigore tutti gli altri istituti, compreso quello dell’adozione in casi particolari. Saranno i giudici a valutare, e si spera che, investiti da simili responsabilità, lo facciano considerando quello che è al centro, l’interesse superiore del minore. Si è detto che la possibilità di adottare altera e tradisce lo spirito gratuito e solidaristico che è connaturato all’affido fin dalla sua istituzione. È una preoccupazione infondata: le associazioni e gli operatori che si occupano di affido sanno che le famiglie che vi si accostano hanno motivazioni diverse dal legittimo “desiderio di un figlio” presente invece nel percorso adottivo: sanno di essere “famiglie in più”, “famiglie complementari”, “famiglie a tempo”. Ora hanno anche una certezza, abbiano o meno i requisiti per una eventuale adozione: non usciranno mai dalla vita dei bambini ai quali hanno provato ad aggiustare le ali.

Antonella Mariani     Avvenire         15 ottobre 2015

www.scienzaevita.org/…/si-alla-continuita-affettiva-tutelati-i-minori-in-af

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

I dati al 30 settembre 2015. Prosegue il calo delle adozioni internazionali: meno 10% rispetto al 2014

 

Una rondine non fa primavera. Gli incoraggianti dati relativi alle adozioni internazionali realizzate con Amici dei Bambini, che hanno fatto segnare un incremento rispetto al recente passato, non trovano conferma a livello nazionale. Non si è arrestato neppure nel terzo trimestre del 2015, infatti, il calo degli ingressi in Italia di minori stranieri adottati. Al 30 settembre 2015 si registra un ulteriore calo del 10% rispetto alla stessa data del 2014. A rivelarlo sono le proiezioni effettuate incrociando i dati pubblicati dagli Enti Autorizzati italiani sui rispettivi siti internet e quelli diffusi dalle Autorità Centrali dei Paesi di origine dei minori adottati. Proiezioni che devono essere lette sempre tenendo presente un margine di errore, in eccesso o in difetto, del 5%, oltre al fatto che non tutti gli enti rispettano l’obbligo di pubblicare sul proprio sito i dati sulle adozioni realizzate, come invece previsto dalle Linee guida della Commissione Adozioni Internazionali. Un metodo, quello delle proiezioni, che rappresenta però anche l’unico in grado di fornire una fotografia abbastanza attendibile della situazione delle adozioni internazionali in Italia, dal momento che la Cai non ha ancora pubblicato i report statistici relativi sia all’anno 2014 che al primo semestre 2015.

Le proiezioni rivelano che al 30 settembre 2015 i minori stranieri che hanno ottenuto l’autorizzazione all’ingresso in Italia sarebbero stati circa 1.250, il 10% in meno dei circa 1.400 che, sempre secondo le proiezioni, sarebbero stati adottati nei primi 9 mesi del 2014. Di questo passo, considerando che tradizionalmente gli ultimi mesi dell’anno hanno sempre fatto registrare un incremento degli ingressi, si può ipotizzare di arrivare a chiudere il 2015 con circa 1.800 minori stranieri adottati. Ovvero 200 in meno di quelli ipotizzati dalle nostre proiezioni per l’anno 2014. A conferma, quindi, di un calo del 10% rispetto all’anno scorso.

L’adozione internazionale, insomma, continua a vivere la crisi più grave della sua storia. Dopo il picco toccato nel 2010, con 4.130 bambini stranieri adottati nel nostro Paese, il crollo è stato repentino: 4.022 nel 2011, 3.106 nel 2012, 2.825 nel 2013, circa 2mila nel 2014. Se i dati forniti dalle proiezioni per il 2015 trovassero conferma alla fine dell’anno, vorrebbe dire che il numero dei minori adottati si sarebbe ridotto del 56% in soli 5 anni.

Analizzando i dati degli enti che hanno fatto registrare i risultati migliori, si evidenzia una certa tenuta dal confronto tra i dati aggiornati al terzo trimestre dell’anno in corso e quelli relativi all’intero 2014. È il caso, per esempio, del Cifa, con cui, nei primi 9 mesi del 2015, 173 coppie hanno adottato 187 bambini: dati in linea con quanto avvenuto nel 2014, quando vennero adottati 261 minori. Lo stesso vale per Ai.Bi. che al 15 ottobre ha fatto adottare 134 minori da 104 coppie, dati in prospettiva migliori a quelli del 2014 che si chiuse con 149 bambini adottati da 113 coppie. Sulla stessa linea il Ciai con 38 minori per 35 coppie (furono 51 per 44 coppie in tutto il 2014); l’Arai con 31 bambini per 26 coppie a inizio ottobre (24 minori per altrettante coppie nel 2014); lo Spai con 50 adottati per 43 coppie al 2 ottobre (78 bambini per 66 coppie l’anno scorso). Alcuni enti non hanno i dati aggiornati al 30 settembre, bensì a una data di poco precedente, ma la loro situazione non rivela forti cambiamenti rispetto agli altri enti citati. È così per il Naaa con cui, al 16 settembre, 66 coppie avevano adottato 84 minori, in linea con i 101 accolti in tutto il 2014. E ancora: Nidoli (al 31 agosto) ha 59 bambini per 52 coppie, mentre nel 2014 fece adottare 46 minori da 38 coppie. Anche Sos Bambino ha i dati aggiornati al 31 agosto: 50 minori adottati, mentre nel 2014 furono 90. Nadia (al 20 agosto): 60 bambini accolti da 53 coppie, rispetto ai 120 minori per 87 coppie dell’intero 2014. Un ente ha i dati aggiornati a una data successiva al 30 settembre: è Bambarco che al 7 ottobre aveva guidato 39 coppie all’adozione di 42 minori, mentre nei 12 mesi del 2014 64 coppie accolsero 69 minori.

Ai. Bi.  15 ottobre 2015                     www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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AFFIDO CONDIVISO

Se un genitore chiede di trasferirsi coi figli: tutti i criteri per il giudice.

I contrasti fra genitori separati in merito al trasferimento di residenza dei figli impongono al giudice di fare delle precise valutazioni prima di decidere sull’istanza del genitore collocatario; il Tribunale di Milano fornisce un elenco dettagliato dei criteri da seguire: possibile la revoca del provvedimento sull’affido e sulla collocazione della prole. Al giorno d’oggi non è infrequente che in una famiglia si ponga, per uno o l’altro dei genitori, l’esigenza (spesso dettata da opportunità lavorative) di trasferirsi in un’altra città.

Quando la coppia è unita è più facile che essa riesca ad gestire congiuntamente i molti problemi pratici che la cosa comporta, ma quando è in atto una separazione, la decisione viene assai spesso demandata al giudice: sono poche le coppie, infatti, che – se pur in regime di affido condiviso – riescono a gestire con senso di maturità e responsabilità simili circostanze e ad assumere di comune accordo le decisioni più rispondenti ai bisogni dei figli.

Il genitore è libero di trasferirsi ma. A riguardo va da subito chiarito che nessun tribunale ha il potere di impedire al genitore di trasferire la propria residenza in un diverso comune; ogni cittadino ha infatti una assoluta libertà di muoversi liberamente e scegliere dove abitare al fine di realizzare le proprie aspirazioni sociali e lavorative per come garantite dalle leggi nazionali ed internazionali. Il problema che, al contrario, si pone quando ci sono dei figli è se egli possa attuare tale trasferimento insieme a loro (in sostanza se essi debbano rimanere collocati o affidati a quel genitore).

In altre parole il Tribunale, posto dinanzi ad un’istanza del genitore che coabita con la prole (quantomeno in modo prevalente) di cambio di residenza di quest’ultima (cosiddetta “rilocazione del figlio”) ben potrebbe decidere di modificare i precedenti provvedimenti e – pur senza poter impedire il trasferimento al genitore – collocare i figli presso l’altro genitore o anche (nei casi più gravi) affidarli in via esclusiva a quest’ultimo, se tale soluzione appaia garantire maggiormente gli interessi dei minori. Sbaglia dunque quel genitore che, avendo già ottenuto un provvedimento del giudice di affidamento o collocamento della prole presso di sé, si ritenga libero di poter arbitrariamente attuare un cambio di residenza senza il consenso dell’ex.

In presenza di figli minori, infatti, il cambio di residenza deve essere sempre conosciuto ed approvato dall’altro genitore; in mancanza dovrà essere il giudice a decidere a seguito di una specifica istanza di modifica delle condizioni relative ai figli, e risultanti dal precedente provvedimento giudiziale.

Ove ciò non avvenga, l’allontanamento potrà essere punito:

-sia sul piano civile: il giudice potrà, infatti, modificare i provvedimenti in vigore e contestualmente ammonire il genitore inadempiente, disporre un risarcimento a suo carico e il pagamento di una sanzione amministrativa [Art. 709 ter cod. proc. civ.]);

-sia dalla legge penale in quanto, ove sia posto in essere in modo arbitrario e tale da impedire la frequentazione del figlio con l’altro genitore, esso integra il grave reato di sottrazione di minore e persona incapace [Art. 573 e 574 cod. pen.], anche quando sia compiuto col consenso del minore stesso.

A cosa deve mirare la decisione del giudice. Nel decidere sull’istanza di cambio di residenza del figlio minore, il giudice – pur disponendo di un’ampia discrezionalità – è tuttavia tenuto ad attenersi a specifici criteri, individuati e collaudati nella letteratura (nazionale internazionale) di settore riguardante la rilocazione a distanza dei figli. È quanto ha chiarito il Tribunale di Milano [ordinanza 12. 08.2014] con una pronuncia che torna ad utile riferimento per la loro individuazione in quanto – senza la pretesa di elencarli in modo esclusivo ed esaustivo (atteso che essi sono comunque strettamente legati alla singola fattispecie) – li individua nel dettaglio affinché essi guidino il magistrato nella pronuncia di un provvedimento che, nel rispetto della legge [Art. 337 ter cod. civ.]:

– sia adottato nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole;

– garantisca a quest’ultima il suo diritto a mantenere con entrambi i genitori un rapporto equilibrato e continuativo;

– permetta alla prole di conservare rapporti significativi con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

I criteri di valutazione del giudice. Ecco di seguito gli otto criteri individuati dal giudice meneghino:

  1. I motivi del trasferimento. Il giudice deve innanzitutto esaminare le ragioni che sono alla base del trasferimento del genitore presso cui sono collocati i figli (sia anche in modo prevalente): tali ragioni devono essere sostanziali e non basate (in via esclusiva) da occasioni lavorative più remunerative o dal fatto che il mutamento dell’ambiente sociale sia in grado di offrire all’adulto (e a lui soltanto) maggiore sicurezza rispetto a quella offerta dall’ambiente di attuale residenza. Nel caso di specie, ad esempio, la richiesta di trasferimento da parte della madre non aveva come scopo quello di ottenere migliori chance economiche o anche di progressione in carriera a discapito del proprio ruolo genitoriale, bensì era basata sulla più radicale esigenza di garantirsi la stabilità lavorativa (poiché la donna, insegnante precaria, sarebbe entrata in ruolo definitivo).
  2. Le garanzie di frequentazione genitore non collocatario/figli. Il magistrato, inoltre, deve valutare con quali tempi e modalità il genitore che intende attuare il trasferimento è in grado di garantire la frequentazione tra il genitore non collocatario e la prole: essi -sottolinea la pronuncia -devono essere realisticamente fattibili e non costringere il genitore ad uno stravolgimento delle proprie abitudini di vita o anche ad affrontare sforzi economici insostenibili o comunque sproporzionati ai propri redditi; nel caso in esame la non eccessiva distanza tra le due città (Novara e Ravenna) poteva consentire la frequentazione della minore (frequentante le scuole medie) col genitore non collocatario -anziché per intervalli settimanali – per interi week end e periodi di festività scolastica.
  3. La disponibilità del non collocatario a trasferirsi. D’altro canto, tuttavia, il giudice deve anche considerare la eventuale manifestata disponibilità dal genitore non collocatario anche al proprio trasferimento, con lo scopo di mantenere la propria funzione genitoriale: scelta che – evidenzia la pronuncia – certamente non può essere forzata ma che, ove non sia esclusa (in quanto razionale e possibile), permette al giudice:

– da un lato di valutare la volontà e capacità del genitore di mutare i propri riferimenti sociali e lavorativi con lo scopo di mantenere solido il legame con i figli.

– e dall’altro di accertare che la scelta al trasferimento del genitore collocatario non abbia come unico scopo quello di ostacolare (se non di danneggiare) il rapporto dei figli con l’altro genitore.

Nel caso di specie, ad esempio, appariva decisivo l’atteggiamento assunto in sede processuale dai due genitori: la donna, infatti, pur formulando con forte decisione la richiesta di avere con sé la figlia, non escludeva al contempo – seppur in via subordinata – che la minore fosse collocata presso il padre con articolazione dei tempi e dei modi di frequentazione. Al contrario il padre escludeva del tutto la possibilità di collocazione della figlia presso la madre, nella ferma convinzione che il miglior interesse per la minore fosse quello di rimanere nella città di attuale residenza. Atteggiamenti questi letti quale indice:

– da un lato di maggiore capacità della madre – in quanto verosimilmente legata in maggior misura alla quotidianità con la figlia – di cogliere maggiormente tutti gli aspetti sottesi dalla difficile decisione

– e dall’altro di mancanza da parte del padre di piena capacità di valutazione del problema nella sua complessità.

4. Le possibilità che il minore conservi i rapporti i parenti. Ancora, il magistrato deve verificare in che modo il trasferimento possa salvaguardare e garantire le relazioni del figlio con le altre figure familiari e affettive di riferimento (zii, nonni, ecc.) che definiscono l’identità familiare del minore, preservando la memoria e riconoscibilità delle proprie origini geografiche, sociali e culturali: è naturale che ove il minore non abbia mai coltivato rapporti significativi con queste ultime per il giudice non si porrà la necessità di garantire la conservazione di tale rapporto. Nel caso sottoposto all’esame del tribunale meneghino, il trasferimento della minore avrebbe comportato la possibilità di maggiore frequentazione (fino ad allora sacrificata) dei nonni materni in quanto residenti nella città di rilocazione.

 

5. Le possibili ripercussioni sul minore. Altro criterio di riferimento (e strettamente connesso al quello riguardante le ragioni del trasferimento) è costituito dalla valutazione – anche in prospettiva – da parte del magistrato dei possibili effetti del trasferimento sul figlio in relazione al suo necessario bisogno di stabilità ambientale, emotiva, psicologica e di relazione: allo scopo, il giudice avrà il compito di valutare se la richiesta di trasferimento del genitore possa o meno essere definitiva o anche soggetta alle continue esigenze del genitore collocatario.

6. Il nuovo contesto sociale e familiare. Ancora, il giudice deve analizzare le caratteristiche dell’ambiente sociale e familiare in cui il genitore collocatario (o affidatario) vuole trasferirsi rispetto a quelle del luogo di attuale residenza: si pensi da un lato alla profonda diversità esistente tra una circoscritta realtà di paese e quella di una città metropolitana e dall’altro all’eventualità che il minore possa contare comunque nella nuova realtà su figure di riferimento: nel caso di specie, ad esempio, il trasferimento non avrebbe comportato un cambiamento radicale per la minore in quanto si trattava di due contesti sociali assai simili (Novara-Ravenna) e per giunta la donna tornava a vivere nella realtà territoriale della propria famiglia d’origine e quindi la minore avrebbe comunque coltivato i rapporti con le figure parentali di riferimento materno.

7. L’età dei figli. Ulteriore parametro di riferimento per il magistrato è costituito dall’età della prole. Tanto più piccolo è il figlio, infatti, tanto più facilmente rischia di venire compromessa la sua possibilità di mantenere un significativo legame con il genitore non collocatario; ciò specie quando l’età della prole non abbia ancora consentito di sviluppare un legame significativo con uno o con entrambi i genitori (si pensi ad un bambino in tenerissima età che necessita di un rapporto quotidiano e –potremmo dire – epidermico per creare un contatto effettivo con i genitori): dunque, il giudice dovrà concentrare la sua analisi non soltanto sulle qualità della rapporto già in atto, ma anche su quelle potenziali di suo sviluppo. Nel caso in esame si trattava –come accennato – di minore in età adolescenziale la quale aveva manifestato di avere un legame radicato anche con il padre.

8. Le dichiarazioni del minore. Altro elemento di sostanziale importanza nella decisione in esame è rappresentato dalla volontà al trasferimento eventualmente espressa da minore in sede di ascolto [Art. 337 octies cod. civ.]: tanto più grande è il figlio, infatti, tanto più elevato potrà ritenersi il suo livello di maturazione e di sviluppo psicofisico: ad un approfondimento a riguardo alle nostre guide: nel caso di specie, peraltro, la figlia, in sede di ascolto pur esprimendo il suo sano timore all’idea di un cambiamento radicale di vita, non aveva escluso l’idea di poterlo attuare.

La decisione del giudice. Appare utile – al fine di comprendere, in concreto, in che modo i su elencati criteri possano guidare il giudice nella sua decisione – un richiamo allo specifico provvedimento assunto dal tribunale meneghino: esso, confermando l’affidamento condiviso della minore ad entrambi i genitori, riteneva tuttavia di dover mantenere il prevalente collocamento della figlia presso la madre, autorizzando il trasferimento della fanciulla nella nuova residenza materna e la sua iscrizione nella realtà scolastica del luogo. Il tribunale, infatti, riteneva che, esaminata ogni circostanza, si potesse individuare nella madre la figura genitoriale di più sicuro riferimento, in grado, cioè, di esplicare una più sicura funzione accuditiva, anche mettendosi criticamente in discussione.

            Quanto ai timori del trasferimento (ma non al rifiuto) espressi dalla minore, la pronuncia evidenzia la necessità che essi vengano consegnati:

– da un lato alla piena e cosciente responsabilità di entrambi i genitori, i quali dovranno mostrarsi in grado di gestire e, quindi, non strumentalizzare, la paura del “del nuovo” espressa dalla figlia

– e dall’altro ai Servizi Sociali competenti nella nuova città di residenza, i quali avranno il compito di monitorare e sostenere l’inserimento della minore nel nuovo contesto sociale e scolastico.

Maria Elena Casarano          LpT     14 ottobre 2015

www.laleggepertutti.it/99164_se-un-genitore-chiede-di-trasferirsi-coi-figli-tutti-i-criteri-per-il-giudice

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CASA FAMILIARE

                        Separazione: casa alla donna anche per i conviventi non sposati.

            Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 18194, 11 settembre 2015.

            L’assegnazione della casa coniugale al coniuge presso cui siano allocati i figli prevale anche sui terzi acquirenti, qualora il proprietario dell’immobile lo abbia venduto prima della sentenza del giudice.

            La casa coniugale o, in caso di convivenza di fatto, quella in cui la coppia ha convissuto, va a finire al genitore al quale il giudice ha “affidato” i figli, anche se questi non è il proprietario dell’immobile: la regola che vuole l’assegnazione del tetto domestico solo in funzione degli interessi della prole si applica, infatti, non solo alla coppia sposata, ma anche a quella di fatto (conviventi). Lo ha chiarito, ancora una volta, la Cassazione con una recente sentenza.

            Lo scopo dell’assegnazione della casa non è quello di costituire una sanzione o un premio in danno o in favore di uno dei due partner, ma serve unicamente a garantire ai figli – sia a quelli nati all’interno del matrimonio, sia a quelli nati fuori – di poter crescere nello stesso habitat domestico.

            Non solo. Se il proprietario dell’immobile, nel frattempo, e prima della sentenza del giudice, ha venduto l’immobile a un terzo, l’acquisto di quest’ultimo deve cedere il passo all’assegnazione fatta dal giudice. In pratica, tra l’acquirente – che ha anche versato un acconto sul prezzo – e l’ex coniuge/partner, prevale quest’ultimo, anche se non ha trascritto la sentenza di assegnazione per nove anni.

            Con un principio che potrebbe essere estremamente pregiudizievole per cui acquista un appartamento da una coppia in prossimità di separarsi, la Suprema Corte stabilisce che la destinazione dell’abitazione a casa familiare (e quindi l’assegnazione al coniuge presso cui viene allocata la prole) è opponibile e va tutelata persino quando la vendita dell’immobile sia avvenuta prima dell’emanazione della sentenza di assegnazione.

            Con una riforma varata nel 2006, la legge sull’affido condiviso ha fatto sì che la disciplina dell’assegnazione della casa coniugale, prevista in precedenza solo per le ipotesi di separazione dei coniugi e di divorzio, si possa applicare anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati [Art. 4, co. 2, L. 54/2006. Attualmente, inoltre, in forza delle modifiche di cui al decreto 154/2013, in materia di unificazione dello stato di figlio, la disciplina dell’assegnazione della casa coniugale è contenuta nell’art. 337-sexies cod. civ. applicabile, ai sensi dell’art. 337-bis cod. civ., anche nel caso di figli nati fuori del matrimoni].

            Secondo la Cassazione non ha alcuna importanza il fatto che la vendita sia avvenuta in un momento antecedente al provvedimento di assegnazione in quanto la convivente aveva già da tempo assunto la qualità di detentore qualificato dell’immobile ed era indiscussa la destinazione a casa familiare impressa dal proprietario stesso.

            Insomma, l’orientamento della giurisprudenza, in caso di separazione tanto della coppia sposata, quanto di quella di fatto, è di dare massima tutela alla relazione che si crea tra i figli e l’immobile e, quindi, garantire a questi ultimi di continuare a vivere nello stesso ambiente domestico. E il concetto di famiglia viene così allargato, ormai in modo simmetrico, anche ai conviventi. Anche a discapito di terzi acquirenti. Il problema, però, per questi ultimi, potrebbe essere, da oggi in poi, verificare che la coppia sia “perfettamente funzionante” e non si respiri aria di crisi coniugale.

                              Redazione di LpT                       13 ottobre 2015

www.laleggepertutti.it/99060_separazione-casa-alla-donna-anche-per-i-conviventi-non-sposati

sentenza                    www.studiocataldi.it/articoli/19441-cassazione-la-casa-va-all-ex-convivente-che-vive-con-i-figli-anche-se-non-proprietario.asp

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                                            CENTRO ITALIANO DI SESSUOLOGIA

            Dalla Lettura della Domanda Sessuologia alla Consulenza Sessuale

Sono aperte le iscrizioni per il Corso di Sessuologia per la Consulenza sessuale che partirà il prossimo 20 novembre 2015. Il corso intende far assumere abilità relazionali e competenze diagnostiche necessarie alla conduzione del Primo Colloquio in ambito sessuologico e strumenti di intervento di sex-counseling che consentano di strutturare una relazione d’aiuto.

Privilegiando l’ambito consulenziale il corso è rivolto a medici, psicologi, consulenti familiari, educatori e operatori della salute che si trovano nella loro pratica professionale a confrontarsi con i temi della salute sessuale della persona. Al termine del percorso formativo è possibile richiedere il nullaosta per l’iscrizione al Registro FISS dei Consulenti Sessuali.

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CHIESA CATTOLICA

Rivalutare la tenerezza.

Recentemente è stato edito il volume I vangeli, tradotti e commentati da quattro bibliste (2015), un’opera che tra l’altro vuole mostrare come siano possibili una traduzione e un commento “altri” rispetto alla maggior parte di quelli già esistenti. Credo sia più che accettabile l’ipotesi che una donna biblista commenti la Scrittura in modo altro rispetto agli uomini; più discutibile, forse, è che anche la sua traduzione sia altra. E tuttavia mi pare significativo che siano proprio delle donne bibliste a insistere, per esempio, sul fatto che il termine ebraico tradotto nelle lingue neolatine con “misericordia” possa essere reso con “tenerezza”.

