NEWS UCIPEM n. 560 – 23 agosto 2015

NEWS UCIPEM n. 560 – 23 agosto 2015

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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Supplemento on line direttore responsabile Maria Chiara Duranti.

direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le “news” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

Le news sono così strutturate:

  • notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
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Le notizie, anche con il contenuto non condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.

La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

Il contenuto di questo new è liberamente riproducibile citando la fonte.

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ADOZIONE INTERNAZIONALE  in cerca di futuro. La scelta politica dell’accoglienza.

                                               In Africa, adozioni frenate da un pregiudizio culturale.

ADOZIONI                                       Un anno in più all’asilo è il riconoscimento di un bisogno.

AVVOCATURA                               La specializzazione degli avvocati: obbligo o facoltà?

CHIESA CATTOLICA                    La questione del gender.

«Anche noi siamo Chiesa!»

                                   Chiesa contraddittoria, assolve gli omicidi ma non i divorziati risposati

DALLA NAVATA                            21° domenica del tempo ordinario – anno B -23 agosto 2015.

FORUM Associazioni FAMILIARI             Belletti: restituire il tempo alle persone.

FRANCESCO VESCOVO di ROMA Papa: lavoro a misura di famiglia, se no società si degrada

IDEOLOGIA DI GENERE              Studi di genere’: oltre il ‘genderismo’, no alle disparità.

Non solo ideologia: riappropriamoci del genere.

Questione di genere al giusto livello.

Gender”: no alle barricate, sì al dialogo.

MINORI                                            Sottrazione internazionale: obbligo provvedimenti del giudice.

OMOFILIA                                       No a due madri per un bambino; contrasto con l’ordine pubblico

SINODO SULLA FAMIGLIA          Temi del Sinodo: le chiavi della casa di Dio sono per tutti.

VIOLENZA                                       Matrimonio: il sesso forzato è reato, anche la prima notte.

WELFARE                                        Congedo parentale a ore: senza contrattazione è di ½ giornata.

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

“Adozione internazionale in cerca di futuro. La scelta politica dell’accoglienza”.

Convegno  Ai. Bi.       26-27 agosto 2015     Gabicce Mare (PU)

Conferita la Medaglia del Presidente della Repubblica al Convegno “Adozione internazionale in cerca di futuro. La scelta politica dell’accoglienza” .

“Gentile Presidente [Marco Griffini], ho il piacere di trasmetterLe l’unita medaglia che il Capo dello Stato ha voluto destinare, quale suo premio di rappresentanza, al Convegno “Adozione internazionale in cerca di futuro. La scelta politica dell’accoglienza” in programma a Gabicce Mare dal 26 al 27 prossimi. L’occasione mi è gradita per farLe giungere, insieme con l’augurio per il successo dell’iniziativa, i saluti più cordiali

Il Capo del Servizio della Segreteria Generale”

Ai. Bi.  19 agosto 2015                                              www.aibi.it/ita/category/archivio-news

 

L’accoglienza familiare continua il suo declino e si tratta di un fenomeno molto più ampio di quello che ci possiamo immaginare poiché non interessa solo l’Italia, ma presenta caratteristiche tristemente globali.

El Pais titola “Las adopciones internacionales van en caida libre”, le Figaro non è da meno “L’adoption à l’étranger s’effondre”.

Le ragioni di tale declino? Sono meno globali di quanto non ci vogliano far credere e richiedono un’analisi attenta e soprattutto circostanziata. Anche l’occhio con cui si guarda a tale fenomeno determina letture differenti. I nostri vicini francesi, che fanno i conti con una crisi che a casa loro è iniziata ben 10 anni fa, trovano le risposte nel calo dei minori in stato d’adottabilità da ricondursi a un fantomatico miglioramento della situazione dei Paesi tradizionalmente di origine e ad un generale inasprimento dei requisiti che tali Paesi richiedono agli aspiranti genitori. Ma sarà poi così vero?

Se il declino è tangibile e rappresentato dai 4 Paesi più accoglienti al mondo con un crollo del 64% dal 2004 al 2013, i motivi non sembrano essere, o almeno non solo, quelli delineati dai nostri vicini. Un dato su tutti: i minori orfani secondo un Rapporto delle Nazioni Unite (2009) sembrano essere addirittura in aumento, solo in Africa ci sarebbero oltre 7 milioni di orfani dell’AIDS. Qualcosa quindi “non torna.”

E l’Italia, in questo quadro, dove si pone? Il nostro contesto richiede una lettura ancora differente considerando che mentre gli altri Paesi crollavano, l’Italia a partire dal 2005, viveva il suo periodo di maggior splendore e, in controtendenza rispetto agli altri, accoglieva bambini più grandicelli e fratrie. Il caso italiano quindi pare un caso un po’ a sé poiché il declino inizia solo nel 2012. Le cause a cui far ricondurre tal contrazione sembrano essere più di ordine interno dovute, almeno dal 2011, ad una generale carenza di energia propulsiva e costruttiva, e conseguentemente di collaborazione fra organi preposti. L’attuale sistema delle adozioni internazionali richiede una guida politica profondamente impegnata nella gestione delle criticità che le continue crisi geopolitiche determinano nel dialogo con i Paesi di origine, nell’indicare tabelle di costi certi all’insegna  della trasparenza e dell’eticità dell’atto adottivo, nel verificare e sostenere l’operato degli Enti Autorizzati, nella promozione della collaborazione fra questi e il territorio, insomma in una sola frase nel promuovere sentitamente e fattivamente l’istituto dell’Adozione internazionale.

Carenza di energia questa che, inevitabilmente, si è riversata sul tessuto delle nostre famiglie e sulla fiducia sempre più vacillante; la caduta fra il 2012 e il 2013 del 10% delle domande di adozione con conseguente calo dei relativi decreti di idoneità del 16%, rappresenta un fatto estremamente eloquente.

Che fare allora? Come ridare in Italia peso politico all’Adozione  Internazionale? Come ridare fiducia alle coppie italiane? Quali risposte dare ancora ad una massa sempre più imponente di minori abbandonati? Su quali piani lavorare e quali alleanze creare? Comunque ripartire. E proveremo a ripartire da questo Convegno Internazionale. Partiremo dalle gesta di amici, come Francia e Spagna, in una sorta di excursus dell’adozione  internazionale, locale e globale, per raccogliere elementi di confronto e crescita. Indagheremo su strade comuni da percorrere e nuovi strumenti da inventare. Ragioneremo sull’etica dell’adozione internazionale partendo dal rivoluzionario lavoro che la Conferenza de L’Aja sta conducendo per la trasparenza. Approderemo a casa nostra e cercheremo di capire come tali principi possano e debbano declinarsi operativamente.

www.aibi.it/ita/pdf/CONVEGNO_INTERNAZIONALE_GABICCE_2015.pdf  

 

In Africa, adozioni internazionali frenate da un pregiudizio culturale.

È’ soprattutto un pregiudizio culturale a creare diffidenza verso l’adozione internazionale in Africa. Un pregiudizio che si rivela letale per milioni di bambini che restano per anni negli istituti o per strada, dove ad attenderli c’è solo la violenza e la morte. È quanto emerge dalle parole dell’esperto di adozioni avvocato Martin Kasereka Musavuli Okende [Repubblica Democratica del Congo],. Sarà lui a rappresentare l’Africa al convegno “Adozione internazionale in cerca di futuro. La scelta politica dell’accoglienza”, organizzato da Amici dei Bambini.

            “Per migliaia di bambini del mio Paese – lancia l’allarme Musavuli – il futuro si chiude prima ancora di avere il tempo e l’intelligenza” di diventare grandi. “Un bambino abbandonato alla nascita non ha l’opportunità di sopravvivere se non è educato da nessuno. E i dati sui minori abbandonati non sono mai reali, perché ancora la maggior parte dei neonati non viene registrata alla nascita”.

            L’adozione internazionale in Africa è fortemente influenzata da fattori legati a storia, tradizioni, cultura e dimensioni dei Paesi, oltre che a dinamiche politiche e tipologie di welfare realizzate. “Molto spesso – evidenzia l’avvocato congolese – le adozioni internazionali scontano il pregiudizio di essere assimilate a pratiche lontane da poter essere considerate strumenti di protezione dell’infanzia. Questo stesso pregiudizio porta frequentemente i Paesi a chiudere le porte a quello che è uno degli strumenti di protezione dell’infanzia previsti dalla Convenzione dei Diritti del Fanciullo, ratificata da gran parte dei Paesi africani”.