            In verità il vocabolario ebraico dell’amore è molto ricco (chen, chesed, rechem/rachamim) termini che a volte si influenzano reciprocamente e mescolano i loro significati), anche se va riconosciuto che nella traduzione dall’ebraico al greco e poi al latino della Vulgata questa varietà lessicale si è progressivamente condensata intorno al termine “misericordia”. Le attuali versioni bibliche – e mi riferisco soprattutto a quella a cura della CEI pubblicata nel 2008 – seguono questa tradizione, anche se da qualche tempo si sono levate voci che chiedono di rendere rachamim con “tenerezza”, caldeggiando di conseguenza lo sviluppo di una teologia biblica della tenerezza di Dio. Poiché rechem/rachamim designa un movimento intimo, istintivo, causato da un fremito di amore che diventa com-passione, soffrire con, sensibilità; e poiché si tratta di un sentimento materno, che nasce dalle viscere, dalle interiora della madre, allora sembrerebbe più indicato tradurre con tenerezza invece che con misericordia, “cuore per i miseri”. Occorre anche riconoscere che spesso si comprende la misericordia non nella sua autentica portata biblica, ma la si equivoca come un termine che designerebbe un sentimento di pietà, dall’alto in basso (come d’altronde può avvenire anche con il termine “compassione”). Nel contempo, però, anche il concetto di tenerezza non è esente dai medesimi rischi, soprattutto quando si usa l’aggettivo “tenero”, che può assumere connotazioni sdolcinate: dire che qualcuno è tenero, spesso suona inadeguato a definire la sua capacità di affetto e di com-passione. Può essere anche utile ricordarne l’etimologia: “tenerezza” viene dal latino tenerum, che significa “di poca durezza, che acconsente al tatto”, dunque “sensibile”; ed è significativo che in alcuni dizionari lo si accosti, in senso figurato, a “sdolcinato”, addirittura a “effeminato” (si veda il vocabolario etimologico della lingua italiana di O. Pianigiani).

            Queste precisazioni lessicali sono necessarie per interpretare con fedeltà il pensiero di papa Francesco, che indubbiamente ha immesso nel magistero pontificio il termine “tenerezza”, con immediate ricadute nel linguaggio spirituale ed ecclesiale. Fin dall’omelia di inizio del pontificato (19 marzo 2013), Francesco ha affermato: “Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!”. Nella sua predicazione si serve spesso di questo termine, a commento dei testi più diversi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013) parla per ben 11 volte di tenerezza, ricorrendo a questa parola in modo sempre pensato, con molto discernimento. Parla di “tenerezza combattiva contro gli assalti del male” (§ 85), di “infinita tenerezza del Signore” (§ 274), di “tenerezza” come “virtù dei forti” (§ 288), di “forza rivoluzionaria della tenerezza” (ibid.), avendo coscienza che la tenerezza è appunto una virtus, una forza attiva e pratica, non solo un sentimento. Arriva a scrivere che “Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza” (§ 88).

Perché questa insistenza sulla tenerezza? Perché la vita è un duro mestiere, perché i rapporti oggi si sono fatti duri, senza prossimità, anaffettivi, e gli uomini e le donne del nostro tempo sentono soprattutto il bisogno di tenerezza. Tenerezza come sensibilità, apertura all’altro, capacità di relazioni in cui emergano l’amore, l’attenzione, la cura. La tenerezza – lo ribadisco – non è un sentimento sdolcinato, ma è vero che soprattutto gli uomini, debitori di una cultura dell’uomo forte, solido, che sa sempre usare la ragione a costo di non ascoltare il cuore, di una cultura diffidente verso le emozioni, non hanno coltivato in passato e forse non coltivano nemmeno oggi questa straordinaria virtù. Per questo il papa esorta a non aver paura della tenerezza e denuncia: “Quanto bisogno di tenerezza ha oggi il mondo!” (Omelia della notte di Natale, 2014).

A ben vedere, la tenerezza è davvero ciò che oggi più manca. Quante relazioni tra sposi o amanti vengono meno, vedono depotenziarsi la passione oppure finiscono per essere affette da violenza e cosificazione dell’altro, proprio perché manca la tenerezza; quante relazioni di amicizia ingrigiscono perché non si è capaci di rinnovare il legame con la tenerezza; quanti incontri non sbocciano in relazione per mancanza di tenerezza… Ecco perché la tenerezza deve vedersi ed essere riconosciuta su un volto: altrimenti il volto diventa rigido, duro, inespressivo!

Se la tenerezza è un sentimento di viscere materne, allora sta anche per misericordia, e per questo Francesco spesso le accosta. In ciò è fedele alle sante Scritture, che ci forniscono immagini straordinarie, veri e propri “elogi delle carezze di Dio”. Basti pensare alla vicenda di Osea, profeta che ama perdutamente la sua donna, prostituta e adultera: vuole attrarla a sé, nonostante le sue infedeltà, vuole portarla nel deserto, in un luogo appartato, per poterle parlare nell’intimità “cor adcor” (cf. Os 2,16). Non solo, ma quando Osea deve descrivere l’amore di Dio per il suo popolo, parla di un Dio che attira a sé con legami di bontà, con vincoli d’amore, come un padre che solleva il proprio bimbo portandoselo alla guancia, guancia a guancia (cf. Os 11,4), in un esercizio di reciproca sensibilità tattile che racconta la dolcezza dell’amore. E Isaia ci consegna con audacia l’immagine di un Dio dai tratti materni, che allatta, porta in braccio, accarezza e consola il proprio figlio (cf. Is 66,12-13), figlio che non potrà mai dimenticare né abbandonare (cf. Is 49,14-15). Da questi testi l’amore di Dio è rivelato innanzitutto come tenerezza, quella che Dostoevskij ha definito “la forza di un amore umile”.

Proprio perché la tenerezza è misericordia, quando è stata praticata e narrata da Gesù, essa ha suscitato scandalo. È il papa stesso a dirlo: “Per Gesù ciò che conta, soprattutto, è raggiungere e salvare i lontani, curare le ferite dei malati, reintegrare tutti nella famiglia di Dio. E questo scandalizza qualcuno! E Gesù non ha paura di questo tipo di scandalo! Egli non pensa alle persone chiuse che si scandalizzano … di fronte a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica” (omelia del 15 febbraio 2015, VI domenica del tempo ordinario, su Mc 1,40-45). Ma a prescindere dall’uso della terminologia della misericordia, la tenerezza di Gesù è visibile nel suo comportamento abituale: quando, incontrando i bambini, rimprovera i discepoli che vorrebbero tenerli distanti (cf. Mc 10,13-16 e par.); quando si lascia accarezzare dalla donna peccatrice (cf. Lc 7,37-38) o da quella che gli unge di profumo la testa (cf. Mc 14,3; Mt 26,7) o i piedi (cf. Gv 12,3); quando si commuove alla vista della folla sbandata, simile a un gregge senza pastore (cf. Mc 6,34; Mt 9,36); quando, dopo la resurrezione, chiama per nome “Maria”, la Maddalena che lo cerca piangente (cf. Gv 20,16). Gesù “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), cioè dolce e umile di cuore, pieno di tenerezza e umile di cuore: questo dovremmo comprendere di lui, e se a volte i vangeli ce lo presentano in collera, non dobbiamo dimenticare che questa è l’altra faccia della sua com-passione. Solo chi conosce la com-passione, infatti, può ricorrere alla collera e così dichiarare la sua non indifferenza di fronte alla sofferenza. Nei vangeli non sta scritto che Gesù abbia accarezzato qualcuno, se non i bambini (cf. Mc 10,16; Mt 19,15); eppure io sono convinto che avesse l’arte della carezza, che abbia accarezzato qualche volto dei discepoli, qualche volto in lacrime, qualche volto in preda alla sofferenza per la malattia.

La tenerezza è un aspetto della misericordia, è la misericordia che si fa vicinissima fino a essere una carezza, un prendere la mano dell’altro nella propria mano, un asciugare le lacrime sugli occhi dell’altro: la tenerezza è misericordia fatta tatto e la misericordia, a sua volta, è una carezza. Dicono che questo papa non si fa vedere, ma piuttosto si fa toccare. C’è una verità in questo giudizio, perché Francesco sa mostrare la sua tenerezza: e chi sente la mancanza di tenerezza va da lui, non tanto per vederlo, ma sperando di essere da lui abbracciato con tenerezza.

            Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose            Avvenire, 14 ottobre 2015

www.avvenire.it/Cultura/Pagine/rivalutare-tenerezza-dio-carezze.aspx

                                                         Sinodo: veri e falsi problemi.

La vicenda, allo stesso tempo grave e grottesca, della misteriosa lettera e dei suoi sfuggenti firmatari contro il metodo del Sinodo sulla famiglia – ma che in realtà mette in dubbio la legittimità dell’orientamento teologico di papa Francesco, come ha giustamente osservato Massimo Faggioli – fa venire alla luce percezioni vere e false su questo avvenimento ecclesiale.

C’è un falso problema: il Sinodo come battaglia per cambiare o mantenere la dottrina sul matrimonio, che corrisponde a una certa visione teologica e di chiesa, di cui la questione della comunione ai divorziati risposati sarebbe un po’ la trincea. Si tratta di un falso problema perché se anche i paladini dell’intransigenza trionfassero, non cambierebbe assolutamente nulla: la gente continuerebbe a non sposarsi in chiesa, a convivere, a divorziare… Fissare la chiesa cattolica in un’immagine immobile, in un’eterna ripetizione dell’identico, può servire a qualcuno solo a mantenere un proprio potere dentro l’istituzione, ponendosi come arbitri del cattolicesimo. Nel mondo, la stragrande maggioranza delle persone non si sente più soggetta a un’autorità religiosa. Chi la sente come una realtà pesante, semplicemente se ne va, prescinde da essa, vive senza.

Le persone possono, invece, imparare a fidarsi della comunità cristiana quando la percepiscono come uno spazio di relazioni accoglienti, liberanti, aperte. Come è avvenuto per chi ha incontrato Gesù. Che non significa dire di sì a tutto, in una sorta di lassismo, e rottamare la famiglia. Significa che il messaggio cristiano su matrimonio e famiglia ha senso se aiuta le persone a credere all’amore e ad amare meglio. Non in base a delle norme, ma con gesti e parole che riconoscono il buono che c’è nelle persone e nella loro storia e le aiutano a svilupparlo.

Ecco il vero problema del Sinodo: essere una chiesa che è madre e non matrigna, essere cristiani che guardano la trave nel proprio occhio prima della pagliuzza in quello altrui, lasciarsi educare dalla misericordia di Dio che condona il debito di chi non può pagare, vedere negli altri la capacità di amare e le sofferenza, prima che il peccato, e le onora, curare le ferite. Tutto questo richiede non di abolire la dottrina, ma di rileggerla dentro il paradigma di una teologia delle relazioni “in” Dio e delle relazioni “di” Dio che è ben diversa da una teologia che rispecchia un “ordine” di cristianità ormai tramontato nella quale conta la corrispondenza a una forma. Le relazioni sono vitali, multiformi, si costruiscono nel flusso del vivere e nella varietà; l’ordine è un concetto che fissa un forma rigida come l’unica possibile e la identifica con un’ontologia. A una certa impostazione teologica corrisponde un modo di intendere la chiesa, i sacramenti, l’etica.

Ma tutto questo richiede anche di prendere sul serio la famiglia. Non solo di farne l’oggetto di tanti discorsi, come se fosse una bandiera da sventolare. Se il valore e la dignità del sacramento del matrimonio – e della realtà che esprime – sono pari a quella del sacramento dell’ordine, allora la chiesa non può avere un “motore” solo, una struttura solo gerarchica, deve avere una struttura gerarchica e famigliare. C’è un ministero degli sposi che non vale solo in casa, ma anche nella comunità cristiana. Allo stesso tempo, prendere la famiglia sul serio significa non idealizzarla, ma vederla nella sua realtà fatta anche di miserie, di povertà, di disagi. Non basta essere sposati in chiesa per essere nella famiglia “giusta” e “vera” (in base alla forma). Ci si sposa in chiesa per diventare famiglia, perché si vuole essere evangelizzati, essere educati da Gesù ad amare gratuitamente. Il sacramento del matrimonio non è uno “stato” in cui bisogna rimanere, una condizione da preservare guardando indietro, ma un cammino da intraprendere guardando avanti. L’indissolubilità è un dono da ricevere, più che un vincolo.

                                          Christian Albini, teologo laico, 13 ottobre 2015

http://sperarepertutti.typepad.com/sperare_per_tutti/2015/10/sinodo-veri-e-falsi-problemi.html

                Cavalcoli: la comunione ai risposati non è questione dottrinale ma disciplinare.

«Il concedere o non concedere la comunione entra nel potere della pastorale della Chiesa e nelle norme della liturgia, che sono stabilite dalla Chiesa secondo la sua prudenza», l’eventuale ammissione a determinate condizioni e in determinati casi dei divorziati risposati ai sacramenti non tocca la dottrina né la sostanza del matrimonio e dell’eucaristia. Lo afferma in questa intervista con Vatican Insider il domenicano padre Giovanni Cavalcoli, filosofo metafisico e teologo dogmatico, docente emerito di metafisica nello Studio filosofico domenicano di Bologna e di Teologia dogmatica nella Facoltà teologica di Bologna, membro ordinario della Pontifica accademia di teologia e condirettore della rivista telematica l’Isola di Patmos (isoladipatmos.com).

        C’è chi afferma che qualsiasi cambiamento nella disciplina sacramentale riguardante i divorziati risposati rappresenterebbe un’«eresia» o comunque un attacco al cuore della dottrina dell’indissolubilità matrimoniale. È così?

        «La disciplina dei sacramenti è un potere legislativo che Cristo ha affidato alla Chiesa, affinché essa, nel corso della storia e nel variare delle circostanze, sappia amministrare i sacramenti nel modo più conveniente e più proficuo alle anime e nel contempo nel rispetto assoluto alla sostanza immutabile del sacramento, così come Cristo l’ha voluta. L’attuale disciplina che regola la pastorale e la condotta dei divorziati risposati è una legge ecclesiastica, che intende conciliare il rispetto per il sacramento del matrimonio, la cui indissolubilità è un elemento essenziale, con la possibilità di salvezza della nuova coppia. La Chiesa non può mutare la legge divina che istituisce e regola la sostanza dei sacramenti, ma può mutare le leggi da lei emanate, che riguardano la disciplina e la pastorale dei sacramenti. Dobbiamo quindi pensare che un eventuale mutamento dell’attuale regolamento sui divorziati risposati, non intaccherà affatto la dignità del sacramento del matrimonio, ma anzi sarà un provvedimento più adatto, per affrontare e risolvere le situazioni di oggi».

        Concedere, in determinati casi e a determinate condizioni (per esempio dopo un percorso penitenziale, o nel caso del coniuge abbandonato ecc.) la comunione ai divorziati che vivono una seconda unione tocca la disciplina o la sostanza del sacramenti del matrimonio e dell’eucaristia?

        «Tocca chiaramente la disciplina e non la sostanza. Per un cattolico è assolutamente impensabile che un sinodo sotto la presidenza del papa possa compiere un attentato alla sostanza di qualunque sacramento. Il concedere o non concedere la comunione entra nel potere della pastorale della Chiesa e nelle norme della liturgia, che sono stabilite dalla Chiesa secondo la sua prudenza, che è sempre rispettabile, benché non infallibile. Da qui il mutamento o l’abrogazione delle leggi della Chiesa».

        Lei ha scritto: il dogma non può cambiare mentre le disposizioni pastorali possono mutare. Che cosa significa, nel caso in questione?

        «Significa che la Chiesa in varie occasioni solenni, per esempio al concilio di Trento o al concilio Vaticano II, o nell’insegnamento di alcuni papi, come Pio XI o san Giovanni Paolo II, ha definito autorevolmente l’essenza del sacramento del matrimonio e dell’eucaristia. È chiaro che questi insegnamenti, che riflettono la stessa Parola di Dio, così come ci è stata insegnata dal divino Maestro, non possono mutare. Invece, lo stabilire le circostanze, le condizioni, il come, il dove, il quando, l’a chi amministrare i sacramenti, Cristo lo ha affidato alla responsabilità dell’autorità ecclesiastica nelle leggi canoniche, come nelle direttive e norme pastorali o disciplinari a tutti i livelli, dal Papa, alla Santa Sede, fino ai vescovi. La Chiesa, quindi, è infallibile quando riconosce, codifica e interpreta la legge divina, si tratti della legge morale naturale o rivelata; ma nel momento in cui emana leggi, che ne dispongono la loro applicazione nella varietà o accidentalità delle circostanze storiche o in casi particolari, queste leggi assumono un valore semplicemente contingente, relativo e temporaneo, per cui, al sopravvenire di nuove circostanze o per una migliore conoscenza della stessa legge divina, richiedono di essere mutate, abrogate, corrette o migliorate, s’intende sempre per una nuova disposizione dell’autorità.

        La legge ecclesiastica dà determinatezza all’indeterminatezza della legge divina, si fonda su di essa e ne è una conseguenza nell’ordinare la prassi concreta. Tuttavia il suo nesso con la legge divina non ha la necessità logica assoluta che possiedono, in un sillogismo, le conseguenze rispetto alle premesse, sicché un mutamento nelle conclusioni comporterebbe un mutamento e quindi una falsificazione nelle premesse o nei principi. Invece il detto nesso è solo di convenienza, per quanto in coerenza e armonia con la legge divina, in modo simile a quello che si può dare tra una meta e i mezzi per conseguirla. La meta può essere fissa e irrinunciabile, ma i mezzi possono mutare ed essere diversi. La legge della Chiesa è un mezzo per applicare la legge di Cristo. Questa è assoluta e immutabile; la legge della Chiesa, per sua stessa natura e per volontà di Cristo, per quanto illuminata e animata dalla fede, resta pur sempre una legge umana, con i limiti propri di questa. Occorre quindi rispettare scrupolosamente la natura di questo nesso, evitando da una parte la rigidezza di un conservatorismo rigorista, che rifiuta il cambiamento della legge ecclesiastica in nome dell’immutabilità della legge divina e, dall’altra, il modernismo storicista e lassista, che, col pretesto della mutabilità della legge ecclesiastica e del suo dovere di tener conto della modernità e della debolezza umana, annacqua e relativizza la legge del Vangelo».

        Leggendo alcune affermazioni anche in relazione al dibattito sinodale, si ha l’idea che la Tradizione venga quasi ipostatizzata e fissata come fosse un testo immutabile, sulla base del quale ci si arroga poi il diritto di giudicare tutti, compreso il papa, facendogli l’esame di «cattolicità». Può spiegarci che cos’è la Tradizione?

        «La Sacra Tradizione, come dice la parola, è la trasmissione orale e fedele del dato rivelato, è la predicazione apostolica della Parola di Dio nel corso della storia, è un Magistero vivente, assistito dallo Spirito Santo, trasmissione che Cristo ha affidato agli apostoli e ai loro successori sotto la guida di Pietro, di generazione in generazione, fino a oggi, fino a Papa Francesco e fino alla fine del mondo. La Sacra Tradizione, insieme con la Sacra Scrittura, è la fonte della Rivelazione, ossia della dottrina della fede cattolica, riassunta dal Credo, che ci viene interpretata e insegnata dal Magistero della Chiesa sotto la guida del Papa. Certamente la Tradizione contiene la dottrina immutabile del Vangelo ed è criterio assoluto della verità della fede, ma insieme e congiuntamente alla Scrittura nell’interpretazione che ne dà la Chiesa sotto la guida di Pietro. Non è quindi lecito il metodo di certi cattolici di appellarsi direttamente alla Tradizione per criticare il Magistero del Papa e della Chiesa, come per esempio le dottrine del Concilio Vaticano II, perché il Magistero della Chiesa, per volere stesso di Cristo, è custode supremo, infallibile e insindacabile della Tradizione e quindi non ha senso voler correggere il Papa o il Magistero in nome della Tradizione, la quale, per la scorrettezza di questa operazione, viene con ciò stesso falsificata. Inoltre, bisogna tener presente che i dati della Tradizione sono certo in se stessi immutabili, essendo Parola di Dio; ma la Chiesa e quindi tutti noi sotto la guida della Chiesa stessa, per esempio dei Concili, progrediamo verso una sempre migliore conoscenza di quei medesimi dati. E quindi, in tal senso, si può e si deve parlare, come disse il beato Paolo VI, di uno “sviluppo” della Tradizione, che non ha nulla a che vedere con un impensabile mutamento o cambiamento di senso dei suoi contenuti, ma si riferisce solamente al progresso della conoscenza che ne abbiamo».

        Può fare degli esempi di approfondimenti avvenuti nel corso della storia della Chiesa che hanno mutato la disciplina sacramentale o sviluppato la dottrina sul matrimonio e la famiglia?

        «Per quanto riguarda il sacramento della penitenza, la Chiesa è passata dalla prassi dei primi secoli di una sola celebrazione nel corso della vita, alla raccomandazione attuale della confessione frequente, che risale alla riforma tridentina. Nei primissimi secoli le seconde nozze erano sconsigliate. Nel secolo XVII il sacramento dell’ordine non poteva esser conferito a soggetti di razza mista. La pratica comune della comunione quotidiana risale solo ai tempi di San Pio X. Fino ai tempi di San Pio X esisteva la figura giuridica dell’”haereticus vitandus”. Il Magistero presenta per la prima volta l’atto coniugale come “segno e incentivo all’amore” solo nella Humanae vitae di Paolo VI. Gli impedimenti giuridici al matrimonio in passato erano diversi da quelli di oggi. Paolo VI ha abolito i cosiddetti “ordini minori”, un tempo necessari per accedere al sacerdozio. Solo con la riforma conciliare alle donne sono consentiti ministeri liturgici un tempo riservati solo agli uomini. Fino alla riforma conciliare, il sacramento dell’unzione degli infermi, detto significativamente “estrema unzione”, veniva dato solo ai moribondi. Oggi è sufficiente l’anzianità avanzata o la malattia grave, per cui può essere facilmente reiterato. Il papa stesso col suo recente motu proprio ha modificato il regolamento delle cause di nullità del matrimonio».

        La condizione del divorziato che vive una seconda unione è di per sé peccaminosa?

        «Non esistono “condizioni peccaminose”, perché il peccato è un atto, non è una condizione, né è uno stato permanente. L’atto del peccato può essere prolungato nel tempo, come può avere per sua essenza una durata temporale (per esempio un furto in una banca); ma, trattandosi di un atto della volontà, può essere interrotto in qualunque istante e comunque cessa entro un certo lasso di tempo, una volta che l’atto è compiuto.Quello che è permanente in noi per tutta la vita, anche nei migliori, è la tendenza a peccare, conseguenza del peccato originale, per la quale pecchiamo spesso almeno leggermente o venialmente. Ma questa tendenza, con la grazia divina e la buona volontà può, entro una certa misura, esser limitata o tenuta a freno, così da poter evitare almeno il peccato mortale. Il problema dei divorziati risposati è che l’adulterio, con l’aggravante del concubinato, è peccato mortale. Per cui è molto facile che la coppia, unendosi, cada in peccato mortale. Tuttavia è possibile il caso di una coppia, che si trovi in una situazione oggettiva e insuperabile, dalla quale, per vari motivi, non possa uscire per tornare allo stato precedente: per esempio, il coniuge precedente ha figli con un altro, o la nuova coppia ha figli. Certo, dopo l’atto del peccato, se non interviene il rimprovero della coscienza e il pentimento, anche cessato l’atto, resta uno stato di colpa. In questo caso la volontà resta deviata e ha bisogno di essere raddrizzata, cosa che può e deve fare la stessa volontà, sotto l’impulso della grazia. E questo può essere ottenuto grazie al perdono divino, quale che sia la situazione oggettiva, nella quale si trova il peccatore, fosse pure quella del divorziato risposato. Esistono a volte condizioni nelle quali è facile peccare, perché costituiscono forti spinte od occasioni praticamente inevitabili di peccato. Tra le condizioni di questo tipo c’è certamente quella dei divorziati risposati, i quali vivono in un’unione adulterina, legati uno dei due o tutti e due, come si suppone, a un precedente legittimo matrimonio. In passato la Chiesa ha dato diposizioni pastorali atte a consentire a queste coppie di mantenersi in grazia di Dio, pur essendo escluse dai sacramenti. Esse possono ottenere il perdono dei peccati direttamente da Dio, anche senza accedere al sacramento della penitenza. Oggi la questione dibattuta è se il consentir loro di accostarsi alla santa Comunione può servire a loro per l’aumento della grazia e la difesa contro il peccato, oppure se può crear scandalo e turbamento tra i fedeli».

        Nella relazione introduttiva del Sinodo tenuta dal cardinale Erdö si è citato l’Instrumentum laboris là dove si distingue tra malizia oggettiva – o difformità tra il progetto di Cristo – e le contingenze che diminuiscono l’imputabilità dell’atto. Potrebbe essere questa una via per arrivare a delle concessioni non come legge generale ma come attenzione ai casi particolari?

        «Sì, in quanto, nell’ipotesi da verificarsi con attenzione, che la coppia si trovi in una situazione del tipo di cui parlavo nella risposta precedente, i due sarebbero esposti in continuazione alla pressione di un’occasione o spinta inevitabile del peccato; per cui si potrebbe ammettere certamente l’esistenza della colpa soggettiva, oltre alla malizia oggettiva del peccato, ma con attenuazione dell’imputabilità a causa della forte occasione inevitabile, che vince la resistenza di una buona volontà contraria. Per cui il volontario, tipico dell’atto peccaminoso, in questo caso resta diminuito a causa della forza soverchiante della tentazione. Naturalmente anche nell’ipotesi di imputabilità attenuata, anche questa colpa dev’essere espiata grazie a un continuo e perseverante cammino di conversione e di penitenza, che potrebbe essere indicato dalla Chiesa stessa».

        Andrea Tornielli            Vatican Insider                      16 ottobre 2015.

http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-43987/

                                   Carlo Maria Martini al Sinodo: che cosa avrebbe detto?

Nel dibattito che si sta sviluppando con sempre maggiore intensità nel Sinodo le parole dei Padri sinodali testimoniano della forza e della bellezza del confronto ecclesiale, che porta tutti coloro che entrano nel confronto a fare esperienza di ascolto e di conversione. Non solo a cambiare le risposte, ma anche a formulare diversamente le domande. Riporto qui un brano dell’ultima intervista del Card. Martini, che ho citato come spunto per scrivere il mio testo raccolto nel bel volume curato da Marco Vergottini: Martini e noi (Piemme). Può essere utile a tutti, soprattutto in questo ricco passaggio sinodale, confrontarsi con la forza del suo domandare e con la libertà del suo rispondere.

Domandare con autorità, rispondere con libertà. “Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale… La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?”

In questo brano dell’ultima intervista di Carlo Maria Martini appaiono in modo luminoso alcune caratteristiche speciali del suo magistero teologico e pastorale: la libertà di parola, la capacità di un’autentica e rarissima “conversione nel domandare” e la visione profetica verso un futuro rinnovato. Queste tre caratteristiche sono tra loro correlate e interdipendenti. Non c’è libertà di parola se non si sa formulare la domanda in modo nuovo; e non c’è vera novità se non si legge il presente alla luce dell’avvenire. Vorrei sostare su ognuno di questi aspetti del magistero di Martini.

Libertà di parola: essa è possibile solo sotto la autorità di una Parola indicibile, eppure mille volte detta e ridetta, ascoltata, annunciata, pregata, sussurrata, cantata, meditata. Alla scuola della Parola, che è scuola di testi e di gesti, di pagine di carta e di compagini di carne, si matura una freschezza di linguaggio e una sorpresa nello sguardo. Con la consapevolezza, segreta ma contagiosa, che la verità del testo non sta “dietro”, ma “davanti” ad esso.

Saper convertire la domanda: quanto abbiamo bisogno, anche oggi, di questa capacità – realmente evangelica – di rispondere con una grande conversione del domandare! Ascoltando il card. Martini accadeva sempre questo miracolo: le domande più comuni acquisivano una diversa profondità, una forza sconosciuta ed emergevano dal tessuto della esperienza con rinnovata autorevolezza e con insperata pertinenza. Ma questo aveva, come conseguenza, una vera conversione. Soprattutto sui temi “scottanti” del rapporto tra fede ed esperienza, questa grandiosa capacità di riformulazione aveva, come esito, una straordinaria semplificazione, una scoperta della elementare logica del Vangelo e del discepolato. La riformulazione del domandare, purificando l’aria, acuisce la vista e tutti i sensi. Diventiamo, alla luce di questo nuovo domandare, capaci di una percezione più diretta e più immediata dello stesso Vangelo.

Saper guardare più lontano: infine, le prime due “mosse” avevano, come esito, un purificarsi e un potenziarsi dello sguardo, un occhio più acuto e una vista più perspicace. Questo sguardo profondo poteva, in qualche caso, apparire sorprendentemente “inattuale”. Non aveva mai la attualità della chiacchiera, non cadeva mai nel consenso del luogo comune. Poteva invece rilevare, profeticamente, il grave ritardo delle domande trite e delle risposte scontate, incapaci di cogliere le nuove dinamiche della società e le nuove esigenze dei credenti.

Riformulare con libertà il linguaggio, saper sollevare la domanda più opportuna e trovar la forza per alzare gli occhi e guardare “oltre la siepe” sono parola ancora viva del magistero di Carlo Maria Martini. Che forse per questo poteva anche vedere la Chiesa “indietro di 200 anni”, ma non con il tono disfattista, che anche qualche “autorità” osò rimproverargli (proprio a lui!), ma con il tono del profeta sapiente e pacato. Profeta di una “chiesa in uscita”, che faticosamente prova a uscire anzitutto dal proprio vecchio domandare, ma ancor più dal proprio vecchio rispondere.

Andrea Grillo, professore di Teologia e Filosofia presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma.             Munera blog, 14 ottobre 2015

http://sperarepertutti.typepad.com/sperare_per_tutti/2015/10/carlo-maria-martini-al-sinodo-che-cosa-avrebbe-detto.html

Sinodo dei Vescovi: per una lettura di genere

Leggendo i vari documenti che hanno preparato, accompagnato e rilanciato i lavori del primo dei due grandi appuntamenti sulla famiglia voluti da Papa Francesco è difficile sottrarsi all’impressione di un’assenza, tanto più evidente considerando il tema del convenire. Fra le molte questioni affrontate resta in ombra, infatti, quella su cui si innestano problemi, sfide, vocazione e missione: vale a dire la soggettività maschile e femminile, con le relazioni che fra esse si instaurano. Sembra cioè che, una volta affermato e ribadito il carattere eterosessuale della famiglia, non si siano poi sapute o volute trarre le conseguenze del fatto che di donne e di uomini si sta in primo luogo parlando; il discorso che ne risulta, per quanto articolato e complesso, rischia quindi di aderire solo in parte a una realtà che non essendo “neutra” richiederebbe grande consapevolezza delle dinamiche di genere sia nella lettura della situazione che nella riflessione sull’annuncio che la Chiesa cattolica sente di dover offrire al mondo.

1. Passato e presente, un confronto da riconsiderare. In questi mesi diverse voci hanno segnalato, nell’approccio del Sinodo alla famiglia, una carenza di senso storico che rafforzerebbe, fra l’altro, la resistenza del magistero cattolico (o di parte di esso) di fronte a nuove istanze. Ma forse gli stessi sinodali ne sono almeno in parte consapevoli, se in tal senso si può interpretare il procedere, nel passaggio da un testo all’altro, verso un’impostazione meno fissista. Ad esempio, nei Lineamenta non compaiono i riferimenti alla legge naturale che, già sinteticamente accennati nel Questionario del Documento Preparatorio, avevano avuto poi una discreta consistenza nell’Instrumentum laboris del 2014, il quale peraltro sottolineava la difficoltà di ricezione del concetto stesso.

Nei contesti di tipo occidentale, infatti, le persone sono orientate a valorizzare il sentimento e l’emotività; dimensioni che appaiono come “autentiche” e “originali” e, dunque, “naturalmente” da seguire. Le visioni antropologiche soggiacenti richiamano, da una parte, l’autonomia della libertà umana, non necessariamente vincolata ad un ordine oggettivo naturale, e, dall’altra, l’aspirazione alla felicità dell’essere umano, intesa come realizzazione dei propri desideri. Di conseguenza, la legge naturale viene percepita come retaggio sorpassato.

Inoltre, l’evoluzione, la biologia e le neuroscienze, confrontandosi con l’idea tradizionale di legge naturale, giungono a concludere che essa non è da considerarsi “scientifica. D’altra parte, in alcuni regioni è la poligamia ad essere considerata “naturale”, così come “naturale” è considerato il ripudiare una moglie che non sia in grado di dare figli – e, tra questi, figli maschi – al marito. Queste considerazioni spingono i sinodali alla cautela nei confronti di un uso ingenuo del concetto di legge naturale, ma non sembrano condurre automaticamente a una adeguata comprensione storica. Non solo, infatti, il testo lascia intendere che ci sia stato un periodo in cui l’umanità era accomunata dal riferimento a regole universalmente riconosciute, ma, mentre riferendosi alle zone del mondo “più povere e meno influenzate dal pensiero dell’Occidente” l’idea è quella di un auspicabile progresso rispetto alle consuetudini attuali, la vicenda occidentale viene al contrario presentata prevalentemente come una “caduta” rispetto a un passato di cui si sarebbero perse caratteristiche che erano invece più in linea con il messaggio della Chiesa.

Tra le difficoltà attuali del Nord del mondo in relazione alla famiglia si citano ad esempio la ricerca prioritaria del “sentirsi bene”, che porterebbe a rifuggire da impegni stabili e a percepire come limitazioni e ostacoli i rapporti sociali, e anche un atteggiamento autocentrato e autodeterminato nei confronti della procreazione. Rubricando come “nuove” queste tendenze, si viene contemporaneamente a delineare l’immagine del passato da cui ci si sarebbe discostati. Tuttavia la rappresentazione che in questo modo ne risulta in trasparenza fatica a reggere la prova delle testimonianze e degli studi relativi a un’istituzione, quella familiare, che nel corso dei secoli non è stata prioritariamente affettiva, ma ha assolto innanzitutto, e dichiaratamente, il compito di regolamentare i rapporti tra comunità, lo scambio di beni e di capacità produttive e riproduttive e la conservazione e trasmissione del patrimonio, svolgendo al contempo una funzione di controllo della un segno di prestigio. “Emerge, in altri termini, che dal punto di vista della cultura diffusa la legge naturale non sia più da considerarsi universale, dal momento che non esiste più un sistema di riferimento comune”. 6 Relatio ante disceptationem, 1-a: “Molti percepiscono la loro vita non come un progetto, ma come una serie di momenti nei quali il valore supremo è di sentirsi bene, di stare bene. In tale visione ogni impegno stabile sembra temibile, l’avvenire appare come una minaccia, perché può accadere che nel futuro ci sentiremo peggio. Anche i rapporti sociali possono apparire come limitazioni ed ostacoli”. 7 Relatio ante disceptationem, 4-a: “Nel mondo occidentale non è raro trovare coppie che scelgono deliberatamente di non avere figli, situazione paradossalmente simile a quella di chi fa di tutto per averne. In entrambi i casi la possibilità di generare è ap­piattita sulla propria capacità di autodeterminazione, ricondotta a una dimensione di progettazione che mette se stessi al centro: i propri desideri, le proprie aspettative, la realizzazione dei propri progetti che non tengono presente l’altro”.

E’ fuorviante, cioè, pensare (o lasciar credere) che nelle epoche che ci hanno preceduto si diventasse genitori in condizioni di libertà e per altruismo: sappiamo bene quanto nelle strategie riproduttive fossero determinanti le esigenze degli adulti – dalle questioni dinastiche alla necessità di braccia per i campi -, e quante maternità fossero imposte a donne non consenzienti dai comportamenti sessuali dei mariti. Sappiamo anche che se la rigidità delle regole scritte e non scritte proteggeva gli individui dalla vulnerabilità di fronte a fattori a quei tempi non governabili, ciò non impediva di percepire anche il carattere vincolante e limitante dei rapporti sociali (in primis il matrimonio), come mostrano le innumerevoli biografie che si sono costruite nel tentativo di uscire da tali gabbie.

Molti dei fenomeni che oggi i sinodali guardano giustamente con preoccupazione – ad esempio la frantumazione delle relazioni familiari – non sono quindi “nuovi”, ma piuttosto portano alla luce, in forme aggiornate che vanno interpretate con strumenti aggiornati, questioni che nei secoli scorsi erano vissute nella clandestinità e nella doppiezza, con carichi di sofferenza certo non meno gravi di quelli attuali. Ciò non significa ovviamente che le famiglie del passato – o meglio, dei vari passati che abbiamo alle spalle – non fossero anche, in una misura non facilmente valutabile, luoghi di affetto, di amore, di sostegno reciproco. Tuttavia, proprio perché altre erano le priorità e gli obiettivi del matrimonio, risulta problematico il corto circuito temporale con cui ad esempio l’Instrumentum Laboris al n. 32 riepiloga: “Si riconosce, nelle risposte, come per molti secoli la famiglia abbia ricoperto un ruolo significativo all’interno della società: essa è infatti il primo luogo dove la persona si forma nella società e per la società. Riconosciuta come il luogo naturale per lo sviluppo della persona, è per questo anche il fondamento di ogni società e Stato. In sintesi, essa è definita la “prima società umana”. ” La famiglia è il luogo dove si trasmettono e si possono imparare fin dai primi anni di vita valori come fratellanza, lealtà, amore per la verità e

La bibliografia sui temi legati alla maternità “obbligata” è molto corposa e spazia dalla storia, antichissima, delle pratiche contraccettive e abortive a quella delle di­storsioni e delle sofferenze provocate, ad esempio nella borghesia ottocentesca e poi anche nel Novecento, dall’identificazione tra femminilità e maternità, e dalla parallela costruzione della maternità come alternativa alla partecipazione alla vita della polis per il lavoro, rispetto e solidarietà tra le generazioni, così come l’arte della comunicazione e la gioia. Essa è lo spazio privilegiato per vivere e promuovere la dignità e i diritti dell’uomo e della donna. La famiglia, fondata sul matrimonio, rappresenta l’ambito di formazione integrale dei futuri cittadini di un Paese.

Questa consapevolezza – o questo ideale – è infatti acquisizione relativamente recente, nemmeno universalmente condivisa, e si fonda su un sistema di valori profondamente diverso da quello dei secoli che abbiamo alle spalle, quando la disparità sessuale di potere e di diritti in famiglia (analogamente a quanto accadeva nella società) era legittimata umanamente, rafforzata religiosamente e molto spesso sostenuta da forme di controllo violente prive di sanzione non solo penale ma anche sociale.

Ma, si accennava in apertura, i rapporti tra mogli e mariti in quanto donne e uomini non sono una priorità nella riflessione dei testi sinodali sulla famiglia, e la pari dignità dei sessi non rientra nella definizione dell’“insegnamento della Chiesa, per cui gli elementi costitutivi del matrimonio sono unità, indissolubilità e apertura alla procreazione”. Tuttavia, rispondendo alla domanda previa del Questionario proposto dai Lineamenta (“La descrizione della realtà della famiglia presente nella Relatio Synodi corrisponde a quanto si rileva nella Chiesa e nella società di oggi? Quali aspetti mancanti si possono integrare?”) possiamo provare a percorrerla, questa via: non essendo possibile parlare di famiglia senza parlare dei modi in cui le soggettività femminili e maschili si costruiscono e si incontrano, la prospettiva di genere è strumento euristico più che adeguato e criterio interpretativo e valutativo al quale – per le conseguenze che può avere sulla vita della Chiesa – è rischioso rinunciare.

2. Temi e testi sinodali in prospettiva di genere. Rileggendo in questo modo i testi del Sinodo si evidenziano certamente dei limiti, ma contemporaneamente si ha modo di valorizzare, ricollocandoli, diversi elementi ricchi di potenzialità. Un primo spunto per questo percorso è fornito da uno dei pochissimi luoghi in cui i Lineamenta, al n. 5, segnalano qualche positività nella situazione della famiglia attuale rispetto a quella del passato: (…) Il cambiamento antropologico-culturale influenza oggi tutti gli aspetti della vita e richiede un approccio analitico e diversificato. Vanno sottolineati prima di tutto gli aspetti positivi: la più grande libertà di espressione e il migliore riconoscimento dei diritti della donna e dei bambini, almeno in alcune regioni.

L’opportuna sottolineatura della disparità di situazioni, a questo riguardo, nelle varie aree del mondo è però accompagnata da un silenzio, comune ad altri punti di questo e di altri documenti del Sinodo, riguardo ai soggetti che hanno favorito il cambiamento. Se ci sono paesi e culture in cui esso si è verificato, infatti, ciò non è accaduto per caso, ma grazie a movimenti che sono stati fortemente voluti e tenacemente animati da donne. Se dunque nel testo finale è fortunatamente venuto meno il riferimento solo negativo ai femminismi come “ostili alla Chiesa” presente nel Documento Preparatorio al paragrafo I, nessun riconoscimento viene in ogni caso, al termine dei lavori della III Assemblea generale straordinaria, alle donne che si sono spese perché i diritti prima negati diventassero realtà e cultura condivisa.

a) Il grande innominato: il soggetto maschile. In questo modo risulta anche più facile mantenere un altro silenzio: quello sulle resistenze maschili che esse hanno sempre incontrato, non solo a livello privato ma anche sociale e culturale, testimoniate dall’ampia pubblicistica che nel corso del Novecento ha attribuito all’ingresso massiccio delle donne nella vita pubblica la responsabilità della crisi della famiglia da una parte e, dall’altra, lo svilimento di un ordine sociale che fino a quel momento aveva, secondo tanti autori, garantito stabilità, valori, rispetto della legge e della trascendenza. Se non era intenzione dei sinodali accodarsi a questa compagnia di profeti di sventura, sarebbe stato opportuno evitare che la citazione sopra riportata proseguisse, senza soluzione di continuità, in questo modo: Ma, d’altra parte, bisogna egualmente considerare il crescente pericolo rappresentato da un individualismo esasperato che snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un’isola, facendo prevalere, in certi casi, l’idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto.

La forma impersonale con cui viene menzionato il “migliore riconoscimento dei diritti della donna” ha conseguenze anche su quanto i Lineamenta segnalano al n. 8: (…) La dignità della donna ha ancora bisogno di essere difesa e promossa. Oggi infatti, in molti contesti, l’essere donna è oggetto di discriminazione e anche il dono della maternità viene spesso penalizzato piuttosto che essere presentato come valore. Non vanno neppure dimenticati i crescenti fenomeni di violenza di cui le donne sono vittime, talvolta purtroppo anche all’interno delle famiglie (…). Può infatti essere difficile e destabilizzante nominare e interrogare i soggetti che discriminano le donne, penalizzano il dono della maternità e compiono le violenze di cui le donne sono vittime; ma non farlo significa precludersi la possibilità di capire e interpretare questi fenomeni, individuarne i fattori di persistenza e le trasformazioni, i terreni di coltura, le possibili vie da percorrere per sradicarli. E una tale noncuranza può essere consentita solo a chi ritenga naturale, immodificabile e sempre uguale a se stessa l’incapacità della parte maschile dell’umanità di relazionarsi alla pari con quella femminile e di riconoscerle uguale libertà e autonomia, diritti, valore e potere. Preoccupa quindi la scelta di denunciare la violenza nei confronti delle donne senza menzionare gli autori, che è costante nei vari testi

Il discorso vale anche per “la grave e diffusa mutilazione genitale della donna in alcune culture” e “lo sfruttamento sessuale dell’infanzia” segnalati nel medesimo paragrafo. Può essere interessante notare come il silenzio sugli uomini venga meno quando si tocca il tema della paternità: per quanto se ne segnali la diffusa inadempienza, la menzione esprime altissima considerazione della maschilità, perché le attribuisce una capacità di rappresentare il divino che non ha corrispondenza nella figura della don­na-madre, perlomeno a quanto si può evincere dai medesimi testi: “In alcuni contesti sociali, poi, la mancanza di esperienza dell’amore, in particolare dell’amore paterno, è frequente, e questo rende assai difficoltosa l’esperienza dell’amore di Dio e della sua paternità. La debolezza della figura del padre in tante famiglie genera forti squilibri nel nucleo familiare e incertezza identitaria nei figli. Senza l’esperienza quotidiana di amore testimoniato, vissuto e ricevuto risulta particolarmente difficile la scoperta della persona di Cristo come Figlio di Dio e dell’amore di Dio Padre” (Instrumentum Laboris, n. 64; l’argomento non è invece presente nei Lineamenta sinodali ed è rafforzata da altre due tendenze – da cui peraltro le statistiche di ogni parte del mondo e gli studi specialistici mettono in guardia –: quella della minimizzazione del fenomeno (si veda ad esempio il “talvolta” della citazione appena riportata, ma non è un caso isolato); e quella a connetterlo esclusivamente a particolari situazioni di arretratezza culturale o di disagio sociale.

b) Educare le relazioni familiari. La violenza di genere nelle famiglie, con la drammaticità della sua diffusione, rappresenta non solo un campo di riflessione e di intervento inderogabile, ma è paradigmatica nel suo manifestare come le relazioni familiari – anche quando pacifiche o apparentemente tali – siano sempre modellate dal tipo di soggettività maschili e femminili che una società costruisce, legittima e alimenta. E’ un dato di fatto ben noto agli studi di antropologia culturale e facilmente constatabile dai non addetti ai lavori anche semplicemente guardando alla nostra storia recente; ma quel che interessa soprattutto in questa sede è che esso consente uno spazio umanissimo, culturale, di educabilità e di possibilità di cambiamento. Uno spazio, quindi, che ha a che fare con l’ambito delle scelte, e perciò con la dimensione etica.

Nei testi sinodali precedenti ai Lineamenta l’unica traccia dell’azione ecclesiale sulla formazione delle identità di genere si trova – salvo errori – nell’Instrumentum Laboris, dove al n. 52 leggiamo che “In qualche Paese si segnalano vere e proprie scuole di preparazione alla vita matrimoniale, indirizzate soprattutto alla istruzione e promozione della donna”: un riferimento, pare di capire, ad aree in cui l’inferiorità femminile è ancora norma sociale radicata, e dove qualunque iniziativa che aumenti nelle ragazze la consapevolezza e la stima di sé non può che essere positiva. Tuttavia, ancora una volta, non sembra prevista una corrispondente “preparazione alla vita matrimoniale” rivolta agli uomini, alla loro promozione nel senso di una de-patriarcalizzazione del maschile, che sarebbe invece indispensabile per metterli in grado di accogliere come positiva anche per se stessi, per la propria umanità, una soggettività femminile più autonoma e libera. Diversamente, il rischio è di abbandonare a se stesso il conflitto che lo spostamento identitario di un genere sempre comporta, e che assume tratti di ulteriore complessità in aree in cui il valore della donna è fatto coincidere con la capacità e disponibilità riproduttiva. Sappiamo infatti che quando per le donne crescono l’istruzione, la consapevolezza di sé, le relazioni sociali, le opportunità di esprimere i propri talenti e la propria umanità, si verifica contestualmente un calo nel numero delle nascite, che in condizioni di mancanza di istruzione e di deprivazione sociale si attesta invece sul livelli devastanti per la vita delle madri, condannandole a morti precoci o a invalidità fisiche e segregazioni sociali permanenti. Ma poiché l’equilibrio-squilibrio riproduttivo è ben più che una questione di numeri, non è detto che la maggiore felicità di donne non asservite alla funzione biologica materna sia accolta automaticamente come un fattore positivo da compagni che misurano il proprio valore e il proprio potere dal numero di mogli e dalla loro prolificità. Per questo il cambiamento sociale va costantemente accompagnato da un’educazione di genere consapevole e accorta.

Ciò non vale, però, solo per “alcune aree del mondo”. Di formazione sul genere c’è necessità ovunque, anche nei Paesi in cui apparentemente gli squilibri nelle relazioni sessuate, comprese quelle familiari, sono superati. Da una parte perché ogni situazione e ogni processo sono vissuti diversamente da donne e uomini, e quindi ad esempio non può essere neutra, se vuole essere efficace, anche l’importante attenzione che – riferisce l’Instrumentum Laboris al n. 55 – molti corsi di preparazione al matrimonio tentano di riservare a “nuovi temi quali la capacità di ascoltare il coniuge, la vita sessuale coniugale, la soluzione dei conflitti”. E dall’altra perché non tutto, anche da noi, è risolto, e in ogni caso scenari e identità non sono mai immobili, né le acquisizioni sono immuni da possibili regressioni.

Così, ad esempio, parlando di vita familiare, il n. 39 dell’Instrumentum Laboris riporta quanto emerso dalle consultazioni sul Questionario del 2013: Il ruolo dei genitori, primi educatori nella fede, è considerato essenziale e vitale. Non di rado si pone l’accento sulla testimonianza della loro fedeltà e, in particolare, sulla bellezza della loro differenza; talvolta si afferma semplicemente l’importanza dei ruoli distinti di padre e madre. In altri casi, si sottolinea la positività della libertà, dell’uguaglianza tra i coniugi e della loro reciprocità, così come la necessità del coinvolgimento di entrambi i genitori sia nell’educazione dei figli che nei lavori domestici, come si afferma in alcune risposte, soprattutto in quelle dall’Europa.