            In questo quadro, la situazione dell’infanzia resta drammatica. “Migliaia di bambini abbandonati, orfani e senza famiglia vivono negli orfanotrofi. Ma sono i più fortunati – avverte Musavuli –. La maggior parte dei minori si ritrova in strada ad affrontare i pericoli e la morte. Non possiamo accettare che la soluzione per migliaia di bambini abbandonati sia la morte o l’oblio nei centri di accoglienza fino alla maggiore età”.

            Come intervenire quindi per alleviare le sofferenze dell’infanzia africana? “Si deve iniziare dalla cultura – è la ricetta dell’avvocato congolese -, facendo capire ai popoli che cosa sia davvero l’adozione. I Paesi di accoglienza dimostrino il loro impegno costruttivo, assistendo i Paesi africani e consentendo loro di acquisire fiducia nell’adozione internazionale”. L’orfanotrofio e la strada non sono i luoghi giusti in cui un bambino possa essere amato ed educato. “Non possiamo permetterci di perdere altro tempo nell’affrontare l’emergenza”, conclude.

                        Ai. Bi.  26 agosto 2015                                              www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ADOZIONI

 “Un anno in più all’asilo è il riconoscimento di un effettivo bisogno”

            I bambini appena adottati che abbiano bisogno di un po’ più di tempo per abituarsi alla loro nuova vita in Italia, alle nuove abitudini e punti di riferimento familiari e “sociali” possono rimanere un anno in più all’asilo. Lo chiarisce una nota del Miur del 24 luglio scorso inviata agli uffici scolastici regionali, con cui si chiariscono i dubbi circa la possibilità di permanenza nella Scuola dell’Infanzia.

            “Ci arrivano richieste di chiarimenti, da parte degli uffici sul territorio», scrive il direttore generale Giovanna Boda, circa l’eventuale deroga all’ assolvimento dell’obbligo di istruzione per gli alunni adottati.

            Il riferimento è la nota n. 547 del 21/02/2014, richiamate nelle Linee di indirizzo per favorire il diritto allo studio degli alunni adottati, del dicembre 2014. La nota consentiva una deroga all’obbligo scolastico a sei anni per i bambini appena adottati che avessero bisogno di un po’ di tempo in più per stare bene con se stessi e con la loro nuova vita.

            Una condizione comune a molti bambini, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’età media di ingresso in Italia di un bambino adottato è di 5 anni e mezzo. Da qui la nota del Miur che introduce la possibilità di una deroga di un anno valutando caso per caso dove questo sia necessario per il bambino.

            Una nota che come ribadisce nuovamente Boda, “già evidenziava la straordinarietà e specificità degli interventi e invitava i Dirigenti scolastici ad esaminare i singoli casi con sensibilità e accuratezza, confrontandosi anche con specifiche professionalità di settore e con il supporto dei Servizi territoriali, predisponendo percorsi individualizzati e personalizzati”.

            “Una deroga che, dunque, riguarda solo casi eccezionali e debitamente documentati – tiene a precisare Anna Guerrieri, presidente di ‘Genitori si diventa’ – e sempre in accordo con la famiglia”.

            Per Guerrieri “in questo modo si pone fine alla discrezionalità in atto tra le varie regioni e molto spesso all’interno di una stessa regione. Ora si mette ordine e si fa chiarezza: solo per casi specifici e dietro presentazione della richiesta della famiglia adottiva (tramite l’ente autorizzato, i servizi sociali o un professionista) che documenti la necessità della deroga di un anno in più all’asilo per il bambino, questo verrà concesso”.

            “Non si tratta insomma – continua Guerrieri – di un intervento a pioggia valido per tutti i bambini adottati, ma  del riconoscimento di un effettivo bisogno che di volta in volta viene valutato e documentato”.

            Interventi, dunque, da adottare dopo un’attenta verifica della sussistenza delle condizioni e sempre in completo accordo con le famiglie interessate, anche presso le istituzioni scolastiche paritarie, per le quali l’avvio dell’iter procedurale e la successiva decisione risultano di competenza del Coordinatore delle attività educative e didattiche, sentito il team dei docenti.

            Un’azione necessaria che “tiene conto della dolorosa realtà della separazione dai genitori di nascita – aggiunge Guerrieri – e, a volte, anche dai fratelli che hanno sulle spalle i bambini adottati sia nazionali che internazionali: molti di loro hanno sperimentato condizioni di solitudine o periodi di istituzionalizzazione, esperienze di ‘stress’ fisico e/o psicologico”.

            “Si tratta di un cambiamento esistenziale che viene affrontato molto spesso – conclude -, lasciandosi alle spalle pezzi di storia difficili di cui si sa poco. Tutti motivi dunque che mettono in evidenza quanto sia opportuno dare loro più tempo per “ambientarsi”:anche da questo, infatti, dipende una crescita serena”.

            Ai. Bi.  19 agosto 2015                                  www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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AVVOCATURA

La specializzazione degli avvocati: obbligo o facoltà?

La specializzazione degli avvocati è stata recentemente prevista, in attuazione della legge professionale forense, da un apposito regolamento, firmato dal Ministro della giustizia la scorsa settimana

news UCIPEM n. 559, pag.5

            In esso sono elencate 18 aree del diritto tra le quali l’avvocato interessato può scegliere quelle nelle quali specializzarsi, con il limite massimo di due.

            La specializzazione, in ogni caso, non è obbligatoria. Anzi. Secondo quanto previsto dal regolamento, affinché un avvocato possa ottenere la specializzazione è necessario che sussistano determinati requisiti.

            Innanzitutto, per poter presentare la domanda, il legale interessato non deve aver riportato nei tre anni precedenti una sanzione disciplinare definitiva diversa dall’avvertimento, non deve aver subito nei due anni precedenti la revoca del titolo di specialista e deve aver frequentato negli ultimi cinque anni, con esito positivo, i corsi di specializzazione.

Oltre che partecipando ad appositi corsi, l’avvocato può ottenere la specializzazione anche solo dimostrando di aver maturato una comprovata esperienza nell’area di interesse: egli, in sostanza, deve essere iscritto all’albo forense da almeno otto anni e deve provare che, nel quinquennio precedente, ha esercitato la professione in maniera assidua, prevalente e continuativa nei settori di specializzazione, trattando incarichi professionali fiduciari rilevanti per quantità (almeno 15 ogni anno) e qualità.

            È evidente, quindi, che non solo la specializzazione non è obbligatoria per tutti gli avvocati, ma, addirittura, alcuni di essi non possono neanche ottenerla.

Studio Cataldi.it                     21 agosto 2015

www.studiocataldi.it/articoli/19176-la-specializzazione-degli-avvocati-obbligo-o-facolta.asp

 

Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha firmato altri due decreti riguardanti la professione forense.

Il primo (vedi link pdf allegato), redatto di concerto con il ministero dell’istruzione, fissa l’avvio del concorso, per titoli ed esame, per l’ammissione alle scuole di specializzazione per gli avvocati al 28 ottobre 2015, in base a quanto stabilito dall’art. 4 del regolamento n. 537/1999.

            Sono 3.700 i posti disponibili del concorso che si svolgerà su tutto il territorio nazionale presso le università sedi dei corsi di giurisprudenza (l’elenco è allegato al decreto).

            Le domande vanno presentate entro e non oltre il 9 ottobre 2015, presso la segreteria dell’ateneo sede della scuola per la quale si concorre.

            Il concorso è aperto ai laureati in giurisprudenza (vecchio e nuovo ordinamento) e, con riserva, ai laureandi che entreranno in possesso del titolo accademico entro la data della prova d’esame.

La scuola ha una durata biennale e prevede una didattica frontale di almeno 500 ore e tirocini pratici presso gli uffici giudiziari.

Il secondo decreto del Guardasigilli, specifico per gli avvocati, provvede a stabilire le forme di pubblicità per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione, che dovrà essere pubblicato in G.U. almeno 90 giorni prima della data fissata e, entro i successivi dieci giorni, sui siti istituzionali del ministero della Giustizia e del Consiglio nazionale forense.

            www.StudioCataldi.it 20agosto 2015

www.studiocataldi.it/articoli/19147-avvocati-al-via-le-domande-per-i-3700-posti-delle-scuole-di-specializzazione.asp

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_19147_1.pdf

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CHIESA CATTOLICA

La questione del gender.