Se le comunità cattoliche esprimono l’esigenza di una nuova articolazione di genere in tema di cura e di educazione – dimensioni fondamentali e strutturali della famiglia – significa che l’esperienza comune percepisce su questo punto un deficit su cui a più riprese si sono soffermati anche gli studi specialistici. La società, soprattutto in Italia, non aiuta: i messaggi prevalenti – che siano quelli impliciti ma potentissimi delle strutture economiche o quelli espliciti e altrettanto condizionanti dei mass media – delineano una polarizzazione molto forte in cui il femminile è costruito sugli assi, solo apparentemente contraddittori, della domesticità e passività da una parte e della erotizzazione in funzione seduttiva dall’altra; mentre il maschile è spinto fin dalla più tenera età verso l’identificazione con il lavoro extradomestico, il potere, il prestigio, l’illusione di invulnerabilità e una sessualità tendenzialmente predatoria e separata dalla sfera affettiva.

E’ molto dubbio che tutto ciò possa avere un effetto positivo sulle relazioni di coppia che le persone cresciute in una costante esposizione a questi modelli tenderanno a costruire. Ed è quindi per una scelta etica e un’opzione esistenziale che anche molte donne e (pur se in misura minore) uomini di chiesa propongono o recepiscono percorsi di genere nelle relazioni educative con l’infanzia e l’adolescenza. Partendo dalla decostruzione degli stereotipi di genere, che è un passaggio obbligato fondamentale anche per togliere terreno allo svilupparsi della violenza maschile contro le donne, l’idea è quella di aprire le nuove generazioni a una comprensione della differenza che non ha bisogno di essere difesa da confini che separino a priori, distinguendoli per sesso, spazi fisici ed esistenziali, competenze, caratteri, attitudini; ma che, al contrario, proprio perché significativa in se stessa, produce i migliori frutti quando può esprimersi nella libertà da ruoli e repertori preordinati17.

3. Quale Vangelo per la famiglia? Che si tratti di descrivere le situazioni o di progettare la pastorale, di valutare politiche sociali o interloquire con diverse culture, il punto di osservazione per la Chiesa cattolica è, sintetizzano, i Lineamenta al n. 2, il “Vangelo della famiglia” che le è stato affidato con la rivelazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo e ininterrottamente insegnato dai Padri, dai Maestri della spiritualità e dal Magistero della Chiesa. Inoltre, tutta la pastorale familiare dovrà lasciarsi modellare interiormente e formare i membri della Chiesa domestica mediante la lettura orante e ecclesiale della Sacra Scrittura. La Parola di Dio non solo è una buona novella per la vita privata delle persone, ma anche un criterio di giudizio e una luce per il discernimento delle diverse sfide con cui si confrontano i coniugi e le famiglie (n. 34).

I testi dell’Assemblea generale straordinaria tendono a privilegiare una visione di continuità, ma è noto che nel corso del tempo, parallelamente al mutare delle concezioni antropologiche sul maschile e il femminile (o in reazione a tali cambiamenti), la Chiesa – fatti salvi i criteri di unicità, fedeltà e indissolubilità – ha proposto insegnamenti anche molto diversificati riguardo alle relazioni tra i soggetti che si uniscono in un matrimonio canonico. Quella che la Relatio ante disceptationem nel paragrafo introduttivo chiama “l’incessante attualizzazione del vangelo della famiglia che lo Spirito suggerisce alla Chiesa” non può allora evitare di misurarsi con la questione di cosa il Vangelo abbia da dire oggi in relazione al genere, cioè sui significati attribuiti all’essere donna e all’essere uomo, che plasmano le relazioni di coppia e la vita di famiglia.

Su questo i sinodali non paiono soffermarsi, e scelgono invece di parlare genericamente di matrimonio e famiglia. Messi da parte i “codici familiari” delle Lettere apostoliche che il Documento Preparatorio del 2013 portava sorprendentemente come esempio di chiesa domestica e della “solidarietà più profonda tra mogli e mariti, tra genitori e figli, tra ricchi e poveri” incarnata dalla “grande famiglia del mondo antico”18, ai testi seguenti non resta che appoggiarsi a pochi altri brani neotestamentari, che i Lineamenta così riepilogano nel n. 14: Gesù stesso, riferendosi al disegno primigenio sulla coppia umana, riafferma l’unione indissolubile tra l’uomo e la donna, pur dicendo che «per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19,8). L’indissolubilità del matrimonio (“Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” Mt 19,6), non è innanzitutto da intendere come “giogo” imposto agli uomini bensì come un “dono” fatto alle persone unite in matrimonio. In tal modo, Gesù mostra come la condiscendenza divina accompagni sempre il cammino umano, guarisca e trasformi il cuore indurito con la sua grazia, orientandolo verso il suo principio, attraverso la via della croce. Dai Vangeli emerge chiaramente l’esempio di Gesù che è paradigmatico per la Chiesa. Gesù infatti ha assunto una famiglia, ha dato inizio ai segni nella festa nuziale a Cana, ha annunciato il messaggio concernente il significato del matrimonio come pienezza della rivelazione che recupera il progetto originario di Dio (cf. Mt 19,3). Ma nello stesso tempo ha messo in pratica la dottrina insegnata manifestando così il vero significato della misericordia. Ciò appare chiaramente negli incontri con la samaritana (cf. Gv 4,1-30) e con l’adultera (cf. Gv 8,1-11) in cui Gesù, con un atteggiamento di amore verso la persona peccatrice, porta al pentimento e alla conversione (“va’ e non peccare più”), condizione per il perdono.

In questa sintesi possiamo notare l’attrazione che i grandi temi del Sinodo – l’indissolubilità e la misericordia – hanno esercitato sull’interpretazione di pericopi che però, collocate nel loro contesto, assumono sfumature diverse e più complesse (ad esempio quella di Giovanni 8 e lo stesso inizio dei segni a Cana, in Giovanni 2) oppure sono decisamente estranee a un discorso sul matrimonio e sulla misericordia verso le fragilità umane (è il caso del colloquio con la donna samaritana narrato in Giovanni 4). La torsione in senso “familiare” dell’interpretazione dei testi produce anche un certo paradosso, nel momento in cui si portano due figure femminili come esempi di peccato in relazione a vincoli sponsali (forse ricalcando i modelli profetici), mentre sappiamo che l’operato di Gesù, da come risulta nei Vangeli, ha intaccato piuttosto le convinzioni e i privilegi patriarcali (si veda anche il discorso sul ripudio in Mt 19,3ss); ma questa bella notizia – su cui tanti studi si sono soffermati e da cui tante comunità di donne credenti hanno tratto forza e consolazione per le loro battaglie – non viene sottolineata nei documenti sinodali.

L’intento di mostrare che “dai Vangeli emerge chiaramente l’esempio di Gesù che è paradigmatico per la Chiesa” conduce quindi, nei Lineamenta, a letture poco aderenti ai testi stessi; ma forse non siamo semplicemente di fronte a qualche imperizia, emendabile, dei commentatori. Forse il problema è che nei Vangeli non dobbiamo cercare modelli o teorie sulla famiglia “in generale”, perché non ce ne sono; anzi, semmai gli evangelisti ci mostrano donne e uomini che, per porsi alla sequela itinerante di Gesù, viaggiano lontano dai loro mariti e dalle loro mogli, e altre discepole e discepoli di cui non sappiamo nemmeno se fossero sposati oppure no; e un Maestro celibe, che come altri figli è accompagnato anche dalla madre fino al supplizio, però sui legami familiari ha pronunciato parole che allargano e relativizzano: non per svilirli, quei legami, ma forse per liberarli.

Che cosa questo dica a noi, oggi, non si può sapere a priori. E’ improbabile che abbia futuro e si radichi positivamente nelle coscienze la riproposizione di modelli di femminilità, di maschilità e di famiglia nati nel passato e semplicemente riverniciati, che pure oggi è molto amata in alcuni settori della Chiesa. Con tempi più lunghi e ricerche più faticose, il nuovo e il futuro ci verranno invece probabilmente donati da cristiane e cristiani che abitano la condizione inedita della propria soggettività moderna di donne e di uomini tenendo – come suggerisce una delle domande del Questionario dei Lineamenta – “lo sguardo rivolto a Cristo, che apre nuove possibilità. Infatti, ogni volta che torniamo alla fonte dell’esperienza cristiana si aprono strade nuove e possibilità impensate”. Del resto, Gesù non ha mai lasciato nessun uomo e nessuna donna nei ruoli in cui la società e la religione li avevano collocati. Nei primi commenti seguiti alla pubblicazione dell’Instrumentum Laboris è stata sottolineata come rilevante l’introduzione di un paragrafo, il n. 30, dedicato al “ruolo delle donne”. In esso si segnala che “la condizione femminile nel mondo è soggetta a grandi differenze che derivano in prevalenza da fattori culturali. Non si può pensare che situazioni problematiche possano essere risolte semplicemente con la fine dell’emergenza economica e l’arrivo di una cultura moderna, come provano le difficili condizioni delle donne in diversi Paesi di recente sviluppo”; a questa osservazione non fa però seguito alcuna riflessione sulla necessità di una riflessione in prospettiva di genere. Viene invece recuperata l’annotazione – presente nell’Instrumentum Laboris 2014, ma smarrita nei Lineamenta – sul fatto che “Nei Paesi occidentali l’emancipazione femminile richiede un ripensamento dei compiti dei coniugi nella loro reciprocità e nella comune responsabilità verso la vita familiare”.

Sempre al n. 30 è interessante l’ultimo capoverso: “Può contribuire al riconoscimento del ruolo determinante delle donne una maggiore valorizzazione della loro responsabilità nella Chiesa: il loro intervento nei processi decisionali; la loro partecipazione, non solo formale, al governo di alcune istituzioni; il loro coinvolgimento nella formazione dei ministri ordinati”. Invece di una prassi ecclesiale che conferma dis­parità sociali, come spesso è avvenuto e avviene – anche con la com­plicità di esegesi poco avvertite, ad esempio riguardo a Efesini 5, 21-33 – si può intravvedere qui la possibilità che le relazioni di genere che si attuano nel Popolo di Dio cambino, in meglio, i rapporti fra uomini e donne all’interno delle mura domestiche. Ciò potrà avvenire, però, solo all’interno di un percorso che interroghi le ragioni e i processi di quel dis-conoscimento della soggettività femminile che ancora abita tanto le case quanto le chiese.

Rita Torti Quaderni Biblioteca Balestrieri – rivista semestrale- fascicolo 19, Anno XIV, 1/2015

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            COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

Adozioni, una commissione fantasma.

In due anni la Commissione Adozioni Internazionali si è riunita solo due volte, l’ultima a giugno 2014. “Il Sole 24 Ore” di lunedì 12 ottobre 2015 propone una precisa analisi della situazione in questo articolo, che riportiamo integralmente, a firma del giornalista Antonello Cherchi.

            Una riunione all’anno. È questo il ritmo di lavoro della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), di cui da tempo si hanno scarne notizie. Ad aver perso le tracce dell’organismo incardinato presso la Presidenza del consiglio e che sovrintende all’ingresso in Italia dei bambini stranieri in cerca di una nuova famiglia, sono non solo i genitori in attesa e gli enti autorizzati che li aiutano a realizzare quel sogno, ma gli stessi componenti della Commissione. Che non si sa più bene quali siano.

            Le uniche occasioni in cui i commissari si sono potuti vedere in faccia tutti insieme risale, infatti, a giugno dell’anno scorso, quando si è insediata la vicepresidente Silvia Della Monica, consigliere di Cassazione ed ex senatrice Pd, nominata sul filo di lana dall’ex premier Enrico Letta prima che cedesse il testimone a Matteo Renzi. Da quel momento, la Cai non si è più riunita, rispettando una lenta tabella di marcia inaugurata due anni fa, in occasione dei saluti all’ex vicepresidente Daniela Bacchetta, che a novembre 2013 aveva lasciato dopo due mandati. In quel caso, però, fu il Governo a essere poco tempestivo e a rimandare di mesi la designazione della nuova vice. Di contro, dei motivi che da giugno 2014 a oggi hanno impedito alla Cai di riunirsi si sa poco. Il Sole 24 Ore ha tentato a più riprese di contattare Silvia Della Monica, ma senza successo.

            Pure gli stessi commissari non sanno spiegarsi il motivo di tale latitanza. «Anche perché – spiega Anna Guerrieri, vicepresidente del Care (Coordinamento delle associazioni adottive e affidatarie in rete) che presso la Cai esprimeva un commissario nella persona di Morya Ferritti – è vero che la Cai può comunque andare avanti perché il presidente può assumere provvedimenti d’urgenza, ma la commissione deve poi ratificarli».

            È il problema sollevato al Senato da un’interrogazione a cui il Governo ha risposto a inizio marzo. Gli interroganti – primo firmatario l’esponente di Area popolare, Carlo Giovanardi, che nel passato è stato presidente della Cai – chiedevano il perché di tanto ritardo nelle riunioni della commissione. Andrea Olivero, viceministro dell’Agricoltura delegato dal Governo a rispondere, in quella circostanza assicurò il legittimo funzionamento della Cai – nell’interrogazione si faceva riferimento anche all’anomalia del cumulo di cariche di Della Monica (vicepresidente, presidente per delega di Renzi e direttore generale) – e confermò che «la commissione esprime la sua azione attraverso decisioni sia collegiali che monocratiche». «La commissione – replicò immediatamente Giovanardi – non si è mai riunita e non ha mai deliberato nulla».

            Da un po’ di mesi a questa parte, però, il problema non è solo capire perché la Cai non trova il tempo per riunirsi, ma anche sapere chi, nell’eventualità di una convocazione, dovrà presentarsi. A luglio, infatti, due commissari rappresentanti dell’associazionismo familiare hanno terminato il loro mandato. Si tratta di Morya Ferritti e di Francesco Maria Mennillo, del coordinamento “Famiglie adottanti in Bielorussia”. I due, però, continuano a comparire nella composizione della Cai riportata sul sito istituzionale, che da mesi è in aggiornamento. Così come compare il nome dell’avvocato Simone Pillon, rappresentante del Forum delle famiglie. «Se mi rifaccio al sito – afferma Pillon – mi ritengo ancora nella Cai». A differenza degli altri due, il mandato di Pillon è teoricamente in corso, ma c’è da fare i conti con il decreto firmato a marzo da Graziano Del Rio prima che da sottosegretario di Palazzo Chigi diventasse ministro delle Infrastrutture. Decreto che ha rivisto i criteri di designazione nella Cai dei rappresentanti dell’associazionismo familiare. Secondo le nuove regole, le associazioni che hanno rapporti con uno o più dei 62 enti autorizzati ad accompagnare le famiglie nel percorso adottivo, non possono stare nella commissione. E il Forum delle famiglie si trova in questa condizione, ma nessuno ha comunicato a Pillon che deve farsi da parte. «La realtà – aggiunge l’avvocato – è che quel decreto è un pasticcio».

            Insomma, si naviga a vista. Nel frattempo le notizie che arrivano dal fronte delle adozioni non sono confortanti. Oltre alle cronache sulla difficoltà di adottare da alcuni Paesi – questa estate è stata la volta di alcuni genitori che aspettano i loro bimbi dal Congo – i numeri dicono che le adozioni internazionali sono in forte calo. Gli ultimi dati ufficiali riferiti al 2013 già fotografano la discesa. «Anche il fatto che da due anni non ci siano report istituzionali – sottolinea Guerrieri – aiuta a capire la situazione di blocco della Cai, che prima produceva un monitoraggio anche due volte l’anno. In mancanza di rilevazioni ufficiali, ci dobbiamo affidare alle proiezioni degli enti autorizzati, che ci confermano che quel calo continua».

Ai. Bi.  12 ottobre 2015.                               www.aibi.it/ita/adozioni-una-commissione-fantasma

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Venezia Mestre. Convegno “per una didattica inclusiva.

            Convegno “per una didattica inclusiva: prevenzione, diagnosi e recupero dei disturbi dell’apprendimento” ore 15 giovedì 5 novembre 2015 – centro Candiani (Mestre)

Il Convegno è per stimolare una riflessione con il mondo della scuola veneziana sulle difficoltà di apprendimento, in particolare sui DSA, al fine di promuovere il benessere di studenti, docenti e famiglie.

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CONSULENZA FAMILIARE

Rinnovo degli organi direttivi dell’A.I.C.C.e F.

            In data 18 ottobre 2015, a Bologna, si sono tenute l’Assemblea ordinaria dei Soci Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari e le elezioni degli organi statutari per il mandato 2015 – 2018.

            Il nuovo Consiglio Direttivo, eletto in tale occasione, è formato dai Consulenti Familiari:

D’Ambrosio Renata Senigallia, Feretti Alfredo Roma, Lombardi Barbara Roma, Margiotta Patrizia Roma, Monti Claudia Faenza, Qualiano Maurizio Lucca, Roberto Rita Lucca, Rossi Raffaello Bologna, Sinigaglia Stefania Napoli.

            Il Consiglio Direttivo così eletto, riunitosi nella stessa giornata a termini dello Statuto, ha eletto come Presidente dell’Associazione A.I.C.C.e F la dr.ssa Rita Roberto.

http://www.ilconsulente28.blogspot.it/

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Venezia Mestre. Convegno “per una didattica inclusiva.

            Convegno “per una didattica inclusiva: prevenzione, diagnosi e recupero dei disturbi dell’apprendimento” ore 15 giovedì 5 novembre 2015 – centro Candiani (Mestre)

Il Convegno è per stimolare una riflessione con il mondo della scuola veneziana sulle difficoltà di apprendimento, in particolare sui DSA, al fine di promuovere il benessere di studenti, docenti e famiglie.

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CONSULTORI FAMILIARI

http://www.cfc-italia.it/cfÈ possibile scaricare le registrazioni e le slide effettuate in occasione del Convegno Nazionale tenuto a Roma il 2 e 3 ottobre 2015.                                                               http://www.cfc-italia.it/cfc/

              Il ruolo dei consultori d’ispirazione cristiana nel sistema dei servizi socio-sanitari.

Prof.ssa Giovanna Rossi, Direttore del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia,

Professore ordinario di Sociologia della Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Milano

www.dropbox.com/sh/pzvrvgfkdc9gjw7/AADz_a2oesAufLwHlP8dFvlWa?dl=0

  • Il Piano Nazionale per la Famiglia (2012)                                                                  slide 2
  • La diffusione dei consultori a livello nazionale
  • «Buone policies»
  • Un confronto tra consultori familiari pubblici e privati di ispirazione cristiana: identità e differenze
  • I consultori di ispirazione cristiana e il loro contributo alla costruzione di un sistema integrato dei servizi (esempi di buone pratiche)
  • Le sfide e le opportunità – i nuovi scenari aperti

I principi ispiratori e le priorità                                                                                    slide 4

Consiglio dei Ministri 7 giugno 2012   

– Cittadinanza sociale della famiglia – Politiche esplicite sul nucleo familiare

– Politiche dirette sul nucleo familiare

– Equità sociale verso la famiglia

– Sussidiarietà

– Solidarietà

– Welfare familiare sostenibile e abilitante

– Alleanze locali per la famiglia

– Monitoraggio dei provvedimenti legislativi

I) le famiglie con minori, in particolare le famiglie numerose

II) le famiglie con disabili o anziani non autosufficienti.

III) le famiglie con disagi conclamati sia nella coppia, sia nelle relazioni genitori-figli, che richiedono sostegni urgenti.

Il Piano Nazionale per la Famiglia (2012)                                                                                slide 5

1. Equità fiscale ed economica

2 Politiche abitative per la famiglia

3. Lavoro di cura familiare

4 Pari opportunità e conciliazione famiglia-lavoro

5 Privato sociale, terzo settore e reti associative familiari

6. Servizi consultoriali e di informazione

7.Immigrazione

8. Alleanze locali per la famiglia

9 Monitoraggio delle politiche familiari

 

Obiettivi                                                                                                                         slide 6-7

  • «sostenere la forza e la funzione sociale delle relazioni familiari come tali (relazioni di coppia e relazioni genitoriali)»
  • «compiere interventi in modo da non sostituire ma sostenere e potenziare le funzioni proprie ed autonome della famiglia»

Azione 6.1

  • «potenziamento e riorganizzazione dei consultori familiari» con azioni di supporto  alle relazioni di coppia e alla genitorialità in tutte le fasi del ciclo di vita familiare
  • «rivedere i profili professionali indispensabili nell’équipe consultoriale, introducendo le figure del pedagogista, del mediatore familiare e del mediatore culturale»
  • «superamento della logica ambulatorial-assistenziale, a vantaggio di una logica sussidiaria e di empowerment
  • che faciliti lo sviluppo delle risorse personali e di rete.

Azione 6.2

  • «diffondere e riorganizzare, laddove presenti, i Centri per le famiglie»

            Un confronto tra consultori pubblici e privati d’ispirazione cristiana: identità e differenze.

                        Le Risorse                                                                                        slide 17      

Consultori pubblici                                                               

  • presenza di risorse umane con differenti professionalità (équipe sociosanitaria integrata)
  • ginecologa, ostetrica e infermiera più presenti che nei privati
  • una tipologia di prestazioni erogate ampia di tipo sia sanitario sia psicosociale
  • medicalizzazione degli interventi

Consultori privati di ispirazione cristiana

  • consulente familiare e maggior presenza del mediatore familiare (e anche del consulente morale/etico) {dell’avvocato matrimonialista, del supervisore, del medico internista, del sessuologo.ndr}
  • presenza di operatori volontari
  • progetti di educazione all’affettività e sessualità con il coinvolgimento dei genitori
  • prestazioni di consulenza alla coppia e alla famiglia per la cura dei legami
  • poche strutture

Obiettivi                                                                                           slide 18      

Consultori pubblici    

  • assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile e per i problemi della coppia e della famiglia
  • procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti
  • tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento
  • obiettivi dei piani strategici regionali e delle diverse articolazioni organizzative

Consultori privati di ispirazione cristiana

  • focus sui problemi della coppia e famiglia con particolare attenzione alla vita di relazione con tutti i suoi aspetti di comunicazione e dialogo
  • educazione degli adolescenti e dei giovani alla vita, all’amore, alla sessualità
  • preparazione dei fidanzati al matrimonio
  • problematiche degli anziani

Norme e Relazioni                                                                                                   slide 19

Consultori pubblici

  • stretta relazione con i servizi territoriali
  • procedure di lavoro e progetti a volte incentrati sul singolo utente
  • prevale un carattere sanitario-curativo del servizio sul carattere psicosociale con taglio preventivo ed educativo (sono presenti comunque numerose buone pratiche, nell’area dell’educazione affettiva)

Consultori privati di ispirazione cristiana      •

  • rapporto con la pastorale
  • stretto rapporto con l’associazionismo familiare (MPV, CAVetc) e le Caritas diocesane
  • presa in carico dell’utente in relazione e del nucleo familiare
  • accesso al servizio diversificato secondo i professionisti (consulente familiare)
  • {rapporti con associazioni di volontariato degli Albi comunali.ndr}

Cultura                                                                                                         slide 20

Consultori pubblici    

  • storia ed evoluzione del carattere sanitario-curativo del servizio
  • attenzione alla donna (POMI)
  • compresenza di approcci di carattere sanitario –curativo e psicosociale
  • centratura sulla prevenzione anche in rapporto alle sfide emergenti (es. conflitti coniugali, violenza alle donne e multiculturalità)

Consultori privati di ispirazione cristiana     

  • approccio della consulenza e dell’empowerment (focus su risorse e capacità)
  • fioritura delle potenzialità umane dei beneficiari (Rogers)
  • antropologia personalistica coerente con la visione cristiana dell’uomo e della donna (Preambolo dello statuto 2008)-{carta dell’UCIPEM 1979.ndr}

Le sfide e le opportunità – i nuovi scenari aperti

Implementare la componente sociale del consultorio                                                         slide 46

  • Raccomandazione OMS sui punti di accesso integrati di salute primaria con un modello sociale di salute
  • Interventi per governare efficacemente le attuali complesse dinamiche generazionali e familiari
  • Garantire la presenza e la concentrazione nei CF di risorse professionali adeguate
  • Componente sociale come ruolo di indirizzo
  • Evitare abuso di screening sanitari e visite specialistiche
  • Promozione di stili di vita attraverso gli interventi/progetti
  • Promozione delle competenze delle nuove generazioni
  • Trattare tematiche dell’affido e adozione

Nuova integrazione psico-pedagogica e socio-sanitaria degli interventi                           slide 47

Necessità di una piena integrazione dei CF privati nel sistema dei Servizi Socio Sanitari

  • Superare la polarizzazione sanitaria e il gap tra mandato sociale e sanitario (con leggi cornice e formazione-cambiamento a livello degli operatori, ripensando le pratiche rapporto al mandato sociale dei CF)
  • Analizzare l’eterogeneità dell’utenza (non solo interventi mono target donna)
  • Non assumere come dati i bisogni: pratiche rivolte ai bisogni sociali emergenti, con una co-costruzione attiva di domande di intervento

I nuovi scenari aperti                                                                             slide 48

Norme e relazioni. Mantenere relazioni virtuose all’interno dei singoli servizi.