            Ufficio diocesano di pastorale dell’educazione e della scuola di Padova. 

            In queste ultime settimane abbiamo ricevuto numerose interpellanze da parte di genitori, insegnanti di religione, docenti di altre discipline, parroci e, persino, dirigenti scolastici in ordine alla c.d. “questione del gender”, sollecitati da allarmanti messaggi giunti attraverso il social network. scaturiti da incontri organizzati anche a livello parrocchiale nella nostra diocesi e nei territori circostanti.

            A tal proposito, come Ufficio diocesano di pastorale dell’educazione e della scuola, sentiamo l’esigenza di precisare quanto segue:

  • La “questione del gender” è alquanto complessa: in essa vengono ricondotte varie teorie frutto dell’elaborazione di diverse correnti di pensiero. Non è dunque corretto esprimersi su di essa senza prima averla conosciuta nella sua totalità, così da poter discernere quanto risponde alla visione antropologica cristiana e quanto invece ad essa si oppone. In quest’ultimo periodo, magistero e teologia si sono impegnanti non  poco ad approfondire questi aspetti. Ne è nata una pubblicistica di spessore che merita attenzione.  (…)     Infine, è in programma per il 12 ottobre 2015 una specifica giornata di studio guidata dal teologo morale prof. don Giampaolo Dianin: “La questione del Gender ci interpella”. Ciò a dire che, per affrontare correttamente queste tematiche. Superando posizioni preconcette e barricate ideologiche, è indispensabile anzitutto un’educazione delle coscienze e un’apertura dell’intelligenza alla comprensione della realtà, attraverso una corretta informazione e formazione culturale, così da poterci anche confrontare con chi propugna modelli interpretativi dell’umano diversi da quelli che il Vangelo propone. La questione del gender non può essere ridotta all’ideologia gender: la prima porta in sé alcune istanze che meritano di essere seriamente considerate.
  • Il secondo punto che merita chiarezza è l’affermazione che la legge sulla “buona scuola” introdurrebbe surrettiziamente nel sistema scolastico italiano i principi fondativi della “teoria del gender”, rendendo obbligatorie, per altro anche nelle scuole paritarie, l’adozione di testi e la diffusione di metodi educativi ad essa ispirati. Per affermare ciò si richiama, impropriamente, il comma 16 dell’art. 1 della legge 107/2015 sulla “buona scuola”che recita: “Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all’articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto legge n. 93 del 2013”. La norma di riferimento è tratta dal decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (in G.U. n. 191 del 16 agosto 2013), Coordinato con la legge di conversione 15 ottobre 2013, n. 119 (G.U. n. 242 del 15 ottobre 2013), recante: « Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province» i cui articoli sono così rubricati: art. 1 Norme in materia di maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori; art. 2 Modifiche al codice  di  procedura  penale e disposizioni concernenti i procedimenti penali per i delitti contro la persona; art. 3 Misura di prevenzione per condotte di violenza domestica; art. 4 Tutela per gli stranieri vittime di violenza domestica; art. 5 Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere. Azioni per i centri antiviolenza e le case – rifugio. Al proposito, il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, rispondendo, durante il question time del 29 luglio alla Camera, ad un’interrogazione su presunte iniziative di divulgazione di ideologie gender in ambito scolastico, ha ribadito chiaramente che «la “teoria del gender” non coincide con la cultura inclusiva e solidale che viene espressa nelle linee del governo, ispirate ai trattati internazionali e al modello educativo che nella cornice europea è sostenuto in tutti gli Stati membri. Il Miur promuove invece attivamente tutte le iniziative relative alla prevenzione del contrasto di ogni tipo di violenza e discriminazione, anche con riferimento specifico al tema della discriminazione sessuale, dell’omofobia, in ottemperanza ai trattati internazionali e alle convenzioni, in particolare a quella di Istanbul che è stata ratificata due anni fa dal Parlamento della Repubblica». Le iniziative in questione sono: «l’elaborazione del piano nazionale straordinario contro la violenza  sessuale e di genere, che è stato recentemente approvato, la partecipazione attiva alla settimana nazionale contro la violenza e la discriminazione, promossa anche nel corrente anno scolastico dal ministero e, in questo caso, ricordo che il ministero ha finanziato con un importo di 500. 000 euro progetti che nelle singole scuole fossero in grado di sensibilizzare, di produrre una cultura della lotta alla discriminazione di ogni sorta. Inoltre c’è stata l’emanazione delle linee di orientamento per le azioni di prevenzione e di contrasto al bullismo e al cyberbullismo, incluso il caso dell’omofobia, per dare appunto alle scuole una cornice pedagogica in cui inserire le precedenti iniziative e tutte quelle che seguiranno, incluse quelle che sono contenute nel ddl “Buona Scuola”, che prevedono un’intensificazione di questo di tipo di sensibilizzazione nelle scuole italiane. Con la Legge 107/15 saranno attuati, invece, “i principi di pari  opportunità, di lotta alle discriminazioni, di prevenzione della violenza di genere, fondamentali in una società per formar e giovani e adulti responsabili». Il ministro Giannini ha poi ricordato che il giorno 6  luglio il Miur ha diffuso una circolare (n. 4321) che richiama il « corretto utilizzo degli strumenti normativi già esistenti per assicurare la massima informazione alle famiglie su tutte le attività previste dal piano dell’offerta formativa, inclusi i principi richiamati nel comma 16, richiedendo un costante e sempre  più marcato coinvolgimento delle famiglie nell’ottica della corresponsabilità educativa». Da parte nostra, riteniamo che questi riferimenti normativi e le delucidazioni apportate dalle competenti autorità ministeriali meritino la massima attenzione di tutti e vadano nella corretta direzione di favorire un sempre più consapevole e responsabile coinvolgimento delle famiglie nella scelta dell’indirizzo educativo per i loro figli.
  • Infine, stanno crescendo sul web gli inviti a sottoscrivere la richiesta di indizione di un referendum abrogativo della legge che introdurrebbe “l’insegnamento della teoria del gender nel sistema scolastico”.  Senza entrare nel merito della proposta politica, per dovere di chiarezza e di correttezza, va precisato che la proposta di referendum in questione, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 165, con l’attribuzione del numero 15A0565, attiene all’abrogazione in toto della legge 107 del 13 luglio 2015, c.d. sulla “buona scuola” che, come ribadito nel punto precedente, non ha alcuna connessione con la “teoria gender”.

Auspichiamo di aver contribuito con le presenti note a dipanare almeno alcune delle incertezze che sono andate affastellandosi in quest’ultimo periodo intorno a questa delicata questione.  La Comunità ecclesiale è chiamata a vigilare e a prodigarsi con senso di responsabilità e di carità per promuovere sempre  più la novità della persona umana che Cristo ci ha rivelato impegnandosi a rendere ragione della speranza che porta nel  cuore. «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (1Pt 3,16), mai contro qualcuno ma sempre per il bene di tutti.

Chiediamo, pertanto, che quanti nella Diocesi di Padova hanno in animo di organizzare dibattiti o incontri su tale questione abbiano a confrontarsi con l’Ordinario diocesano, i competenti Uffici pastorali.

E, per  quanto  riguarda le connessioni con l’ambito scolastico, l’Ufficio diocesano di pastorale dell’educazione e della scuola. Insieme, anche con il supporto degli specialisti in materia che certo non mancano nella nostra realtà, potremmo fornire un’adeguata informazione/formazione, senza creare inutili, se non nocivi, allarmismi.

Padova, 18 agosto 2015                    Il Direttore     Don Lorenzo Celi

www.diocesipadova.it/s2ewdiocesipadova/allegati/9390/Nota%20su%20questione%20gender_Ufficio%20scuola_18.8.2015.pdf

 

                        «Anche noi siamo Chiesa!»

A ottobre si terrà il Sinodo ordinario sulla famiglia. Il vaticanista Aldo Maria Valli intervista diverse coppie di «irregolari» sui temi del Sinodo

«Sarebbe bello se la Chiesa riuscisse davvero a creare armonia tra il Vangelo, il magistero e la vita concreta delle persone. Spesso sentiamo dire che eventuali cambiamenti finirebbero per minare alla base il sacramento del matrimonio, così come quelli dell’eucaristia e della penitenza. Ci si dimentica però del fatto che anche l’attuale dottrina sui risposati introduce interrogativi irrisolti».