Cura dei legami di équipe (intra) è il punto indispensabile per la cura della coppia e della famiglia.

Costruzione di relazioni stabili tra servizi diversi – coordinamento e manutenzione della rete

  • Relazioni tra Enti, istituzioni e consultori
  • Relazioni tra CF pubblici e privati
  • Progettazione comune
  • Coordinamento del lavoro sui casi
  • Programmazione delle attività coordinata tra servizi diversi
  • Spinta dei CF privati a farsi vedere di più /radicarsi
  • Spinta al confronto nella precisazione della propria identità

Promuovere una concezione del benessere di tipo relazionale                   slide 49

  • Educazione alla sessualità e all’affettività
  • La solitudine della famiglia (e della coppia)
  • La sfida del vivere e mantenere i legami
  • Paternità, maternità e autorevolezza dell’adulto
  • Formazione comune tra consultori pubblici e privati sui temi psico-sociali e relazionali
  • Rapporto servizio-operatore-utente di tipo relazionale

Il consultorio relazionale come attore nel nuovo welfare                          slide 50

  • Rapporto con i centri per la famiglia e punti unici di accesso
  • Evoluzione verso centri per la famiglia (dimensione dell’empowerment facilitata nei CF privati)
  • Quale è il disegno di welfare dentro al quale si vorrebbero collocare i futuri Centri per le famiglie?
  • Quale investimento in termini formativi e professionali sul personale? Nuovi target (adolescenti e anziani) richiedono operatori preparati e qualificati per rispondere a domande nuove e specifiche
  • Coordinamento e manutenzione della rete
  • Équipe integrata con regista case manager (che da solo non può sostituire il lavoro d’équipe)

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Roma 1. – Atelier Pedagogico Esperienziale “I bisogni fondamentali dell’uomodell’uomo: pretesa o percorso di consapevolezza??” – Consultorio Familiare (14/11/2015)

Via della Pigna 13  – La Donna in trasformazione. Maschile e femminile in cambiamento (dal 21/11/2015)

– Laboratorio Pedagogico Esperienziale di base. Dall’Autostima all’Autoefficacia (dal 28/11/2015)

 

.. I BISOGNI FONDAMENTALI DELL’UOMO: PRETESA O PERCORSO DI CONSAPEVOLEZZA?

Atelier pedagogico – esperienziale

sabato 14 novembre 2015 ore 9-17,30

Di cosa ho bisogno?

Riesco a guardare/ascoltare me stesso? Sono capace di distinguere tra i miei desideri e i miei effettivi bisogni?Riesco a guardare/ascoltare me stesso? Sono capace di distinguere tra i miei desideri e i miei effettivi bisogni?

Possiamo a volte pensare che la soluzione dei nostri problemi sia l’autosufficienza, l’allontanamentol’autosufficienza, l’allontanamento emotivo, la chiusura difensiva all’altro. Possiamo credere che il nostro impegno a prenderci cura di noi stessi possa bastare. Dobbiamo accontentarci?all’altro. Possiamo credere che il nostro impegno a prenderci cura di noi stessi possa bastare. Dobbiamo accontentarci?

La riflessione sui nostri bisogni fondamentali ha da sempre indicato la via della relazione, della collaborazione, dell’aiuto reciproco come unica strada per il soddisfacimento e la realizzazione del nostro essere uomini e donne… pienamente umani! La strada della consapevolezza può condurci all’equilibrioall’equilbrio necessario, all’incontroall’incontro, alla relazione matura. E’ possibile imparare a sintonizzarsi con i propri bisogni fondamentali e cercare risposte che coinvolgano positivamente e costruttivamente l’altrol’altro.

L’atelier si propone come percorso di consapevolezza, non solo teorico ma anche esperienziale, all’esplorazione di questo mondo attraverso training groups, esercizi dinamici ed interattivi e confronto con i trainers.

www.centrolafamiglia.org/i-bisogni-fondamentali-delluomo-pretesa-o-percorso-di-consapevolezza

Taranto          Ottava Giornata di studio.

La “Scuola Pugliese di Formazione alla Consulenza Familiare” presenta il 15 novembre 2015 (ore 9-19) la Giornata di studio con laboratori esperienziali su “Vergogna, “Trauma, Vergogna: essere Consulenti Familiari feriti, guariti e attrezzati”.

Relatore: Mary Caranita Wolsieffer – Consulente Familiare – Supervisore Aiccef.

Venezia Mestre. Convegno “per una didattica inclusiva.

            Convegno “per una didattica inclusiva: prevenzione, diagnosi e recupero dei disturbi dell’apprendimento” ore 15 giovedì 5 novembre 2015 – centro Candiani (Mestre)

Il Convegno è per stimolare una riflessione con il mondo della scuola veneziana sulle difficoltà di apprendimento, in particolare sui DSA, al fine di promuovere il benessere di studenti, docenti e famiglie.

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      DSA: Disturbi Specifici di Apprendimento, definiti anche con la sigla F81 nella Classificazione Internazionale ICD-10 dell’Organizzazione mondiale della sanità e compresi nel capitolo 315 del DSM-IV americano e annoverate dalla Legge 8 ottobre 2010, n. 170: “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale N. 244 del 18 ottobre 2010.

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COPPIA

Come gestire una lite di coppia.

Affrontare un argomento alla volta e saper ascoltare. E poi respirare profondamente, non perdere la calma e fare qualche pausa. Anche per litigare con il partner ci sono delle regole da seguire. Per trasformare il disaccordo in un momento di crescita, in grado di rendere più forte la relazione. Le regole della discussione perfetta sono state elaborate dalla sessuologa britannica Tracey Cox che avverte: dopo una lite non bisogna mai aspettarsi il bacio della pace. Il primo consiglio dell’esperta è ricordare sempre che qualunque coppia, anche la più affiatata, prima o poi affronta una discussione. L’importante è saperla vivere nel modo giusto, quello insomma che permette a entrambi di uscirne vittoriosi. Ecco allora le regole da seguire per affrontare una lite nel modo migliore divise dalla sessuologa in tre macro temi: essere certi dell’argomento della discussione, come affrontare la discussione, le soluzioni per uscirne

.           Essere certi dell’argomento.

1. La domanda giusta. Molto spesso quando si inizia a litigare non si sa bene per cosa ci si stia infuriando. Invece è bene circoscrivere l’argomento della crisi. Magari chiedendo al partner: “Perché è così importante per te? O, ancora, “Perché vuoi parlare proprio di questo?”. Nella maggior parte dei casi la risposta mette fine alla lite prima ancora che inizi.

2. Il punteggio. La sessuologa spiega che si può anche decidere di dare un punteggio al tema della discussione – magari da uno a dieci – per capire bene quanto sia importante proseguire.

3. Essere specifici. Bisogna anche imparare a essere precisi: se si inizia a rinfacciare qualcosa bisogna essere certi di mettere bene a fuoco tre elementi: cosa il partner ha fatto di sbagliato, in quale situazione e quale reazione emotiva ha provocato.

4. Frasi positive. Inoltre è fondamentale usare frasi positive. Insomma, piuttosto che dire: “Non passiamo abbastanza tempo insieme”, meglio affermare: “Mi piacerebbe passare più tempo insieme”.

5. Respirare. Quando si litiga è sbagliatissimo perdere le staffe. Occorre mantenere la calma e aspettare almeno cinque minuti prima di rispondere alla provocazione. Se proprio non si può fare a meno di aspettare così tanto, prendersi una pausa di sei secondi prima di inveire può aiutare a vedere le cose dalla prospettiva migliore.

Come affrontare la discussione.

1. Il modo migliore per affrontare una discussione è parlare a turno. Ogni partner ha diritto a cinque minuti, senza essere interrotto. Solo in questo modo si ha la certezza di essere rispettati quando è il proprio turno di parlare.

2. Saper ascoltare. Durante una lite è sbagliatissimo continuare ad affermare le proprie ragioni senza ascoltare quelle dell’altro. Bisogna cambiare il punto di vista: dare più importanza all’ascolto che alla parola.

3. Rispettare l’argomento. Quando si è sul punto di dire: “A proposito, c’è anche quell’altra cosa…” è il momento di fermarsi e smettere di parlare. Nelle liti va affrontato un argomento per volta, senza fare confusione.

4. Criticare il comportamento, non la persona. Durante le discussioni le critiche devono essere concentrate su ciò che il partner ha fatto in una determinata situazione, non sul suo modo di essere in generale. Inoltre è bene ricordare che le dichiarazioni minacciose servono a poco: non fanno altro che alzare il livello dello stress e dell’ansia.

5. Essere certi di aver capito. Se non si ha l’assoluta certezza di aver compreso quello che il partner voleva dire, meglio chiedergli di ripetere piuttosto che rischiare di terminare la discussione senza aver capito. Inoltre, è bene essere certi di affermare esattamente ciò che si voleva dire, senza rischiare di essere presi dalla foga della lite.

            Cercare le soluzioni per uscirne.

1. Prestare attenzione. Durante una discussione accesa è fondamentale che il partner sappia di essere ascoltato. Può essere utile spiegare il motivo del disaccordo. In questo caso, però, una frase come “Capisco il tuo punto di vista ma non sono d’accordo” è decisamente più utile di un secco “Non sono d’accordo con te”.

2. Ammettere gli errori. Se a un certo punto ci si rende conto di aver sbagliato, meglio ammetterlo. Non c’è nulla di peggio che perseverare in una posizione errata solo per orgoglio. Il partner sarà molto più incline ad ascoltare e a trovare un punto di incontro.

3. Analizzare la situazione. L’ideale, secondo la sessuologa britannica, è che al termine della lite i due partner si chiedano reciprocamente come evitare che succeda ancora in futuro. Meglio mettere sul tavolo le soluzioni possibili e, quando ci si riesce, combinare le diverse idee per trovare la soluzione perfetta.

4. Smettere di parlarne. Una volta individuata la soluzione, bisogna smettere di rivangare la questione. Può succedere che ci si renda conto che su un determinato argomento si hanno opinioni diverse: è inutile proseguire a discuterne. Meglio capire una volta per tutte che è impossibile andare d’accordo su ogni cosa.

5. Non aspettarsi un bacio. Spesso dopo una lite furiosa si ha la tentazione di darsi un bacio per riappacificarsi. Sono le donne, nella maggior parte dei casi, ad aspettarsi questo atto di tenerezza. Secondo la sessuologa è un errore: bisogna capire che si può essere entrambi vulnerabili.

6. Registrare la lite. Se ci si rende conto di discutere sempre delle stesse cose, può essere utile registrare la discussione e poi ascoltarla in seguito. Questo semplice passo può aiutare a capire molte cose, a mente fredda. Ma anche a rendersi conto di quello che si è detto, e non di quello che si pensava di aver detto.

7. Fare qualcosa di bello insieme. Il giorno dopo aver discusso la frase giusta da dire, sorridendo, è: “Che bello, siamo sopravvissuti. E adesso siamo più forti di prima”. Provare per credere.

Daniela Uva   D la repubblica                      17 ottobre 2015

http://d.repubblica.it/lifestyle/2015/10/16/foto/come_gestire_la_lite_di_coppia_psico-2804524/1

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DALLA NAVATA

29° domenica del tempo ordinario – anno B -18 ottobre 2015.

Isaia                53, 11 «Il giusto mio servo giustificherà molti, ed egli si addosserà le loro iniquità.»

Salmo              33, 22 «Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo.»

Ebrei               04, 16 «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.»

Marco             10, 40 «Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare e dare la propria vita in riscatto per molti.»

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FECONDAZIONE ARTIFICIALE

Utero in affitto, ecco quanto costa (sulla pelle delle donne).

Bambini “perduti” in un limbo legale che li rende figli di nessuno e cittadini senza patria. Donne pagate (una miseria) per portare nel proprio grembo uno, due, tre, a volte – senza saperlo – anche cinque embrioni. Sono loro le prime vittime dell’«utero in affitto».

Se ne distinguono due forme: quella “tradizionale”, in cui si usa l’ovulo della surrogata, che è così madre biologica del neonato; e quella gestazionale, in cui la surrogata è solo un “involucro”. In questo caso l’embrione è creato con fecondazione in vitro usando ovulo e seme degli “aspiranti genitori”; ovulo o seme proveniente da una donatrice o un donatore; sia ovulo che seme provenienti da donatori. Negli ultimi anni si pratica in modo quasi esclusivo la surrogazione gestazionale, nel tentativo di eliminare qualcuna delle ingenti complicazioni etiche relative al legame che si instaura tra donna e bambino durante la gravidanza.

            La pratica viene distinta anche in “altruistica”, quando la surrogata non è pagata per il suo servizio di utero in affitto (ma le spese mediche sì) e “commerciale”, se nelle spese è inclusa anche la “parcella” della surrogata. Il fenomeno non ha una normativa omogenea. In alcuni Paesi è illegale (Italia, Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Cina) e chi è coinvolto è perseguibile penalmente. In altri è legale solo quella “altruistica” (Regno Unito, Irlanda, Danimarca, Belgio), mentre quella commerciale è proibita. In altri ancora non esiste un preciso quadro legislativo (Svezia). Infine ci sono nazioni dove la maternità surrogata commerciale è legale (alcuni Stati Usa, India, Ucraina, Russia, Georgia). Tra questi ultimi, Stati Uniti (in particolare la California, hub nazionale per le gravidanze surrogate), India e Ucraina sono considerati i Paesi fautori del boom dell’industria della surrogazione commerciale. In particolare, New Delhi e Kiev si sono costruite una reputazione presentandosi come mecca del “turismo procreativo”, fornendo assistenza medica di qualità a poco prezzo.

            I costi variano da Paese a Paese. Negli Usa una coppia può arrivare a spendere tra i 100mila e i 150mila dollari per avere un figlio con questo sistema, di cui dai 14mila ai 18mila vanno alla surrogata. In India e Ucraina i prezzi scendono: 30mila-40mila dollari (di cui appena 800-2.500 alla surrogata) a New Delhi; 30mila-45mila dollari a Kiev, dove la surrogata riceverà 10mila-15mila dollari.

            I dati relativi alle nascite sono difficili da ottenere, poiché molti Paesi non li diffondono. Nel 2010 in California sono nati circa 1.400 bambini, la metà dei quali su richiesta di coppie straniere. In India operano oltre 3mila cliniche, per un business che supera i 400milioni di dollari l’anno e porta a termine almeno 1.500 casi di surrogazioni l’anno, un terzo dei quali per conto di stranieri. In Ucraina nel 2011 sarebbero state portate a termine con successo 120 gravidanze, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Metà degli accordi coinvolge coppie straniere.

            Nonostante le restrizioni (o proibizioni) vigenti in molti Paesi, è un mercato in crescita che, secondo le stime, frutta circa 6 miliardi di dollari l’anno a livello internazionale. Eppure, sono tantissimi gli scandali avvenuti in questi anni che mettono in luce gli aspetti più equivoci dell’utero in affitto, spingendo alcuni Stati a ripensare le proprie leggi. È nota la vicenda di Gammy, nato da surrogata thailandese nel 2014 e abbandonato dai genitori acquirenti australiani perché Down. Dopo il suo caso, il governo di Bangkok ha vietato la surrogazione commerciale agli stranieri.

            Altra storia celebre è quella di Baby Manji, nata nel 2008 in India su commissione dei giapponesi Ikufumi e Yuki Yamada. A un mese dal parto la coppia divorzia: il padre vuole tenere la piccola, l’ex moglie no. Né l’ambasciata giapponese né le autorità indiane possono rilasciare alla bimba un passaporto: per legge, il documento può essere emesso solo in base alla nazionalità della madre. Ma nessuna delle tre mamme “potenziali” – la surrogata, l’ex moglie, la donatrice dell’ovulo – intende riconoscere la piccola. Dopo una lunga battaglia legale, l’uomo ottiene un certificato d’identità per tornare in Giappone con la piccola.

            Più vicino è il caso dei coniugi Le Roch, francesi. La surrogazione oltralpe è illegale e ai nati da questa pratica non si riconosce la cittadinanza (ma la giurisprudenza recente sta sovvertendo questa regola). Tuttavia nel 2010 volano in Ucraina per affittare una surrogata, che mette al mondo due gemelle. Dietro suggerimento dell’agenzia, la coppia dice all’ambasciata francese a Kiev di aver partorito lì le piccole, per ottenere i passaporti: i funzionari fiutano l’inganno e respingono la richiesta. Anche la legge ucraina è inappellabile, perché considera le piccole come cittadine francesi. Il padre tenta di scappare di nascosto in Ungheria con le gemelle ma, scoperto, viene accusato di traffico umano dall’Ucraina. I coniugi Le Roch sono tuttora a Kiev, con le due bambine, nella speranza di ricevere i passaporti francesi

Giulia Mazza             avvenire         15 ottobre 2015

www.avvenire.it/Vita/Pagine/utero-in-affitto-merrcato-globale-da-6-miliardi-di-dollari.aspx

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Unioni civili. Non basta decidere, bisogna decidere bene.

Su una cosa non si può discutere: l’impianto della proposta Cirinnà sulle unioni civili ha diviso il Paese. Oltre all’ampio e appassionato dibattito parlamentare, sui giornali, sui media, ci sono montagne di sondaggi demoscopici che lo dimostrano, così come lo confermano le frequenti e spesso affollatissime manifestazioni di piazza promosse nei mesi scorsi.

Una situazione nella quale prudenza e saggezza avrebbero suggerito una dose supplementare di riflessione ed ascolto, soprattutto al governo. Riflessione che dovrebbe essere una virtù obbligata, cui fare appello quando si vanno a toccare le radici culturali, identitarie e perfino economiche della nostra società. Ascolto che dovrebbe essere d’obbligo politico nei confronti della società civile.

Purtroppo non è stato così. Con un atto di forza che ha ben pochi precedenti il Pd, pur in presenza di un rilevante dibattito al proprio interno, in pochissimi giorni ha scelto di imporre un proprio testo direttamente all’esame dell’aula del Senato. Ad aggravare la negatività di questa accelerazione, il testo proposto non inserisce novità particolari, né fa tesoro della lunga e impegnativa discussione in Commissione Giustizia. Anzi, in modo anche un po’ beffardo, il “nuovo” testo presentato direttamente in aula è sostanzialmente una “copia conforme” del precedente testo Cirinnà. Senza alcun rispetto del lavoro parlamentare di questi mesi, delle indicazioni della Consulta e soprattutto dell’appello alla prudenza arrivato con chiarezza da tante parti del Paese. Si torna così a proporre (o tentare di imporre) un simil-matrimonio per le unioni omosessuali, con tanto di possibilità di adottare i bambini (con la stechild adoption, nodo ampiamente contestato da tanti), con il rischio – reale e concreto – di poter accedere con facilità a forme di maternità surrogata inaccettabili, oltre che illegali.

Forse questa fretta serve solo per mettere una bandierina nella lista delle “cose fatte”, e il dibattito potrà proseguire nei prossimi mesi, vista l’agenda delle priorità parlamentari. Però è grave che su un tema così importante per la vita quotidiana delle persone, si sia scelta una soluzione di forza, che divide, anziché unire. Divide nei partiti, nel governo, nel Parlamento, nel Paese. Su un tema così importante non basta decidere: è fondamentale decidere bene. Ci ripensi, chi cerca facili scorciatoie. Il Paese non resterà in silenzio.

Comunicato stampa              14 ottobre 2015

www.forumfamiglie.org/comunicati.php?filtro=ultimi_30_giorni&comunicato=781

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

ChiedoPapa: chiedo perdono per gli scandali a Roma e in Vaticano.

Chiedo perdono “per gli scandali che in questi ultimi tempi sono avvenuti sia a Roma che in Vaticano”. Il Papa ha iniziato con queste parole l’udienza generale di stamattina in Piazza San Pietro, dedicata a una riflessione sulle “promesse” che i genitori fanno ai loro figli mettendoli al mondo e sulle quali, ha detto, Dio veglia. Francesco ha poi concluso chiedendo preghiere per il Sinodo e levando un appello per la prossima Giornata mondiale del Rifiuto della miseria. (…).Il servizio di Alessandro De Carolis

“Guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo”. Difficilmente non procura un brivido questa frase di Gesù. Questo avvertimento così pacato, definitivo, e così dirompente tra le parole di accoglienza, perdono, amore che riempiono il Vangelo.

“In nome della Chiesa, vi chiedo perdono”
Il brano di Matteo che introduce l’udienza generale, e che servirà per sviluppare la sua catechesi, viene anzitutto utilizzato da Papa Francesco come premessa per una affermazione che, come le parole di Cristo, risuona tra la folla di Piazza San Pietro con un’eco che impressiona:

“Io vorrei, prima di iniziare la catechesi, in nome della Chiesa, chiedervi perdono per gli scandali che in questi ultimi tempi sono avvenuti sia a Roma che in Vaticano, vi chiedo perdono”.

La promessa che chiede lealtà.
Il tema dello scandalo e del perdono lega le considerazioni che Francesco, con acume e delicatezza, fa parlando di un aspetto specifico della vita di famiglia, “le promesse ai bambini”. Non tanto, dice, la caramella data per distoglierli da un capriccio o qualsiasi altro “trucchetto” di un genitore escogitato per tenerli buoni. La promessa di cui parla il Papa è quella che una mamma e un papà fanno al loro figlio nel momento stesso in cui desiderano metterlo al mondo. Una promessa che non ammette superficialità:

“Tutti diciamo: i bambini sono una promessa della vita. E siamo anche facili a commuoverci, dicendo ai giovani che sono il nostro futuro, è vero. Ma mi domando, a volte, se siamo altrettanto seri con il loro futuro, con il futuro dei bambini e con il futuro dei giovani! Una domanda che dovremmo farci più spesso è questa: quanto siamo leali con le promesse che facciamo ai bambini, facendoli venire nel nostro mondo?”.

I bambini si aspettano amore.
Ciò che promettiamo, elenca Francesco, sono “accoglienza e cura, vicinanza e attenzione, fiducia e speranza”. In una parola, “amore”:

“L’amore è la promessa che l’uomo e la donna fanno ad ogni figlio: fin da quando è concepito nel pensiero. I bambini vengono al mondo e si aspettano di avere conferma di questa promessa: lo aspettano in modo totale, fiducioso, indifeso. Basta guardarli: in tutte le etnie, in tutte le culture, in tutte le condizioni di vita! Quando accade il contrario, i bambini vengono feriti da uno ‘scandalo’, da uno scandalo insopportabile, tanto più grave, in quanto non hanno i mezzi per decifrarlo”.

Dio ama i bambini.
Anzi, rimarca il Papa, “la loro spontanea fiducia in Dio non dovrebbe mai essere ferita, soprattutto quando ciò avviene a motivo di una certa presunzione (più o meno inconscia) di sostituirci a Lui”:

“Il tenero e misterioso rapporto di Dio con l’anima dei bambini non dovrebbe essere mai violato. E’ un rapporto reale, che Dio lo vuole e Dio lo custodisce. Il bambino è pronto fin dalla nascita per sentirsi amato da Dio, è pronto a questo. Non appena è in grado di sentire che viene amato per sé stesso, un figlio sente anche che c’è un Dio che ama i bambini”.

Lo sguardo dei bambini è lo stesso di Gesù.
Ed è proprio l’amore dei genitori per i figli, afferma Francesco, a portare in sé “una scintilla di quello di Dio”:

“Voi, papà e mamme (…) siete strumento dell’amore di Dio e questo è bello, bello, bello! Solo se guardiamo i bambini con gli occhi di Gesù, possiamo veramente capire in che senso, difendendo la famiglia, proteggiamo l’umanità! Il punto di vista dei bambini è il punto di vista del Figlio di Dio”.

Alessandro De Carolis: Notiziario Radio vaticana – 14 ottobre 2015

http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

 

                       

httpsTesto ufficiale                  http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiencesspeeches/2015/september/documents/papa-francesco_20151014_udienza-generale.htm20150922_cuba-famiglie.html

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NULLITÀ MATRIMONIALE

Sposarsi da cattolici: una questione pastorale.

            Testo ufficiale             

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NULLITà matrimoniale

SPOSARSI DA CATTOLICI:

UNA QUESTIONE PASTORALE

 

A Sinodo sulla famiglia in corso,

non è forse inutile tornare sul

Motu proprio con il quale,

poche settimane fa, papa

Francesco ha fortemente

innovato le procedure per l’ottenimento

dell’eventuale dichiarazione di nullità dei

matrimoni contratti dai cattolici ha dato

luogo a una serie di commenti, quasi

sempre favorevoli, che hanno interessato

soprattutto i giuristi. Ma il tema presenta

anche un interessante risvolto pastorale,

sul quale mette conto di richiamare

l’attenzione di quanti operano da molti

anni, come chi scrive, nell’ambito della

pastorale familiare.

Non è infrequente il caso di richieste di

nullità presentate a breve, e talvolta a

brevissima, distanza dalla celebrazione

delle nozze con il rito cattolico. Agli occhi

di qualcuno la Chiesa appare un’

istituzione che “fa” e insieme che “disfa”…

come è possibile, infatti, che si celebri un

matrimonio in Chiesa e che poi la stessa

Chiesa possa dichiararlo “non avvenuto”?

Rimettendo alla professionalità dei giuristi

la valutazione dei casi concreti, sul piano

pastorale si deve constatare che non

poche volte dietro le dichiarazioni di

nullità sta una inadeguata verifica della

qualità del consenso. Vi sono matrimoni

contratti per “legittimare” una gravidanza

magari indesiderata (i casi sono oggi, in

clima di diffuso permissivismo, meno

numerosi che in passato, ma esistono

ancora) o anche per venire incontro alle

richieste di un presunto “coniuge” (non di

rado straniero) in vista di una serie di

benefici, a partire dall’acquisizione della

cittadinanza.

Quale che sia, comunque, la causa della

“nullità”, ci si deve pastoralmente

domandare se siano stati realmente

effettuati quei cammini di fede che la

Chiesa propone (e, almeno teoricamente,

impone) a tutti i nubendi e se il celebrante

realmente, personalmente, ha

attentamente verificato la qualità del

consenso (ma è nota l’usanza di celebrare i

matrimoni – talora sottraendosi a un serio

cammino di fede – in santuari e chiese

monumentali, in talune delle quali vigono

“tempi di attesa” a volte di molti mesi…).

È proprio certo che dalle “maglie” di un

percorso pastorale che la Chiesa italiana,

con solenni e più volte riaffermati

documenti, esige per tutti coloro che

vogliano celebrare il matrimonio con il rito

cattolico, fuoriesca una componente che,

in un modo o nell’altro, rifugge da questo

percorso, magari ricorrendo a “parroci

amici”, a ben disposti religiosi, a presbiteri

critici nei confronti di “direttive calate

dall’alto”?

Sarebbe importante che delle

dichiarazioni di nullità emanate nelle varie

diocesi venisse data notizia (in tutta

riservatezza) agli Uffici della pastorale

familiare competenti per territorio. Si

potrebbe così verificare se matrimoni

spesso frettolosamente celebrati e

altrettanto rapidamente dichiarati nulli

non siano anche il frutto di silenzi e di

omissioni. Non si tratta di operare censure

o di comminare sanzioni, ma di aiutare

tutta la comunità ad affrontare con

coraggio e con lungimiranza – non con

pressapochismi e frettolosità – un

momento decisivo per il futuro della

famiglia e della stessa Chiesa: la

preparazione a un matrimonio che, per

essere cristiano, deve essere prima di tutto

autentico e come tale non esposto, salvo

casi particolari, a successive dichiarazioni

di nullità.

Giorgio Campanini    Avvenire 14 ottobre /10/2015

www.avvenire.it/Commenti/Pagine/sposarsi-da-cattolici-una-questione-pastorale.aspx

{Il parroco che ha approvato la celebrazione del matrimonio sacramento sia convocato come testimone nella procedura per la nullità. ndr}

 

di Giorgio Campanini

                       

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OMOFILIA

                                  

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sabato 17 ottobre 2015

Sull’omosessualità: uno sguardo nuovo?

di Antonio Autiero*

 

«Omosessualità ed etica cristiana. Un clima che cambia?». È il titolo dell’intervento che il prof. Antonio Autiero, docente emerito di teologia morale a Münster, ha tenuto il 20 maggio 2015 alla conferenza internazionale «View of the Family and Sexuality in the Catholic Church after the Second Vatican Council», presso la Facoltà di teologia dell’Università di Lubiana. Il testo prende le mosse da una tensione che segna il mondo ecclesiale – «quell’intreccio tra volontà di ripensamento sull’atteggiamento comprensivo verso persone omosessuali e bisogno di affermazione della dottrina morale» –, e che il doppio appuntamento sinodale ha riproposto con forza.

«Pur mantenendo aperta la tensione», Autiero riconosce «che un cambiamento di clima è certamente in atto», e che esso vada «compreso nelle sue intenzioni e approfondito nelle sue implicazioni». Cinque gli elementi che ridisegnano a suo dire «l’orizzonte di senso della domanda e possono fornire elementi determinanti per uno sguardo nuovo»: la considerazione sociale del fenomeno; il confronto sul tema in ambito ecumenico; il lavoro della teologia morale; una mutata comprensione dei rapporti di genere; uno spostamento di enfasi «da un’etica degli atti singoli alla moralità della persona in relazione». Originale digitale in nostro possesso.

           

Saremmo forse rimasti anche noi sorpresi a sentire dalle labbra di papa Francesco, sul volo di ritorno da Rio de Janeiro, quelle parole che hanno fatto, poi, il giro del mondo: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?».

 

La nostra sorpresa non sarebbe solo legata allo stile estemporaneo, efficace, autentico del parlare di papa Bergoglio. E neppure si spiegherebbe con la forma interrogativa del «chi sono io?», quasi che con essa venga a destabilizzarsi l’autorevolezza o l’autorità del magistero papale. Essa si nutre piuttosto della scoperta di segnali importanti che qualcosa, anche all’interno della Chiesa, sta cambiando nella valutazione etica dell’omosessualità. Le parole del papa vanno lette sullo sfondo di tutto un processo di ripensamento di questi ultimi tempi, anche in coincidenza con la fase preparatoria delle due sessioni del Sinodo dei vescovi sulla famiglia.

           

Particolarmente in alcuni gruppi di omosessuali cattolici viene svolto un lavoro di riflessione a partire dai Lineamenta del Sinodo, cogliendo qualche segno di speranza, ma anche fattori di inquietudine, come attesta il recente documento del Bureau National de David & Jonathan di Parigi. Si riscontra, infatti, che, soprattutto nella versione intermedia della relazione del Sinodo straordinario del 2014, «in rottura con i discorsi ufficiali di Roma, (…) venivano citati i doni e le qualità che gli omosessuali possono apportare alle comunità cristiane. Inoltre veniva rilevato che nelle coppie dello stesso sesso, il sostegno reciproco può costituire un aiuto prezioso per la vita dei partner. Abbandonando una concezione esclusivamente negativa dell’omosessualità, i padri sinodali sembrano allontanarsi da un discorso di totale condanna, anche se i paragrafi di questo testo intermedio, per pochissimi voti, non sono stati pubblicati con gli atti della prima sessione del Sinodo».

 

Ho voluto far riferimento a questa vicenda del testo sinodale, perché mi pare che essa possa essere presa a emblema di quell’intreccio tra volontà di ripensamento sull’atteggiamento comprensivo verso persone omosessuali e bisogno di affermazione della dottrina morale che ribadisce che «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia».

Pur mantenendo aperta la tensione tra questi due aspetti, vorrei tuttavia riconoscere che un cambiamento di clima riguardo alla questione dell’omosessualità è certamente in atto. Esso va compreso nelle sue intenzioni e va approfondito nelle sue implicazioni. Vorrei fare questo, ricorrendo ad alcuni fattori decisivi che fanno da leva, per capire tale mutamento di clima. Mi riferisco a cinque elementi che ridisegnano l’orizzonte di senso della domanda e possono fornire elementi determinanti per uno sguardo nuovo.

 

Configurazione sociale.

Il primo fattore è di carattere prevalentemente descrittivo e si riferisce alla considerazione sociale che generalmente accompagna oggi il fenomeno omosessuale.

 

La coscienza critica dell’uomo moderno e la sua vigilanza contro ogni forma di discriminazione sono elementi importanti per una ricollocazione delle persone omosessuali, nello spazio pubblico. Il loro disagio interiore e la loro marginalizzazione sociale trovano occasioni, anche se talvolta solo abbozzate, di superamento da parte di una collettività che si mostra sempre più tollerante e accogliente. La stigmatizzazione della condotta omosessuale come anomalia sociale, come malattia o addirittura come crimine sembra in molte società evolute una cosa appartenente al passato. In molta parte scaturisce da questo mutato atteggiamento anche una serie di politiche positive di contrasto all’omofobia.

 

D’altra parte, la possibilità di forme di vita, anche organizzata e rilevante dal punto di vista giuridico tra persone omosessuali porta in molte parti ad adattamenti legislativi che creano nuovi spazi di riconoscimento e magari anche nuove figure giuridiche di vita di coppia e di comunanza di vita familiare, tra persone dello stesso sesso.

 

L’incalzare di questa nuova fenomenologia della prospettiva pubblica dell’omosessualità può produrre forse in tante persone incertezze e irritazioni. Essa ha tuttavia un valore di segno positivo per il cambiamento di sguardo etico e per la maturazione calibrata di un atteggiamento di accoglienza e di apertura che può essere di comune utilità. È difficile dire quanto influsso abbia avuto la visione tradizionale negativa della morale cattolica su una cultura dell’intolleranza e del rifiuto. Come anche è difficile non vedere il condizionamento della posizione tradizionale della morale cattolica sull’autocomprensione di sé delle persone omosessuali.

  1. Certo è, invece, che proprio da un cambiamento di clima nell’etica cristiana dell’omosessualità si possono liberare risorse positive per politiche di integrazione sociale e per soluzioni legislative ben misurate sui bisogni di riconoscimento collettivo e più rispettose della condizione umana di persone omosessuali.

 

Magistero in stato itinerante.

Un secondo fattore che descrive un cambio di passo è dato da alcuni elementi intrinseci alle espressioni di insegnamento della Chiesa, riguardo all’omosessualità. Qui si capisce che la nostra attenzione è orientata principalmente alla dottrina cattolica, tuttavia va riconosciuto che l’omosessualità rappresenta una vera e propria pietra di inciampo anche in altre confessioni cristiane e in generale nelle religioni monoteistiche.

 

Nel Catechismo della Chiesa cattolica (1997), agli artt. 2357-2359 troviamo la sintesi della lezione dottrinale del magistero cattolico. Andiamo al testo:

«[2357] Appoggiandosi sulla sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni (Gen 19,1-29; Rm 1,24-27; 1Cor 6,10; 1Tm 1,10), la Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati” (Congregazione per la dottrina della fede, Persona humana, n. 8). Essi sono contrari alla legge naturale, poiché precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati.

[2358] Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali innate. Costoro non scelgono la loro condizione omosessuale; essa costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce delcrocedel Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.

[2359] Le persone omosessuali sono chiamate alla castità».

 

Come si vede il Catechismo distingue tra tendenza omosessuale (innata, quindi non un «peccato» di per sé, ma comunque segno di un’immaturità psicologica) e condotta omosessuale (volontaria, e quindi peccato). Tale distinzione non è irrilevante. Essa costituisce uno stadio piuttosto recente di consapevolezza. «Solo nel secolo scorso maturò la percezione di una categoria di persone che non solo pongono in essere singoli comportamenti omosessuali, ma che sono esclusivamente (o prevalentemente) attratte da persone dello stesso sesso».

 

Accettando la distinzione tra orientamento e comportamento omosessuale (questo viene introdotto per la prima volta in documenti del magistero con la dichiarazione Persona humana, del 1975), e definendo l’ammissibilità dell’una e l’immoralità dell’altro, si viene a porre la base tra quella oscillazione che consente un atteggiamento di vicinanza alla persona omosessuale, ma anche di presa di distanza e quindi di giudizio morale negativo sui suoi atti. Questi vengono giudicati sulla base di elementi ricorrenti e fondativi che sono: la fonte biblica, la tradizione, la legge naturale, una visione di complementarietà di genere. Ma proprio questi elementi fondativi del giudizio morale rivelano anche la loro problematica fragilità, anzi entrano in crisi, quando si va ad approfondirne il senso e la portata. E questo è un compito di cui si fa carico la riflessione teologica.

 

Non risulta privo di interesse il fatto che, quasi contemporaneamente al testo del Catechismo della Chiesa cattolica, altre Chiese e confessioni cristiane si esprimano in maniera organica sul tema dell’omosessualità. È il caso, per esempio, del documento della Chiesa evangelica in Germania (EKD), che nel 1996 pubblica il documento sul tema «omosessualità e Chiesa», dal titolo Mit Spannungen leben (Vivere con le tensioni).

 

Prendendo spunto dai risultati delle ricerche nelle scienze umane, comportamentali e sociali e pur ricorrendo alle fonti bibliche e all’esperienza vissuta delle persone, il tema della distinzione tra orientamento e comportamento omosessuale non viene stilizzato in maniera così severa e rigida, ma lo sguardo viene rivolto all’unità della persona, della sua storia, del suo travaglio di equilibrio tra autocoscienza, identità e condotta. Più recentemente, nel 2007, in contesto italiano, il documento congiunto dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI) e delle Chiese metodiste e valdesi rilegge il tema dell’omosessualità nel quadro delle espressioni di amore e di relazione tra le persone, le cui forme non possono essere discriminate o gerarchizzate. In altre parti del mondo le Chiese della Riforma si sono espresse con toni e contenuti di uguale segno.

 

  1. Una maggiore sensibilità ecumenica e più dialogo tra le Chiese cristiane potrebbe offrire spunti originali e fruttuosi per comprendere le ragioni e le esigenze di un clima nuovo, anche nella Chiesa cattolica. Ma è il lavoro della teologia – in particolare della teologia morale – a essere maggiormente richiesto. C’è da chiedersi in che modo essa stia aiutando e possa ancora aiutare per un cambiamento di clima nella valutazione etica dell’omosessualità.

 

La discussione teologica.

Si è visto sopra che i riferimenti fondativi per la dottrina del magistero in tema di omosessualità (e di sessualità più in generale) sono la fonte biblica, la tradizione, la legge naturale e una visione di complementarietà di genere. Questi elementi rimandano all’esegesi biblica, al sapere filosofico-teologico, alla riflessione antropologico-etica e non ultimo alle investigazioni delle scienze sociali, i cui risultati possono essere rilevanti anche per le teorie etiche e la fondazione dei giudizi morali.

 

Si tratta, cioè, di un intreccio pluridisciplinare che percepisce ed elabora la complessità del tema e apre la teologia morale a un doveroso superamento della pretesa di autoreferenzialità, rendendola sensibile all’esercizio di ascolto delle altre discipline, intra ed extra teologiche. Su questa premessa si fonda anche il servizio che la teologia rende al magistero, intercettando il senso del suo messaggio, rilevandone la plausibilità, ma anche mettendo in evidenza i punti di non ritorno nelle acquisizioni di conoscenze esegetiche, filosofiche, teologiche, antropologiche.

 

Ora, se si guarda l’andamento degli sviluppi scientifici della teologia degli ultimi decenni, si rileva un crescente, anche se non unanime, consenso sulla comprensione storicamente segnata delle premesse e delle conclusioni su cui il dettato dottrinale ancora oggi insiste.

 

Partendo dall’accostamento ai testi biblici che normalmente vengono impiegati per la condanna del comportamento omosessuale, si vede anzitutto che essi sono molto pochi e che l’interpretazione univoca che si faceva di questi testi, fino a un recente passato, oggi è messa in discussione da più parti. S’impone innanzitutto un’onesta consapevolezza del loro reale contenuto. E questo è possibile solo mediante una lettura dei testi sullo sfondo delle condizioni storico-sociali e religioso-rituali dei loro rispettivi contesti.

 

Per fare questo, l’ermeneutica biblica degli ultimi decenni offre opportunità che non possono più essere trascurate. Generalmente i testi che si apportano «hanno di mira atti omosessuali di persone eterosessuali. Essi non tengono conto della possibilità di un orientamento permanente di persone adulte che si sentono attratte da persone dello stesso sesso. Altrettanto assente è l’idea che tale attività possa essere espressione e mezzo per l’approfondimento di una relazione tra partner. Ma nell’attuale discussione è proprio di questo gruppo di persone che si tratta, di quelli cioè che percepiscono il loro orientamento omosessuale non come alternativa di libera scelta rispetto all’orientamento eterosessuale».

 

Anche il luogo argomentativo più ricorrente dal punto di vista sistematico domanda di essere ripensato, cioè il tema della legge naturale: da cui deriva il carattere di naturalità o di contra-naturalità degli atti sessuali. La visione prevalentemente biologistica della legge naturale, come eredità di una gran parte della tradizione cattolica, è debitrice a convinzioni storicamente segnate e oggi adeguatamente superate. Il criterio dell’adeguatezza di un’azione alla sua finalità resta un valido punto di riferimento, ma richiede costante verifica della comprensione giusta del rapporto tra atto e fine, nella definizione del carattere morale sia dell’azione compiuta sia, soprattutto, del soggetto che agisce. Per il tema della sessualità, la convergenza dei suoi atti con la finalità della riproduzione della vita è espressione di una concezione di sessualità che le scienze sia biologiche sia umane hanno convenientemente chiarito. La visione di segno antropologico porta a comprendere la sessualità in regime di polivalenza e di integrazione tra dimensioni e valori che vanno al di là della semplice finalità riproduttiva.

 

S’impone, quindi, un allargamento semantico dell’orizzonte, per poter porre il tema della natura degli atti a partire dalla natura della persona.

D’altra parte, il concilio Vaticano II, sebbene nel contesto di una diversa questione di etica sessuale, afferma nella Gaudium et spes, al n. 51, che la dimensione morale della sessualità deriva in definitiva «ex personae eiusdemque actuum natura», dalla natura stessa della persona e dei suoi atti. Che qui si tratti di una grandezza antropologica e non biologica è del tutto chiaro e può essere compreso anche dal fatto che al termine «natura» venga sostituito quello di «dignità», o di «essenza», in alcune traduzioni ufficiali del testo conciliare. La riflessione teologica deve qui venire incontro al magistero, facendo cogliere tutta la ricchezza, ma anche per richiamare quella linea di evoluzione che non consente di tornare indietro a prima del Concilio. Il passo fatto è centrale per la comprensione di un modo di vedere la natura umana non come organizzazione di meccanismi e di funzioni, ma come natura della persona, cioè della sua storia, dei suoi ideali, delle sue possibilità e della sua responsabilità.

 

Muovendo dall’impulso di questo mutato paradigma, la riflessione etico-teologica degli ultimi decenni si è presentata più differenziata, meno univoca sulle posizioni assunte rispetto all’omosessualità. In una buona ricostruzione sintetica il teologo cattolico Wunibald Müller indica alcuni raggruppamenti di posizioni che oscillano da un fronte all’altro. C’è chi non riconosce la moralità dell’orientamento omosessuale, e di conseguenza rifiuta anche gli atti omosessuali; c’è chi esprime un sì verso l’orientamento, ma mantiene il suo no ai comportamenti; c’è chi accetta l’orientamento omosessuale, e di conseguenza dice il suo «sì» – più o meno diversificato – anche al comportamento omosessuale.

 

  1. Da parte sua l’americano  James Keenan, elaborando una presentazione del dibattito negli USA, conclude che «il dibattito aperto è un dibattito esteso e che attraversa tutto il mondo cattolico. Nell’impegnarsi in questo dibattito, i teologi morali non convalidano superficialmente stili di vita personali, ma piuttosto propongono una serie di criteri per valutare la moralità del modo in cui le persone gay e lesbiche ordinariamente vivono la loro vita. Il dibattito ci aiuta a vedere che la tradizione cattolica è ricca, umana e capace di aiutare le persone gay e lesbiche a trovare modi morali per vivere adeguatamente la loro vita e le modalità in cui esse sono chiamate ad amare».

 

Polarità di genere.

Tra gli elementi caratterizzanti la visione dottrinale della Chiesa sulla sessualità in generale e l’omosessualità in particolare – lo abbiamo visto sopra – c’è il costante ricorso alla figura bipolare maschile/femminile. Dalla lettura dei racconti di creazione (Gen 1-2), e in una storia piuttosto variegata della loro recezione in contesto teologico, etico, rituale, si è consolidata una determinata visione di rapporto tra maschi e femmine, che più recentemente ha adottato una cifra di ricognizione espressa nella categoria di complementarietà di genere.

Alla comprensione dell’evoluzione dei modelli di rapporto tra sfera maschile e sfera femminile hanno contribuito diverse discipline, dalla biologia all’antropologia culturale, dalla filosofia e teologia alle scienze umane e sociali. Non si può negare, tuttavia, che la chiave di lettura predominante, in contesto etico-teologico, sia stata quella della determinazione biologica. Il venire al mondo in un corpo caratterizzato sessualmente al maschile o al femminile segnava anche definitivamente l’appartenenza di genere e fissava le differenze in modo speculare tra di loro, così da comprendere la forma di relazione solo in considerazione della polarità complementare di genere. La dottrina del matrimonio, anche in ambito giuridico e sacramentale vive di questo dato fondamentale.

  1. Ora, va tenuto conto anzitutto che una simile visione può accentuare in modo non equilibrato l’ottica della differenza e occultare il dato fondamentale dell’unità dell’essere umano, pur nella diversità delle sue espressioni. Lo dice opportunamente il teologo italiano Giannino Piana, quando scrive che «le differenze tra uomo e donna devono essere collocate all’interno di un’unità originaria e sono, in ogni caso, molto più limitate degli elementi comuni attorno ai quali si realizza la convergenza». Inoltre, si pone il problema della costruzione di identità di genere, cosa molto più complessa e articolata che non la specificazione del sesso biologico. Gli studi su questi temi – i cosiddetti gender studies – mettono in risalto l’intreccio di fattori diversi che entrano in gioco nella costruzione di tale identità: essi sono l’identificazione del sesso biologico, l’orientamento sessuale, il ruolo sociale assegnato e il comportamento sessuale assunto. L’intreccio di questi elementi, mette in un certo senso in questione una sorta di «metafisica sostanziale» (Substanzmetaphysik – Saskia Wendel) dell’identità personale, presente nella visione tradizionale del magistero. Riconoscere l’indole dinamica e complessa della costruzione di identità significa individuare spazi di possibile percezione della propria condizione di soggetti umani e di possibile declinazione del potenziale di relazione all’altro, sia nella forma eterosessuale che in quella omosessuale. Sia nel magistero della Chiesa sia nell’elaborazione teologica questi aspetti sono ancora troppo poco presi in considerazione. Anzi, negli ultimi tempi pare che si stia accentuando un discorso di rifiuto non sempre competentemente argomentato della cosiddetta teoria di genere, vista come la fonte di disordine morale e di pericolo nella convivenza sociale. Questa radicale avversione non aiuta di certo a superare un’ottica di polarità che in definitiva genera contrapposizioni e violenze, di cui molti ambienti omosessuali sentono e denunciano il peso. Il teologo morale deve essere più attento su questo versante del discorso, sia per comprendere le eccedenze di alcune espressioni della prospettiva di genere (quelle radicalmente costruttivistiche di Judith Butler, ad esempio, opportunamente evidenziate da Saskia Wendel), sia anche nell’individuare gli aspetti positivi di questi elementi di conoscenza e di consapevolezza che toccano anche la condizione omosessuale.
  2. Spostamento di enfasi nell’etica sessuale. Un ultimo elemento per un nuovo clima nella questione omosessuale riguarda più in generale il modo in cui si possano pensare oggi l’etica sessuale, in una logica convincente e in un linguaggio plausibile. Da questo si capisce che la questione omosessuale riguarda in definitiva tutti. Nel mutamento di paradigma, da un’ottica monovalente a una prospettiva polivalente della sessualità e, ancor più, nello spostamento di enfasi da un’etica degli atti singoli a una moralità della persona in azione, devono essere ricercati ed elaborati i criteri di valutazione anche della condizione omosessuale. Volendo puntare a un’affermazione sintetica ed essenziale, si può dire che il cammino dell’etica sessuale contemporanea, anche nelle diverse formulazioni teologiche, cattoliche e non, registra un mutamento che mette al centro del discorso morale la verità della relazione interpersonale. Gli approcci di un’etica della relazione (Beziehungsethik, come la chiamano Regina Ammicht-Quinn o Karl-Wilhelm Merks) si rivelano fecondi di ispirazione ed esigenti circa la considerazione non relativistica della condotta morale. I soggetti implicati nella relazione affettiva e nella convivenza d’amore sono chiamati a riconoscersi reciprocamente nella loro identità, in quella modulazione di identità che conferisce unità al loro progetto di vita e alla loro consapevolezza di soggetti morali. La qualità della relazione decide della moralità delle persone nel loro reciproco rapportarsi, sostenersi, aiutarsi a vivere in modo autentico. La teologa morale americana Margaret Farley arriva alla conclusione che per le relazioni sessuali, affinché siano «eticamente buone», non gioca un ruolo così decisivo il genere delle persone coinvolte, quanto piuttosto i valori come giustizia, reciprocità di consenso, rispetto vicendevole per la libertà dell’altra persona.