            Cosa li fa soffrire di più? «L’incomprensione dei ministri di Dio per il nostro cammino, l’idea che ci considerino cristiani di serie b. Non considerano che ci sono dei processi di maturazione, di ascesi, di avvicinamento a Dio che aprono gli occhi e l’anima a nuovi orizzonti».

            Gianfranco e Raffaella, Maurizio ed Elena sono due delle tante coppie di «irregolari» intervistate da Aldo Maria Valli, vaticanista del Tg1 Rai le cui risposte confluiscono in quello che definisce un «mosaico multicolore» segno della diversità e complessità delle situazioni solo fino a pochi anni fa inedite.

            «Irregolari» perché questo è il termine ufficiale dei documenti della Chiesa: di «situazione difficile o irregolare» parla, per esempio, il Direttorio di pastorale familiare della Cei (1993) o la Familiaris Consortio di papa Giovanni Paolo II (1981)… eppure l’aggettivo sembra essere dimenticato dalla Relatio Synodi che preferisce associare loro il concetto di «fragilità». Al di là dell’aspetto linguistico, un cambiamento di non poco conto nel giro di pochi anni per allontanare definitivamente ogni rischio di emarginazione o discriminazione, tanto meno scomuniche, come ricordato da papa Francesco nella prima udienza del mese di agosto.

            Se, almeno nei termini, sembrano riacquistare dignità all’interno della comunità ecclesiale tutte quelle situazioni prima accomunate dall’irregolarità – divorziati-risposati, conviventi, sposati con rito civile, relazioni fra persone dello stesso sesso – non viene meno la sofferenza vissuta e testimoniata da alcune parole-chiave che ricorrono nelle risposte o restano sullo sfondo dei discorsi. Innanzitutto la fede, spesso forte e appassionata capace di riannodare i fili spezzati di un’esistenza che ha visto fallire, talvolta in maniera incolpevole, il proprio progetto: una fede non individuale, ma che chiede di far parte di una comunità, pur vivendo, di fatto, il dramma di un’esclusione.

            Poi il dolore: non una generica sofferenza, un dolore lancinante per un fallimento di quella vita a due, voluta e sognata (la psicologia interpreta il divorzio come la più grande tragedia seconda solo alla morte del coniuge), ma anche il dolore e la disperazione per un’ingiusta discriminazione nei confronti di una scelta  – per esempio quella di un matrimonio civile – che pure viene ritenuta legittima e motivata, tutt’altro che fonte di esclusione e disagio («perché mai un tipo di unione, solo per il fatto di essere conformata a una norma, dovrebbe essere considerata di qualità superiore?» dicono Giovanni ed Elisabetta, coppia di fatto).

            Sono pagine, quelle tracciate dalle interviste di Valli, che aprono un panorama spesso solo sfiorato da quanti, anche all’interno delle nostre comunità parrocchiali, forse preferiscono non conoscere, non condividere il dolore dei fratelli, ma che non può essere ignorato in una Chiesa chiamata a lenire le ferite con l’olio della misericordia evangelica.

            Di qui la speranza che permea il testo: la speranza di essere ascoltati e accolti e ricevere una «buona notizia», anche per i figli che pagano errori non commessi, per uscire finalmente da quel «cono d’ombra» dove sono stati relegati per troppi anni. E spesso una fiammella, timida, tuttavia rassicurante, esiste già e rischiara il buio: l’accompagnamento discreto ed empatico di un prete che si fa carico di mostrare il volto accogliente di una Chiesa che annuncia l’amore del Padre che ama tutti i suoi figli con una predilezione per gli ultimi, quanti «hanno bisogno del medico».

            Tra le righe la voce di Massimo a un convegno promosso dalla diocesi di Trento per ascoltare la voce dei «fratelli divorziati»: «Non chiediamo di essere accolti, ma abbiamo bisogno che la Chiesa si accorga che noi ne facciamo già parte».

                        Maria Teresa Pontara Pederiva       vaticaninsider 10 agosto 2015

Aldo Maria Valli, «Chiesa ascoltaci! Gli “irregolari” credenti si rivolgono al Sinodo», Editrice Ancora, 2015, pp. 160, euro 15.

http://vaticaninsider.lastampa.it/recensioni/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-42765/#

 

Chiesa contraddittoria, assolve gli omicidi ma non i divorziati risposati!

«La chiesa  assolve gli omicidi, ma non i divorziati risposati!». Il biblista Alberto Maggi affida a un’esclamazione il suo più totale disappunto per quella che considera «una lampante contraddizione» nell’insegnamento del popolo di Dio. Con il pensiero rivolto a Cristo, «che più che unire sfascia le famiglie», pur se non è solito discorrere del Sinodo, il religioso dei Servi di Maria accetta di buon grado di rispondere ad alcune domande sull’assise ormai alle porte. «Non mi attendo molto dal Sinodo», ma, in quest’anno di Giubileo della misericordia indetto dal Papa, «spero in gesti concreti a favore dei risposati, dei preti uxorati e degli omosessuali». Tre categorie «umiliate ed emarginate dalla Chiesa».

Fra Maggi, quanto l’appassiona il dibattito pre- sinodale?

«Non più di tanto. I cambiamenti nella Chiesa vengono sempre dalla base e non dai vertici. I mutamenti sono rifiutati, ostacolati e contrastati dalle gerarchie. Poi, dopo un lungo lasso di tempo, vengono accolti. Quando ormai è troppo tardi».

Al Sinodo quali cambiamenti potrebbero passare?

«In ogni situazione, in ogni controversia, bisogna tenere presente il comportamento di Cristo: lui, tutte le volte che si è trovato a dover scegliere tra l’obbedienza alla Legge divina e il bene concreto dell’uomo, senza esitare ha sempre scelto quest’ultimo. Facendo il bene dell’uomo si è certi di fare anche quello di Dio».

Un principio più sulla carta che nei fatti?

«Troppo spesso per l’onore di Dio si è disonorato l’uomo e per il bene di Dio si è causata sofferenza agli uomini».

In una recente intervista sul Sinodo, Francesco ha parlato di attese «eccessive». Condivide?

«Se lo dice il Papa. Lui conosce bene l’ambiente, sente sulla pelle le resistenze curiali al suo impegno per un cambiamento evangelico, ogni giorno si trova di fronte a muri di gomma e a veri e propri dispetti».

Che tra il Pontefice e parte della Curia non corra buon sangue è risaputo.

.           «Proprio per questo Bergoglio va sostenuto e non lasciato solo, perché la sola cosa che frena i suoi avversari, come ai tempi di Gesù i sommi sacerdoti, è che ‘temevano la folla».

Dal punto di vista biblico, quale è il filo rosso che unisce Antico e Nuovo Testamento sulla famiglia?

«Non c’è alcuna continuità e il messaggio di Gesù è il meno adatto per sostenere la famiglia patriarcale. Cristo più che unire le famiglie le sfascia».

Ovvero?

«Lui viene da una triste esperienza e da brutti rapporti con i suoi che lo hanno creduto pazzo e hanno tentato di rapirlo. Giovanni nel suo Vangelo non esita a scrivere che neanche i fratelli credevano in lui. E Gesù invita a liberarsi, per causa sua e del Vangelo, anche dai vincoli familiari più stretti quali quelli tra marito e moglie, genitori e figli».

Quali sono le principali discrepanze che evidenzia fra l’insegnamento attuale della Chiesa sulla famiglia e quanto trasmette la Bibbia?

«Non credo che la Chiesa abbia l’autorità di mettere il naso nelle faccende familiari. Una Chiesa, che ha impiegato ben duemila anni per ammettere che nel matrimonio è importante anche l’amore dei coniugi oltre che la procreazione dei figli, sarebbe bene che tacesse su questioni per le quali non ha ricevuto alcun mandato dal Cristo».

Nessun mandato? Vuole dire che quello di ottobre sarà un Sinodo illegittimo?

«La legittimità la dona lo Spirito Santo. Tanto più gli orientamenti, le scelte e le decisioni del Sinodo saranno all’insegna di una profonda umanità tanto più in queste si manifesterà il divino che alimenta e mantiene in vita la Chiesa».

Intanto, sui mezzi di comunicazione il dibattito pre-sinodale è tutto concentrato sul nodo dell’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. Come se lo spiega?