Conclusione. I fattori sopra richiamati sono pensati come aiuto e come occasione favorevole a creare un clima nuovo di comprensione del fenomeno dell’omosessualità e di accoglienza delle persone omosessuali. Molti problemi restano comunque aperti: da una parte c’è da ripensare al rapporto tra dottrina, talvolta ancora rigida, e volontà anche sincera di comprensione pastorale. C’è da chiedersi se una simile divergenza tra dottrina e prassi pastorale possa a lungo reggere e se sia teoreticamente saggio puntare solo su una prassi ammorbidita dal senso di accoglienza, ignorando che comunque gli aspetti dottrinali sono oramai riconosciuti e individuati nei loro punti di fragilità. Inoltre, abbiamo bisogno ancora di mettere a tema tutte le implicazioni, anche giuridiche, istituzionali, pubbliche e politiche, derivanti da un nuovo clima che vediamo all’orizzonte. Anche qui c’è da chiedersi, con saggezza e responsabilità, quali possano essere le figure convenienti per favorire il superamento di prassi discriminatorie, offensive della dignità delle persone omosessuali, e assicurare il riconoscimento delle loro forme di vita comune. La sfida per soluzioni adeguate e consapevoli mette in gioco anche gli equilibri della convivenza sociale. E anche di questo le Chiese e le teologie devono saper rispondere.

            È difficile dire se i tempi siano maturi per cambiamenti significativi, sia di dottrina sia di prassi. E qualcuno dubita anche che le risorse messe in campo dal Sinodo – sia nella sessione straordinaria del 2014 sia in quella ordinaria del 2015 – siano sufficienti per incoraggiare e consentire tali cambiamenti. Al teologo morale, tuttavia, non deve mancare la saggezza nell’indicare con coerenza le implicazioni e le prospettive e neppure il coraggio per alimentare in modo realistico e onesto la speranza di un clima nuovo.

prof. Antonio Autiero, docente emerito di teologia morale, Università di Münster.

Pubblicato in Il Regno-documenti 32,2015, del 9 ottobre 2015

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/sullomosessualita-uno-sguardo-nuovo.html#more

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PARLAMENTO

Camera Assemblea    Affido familiare

14 ottobre 2015. La Camera ha approvato in via definitiva la proposta di legge: Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare (già approvata dal Senato) (C. 2957 con conseguente assorbimento delle abbinate

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0502&tipo=stenografico#sed0502.stenografico.tit00080

Senato 2° Commissione Giustizia Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili in sede referente

12 ottobre. Seguito dell’esame congiunto dei disegni di legge nn. 14, 197, 239, 314, 909, 1211, 1231, 1316, 1360, 1745 e 1763, congiunzione con l’esame dei disegni di legge nn. 2069, 2081, 2084.

Prosegue l’esame congiunto sospeso nella seduta del 22 settembre 2015.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=940773

Senato Aula.   Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili

S2081 Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/940551/index.html

14 ottobre 2015 Il Presidente della Commissione Giustizia Palma ha riferito in Aula sui lavori della Commissione, relativi ai disegni di legge sulle unioni civili; la trattazione in Assemblea avrà luogo senza relazione, non essendosi concluso l’esame in Commissione. Come già indicato dalla Conferenza dei Capigruppo, sarà assunto come testo base il disegno di legge n. 2081, a prima firma della senatrice Cirinnà.

            www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=17&id=941111

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SINODO DEI VESCOVI SULLA FAMIGLIA

Qual è il ruolo di Papa Francesco.

Nel corso delle assemblee, né sui temi all’esame del Sinodo. Ma di certo la sua non è un’assenza. Il documento Ordo Synodi Episcoporum evidenzia i ruoli (attivi) del Santo Padre nell’assemblea sinodale.

Le funzioni del papa. Il Sinodo dei Vescovi è direttamente sottoposto all’autorità del Romano Pontefice, al quale spetta propriamente: convocare il Sinodo; stabilire in tempo opportuno, prima della celebrazione del Sinodo, le questioni da trattare; ratificare l’elezione dei membri; definire l’ordine dei lavori; presiedere il Sinodo personalmente o attraverso altri; decidere sui voti espressi; ratificare le decisioni quando, in casi determinati, abbia concesso al Sinodo potestà deliberativa; concludere, trasferire, sospendere e sciogliere il Sinodo.

“Organo consultivo del pontefice”. Il sinodo, spiega ad Aleteia il professore Fernando Puig, docente di Diritto canonico presso la Pontificia Università della Santa Croce, «è un organo consultivo del Papa: la sua funzione è di aiutarlo, di mettere a sua disposizione un approfondimento, un dialogo e nei limiti del possibile un consenso collettivo sui temi all’ordine del giorno. Più approfondimento, più dialogo e più consenso si raggiunge, meno solo è il papa nell’indicare la linea della Chiesa. Tutto è impostato affinché il papa possa parlare con la voce degli altri vescovi, come fosse insieme a loro nell’annunciare ciò che si deve fare. Il Papa vuole un ambiente sereno e protetto, per incentivare la sincerità e nel possibile la convergenza di idee e proposte: la procedura sinodale ha questa finalità».

La “modifica” in corso delle regole. Un aspetto che va sottolineato è la rigidità delle regole, che il papa non può modificare in corso d’opera. «Essendo un suo organo consultivo – prosegue Puig – il Papa può configurarlo liberamente. Nell’ambito dell’azione collegiale, la chiarezza delle regole di procedura, conosciute da tutti in anticipo è essenziale. Per questo motivo, in parecchi contesti, le leggi che riguardano le procedure delle decisioni hanno un livello quasi costituzionale. Un vecchio principio giuridico dice “Quod omnes tangit ab omnibus approbari debet” (modificare i titoli di partecipazione configura essenzialmente la partecipazione stessa). Di solito non si inizia una riunione fin quando non c’è un accordo chiaro sulle regole. E poi quando ci sono dubbi spesso esiste una commissione giuridica che con criteri appunto giuridici tenta di chiarire i dubbi a beneficio di tutti (o quasi tutti)».

Il relatore e i temi “caldi” del sinodo. Un ruolo delicato che assegna il pontefice è quello del Relatore generale, affidato in questa occasione al cardinale Peter Erdò. E’ lui che nella relazione d’apertura ha tracciato le linee guida del Sinodo su famiglia, matrimonio, comunione ai divorziati risposati, omosessuali. Sempre papa Francesco ha nominato una figura che affianca il Relatore ed è il Segretario Speciale, monsignor Bruno Forte.

Il ruolo dei presidenti delegati. Un’altra figura centrale è il Presidente delegato, che presiede l’assemblea in nome e per autorità del pontefice. Papa Francesco ne ha incaricati quattro: i cardinali André Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi, Luis Antonio G. Tagle, Arcivescovo di Manila, Raymundo Damaesceno Assis, Arcivescovo di Aparecida (Brasile), Wilfrid Fox Napier, Arcivescovo di Durban (Sud Africa). Ai Presidenti delegati compete: guidare i lavori del Sinodo secondo le facoltà attribuitegli nella lettera di delega, secondo l’ordine dei lavori stabilito, nonché secondo le norme procedurali fissate nel presente Regolamento; attribuire ad alcuni Membri, quando se ne ravvisi l’opportunità, compiti particolari affinché l’assemblea possa applicarsi ai suoi lavori in modo migliore; firmare gli atti dell’assemblea.

Gelsomino Del Guercio                     Aleteia                                    16 ottobre 2015

 http://it.aleteia.org/2015/10/16/che-ruolo-ha-e-puo-avere-papa-francesco-in-questo-sinodo/

Sinodo: via tedesca all’accordo?

«Ad prudentiam pertinet non solum consideratio rationis, sed etiam applicatio ad opus, quae est finis practicae rationis ». Ci volevano Tommaso d’Aquino e i suoi colleghi teologi del circolo di lingua tedesca «Germanicus», per cercare di venire a capo del problema fondamentale del Sinodo. Conservatori e riformatori, da una parte le ragioni della dottrina e dall’altra quelle della misericordia, ovvero i comandamenti divini e le situazioni concrete di sofferenza. E la Summa Thelogiae del Dottore D’Aquino — difficile da contestare — a spiegare per l’occasione il rapporto tra la legge e la sua applicazione, poiché il compito della prudenza «non è solo la considerazione della ragione» ma anche la sua «applicazione all’opera» che è «il fine della ragion pratica». Ovvero, spiegano i padri in una cartella e mezza, densa come solo in tedesco e calibrata parola per parola: «Nello spirito di Tommaso d’Aquino e anche del Concilio di Trento, bisogna applicare i principi di fondo con intelligenza e saggezza rispetto alle singole situazioni spesso complesse. Tuttavia non si tratta di eccezioni nelle quali la parola di Dio non sarebbe valida, bensì della questione della giusta ed equa applicazione — con intelligenza e saggezza — della parola di Gesù, ad esempio delle parole sulla indissolubilità del matrimonio».

            A metà giornata, ieri, il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster e primate d’Inghilterra, sorrideva sornione: «Andate a vedere la relazione dei tedeschi, mi pare evidente sia frutto di un consenso…». Lui l’aveva letta subito, come molti padri sinodali. L’approfondimento si divide in tredici circoli linguistici ma il «Germanicus» è il punto di riferimento teologico del Sinodo. Un po’ perché, come e più che in filosofia, i grandi teologi del Novecento e oltre sono quasi tutti di lingua tedesca, «quella è la loro vocazione», si spiega. E un po’ perché il gruppo dei cardinali è tanto autorevole quanto vario, il confronto in corso da giorni sarebbe il sogno di ogni università: da Walter Kasper, capofila dei riformisti, al prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Gerhard Ludwig Müller, passando tra gli altri per gli arcivescovi di Monaco Reinhard Marx e di Berlino Heiner Koch, con il viennese Christoph Schönborn — domenicano e quindi confratello dell’Aquinate — a fare da (abilissimo) moderatore.

            I padri tedeschi stanno discutendo nel palazzo del Sant’Uffizio, l’esito di ieri è «un testo votato all’unanimità», spiega sorridendo Kasper: «In fondo Tommaso è chiamato Doctor communis, no?». La relazione del circolo riguarda ancora la seconda parte del documento di lavoro ma già contiene le indicazioni essenziali per la terza e più delicata, quella che parla di convivenze, nuove unioni, divorziati risposati e accoglienza degli omosessuali. Con piglio teologico, i teologi tedeschi vanno subito al punto essenziale, il fatto che «misericordia e verità, grazia e giustizia» siano sempre considerati come «concetti opposti». Discussa «dettagliatamente» la faccenda, e anche «la relazione teologica tra i termini», la conclusione è semplice: «In Dio non sono contrapposti: poiché Dio è amore, giustizia e misericordia sono uno. La misericordia di Dio è la fondamentale verità della rivelazione, che non sta in contrasto con le altre verità rivelate».

Tutto ciò, scrivono i teologi, «esclude una ermeneutica deduttiva e arbitraria che sussume situazioni concrete sotto un principio generale». È il passaggio in cui si cita Tommaso e l’applicazione «con intelligenza e saggezza» ai casi singoli. Ma non basta. Nel testo si parla di «accompagnamento graduale degli uomini al sacramento del matrimonio», a cominciare dalle coppie non sposate o sposate solo civilmente, «accompagnare questi uomini è un compito ma anche una gioia». Si dice che spesso «noi pensiamo in modo troppo statico» e «la dottrina ecclesiastica del matrimonio si è sviluppata e approfondita storicamente»: anche «all’uomo di oggi» bisogna dare tempo, concedere un «percorso» di «maturazione» e «non agire secondo il principio del tutto o niente» ma «gradino per gradino».

            Raccomandazione finale: «Si dovrebbe evitare ogni impressione che la Sacra Scrittura sia usata solo come fonte di citazioni per convinzioni dogmatiche, giuridiche ed etiche». La «legge della nuova alleanza è l’opera dello Spirito Santo nel cuore dei credenti», la parola scritta «è da integrare nella parola viva». Così parlarono i tedeschi. I prossimi giorni diranno quanto li seguiranno.

Gian Guido Vecchi in “Corriere della Sera”, 15 ottobre 2015

“Lavori in corso”: il Sinodo come cantiere per un nuovo linguaggio sulla famiglia.

Anche davanti al cantiere della teologia del matrimonio si legge da molti decenni il cartello: “lavori in corso”. In questi due anni di “lavoro ecclesiale” intorno al matrimonio e alla famiglia, un dato mi sembra sia emerso con sempre maggior forza dal confronto e dal dibattito pastorale: la “sfida” che la famiglia lancia alla Chiesa e alla sua teologia richiede una comprensione rinnovata del matrimonio in quanto tale, per poter affrontare all’interno di questa nuova comprensione tutte quelle “irregolarità” che affaticano la pastorale ordinaria delle comunità.

            Senza una ricomprensione complessiva della fisiologia matrimoniale, non si riuscirà a dare risposta convincente a tutte le problematiche più scabrose della patologia matrimoniale. Per questo è importante che la lettura del matrimonio e della famiglia, che scaturirà dal testo finale del Sinodo, imposti, prima che singole soluzioni per i problemi più scottanti – cosa che pure dovrà esserci – una lettura di ampio respiro, di grande lungimiranza e di profonda fedeltà all’insieme della “dottrina cristiana” sul matrimonio.

            A questo fine dovranno essere considerati con grande attenzione quegli “otto principi” nei quali p. Antonio Spadaro ha voluto sintetizzare l’inizio dei lavori sinodali. Vorrei riprenderli e commentarli, uno per uno:

  1. Basta con una visione pessimistica della realtà e della sessualità. Se lasciamo che l’approccio a matrimonio e famiglia sia orientato da questo “visione pessimistica” – che pure resta interna alla nostra tradizione cristiana – tutto il discorso risulterà semplicemente “reattivo” e minerà alle basi la possibilità di annunciare il Vangelo nella prospettiva della vita di coppia, di amore, di generazione, di ascolto e di relazione. La “non autosufficienza” che domanda “vita di comunione” è una esperienza talmente radicale, che non ha alcun bisogno di essere basata sulla contestazione radicale della società “autosufficiente”, “libera” e “individualista”. Dietro a questa opzione c’è, molto spesso, un rapporto irrisolto con il mondo tardo-moderno e con le sue obiettive conquiste, che non si vogliono riconoscere: si lega il Vangelo a una “società chiusa” e non si accetta la logica diversa della “società aperta”.
  2. Usare un linguaggio comprensibile e che favorisca il dialogo con i nostri contemporanei. Quando si usa un linguaggio “immediato”, si ottiene non solo una maggiore comprensibilità, ma si esce anche dai “luoghi comuni” del linguaggio ecclesiale, che distorcono l’esperienza e che impongono alla realtà una “forma” che risulta, non di rado, invivibile. Per dire la stessa cosa si può usare l’esempio del “negozietto di quartiere/centro commerciale” (come ha fatto papa Francesco a Philadelphia, presso il Seminario S. Carlo), oppure chiamare in campo (a sproposito) un “principio morale” che pretende di riconoscere un “bene” solo quando è “massimo”. La autoreferenzialità ecclesiale è spesso mediata da un linguaggio incapace di fare esperienza complessa del reale. Parlare e fare esperienza si rispecchiano: le mie parole “dicono” ciò che vedo e ciò che non vedo.
  3. Non limitarsi al linguaggio normativo ma usare quello positivo e aperto del Concilio. Una delle conseguenze del limite 2) è il prevalere di una tendenza, storicamente giustificata, a ridurre il discorso ecclesiale ai suoi estremi. O sul livello di una “normativa giuridica” che spesso è costretta a costruire “finzioni” a non finire, o sul livello di una “mistica nuziale” incapace di concepire le “mezze misure” e le “gradazioni”, che massimalizza e totalizza in modo estremamente pericoloso la esperienza del matrimonio. Ritrovare un linguaggio sapienziale, pacato, lungimirante e realistico per parlare della grandezza della “vita di comunione” è una grande sfida per la nostra generazione.
  4. Imparare a leggere i segni dei tempi, cioè della grazia nel mondo contemporaneo. Parallelamente al “linguaggio”, e coerentemente con esso, dobbiamo imparare a “vedere” e a “leggere” la presenza della “grazia nella città”. Usare linguaggi nuovi ci permette di “vedere” cose nuove: di scoprire quanta dedizione, quanta fedeltà, quanta forza si possa manifestare all’interno di quelle “forme di vita” che il linguaggio giuridico o una mistica nuziale – elaborate in tutt’altra epoca e società – tenderebbero per principio a non considerare o addirittura a condannare.
  5. Valutare il proprio approccio pastorale alla luce dello stile di Papa Francesco. La “presa di parola” di Francesco, a tutti i livelli (S. Marta, Udienza del mercoledì, celebrazioni domenicali, discorsi a comunità ecclesiali o civili) costituisce un esempio di “stile rinnovato”, nel quale “cose antiche e cose nuove” si fondono con una pertinenza e con una efficacia davvero rare. Per “dire tutta la verità” bisogna inventare nuove parole.
  6. Non parlare più della famiglia in termini astratti o idealizzati. Al contrario, non vi è nulla di più facile, e di più sbagliato, che illudersi di poter comprendere le “cose nuove” che vivono oggi giovani e anziani, che ricondurle alle categorie giuridiche o dogmatiche, elaborate al servizio di altre forme di vita e di altri modelli di società. La grande tradizione sapeva bene che il matrimonio è una sintesi di “tre generazioni”: siamo generati alla natura, alla città e alla Chiesa. Il mutamento della natura e della città richiede, strutturalmente, una precisazione e un approfondimento della generazione alla Chiesa. Idealizzare o astrarre possono essere “punti di passaggio”, ma mai “punti di arrivo”.
  7. La natura dell’Instrumentum Laboris è di essere un documento “martire” fatto per essere rivisto. Questo è inevitabile. Tanto più che l’Istrumentum Laboris, in più di un caso, sembra voler anzitutto confermare quella “disciplina” che oggi causa tanti imbarazzi e difficoltà. Per questo dovrà essere accuratamente riformulato in molte sue parti, oltre che ampliato e precisato.
  8. Occorre discernere attentamente il bene e il male anche nelle posizioni più lontane dalle nostre.

Infine, tutto questo “lavoro” del cantiere sinodale dovrebbe renderci capaci, a tutti i livelli, di “vedere il bene che viene”, proprio nel nostro tempo. L’arte della “vigilanza” dovrebbe essere accuratamente custodita da Vescovi pastori, che non dimenticano come il “vigilare cristiano” non sia anzitutto uno “stare in guardia” e un “diffidare”, ma un “tendere” e un “attendere”. Il sopraggiungere del bene è sorprendente e spiazzante. Come tante volte ha ripetuto papa Francesco, da Roma, da Cuba e dagli USA: la famiglia può sorprendere la Chiesa e la Chiesa ha tanto da imparare da essa. La vigilanza sinodale ha il compito di dotare la Chiesa di un linguaggio e di una sensibilità capace di “riconoscere” il bene che viene, sotto quelle forme che facilmente potremmo confondere con il male. In questo atto di discernimento è in gioco la nostra capacità di riconoscere “Dio già presente nella città”.

Andrea Grillo munera blog: Come se non   14 ottobre 2015

www.cittadellaeditrice.com/munera/il-sinodo-come-cantiere-per-un-nuovo-linguaggio

                        Chiarezza e onestà: Cavalcoli sui divorziati risposati

L’intervista su Vatican Insider è di grande importanza. Avevo già notato l’aperta censura che Cavalcoli stava subendo, da molti mesi, sui siti che normalmente erano abituati a citarlo con abbondanza. Soprattutto su due punti questo testo deve essere apprezzato:

a)      per la chiarezza con cui distingue tra livello dottrinale e livello disciplinare. Dove molti fanno confusione Cavalcoli porta luce e chiarezza;

b)      per la cura con cui ragiona sul “peccato” riferito ai divorziati risposati, uscendo dalla prospettiva chiusa e regressiva di una “condizione irreversibile” e di uno “stato permanente” e recuperando la natura di “atto” del peccato stesso.

L’unità di questi due punti consente di concepire un ampio spazio di libertà e di discrezione per la azione pastorale, fedele alla tradizione, ma non costretta alla ripetizione del medesimo.

«La comunione ai risposati non tocca la dottrina ma la disciplina»

            Intervista con il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli: «Il concedere o non concedere la comunione entra nel potere della pastorale della Chiesa e nelle norme della liturgia, che sono stabilite dalla Chiesa secondo la sua prudenza». Bisogna evitare sia «la rigidezza di un conservatorismo rigorista» sia «il modernismo storicista e lassista». Non esistono «condizioni peccaminose», perché «il peccato è un atto, non è una condizione, né è uno stato permanente» L’eventuale ammissione a determinate condizioni e in determinati casi dei divorziati risposati ai sacramenti non tocca la dottrina né la sostanza del matrimonio e dell’eucaristia. Lo afferma in questa intervista con Vatican Insider il domenicano padre Giovanni Cavalcoli, filosofo metafisico e teologo dogmatico, docente emerito di metafisica nello Studio Filosofico Domenicano di Bologna e di Teologia Dogmatica nella Facoltà Teologica di Bologna, membro ordinario della Pontifica Accademia di Teologia e condirettore della rivista telematica l’Isola di Patmos (isoladipatmos.com).

            C’è chi afferma che qualsiasi cambiamento nella disciplina sacramentale riguardante i divorziati risposati rappresenterebbe un’«eresia» o comunque un attacco al cuore della dottrina dell’indissolubilità matrimoniale. È così?

            «La disciplina dei sacramenti è un potere legislativo che Cristo ha affidato alla Chiesa, affinché essa, nel corso della storia e nel variare delle circostanze, sappia amministrare i sacramenti nel modo più conveniente e più proficuo alle anime e nel contempo nel rispetto assoluto alla sostanza immutabile del sacramento, così come Cristo l’ha voluta. L’attuale disciplina che regola la pastorale e la condotta dei divorziati risposati è una legge ecclesiastica, che intende conciliare il rispetto per il sacramento del matrimonio, la cui indissolubilità è un elemento essenziale, con la possibilità di salvezza della nuova coppia. La Chiesa non può mutare la legge divina che istituisce e regola la sostanza dei sacramenti, ma può mutare le leggi da lei emanate, che riguardano la disciplina e la pastorale dei sacramenti. Dobbiamo quindi pensare che un eventuale mutamento dell’attuale regolamento sui divorziati risposati, non intaccherà affatto la dignità del sacramento del matrimonio, ma anzi sarà un provvedimento più adatto, per affrontare e risolvere le situazioni di oggi».

            Concedere, in determinati casi e a determinate condizioni (per esempio dopo un percorso penitenziale, o nel caso del coniuge abbandonato, etc.) la comunione ai divorziati che vivono una seconda unione tocca la disciplina o la sostanza del sacramenti del matrimonio e dell’eucaristia?

            «Tocca chiaramente la disciplina e non la sostanza. Per un cattolico è assolutamente impensabile che un sinodo sotto la presidenza del Papa possa compiere un attentato alla sostanza di qualunque sacramento. Il concedere o non concedere la comunione entra nel potere della pastorale della Chiesa e nelle norme della liturgia, che sono stabilite dalla Chiesa secondo la sua prudenza, che è sempre rispettabile, benché non infallibile. Da qui il mutamento o l’abrogazione delle leggi della Chiesa».