«Perché è lampante la contraddizione di una Chiesa che rivendica giustamente il mandato del Cristo di poter perdonare i peccati, ma poi è incapace di concedere il perdono a chi, fallito il primo matrimonio, tenta una nuova unione. La Chiesa assolve gli omicidi ma non i divorziati risposati!

Spero che in questo anno della misericordia ci siano gesti concreti a favore di tre categorie di persone umiliate ed emarginate dalla Chiesa: i preti sposati, gli omosessuali, i divorziati. Non è solo una questione di misericordia ma di giustizia»

Giovanni Panettiere   “Pacem in terris” – blog.quotidiano.net – del 20 agosto 2015

http://blog.quotidiano.net/panettiere/2015/08/20/aspettando-il-sinodo-intervista-al-biblista-maggi-chiesa-contraddittoria-assolve-gli-omicidi-ma-non-i-divorziati-risposati

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DALLA NAVATA

                                    21° domenica del tempo ordinario – anno B -23 agosto 2015.

Giosuè             24, 01 «Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio.»

Salmo             34,19   «Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva g li spiriti affranti.»

Efesini                        05,32   «Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa.»

Giovanni        06, 60  «Molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato dissero “Questa parola è dura!”»

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

                                   Parole Papa su famiglia e lavoro. Belletti: restituire il tempo alle persone.

            Vasta eco hanno suscitato le parole del Papa sul rapporto tra famiglia e lavoro, ieri all’udienza generale. Il Pontefice ha detto che quando il lavoro “è in ostaggio della logica del solo profitto e disprezza gli affetti della vita”, allora “la vita civile si corrompe” e le conseguenze le pagano le famiglie, soprattutto quelle più povere. Ascoltiamo il commento di Francesco Belletti, presidente del Forum delle Associazioni familiari.

R. – Famiglia, lavoro, affetti e capacità di avere un reddito sono elementi forti di autonomia, per cui dentro la vita quotidiana delle famiglie si sperimenta proprio questo. Poi, uno lavora e fa famiglia proprio per avere dei figli, per avere un progetto di vita, quindi il tempo, la possibilità di tenere insieme un lavoro decoroso e il tempo per i propri cari è una priorità assoluta. Le parole di Papa Francesco sono un grande segnale e un grande conforto. D’altra parte nel 2012, proprio a Milano, avevamo fatto un incontro mondiale delle famiglie in cui era messo a tema proprio “Famiglia, lavoro, festa” e dice proprio che il tempo va restituito alle persone: il lavoro ci vuole ma non può mangiarsi tutta la vita.

            Il Papa ha detto che la moderna organizzazione della vita tende pericolosamente a considerare la famiglia un peso, un ingombro.

Sì, questo concetto di ingombro mi è piaciuto molto perché descrive una percezione che tutti noi abbiamo: fai un figlio, ti trovi con dei figli di cui seguire il percorso scolastico, e nel mondo dell’azienda, del mondo del lavoro, sembra veramente che tu hai una difficoltà in più. Queste invece dovrebbero essere proprio le condizioni che rendono la vita più bella, anche sul lavoro. Tra l’altro su questo l’Italia è messa peggio degli altri Paesi europei perché in molti altri Paesi europei ci sono strumenti di conciliazione, di flessibilità, che aiutano le persone a tenere insieme famiglia e lavoro. Noi siamo molto indietro e abbiamo un lavoro “idolo” che si mangia un po’ tutto.

            Quando l’organizzazione del lavoro tiene in ostaggio la famiglia, ha affermato ancora il Papa, allora la società umana ha incominciato a lavorare contro se stessa.

             Sì, il problema è l’umanizzazione delle relazioni, l’umanizzazione dei tempi, l’umanizzazione anche degli ambiti lavorativi. Vivere in un contesto dove lavoro e famiglia sono alleati rende tutto più sereno, rende più efficace anche l’esperienza lavorativa. Per certi versi sarebbe quasi un valore aziendale: cioè, una persona che si sente tranquilla nel gestire la propria famiglia diventa anche più serena e più produttiva nel lavoro. Ci sono tantissimi esempi di aziende super moderne che vogliono tenere insieme famiglia e lavoro. Quindi le parole di Papa Francesco sono un grande segnale agli uffici del personale, ai grandi imprenditori e anche ai singoli genitori che lavorano, perché bisogna mettere le cose al posto giusto.

            Papa Francesco ha affermato che in questo difficile contesto le associazioni familiari sembrano essere come Davide contro Golia.

            Diciamo che gli spazi di lavoro sono moltissimi. Secondo me il compito più importante delle associazioni è non far sentire le persone sole. Prima di tutto, mettere in cima le persone e farle sentire dentro un popolo che condivide gli stessi valori. Poi tra genitori ci si aiuta, si portano i figli a scuola insieme… E poi naturalmente l’associazione si rappresenta anche davanti al mondo del lavoro e davanti alla politica, quindi dà voce alle famiglie. Io credo che la famiglia abbia ancora un grande spazio di generatività, che sia una grande risorsa della società. Deve farsi sentire di più.

Sergio Centofanti:     Bollettino Giornale Radio vaticana               20 agosto 2015

            http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

                                   Papa: lavoro a misura di famiglia, se no società si degrada

            “Il lavoro è sacro” perché dà dignità a persone e famiglie e permette alla terra di svilupparsi secondo l’ottica creatrice di Dio. Alle migliaia di persone in Aula Paolo VI per l’udienza generale, Papa Francesco ha ribadito la visione cristiana del lavoro che, ha affermato, non deve tenere in “ostaggio” le famiglie perché basato solo sulla “convenienza economica” di chi lo gestisce.

La “casa intelligente”, monumento all’efficienza, in cui si lavora tanto ma il lavoro è solo di chi ha la forza e le capacità di creare reddito. E la “casa comune”, quella in cui pure si lavora sodo ma dove il lavoro non è nemico della famiglia, dove gli anziani non sono una voce in perdita nella colonna dei profitti e i bambini non sono orfani di genitori assenti incastrati nella macchina produttiva. La prima seduce con la sua organizzazione, la seconda ha “già fin troppe crepe”, osserva Francesco, che evoca entrambe dopo aver tuttavia ben spiegato in quale delle due abitino le sue speranze, quelle per un mondo davvero a misura d’uomo.

La dignità del pane a casa. Il tema della catechesi è il rapporto tra famiglia e lavoro e per un cristiano ogni lavoro, “a partire da quello casalingo”, sottolinea, è un cooperare con Dio alla Creazione, dunque è compiere un’opera sacra: “Il lavoro è sacro. E perciò la gestione dell’occupazione è una grande responsabilità umana e sociale, che non può essere lasciata nelle mani di pochi o scaricata su un ‘mercato’ divinizzato. Causare una perdita di posti di lavoro significa causare un grave danno sociale”.

E soggiunge, a braccio, stringendo a sé idealmente con sentimenti di solidarietà le vittime di uno dei più gravi mali contemporanei, la disoccupazione: “Io mi rattristo quando vedo che c’è gente senza lavoro, che non trova lavoro e non ha la dignità di portare il pane a casa. E mi rallegro tanto quando vedo che i governanti fanno tanti sforzi per trovare posti di lavoro e per cercare che tutti abbiano un lavoro. Il lavoro è sacro, il lavoro dà dignità a una famiglia. Dobbiamo pregare perché non manchi il lavoro in una famiglia”.

Il lavoro che fa bella la terra.-Il discorso si sposta poi sul lavoro che rende migliore il luogo in cui si vive e, in generale, il nostro pianeta. Francesco ricorda che nella Genesi si evoca l’immagine di una terra che, appena creata, non ha erba né cespugli perché nessuno l’aveva ancora lavorata e irrigata:

“Non è romanticismo, è rivelazione di Dio; e noi abbiamo la responsabilità di comprenderla e assimilarla fino in fondo. L’Enciclica Laudato si’, che propone un’ecologia integrale, contiene anche questo messaggio: la bellezza della terra e la dignità del lavoro sono fatte per essere congiunte. Vanno insieme tutte e due: la terra diviene bella quando è lavorata dall’uomo”:

Il lavoro che corrompe l’habitat. Quando invece “il lavoro si distacca dall’alleanza di Dio con l’uomo e la donna” e diventa “ostaggio della logica del solo profitto e disprezza gli affetti della vita”, “l’avvilimento dell’anima” che ne nasce – afferma il Papa – “contamina tutto”, la “vita civile si corrompe e l’habitat si guasta”. E, al solito, a farne le spese sono “i più poveri”, le “famiglie più povere”.

“La cosiddetta ‘città intelligente’ è indubbiamente ricca di servizi e di organizzazione; però, ad esempio, è spesso ostile ai bambini e agli anziani. A volte chi progetta è interessato alla gestione di forza-lavoro individuale, da assemblare e utilizzare o scartare secondo la convenienza economica. La famiglia è un grande banco di prova. Quando l’organizzazione del lavoro la tiene in ostaggio, o addirittura ne ostacola il cammino, allora siamo sicuri che la società umana ha incominciato a lavorare contro se stessa!”.

Lavoro e vita dello spirito non sono in contrasto. Dopo aver criticato in precedenza, con le parole di San Paolo, il “falso spiritualismo” di chi, in ambito di fede, sostiene che impegno del lavoro e vita dello spirito siano in contrasto, Francesco conclude esortando le famiglie cristiane a sfruttare “con fede e scaltrezza” la congiuntura attuale, difendendo “il lavoro che – dice – rende domestica la terra e abitabile il mondo”, nonostante sembri di dover combattere come Davide contro Golia. “Ma sappiamo – osserva con una punta d’ironia – come è andata a finire quella sfida!”.

            Bollettino Giornale Radio vaticana – 19 agosto 2015         http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

Testo ufficiale             http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150819_udienza-generale.html

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IDEOLOGIA DI GENERE

            Studi di genere’: oltre il ‘genderismo’, no alle disparità.

“Le differenze sessuali naturali, in ogni epoca e contesto sociale, vengono narrate e interpretate diversamente. Nascono da qui i ‘repertori di genere’, le definizioni cioè di ‘cose da maschio’ o ‘cose da femmine’ che si traducono non solo nella nostra vita quotidiana, ma anche nei grandi sistemi sociali, familiari, economici e di lavoro. E anche in sistemi simbolici e teologici”. Ad affermarlo è Rita Torti, giornalista, studiosa e scrittrice, autrice del libro ‘Mamma, perché Dio è maschio?’ (Effatà editrice, 2013), che, anche grazie all’impulso del Coordinamento teologhe italiane, ha approfondito il tema della differenza di genere nel contesto educativo e in particolare nelle differenze sociali e nella trasmissione della fede.

            Discriminazioni non naturali. “Gli ‘studi di genere’ – spiega la Torti– hanno cercato, fin dagli anni Settanta, di vedere quali concetti di maschilità e femminilità, quali costruzioni di queste identità sessuate, si sono succedute nel tempo. Un lavoro importante perché, fino alla metà del secolo scorso, le distinzioni di genere, come per esempio il diritto di voto, venivano attribuite a differenze ‘naturali’. Si è visto, invece, che non era la natura a riconoscere all’uomo il suffragio e negarlo alle donne”. “Dunque – prosegue la studiosa – gli ‘studi di genere’ mostrano come le discriminazioni subite tuttora dalle donne – che in passato si sono basate su una pretesa superiorità del maschile sul femminile – sono in realtà nate da un’interpretazione del dato biologico e non ne sono affatto una conseguenza”. “La prospettiva del mio lavoro – sostiene la Torti– è capire quali ‘costruzioni di genere’ stiamo trasmettendo ai ragazzi, alle ragazze, ai bambini e alle bambine, trasmettendo loro il senso critico nei confronti di questo tema. Interessante, ad esempio, è il caso del ‘maschile’ che, per essersi autorappresentato come universale e neutro è diventato oggi invisibile e fatica a recuperare la propria parzialità, specificità”.

            L’espulsione delle figure bibliche femminili. Il lavoro dell’autrice mostra la carenze che acquistano, in questa prospettiva, alcuni libri di religione. “Quelli da me analizzati – sostiene la Torti identificano tutti i concetti importanti con attività e pratiche maschili, dando così un messaggio particolare ai giovani. Inoltre, dalla Genesi alla Pentecoste, operano una sistematica espulsione delle figure femminili bibliche dalla narrazione dei fatti della storia di Israele e della vita di Gesù, depotenziando dunque la ricchezza della Bibbia nei confronti della narrazione delle relazioni fra maschi e femmine”.

            D’accordo con questa impostazione è Chiara Giaccardi, docente ordinario di Sociologia e Antropologia dei Media all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. “L’essere umano – spiega – non è un essere solo biologico, ma interpreta la sua natura biologica con una serie di narrazioni, simboli e pratiche che sono proprio analizzate dagli ‘studi di genere’. Il ‘genere’ non è perciò quella parola diabolica che si vuol far passare nella cultura contemporanea, in buona fede ma anche con una grandissima dose di ignoranza. Bisognerebbe piuttosto parlare di ‘genderismo’, come di ‘populismo’. Non è la parola ‘popolo’ che è cattiva, anche se è stata strumentalizzata dalle ideologie populiste  di sinistra e di destra. Così non è la parola ‘genere’ a essere una parola negativa della neo-lingua che significa negazione della natura, ma è il ‘genderismo’, come deriva di una porzione limitata degli studi di genere, ad aver preso un direzione ideologica molto pericolosa che ora viene scambiata erroneamente per il tutto”.

            No al ‘genderismo’, sì agli ‘studi di genere’. “Allora, sul ‘genderismo’ – conclude la Giaccardi cioè sulla condanna della colonizzazione ideologica del ‘gender’, che nega il dato naturale,  siamo più che d’accordo. Ma le ‘teorie del genere’ sono una realtà che è doveroso tematizzare ed esplorare. Il modo in cui sono madre io è molto diverso da com’era mamma mia madre o mia nonna. E questo senza negare l’aspetto sessuale ma appunto valorizzando tutto l’aspetto simbolico e di narrazione che si è sovrapposto a questo, creando spesso disparità”.  

            Fabio Colagrande      Radio vaticana – 6 agosto 2015

http://it.radiovaticana.va/news/2015/08/06/studi_di_genere_oltre_il_genderismo,_no_alle_disparit%C3%A0/1163486

                        Non solo ideologia: riappropriamoci del genere.

Un’analisi del dibattito culturale e giuridico. Oggi la questione del ‘gender’ si pone come spinosa ma necessaria. Al di là di incomunicabilità e fraintendimenti, azioni di attacco e barricate difensive, proprio nella sua incandescenza il dibattito segnala un nodo di senso ineludibile: quale rapporto intrattenere e coltivare con la nostra dimensione biologica, in un tempo in cui i confini di ciò che è ‘naturale’ si sono ridefiniti e sono continuamente forzati in ogni direzione? La polarizzazione tra le fazioni opposte – no gender-pro gender – ha ipersemplificato e in molti casi banalizzato la questione, e sembra arrivata a un punto di stallo.

            Per questo è importante uscire dalla forma che il dibattito ha assunto e reincorniciarlo in modo nuovo. Una prima questione, preliminare, riguarda la legittimità stessa del problema. Due posizioni si contrappongono: la prima (no gender) sostiene che l’«ideologia gender» esiste ed è unica; la seconda (pro gender) che non esiste ed è una invenzione di chi non accetta i cambiamenti. Posta così, nessuno ha ragione; a uno sguardo più ampio, ognuno ha le sue ragioni.

            È vero che i «gender studies» hanno una tradizione di ormai mezzo secolo, e sono nati proprio per denunciare e contrastare posizioni teoriche astratte e pratiche consolidate, basate sulla disuguaglianza: per mostrare che l’essere umano è sempre un essere situato (prima di tutto in un corpo sessuato, poi in una storia, una cultura, un territorio); che il preteso universalismo delle culture e delle regole sociali è in realtà un’astrazione, che prescindendo dalla realtà la mortifica (nella fattispecie, il punto di vista femminile); che rispetto alla nostra corporeità la cultura è tutt’altro che irrilevante. Sin dalle origini i «gender studies» hanno affrontato questioni di tutto rispetto, anzi, doverose.

            E questa attenzione continua anche oggi: basta dare un’occhiata, tra i tanti esempi, al bel filmato «Why gender matters for social sciences» (Perché le questioni di genere nelle scienze sociali) sul sito del Gender Institute della London School of Economics, per rendersi conto che le questioni sono molte e che sull’asse delle differenze di genere si giocano ancora oggi molto in termini di rispetto e pari dignità: chi ha accesso a cosa, chi può fare cosa, è ancora fortemente determinato dal genere.