            Lei ha scritto: il dogma non può cambiare mentre le disposizioni pastorali possono mutare. Che cosa significa, nel caso in questione?

«Significa che la Chiesa in varie occasioni solenni, per esempio al Concilio di Trento o al Concilio Vaticano II, o nell’insegnamento di alcuni Papi, come Pio XI o San Giovanni Paolo II, ha definito autorevolmente l’essenza del sacramento del matrimonio e dell’eucaristia. È chiaro che questi insegnamenti, che riflettono la stessa Parola di Dio, così come ci è stata insegnata dal divino Maestro, non possono mutare. Invece, lo stabilire le circostanze, le condizioni, il come, il dove, il quando, l’a chi amministrare i sacramenti, Cristo lo ha affidato alla responsabilità dell’autorità ecclesiastica nelle leggi canoniche, come nelle direttive e norme pastorali o disciplinari a tutti i livelli, dal Papa, alla Santa Sede, fino ai vescovi. La Chiesa, quindi, è infallibile quando riconosce, codifica e interpreta la legge divina, si tratti della legge morale naturale o rivelata; ma nel momento in cui emana leggi, che ne dispongono la loro applicazione nella varietà o accidentalità delle circostanze storiche o in casi particolari, queste leggi assumono un valore semplicemente contingente, relativo e temporaneo, per cui, al sopravvenire di nuove circostanze o per una migliore conoscenza della stessa legge divina, richiedono di essere mutate, abrogate, corrette o migliorate,  s’intende sempre per una nuova disposizione dell’autorità. La legge ecclesiastica dà determinatezza all’indeterminatezza della legge divina, si fonda su di essa e ne è una conseguenza nell’ordinare la prassi concreta. Tuttavia il suo nesso con la legge divina non ha la necessità logica assoluta che possiedono, in un sillogismo, le conseguenze rispetto alle premesse, sicché un mutamento nelle conclusioni comporterebbe un mutamento e quindi una falsificazione nelle premesse o nei principi. Invece il detto nesso è solo di convenienza, per quanto in coerenza e armonia con la legge divina, in modo simile a quello che si può dare tra una meta e i mezzi per conseguirla. La meta può essere fissa e irrinunciabile, ma i mezzi possono mutare ed essere diversi. La legge della Chiesa è un mezzo per applicare la legge di Cristo. Questa è assoluta e immutabile; la legge della Chiesa, per sua stessa natura e per volontà di Cristo, per quanto illuminata e animata dalla fede, resta pur sempre una legge umana, con i limiti propri di questa. Occorre quindi rispettare scrupolosamente la natura di questo nesso, evitando da una parte la rigidezza di un conservatorismo rigorista, che rifiuta il cambiamento della legge ecclesiastica in nome dell’immutabilità della legge divina e, dall’altra, il modernismo storicista e lassista, che, col pretesto della mutabilità della legge ecclesiastica e del suo dovere di tener conto della modernità e della debolezza umana, annacqua e relativizza la legge del Vangelo».

            Leggendo alcune affermazioni anche in relazione al dibattito sinodale, si ha l’idea che la Tradizione venga quasi ipostatizzata e fissata come fosse un testo immutabile, sulla base del quale ci si arroga poi il diritto di giudicare tutti, compreso il Papa, facendogli l’esame di «cattolicità». Può spiegarci che cos’è la Tradizione?

            «La Sacra Tradizione, come dice la parola, è la trasmissione orale e fedele del dato rivelato, è la predicazione apostolica della Parola di Dio nel corso della storia, è un Magistero vivente, assistito dallo Spirito Santo, trasmissione che Cristo ha affidato agli apostoli e ai loro successori sotto la guida di Pietro, di generazione in generazione, fino a oggi, fino a Papa Francesco e fino alla fine del mondo. La Sacra Tradizione, insieme con la Sacra Scrittura, è la fonte della Rivelazione, ossia della dottrina della fede cattolica, riassunta dal Credo, che ci viene interpretata e insegnata dal Magistero della Chiesa sotto la guida del Papa. Certamente la Tradizione contiene la dottrina immutabile del Vangelo ed è criterio assoluto della verità della fede, ma insieme e congiuntamente alla Scrittura nell’interpretazione che ne dà la Chiesa sotto la guida di Pietro. Non è quindi lecito il metodo di certi cattolici di appellarsi direttamente alla Tradizione per criticare il Magistero del Papa e della Chiesa, come per esempio le dottrine del Concilio Vaticano II, perché il Magistero della Chiesa, per volere stesso di Cristo, è custode supremo, infallibile e insindacabile della Tradizione e quindi non ha senso voler correggere il Papa o il Magistero in nome della Tradizione, la quale, per la scorrettezza di questa operazione, viene con ciò stesso falsificata. Inoltre, bisogna tener presente che i dati della Tradizione sono certo in se stessi immutabili, essendo Parola di Dio; ma la Chiesa e quindi tutti noi sotto la guida della Chiesa stessa, per esempio dei Concili, progrediamo verso una sempre migliore conoscenza di quei medesimi dati. E quindi, in tal senso, si può e si deve parlare, come disse il beato Paolo VI, di uno “sviluppo” della Tradizione, che non ha nulla a che vedere con un impensabile mutamento o cambiamento di senso dei suoi contenuti, ma si riferisce solamente al progresso della conoscenza che ne abbiamo.

            Può fare degli esempi di approfondimenti avvenuti nel corso della storia della Chiesa che hanno mutato la disciplina sacramentale o sviluppato la dottrina sul matrimonio e la famiglia?

            «Per quanto riguarda il sacramento della penitenza, la Chiesa è passata dalla prassi dei primi secoli di una sola celebrazione nel corso della vita, alla raccomandazione attuale della confessione frequente, che risale alla riforma tridentina. Nei primissimi secoli le seconde nozze erano sconsigliate. Nel secolo XVII il sacramento dell’ordine non poteva esser conferito a soggetti di razza mista. La pratica comune della comunione quotidiana risale solo ai tempi di San Pio X. Fino ai tempi di San Pio X esisteva la figura giuridica dell’haereticus vitandus. Il Magistero presenta per la prima volta l’atto coniugale come “segno e incentivo all’amore” solo nella “Humanae vitae” di Paolo VI. Gli impedimenti giuridici al matrimonio in passato erano diversi da quelli di oggi. Paolo VI ha abolito i cosiddetti “ordini minori”, un tempo necessari per accedere al sacerdozio. Solo con la riforma conciliare alle donne sono consentiti ministeri liturgici un tempo riservati solo agli uomini. Fino alla riforma conciliare, il sacramento dell’unzione degli infermi, detto significativamente “estrema unzione”, veniva dato solo ai moribondi. Oggi è sufficiente l’anzianità avanzata o la malattia grave, per cui può essere facilmente reiterato. Il Papa stesso col suo recente Motu proprio ha modificato il regolamento delle cause di nullità del matrimonio».

            La condizione del divorziato che vive una seconda unione è di per sé peccaminosa?

            «Non esistono “condizioni peccaminose”, perché il peccato è un atto, non è una condizione, né è uno stato permanente. L’atto del peccato può essere prolungato nel tempo, come può avere per sua essenza una durata temporale (per esempio un furto in una banca); ma, trattandosi di un atto della volontà, può essere interrotto in qualunque istante e comunque cessa entro un certo lasso di tempo, una volta che l’atto è compiuto. Quello che è permanente in noi per tutta la vita, anche nei migliori, è la tendenza a peccare, conseguenza del peccato originale, per la quale pecchiamo spesso almeno leggermente o venialmente. Ma questa tendenza, con la grazia divina e la buona volontà può, entro una certa misura, esser limitata o tenuta a freno, così da poter evitare almeno il peccato mortale. Il problema dei divorziati risposati è che l’adulterio, con l’aggravante del concubinato, è peccato mortale. Per cui è molto facile che la coppia, unendosi, cada in peccato mortale. Tuttavia è possibile il caso di una coppia, che si trovi in una situazione oggettiva e insuperabile, dalla quale, per vari motivi, non possa uscire per tornare allo stato precedente: per esempio, il coniuge precedente ha figli con un altro, o la nuova coppia ha figli. Certo, dopo l’atto del peccato, se non interviene il rimprovero della coscienza e il pentimento, anche cessato l’atto, resta uno stato di colpa. In questo caso la volontà resta deviata ed ha bisogno di essere raddrizzata, cosa che può e deve fare la stessa volontà, sotto l’impulso della grazia. E questo può essere ottenuto grazie al perdono divino, quale che sia la situazione oggettiva, nella quale si trova il peccatore, fosse pure quella del divorziato risposato. Esistono a volte condizioni nelle quali è facile peccare, perché costituiscono forti spinte od occasioni praticamente inevitabili di peccato. Tra le condizioni di questo tipo c’è certamente quella dei divorziati risposati, i quali vivono in un’unione adulterina, legati uno dei due o tutti e due, come si suppone, a un precedente legittimo matrimonio. In passato la Chiesa ha dato diposizioni pastorali atte a consentire a queste coppie di mantenersi in grazia di Dio, pur essendo escluse dai sacramenti. Esse possono ottenere il perdono dei peccati direttamente da Dio, anche senza accedere al sacramento della penitenza. Oggi la questione dibattuta è se il consentir loro di accostarsi alla Santa Comunione può servire a loro per l’aumento della grazia e la difesa contro il peccato, oppure se può crear scandalo e turbamento tra i fedeli».

            Nella relazione introduttiva del Sinodo tenuta dal cardinale Erdö si è citato l’«Instrumentum laboris» là dove si distingue tra malizia oggettiva – o difformità tra il progetto di Cristo – e le contingenze che diminuiscono l’imputabilità dell’atto. Potrebbe essere questa una via per arrivare a delle concessioni non come legge generale ma come attenzione ai casi particolari?

            «Sì, in quanto, nell’ipotesi da verificarsi con attenzione, che la coppia si trovi in una situazione del tipo di cui parlavo nella risposta precedente, i due sarebbero esposti in continuazione alla pressione di un’occasione o spinta inevitabile del peccato; per cui si potrebbe ammettere certamente l’esistenza della colpa soggettiva, oltre alla malizia oggettiva del peccato, ma con attenuazione dell’imputabilità a causa della forte occasione inevitabile, che vince la resistenza di una buona volontà contraria. Per cui il volontario, tipico dell’atto peccaminoso, in questo caso resta diminuito a causa della forza soverchiante della tentazione. Naturalmente anche nell’ipotesi di imputabilità attenuata, anche questa colpa dev’essere espiata grazie a un continuo e perseverante cammino di conversione e di penitenza, che potrebbe essere indicato dalla Chiesa stessa».

Andrea Tornielli                    vatican insider                       17 ottobre 2015

http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-43987/

La misericordia di Bergoglio crea scandalo.

Il termine “apocalisse” non indica, come molti intendono, qualcosa di catastrofico, bensì un “alzare il velo”, una ri-velazione, l’emergere di una realtà inaspettata o nascosta. Per questo ciò che sta avvenendo non solo in questi giorni sinodali ma dall’ inizio del pontificato di Francesco è un’apocalisse che fa conoscere situazioni che paiono impossibili e svela la verità delle coscienze e dei cuori. Che cos’ è in gioco in questo confronto che a volte appare un’aspra battaglia? Non ciò che la chiesa crede in obbedienza al vangelo.

In particolare non è in gioco la dottrina cattolica sull’indissolubilità del matrimonio cristiano e nemmeno un patteggiamento della chiesa circa la famiglia oggi. No, in gioco è la dimensione pastorale, l’atteggiamento da assumere verso chi ha sbagliato e verso la società contemporanea. E in questo senso proprio la chiesa per esserne ministra ha il compito di determinarne la disciplina rinnovandola e rendendola più fedele al vangelo. Va detto con chiarezza: ciò che scandalizza è la misericordia! Sembrerebbe impossibile, ma non possiamo dimenticare che Gesù non è stato condannato e messo a morte perché si era macchiato di qualche crimine secondo il diritto romano, né perché aveva smentito la parola di Dio contenuta nelle leggi e nei profeti, bensì per il suo comportamento troppo misericordioso: annunciava infatti il perdono, senza far ricorso a una giustizia retributiva e punitiva, amava frequentare prostitute e peccatori noti come tali e stare alla loro tavola.

Il suo modo di comportarsi ha rivelato che la misericordia non è un correttivo per mitigare la giustizia, non è neppure un soccorso per chi non conosce la verità: la giustizia di Dio è sempre misericordia anzi, è la misericordia che stabilisce la giustizia e rende splendente e non abbagliante la verità. I nemici di Gesù erano esperti della santa Scrittura (scribi) e uomini “religiosi” che confidavano in se stessi e nel loro comportamento scrupolosamente osservante. È dunque rivelativo che un’opposizione analoga emerga anche contro papa Francesco e il cammino che tenta di tracciare per la chiesa, l’esodo verso le periferie esistenziali di un’umanità sofferente e mendicante amore, tenerezza, compassione in un mondo sempre più incapace di prossimità e di fraternità.

Ho già avuto modo di scriverlo: se il papa sarà fedele al vangelo troverà opposizione, persino rigetto e disprezzo perché non potrà essere di più del suo Signore. L’ ha profetizzato Gesù semplicemente leggendo le proprie vicende e quelle dei profeti prima di lui. Ciò che stupisce è che chi nei confronti dei papi precedenti non avanzava critiche o contestazioni ma poneva loro domande, veniva additato come “non cattolico”, mentre oggi, grazie alla libertà che Francesco ha voluto assicurare al dibattito, alcuni arrivano a sospettare che lui permetta di lasciar manipolare un confronto che nella chiesa dovrebbe sempre essere ascolto dell’ altro, riconoscimento che il successore di Pietro, il papa, “fa strada insieme” (syn-odos) ai vescovi ma presiedendo la loro comunione con un carisma e un mandato proprio che proviene dal Signore stesso.

Siamo tornati al tempo del concilio, alle contestazioni più o meno manifeste, alle mormorazioni contro Giovanni XXIII e Paolo VI, ma questo non deve spaventare. Nella sua storia, la chiesa ha conosciuto ore più critiche, anche se queste vicende non offrono una testimonianza di parresia e di comunione fraterna. Stupisce che questa contestazione venga da chi papa Francesco ha voluto tenere vicino a sé nel governo della chiesa o incaricare di aiutarlo per tracciare un cammino di riforma delle istituzioni. Ma questo dato rivela chi è l’attuale papa: non è un pontefice che scarta chi sa diverso da lui, non è un “regnante” che emargina chi ha altre ottiche pastorali. Tutti possono constatare questo suo atteggiamento che gli nuoce e gli rende faticoso il suo servizio alla chiesa. D’ altronde nella chiesa c’ è chi vorrebbe che Francesco fosse solo una breve parentesi, chi afferma che “questo papa non gli piace”, chi lo considera “debole nella dottrina”, chi non ama il suo ecumenismo che vuole abbracciare tutti i battezzati e non creare muri nei confronti dei non cristiani e degli uomini e delle donne del mondo.

Per scelta di Benedetto XVI ho partecipato a due sinodi e non vedo in quello in corso una procedura radicalmente diversa: pubblicare il riassunto della discussione senza fornire i nomi dei singoli intervenuti e le frasi da loro pronunciate, per esempio, consente di non classificare i vescovi in tradizionalisti e innovatori, in conservatori e liberali sulla base di affermazioni apodittiche che non riflettono l’incidenza avuta dal confronto e dal dialogo nel corso del dibattito. Le diversità infatti sono legittime, soprattutto in un’assemblea veramente cattolica, in cui i vescovi sono portavoce del loro popolo.

Esser “servo della comunione” per papa Francesco è arduo, ma i cattolici credono anche che su di lui c’ è la promessa fatta a Pietro da Gesù stesso: “Ho pregato perché la tua fede non venga meno e tu conferma i tuoi fratelli!”. Questa è un’ora di apocalissi nella chiesa e non sarà l’ultima: ognuno si assuma le proprie responsabilità nei confronti della comunione cattolica e, più ancora, nei confronti del vangelo al quale dice di voler obbedire.

Enzo Bianchi              La Repubblica            14 ottobre 2015

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/10/14/la-misericordia-di-bergoglio-crea-scandalo-nella-chiesa34.html?ref=search

            Matrimonio a tappe? Non va disprezzato.

«Come impostare una pastorale accogliente per i separati e i divorziati? Semplice, affidando il coordinamento del gruppo ad altri separati e divorziati. «Chi ha vissuto la sofferenza della separazione e ha superato le difficoltà connesse a questa situazione, può meglio di tanti altri esperti comprendere le dinamiche delle famiglie spezzate ed accompagnare nella fede le persone che vivono la sua stessa situazione».

            L’esperienza è stata riferita ieri nell’Aula sinodale da un vescovo sudamericano. La Congregazione generale del pomeriggio, alla presenza del Papa, ha affrontato alcuni degli argomenti più delicati di cui si parla nella terza parte dell’Instrumentum laboris.

Tanti gli interventi sul tema – comprese alcune comunicazioni su diverse esperienze pastorali con e per le famiglie ferite – ma con toni pacati e rispettosi delle diverse sensibilità. Così, non ha stupito nessuno che, accanto alle riflessioni dotte di importante cardinale europeo che ha ribadito la necessità di non scalfire in alcun modo la dottrina del matrimonio con proposte pastorali a rischio, ci sia stato l’intervento di un vescovo africano che ha parlato – in modo tutt’altro che negativo – del cosiddetto “matrimonio a tappe”.

            Non si tratta – ha detto in sostanza il presule africano – di una convivenza affrettata o di un concubinaggio, ma di un percorso educativo che si realizza sotto la tutela delle rispettive famiglie e che porta i due fidanzati a comprendere progressivamente il valore del matrimonio cattolico. Una sorta di pastorale della gradualità espressa in modo circostanziato e “quasi” convincente.

Luciano Moia             Avvenire                    15 ottobre 2015

www.avvenire.it/Dossier/Sinodo%20sulla%20famiglia%202014/Editoriali/Pagine/Matrimonio-a-tappe-Non-va-disprezzato-.aspxdomenica 18 ottobre 2015

La teologia tedesca: tra carità e verità

Grazie a L’Osservatore romano, è ora in italiano il testo del gruppo linguistico tedesco sulla II parte dell’Instrumentum laboris. Esso era stato segnalato per la sua profondità teologica anche dal card. Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster,nel briefing di mercoledì 14 ottobre 2015.

Abbiamo discusso nei dettagli i concetti di carità e verità, pietà e giustizia, che vengono via via visti in opposizione, e le loro reciproche relazioni teologiche. In Dio essi non sono in opposizione l’uno all’altro: poiché Dio è amore, in Dio giustizia e pietà coincidono. La pietà divina è una fondamentale verità rivelata che non è opposta a nessun’altra verità rivelata. Essa ci consente piuttosto di comprenderne la radice più profonda, dato che ci dice perché Dio si è spogliato di sé in suo Figlio e perché Gesù Cristo per mezzo della sua parola e dei suoi sacramenti è durevolmente presente nella sua Chiesa per la nostra salvezza. La pietà divina ci fa dunque capire il motivo e lo scopo dell’intera opera di salvezza. La giustizia divina è la sua pietà, con la quale egli rende giusti anche noi.

Abbiamo riflettuto anche su quali conseguenze che questo intreccio può avere per il nostro accompagnamento a matrimoni e famiglie. Esso esclude un’ermeneutica deduttiva unilaterale che riduca situazioni concrete sotto un principio generale. Secondo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino e anche del concilio di Trento, è necessaria l’applicazione con prudenza e saggezza dei principi fondamentali alle singole, spesso complesse, situazioni reali. Ciò non riguarda le eccezioni, in cui la parola di Dio non debba valere, bensì la domanda di una giusta e ragionevole applicazione con prudenza e saggezza delle parole di Gesù, ad esempio di quelle sull’indissolubilità del matrimonio.

            Tommaso d’Aquino ha espresso con chiarezza la necessità di un’applicazione concretizzante, per esempio dove dice: «Compito della prudenza non è soltanto la considerazione della ragione, ma anche l’applicazione di essa all’opera, che è il fine della ragione pratica” (STh ii-ii-47,3: ad prudentiam pertinet non solum consideratio rationis, sed etiam applicatio ad opus, quae est finis practicae rationis).

Un altro aspetto della nostra discussione è stato la graduale conduzione dell’uomo al sacramento del matrimonio, a cui si fa riferimento spesso, in particolare nel capitolo 3 della seconda parte, iniziando dalle relazioni non vincolanti fino al matrimonio canonicamente valido e sacramentale, passando da coppie conviventi o sposate solo civilmente. Accompagnare con una cura delle anime adeguata queste persone, che si trovano su diversi livelli, è un impegnativo compito pastorale, ma anche una gioia.

Abbiamo compreso anche che, in molte discussioni e nella maniera in cui veniamo percepiti, il nostro modo di pensare è troppo statico e troppo poco biografico e storico. Il magistero della Chiesa sul matrimonio si è sviluppato e approfondito nel corso della storia. Inizialmente lo scopo era quello di umanizzare il matrimonio, che si è poi concentrato nella convinzione della monogamia. Alla luce della fede cristiana, la dignità personale degli sposi è stata riconosciuta più profondamente e nel rapporto tra uomo e donna si percepisce che essi sono fatti a immagine di Dio. In un passo successivo, la canonicità del matrimonio è stata approfondita ed esso viene visto come Chiesa domestica. Infine, la Chiesa è divenuta esplicitamente consapevole della sacralità del matrimonio. Questo cammino storico di approfondimento si delinea oggi anche nelle biografie di molte persone.

            Esse sono inizialmente toccate dalla dimensione umana del matrimonio, si lasciano convincere dalla visione cristiana del matrimonio nell’ambiente vitale della Chiesa e trovano così la strada verso la celebrazione del matrimonio sacramentale. Così come l’evoluzione storica della dottrina della Chiesa ha richiesto tempo, così la pastorale ecclesiastica deve oggi lasciare alle persone un tempo di maturazione sul loro cammino verso il matrimonio sacramentale e non agire in base al principio del «tutto o niente».

            In questo contesto deve essere ulteriormente sviluppata l’idea di un «processo che avanza gradualmente» (FC 9), che Giovanni Paolo II aveva già stabilito nella Familiaris consortio: «La sollecitudine pastorale della Chiesa non si limiterà soltanto alle famiglie cristiane più vicine, ma, allargando i propri orizzonti sulla misura del Cuore di Cristo, si mostrerà ancor più viva per l’insieme delle famiglie in genere, e per quelle, in particolare, che si trovano in situazioni difficili o irregolari» (FC 65).

La Chiesa si trova inevitabilmente in una situazione conflittuale tra la necessaria chiarezza del magistero sul matrimonio e sulla famiglia da una parte e i compiti pastorali concreti dall’altra, che impongono di accompagnare e convincere anche coloro che nella loro condotta di vita corrispondono solo in parte agli insegnamenti della Chiesa. Il nostro compito è intraprendere con essi un cammino verso la pienezza di vita nel matrimonio e nella famiglia, come annunciato dal Vangelo per la famiglia.

In ciò, è necessaria una cura delle anime orientata alle persone, che includa alla stessa maniera sia la normatività del magistero che la personalità dell’individuo, tenendone in considerazione la capacità di coscienza e rafforzandone la responsabilità. «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (GS 16).

Per la redazione finale del testo chiediamo di considerare ancora due aspetti: si eviti di creare l’impressione che la Sacra scrittura venga usata solo come fonte di citazioni dogmatiche, giuridiche o convinzioni etiche. La legge della Nuova alleanza è opera dello Spirito Santo nel cuore dei fedeli (cf. Catechismo della Chiesa cattolica n. 1965-1966). La parola scritta deve essere integrata nella parola vivente, che nello Spirito Santo abita nel cuore degli uomini. Ciò conferisce alla sacra Scrittura un’ampia forza spirituale.

Infine, abbiamo incontrato difficoltà riguardo al concetto di matrimonio naturale. Nella storia dell’umanità il matrimonio naturale si è sempre informato anche alla cultura. Il concetto di matrimonio naturale potrebbe implicare che esista una forma di vita naturale dell’uomo senza influenze culturali. Per questo proponiamo la formulazione: «Il matrimonio fondato nella Creazione».

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/le-teologia-tedesca-in-italiano.html

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