            La stessa ragione per cui Edith Stein, in quanto donna, non poté essere titolare di una cattedra di filosofia, oggi fa sì che, a parità di qualifica professionale e competenze, le donne vengano pagate meno degli uomini, o addirittura, in alcuni Paesi, non possano avere diritto all’istruzione né a guidare l’auto, per non parlare del resto. Una questione sulla quale è recentemente intervenuto persino papa Francesco. Una tipica questione di ‘gender’.

            Dunque gli studi di genere sono diversificati al loro interno; hanno dato importanti risultati e molti possono ancora favorirne in termini di giustizia sociale; non sono esclusivamente né principalmente focalizzati sulla questione del ‘genere sessuale come scelta’ che prescinde dalla natura. Se non si riconosce questo, si rischia di divenire ideologici a propria volta. Il che non significa che il problema non esista. Semplificando si può dire che oggi ci sono due scuole di pensiero sul ‘gender‘, che a loro volta presentano diversificazioni interne.

  1. Nella prima – essenzialista – si opera un passaggio diretto dall’anatomico all’ontologico (le caratteristiche corporee esprimono l’essenza della differenza di genere, ricavabile da esse); è un approccio scientista-positivista, ma anche quella dei primi gender studies femministi, con la tendenza a una visione scissa della sessualità, che alimenta un dualismo contrappositivo e competitivo tra maschile e femminile.
  2. La seconda – culturalista-costruttivista – insiste sul ‘gender’ come costruzione sociale, e presenta in realtà due varianti. Una versione moderata, che sottolinea il ruolo della rielaborazione culturale del dato biologico, e una radicale – oggi prevalente – secondo la quale la natura non conta e vale solo il discorso sociale e la scelta individuale (posizione che tende all’astrazione del ‘neutro’).

Oggi il dibattito sul ‘gender’ è identificato con quest’ultima tipologia, che è la più insensata. Non bisogna però cadere nell’errore della ‘cattiva sineddoche’: prendere una parte del dibattito, la più discutibile, come il tutto e buttare il bambino con l’acqua sporca. In realtà la battaglia ideologica sul ‘gender’ (perché una componente ideologica è innegabile) si combatte più a colpi di diritto che di teorie che la giustifichino.

            Persino Judith Butler (con la quale peraltro molte sono le ragioni di dissenso), autrice del celebre Questioni di genere, ha affermato di recente che «il sesso biologico esiste, eccome. Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione. Ciò che rispondo, più semplicemente, è che la sua definizione necessita di un linguaggio e di un quadro di comprensione (…). Noi non intratteniamo mai una relazione immediata, trasparente, innegabile con il sesso biologico. Ci appelliamo invece sempre a determinati ordini discorsivi, ed è proprio questo aspetto che mi interessa».

            Di ‘gender‘, dunque, non solo si può, ma si deve parlare. Perché l’essere umano non è solo biologico, né dato una volta per tutte al momento della nascita. L’identità non è solo espressiva (tiro fuori ciò che già sono) ma relazionale. Non solo biologica, ma simbolica. Dire che semplicemente uomini e donne si nasce, o che semplicemente lo si diventa, è contrapporre due verità che invece stanno insieme: uomini e donne si nasce e si diventa. E in questo processo, che dura tutta la vita, contano tanti aspetti: la storia, la cultura, la religione, l’educazione, i modelli, le vicende personali, l’essere situati in un tempo, uno spazio, un corpo.

            In ogni caso, non c’è mai un’aderenza totale e senza resto tra il nostro essere biologico e il nostro essere umani. In questo l’uomo è diverso dall’animale: alla certezza meccanica dell’istinto corrisponde nell’uomo l’incertezza non garantita della libertà e della responsabilità. Il dibattito su come ci riappropriamo (o non riusciamo a riappropriarci) delle nostre caratteristiche anatomiche, e quanto il contesto ci sostiene, ci ostacola, ci indirizza, ci offre le categorie è non solo legittimo ma doveroso.

            La forma che ha preso oggi il dibattito sul gender, nella sua punta estrema, commette un errore epistemologico grave, sovrapponendo elementi molto diversi tra loro: in particolare facendo coincidere universalismo e astrazione da una lato, e non-discriminazione ed equivalenza dall’altro, e rivelando così un problema con l’alterità concreta, che si traduce in una cancellazione, di fatto, della dignità delle differenze. Non a caso le nuove forme di educazione spingono alla promozione del ‘neutro’, che è appunto la cancellazione delle differenze, una forma di discriminazione violenta contro la concretezza del reale, rimosso in nome di una normatività procedurale e astratta.

            A questo si collega un altro dei problemi della contemporaneità: il demandare al piano giuridico ciò che andrebbe prima affrontato a livello culturale. Poiché non ci si riesce a mettere d’accordo su cosa significa essere umani oggi, sui contenuti profondi che ci riguardano, si spostano le decisioni sul piano astratto delle procedure, come se fosse neutro dal punto di vista valoriale. Ma l’astrazione non garantisce affatto la neutralità, e, di fatto, il legislatore finisce col ratificare e rendere normativo il caso particolare. Quindi si dovrebbe parlare oggi di ‘ideologia giuridica’ come minaccia effettiva alla libertà delle nostre scelte, educative prima di tutto. Una deriva legata ai processi di tecnicizzazione che, nell’illusione di garantire la vita collettiva dall’arbitrio delle posizioni di valore, impongono senza nemmeno rendersene conto i valori che li impregnano (efficientismo, fattibilità, controllo, individualizzazione, assenza di senso del limite…).

            Un’ideologia che si salda in modo perfettamente funzionale, rafforzandolo, con l’individualismo radicale del pensiero contemporaneo mainstream [tradizionale], e strapotere dei sistemi tecnoeconomici, ai quali fa buon gioco raccontare la favola della ‘sovranità dell’io’, che ha ben pochi riscontri nella realtà.

            A fronte di una ‘idolatria dell’io’ che, come riconosceva Hannah Arendt, a partire dalla modernità ha preferito scambiare ciò che ha ricevuto come un dono con qualcosa che ha fabbricato con le proprie mani, un discorso sul ‘gender’ oggi dovrebbe uscire dall’opposizione natura-cultura (siamo naturali e culturali in quanto umani) e spostarsi sul piano simbolico. Contro l’illusione idolatrica e tecnocratica di trovare il termine che esprime esattamente, senza resto, ogni sfumatura possibile della nostra identità sessuale, come i 56 profili di ‘gender’ proposti da Facebook, dovremmo riaprirci alla parola simbolica, capace di ospitare in sé un’apertura, una gamma inesauribile di possibilità espressive (quali la femminilità e la mascolinità, nella loro dualità), e soprattutto una relazionalità costitutiva: la mia identità di genere nasce dall’incontro delle differenze e si è costruita nella relazione con altri, concreti come me. In un movimento di apertura e scoperta che si chiama libertà: nella gratitudine per quanto ricevuto, nella relazionalità del legame, nella consapevolezza che non siamo mai liberi dai condizionamenti culturali eppure abbiamo la capacità di non esserne completamente succubi, se solo evitiamo di aderire ottusamente al dato di fatto.

            Credo che un’antropologia cristiana abbia, oggi, da portare un contributo positivo preziosissimo alla doverosa riflessione sul ‘gender’. Perché, con Hölderlin, «là dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva».

            Chiara Giaccardi                  avvenire         31 luglio 2015

www.avvenire.it/Commenti/Pagine/Gender-non-solo-ideologia-Riappropriamoci-del-genere-.aspx

 

Questione di genere al giusto livello.

L’intelligente, documentata ed esauriente analisi che Chiara Giaccardi ha pubblicato su Avvenire del 31 luglio (dal titolo, davvero perfetto, «Riappropriamoci del genere») ha suscitato qualche reazione stizzita e persino aggressiva, arrivata sino all’accusa a questo giornale e alla studiosa di non percepire (!) la gravità delle tensioni culturali che caratterizzano il mondo di oggi, di non tenere nel giusto conto (!!) l’antropologia cristiana e soprattutto di non dare la dovuta considerazione (!!!) alle dichiarazioni sul tema del Magistero e dello stesso Papa.

Non intendo entrare nel merito di elucubrazioni frutto di letture grossolane e distorcenti, che si commentano da sole. A me interessa piuttosto rilevare come dietro certe pur modeste polemiche si nasconda un’insidia non irrilevante: quella di confondere la dimensione filosofica e quella teologica dell’antropologia cristiana e, cosa ancor più grave, quella di erigere l’adesione all’antropologia filosofica cristiana a unità di misura della stessa fede, quasi che al Credo che recitiamo ad alta voce ogni volta che partecipiamo alla Messa si dovesse aggiungere un’ulteriore proposizione: “Credo alla differenza tra i sessi”. Il punto nodale della questione – già indicato in diverse occasioni su queste colonne, e che Giaccardi sottolinea molto bene – è che non esiste “una” teoria del gender, ma tutta una costellazione di temi, che vanno dal sociologico allo psicologico, dallo storico al giuridico, dal religioso al filosofico, dal politico al sociale, dall’etnologico al biologico. E per ciascuno di questi temi dovrebbero darsi autonomi profili di ricerca. L’antropologia filosofica occidentale sta lentamente prendendo coscienza della complessità del tema del genere, dopo averlo per secoli semplificato grossolanamente e brutalmente assumendo (tranne rare eccezioni) come paradigma unitario e unificante del rapporto tra i sessi quello biologico del primato del maschile sul femminile e quello corrispettivo dell’inferiorità del femminile rispetto al maschile. Da questo paradigma (peraltro fragile, anche biologicamente) sono derivate innumerevoli conseguenze a catena, ancora difficili a rimuoversi, e tutte riassumibili nel concetto di discriminazione tra i sessi: nel mondo della politica come in quello del lavoro, nel mondo della cultura come in quello giuridico e sociale. Di alcune di tali discriminazioni (come quelle, a volte indegne, di cui sono state vittime gli omofili) abbiamo preso coscienza (ma ancora non tutti) solo di recente. Per giustificare l’impegno dei cattolici contro queste discriminazioni non c’è bisogno però di fare specifico appello all’antropologia cristiana, se non per quella parte in cui essa coincide con la moderna antropologia della pari dignità delle persone; è solo necessario un supplemento di intelligenza, che ci faccia capire, nel bene come nel male, il peso della storia e delle dinamiche sociali.

Ma al di là dell’antropologia filosofica si dà anche un’antropologia teologica, desumibile prima dal racconto biblico della creazione dell’essere umano non come soggetto “generico” (come anthropos), ma come maschio e femmina, poi col racconto evangelico dell’incarnazione di Dio, come uomo, nel seno di una donna. Davanti alla Rivelazione, la filosofia non può che tacere e l’uso stesso di un termine come “discriminazione” (legittimo sul piano delle scienze umane) si rivela inopportuno. L’antropologia teologica ci chiama, prima che all’argomentazione, alla meditazione e ci aiuta a tal fine in tanti modi: splendido quello iconografico, che si manifesta nell’accostamento dell’immagine maschile di Cristo in croce a quella femminile di Maria che tiene sulle ginocchia il Figlio. All’icona del Crocifisso, che ci dice tutto quanto vogliamo sapere sul dolore, sulla morte e sull’amore che salva, il cristianesimo ha sempre unito l’icona della tenerezza assolutamente silenziosa e gratuita e del rapporto misterioso e indissolubile tra i sessi, che non è quello generico tra maschio e femmina, ma quello concretissimo tra la madre e il figlio. A questo livello, qualsiasi elaborazione del gender, anche la più stravagante e provocatoria, perde consistenza: resta solo il mistero del rapporto io-tu, dell’affidamento totale del bambino Gesù (e di ogni bambino) alla madre e dell’amore totale della Madonna (e di ogni madre) per il proprio piccolo.

            È a questo livello che il cristianesimo può e deve dare, come dice con grande efficacia Chiara Giaccardi, un contributo «preziosissimo» alla teoria del genere (oggi a evidente rischio di deragliamento per radicale impazzimento) e della differenza tra i sessi, studiando le diverse forme di incarnazione culturale del messaggio cristiano. Ogni altro tipo di impegno, parlamentare, dottrinale, pedagogico, ecc., non può che essere benvenuto e anche ritenuto indifferibile e irrinunciabile; ma dovrà sempre essere ritenuto, da parte dei cristiani, secondario. Perché i cristiani, prima di operare per buone leggi, buona scuola, buona medicina (ambiti in cui è possibile trovare alleati in uomini e donne di buona volontà) devono operare per annunciare quella che è stata specificamente loro affidata: una Buona novella.

Francesco D’Agostino                       avvenire                     10 agosto 2015

www.avvenire.it/Commenti/Pagine/questione-di-genere-al-giusto-livello.aspx

 

Gender”: no alle barricate, sì al dialogo. Parla una delle firmatarie della lettera aperta

Di fronte a una campagna martellante e aggressiva come quella contro la cosiddetta “ideologia gender” hanno scelto di prendere carta e penna e di rivolgersi direttamente ai/alle responsabili di associazioni e movimenti cattolici della loro diocesi, quella di Parma, per invitarli al dialogo. Sono Le Sante Lucie, un gruppo di donne a vario titolo impegnate nella vita della Chiesa diocesana, trovatesi per la prima volta nel 2013 per rispondere alle domande del Questionario in vista del Sinodo. «In questi mesi – spiegano ai destinatari della loro missiva – ci siamo confrontate sui temi del genere a partire dalle nostre diverse prospettive e competenze, e abbiamo sentito la necessità di condividere con voi alcune riflessioni». Per approfondire le ragioni della loro iniziativa, abbiamo rivolto qualche domanda a una di loro, Rita Torti, esperta di studi di genere e collaboratrice di enti, scuole e associazioni per progetti sui temi del femminile-maschile in ambito culturale, sociale e religioso e autrice di Mamma, perché Dio è maschio? Educazione e differenza di genere (Effatà Editrice, 2013).

            Come mai avete scelto di focalizzarvi più sul metodo e sul linguaggio che sui contenuti di questa campagna contro la cosiddetta “ideologia di genere”?

            Perché, come abbiamo detto concludendo la lettera, al momento il metodo e il linguaggio dominanti impediscono, secondo noi, di ragionare sui contenuti in modo adeguato. La mobilitazione “antigender” mette insieme temi, saperi, soggetti sociali che hanno tempi, storie e motivazioni differenti e li demonizza in blocco, spesso anche distorcendoli. Noi, forse anche per il fatto che il nostro gruppo non è un monolite e su tanti temi abbiamo pareri diversi, riteniamo invece che sia necessario distinguere le questioni in gioco e collocarle nei loro propri contesti e linguaggi, e da lì partire per approfondimenti, valutazioni, ricerche. Di solito, oltretutto, nel lavoro intellettuale e culturale si fa così.

            La vostra lettera ha ricevuto un’accoglienza calorosa sui social network, così come l’intervento di poche settimane fa del mensile delle comboniane, a dimostrazione che una presa di parola su questi temi da parte di quella porzione di Chiesa che non si riconosce in questa battaglia sia quanto mai necessaria… Cosa vi ha spinto a questo passo?

            Siamo donne coinvolte attivamente nella vita ecclesiale e diverse di noi (ma sappiamo di non essere un caso isolato) si sono trovate a disagio e in grande difficoltà di fronte a una campagna martellante e molto aggressiva che mette in discussione non solo la validità “umana”, ma a volte perfino la coerenza con la fede di impegni che da anni – ormai decenni, in realtà – ci hanno accumunate pur nella varietà dei percorsi individuali: ad esempio quelli della promozione di relazioni liberanti tra i sessi in famiglia e nella società, del lavoro culturale e educativo di decostruzione degli stereotipi, del contrasto alla violenza maschile verso le donne nelle sue molteplici manifestazioni. Volevamo quindi provare a ragionare di “gender” insieme alle persone che condividono con noi la vita di Chiesa, e farlo in un modo più articolato e corretto rispetto a quanto vediamo accadere intorno a noi, che poi sfocia nelle terroristiche e incontrollate catene di false informazioni via [messaggistica mobile disponibile per smartphone.],, arrivate anche sui nostri cellulari, che pare nessuno si sia preoccupato di fermare. Intanto abbiamo scritto la lettera. Poi vedremo.

            Avete ricevuto qualche risposta da parte delle associazioni cui vi siete rivolte? E da parte di altri?

            Finora nessuna risposta dalle persone a cui la lettera è indirizzata. Qualcuno sarà in vacanza, altri magari l’hanno vista ma si prendono un po’ di tempo per pensarci o condividerla con i membri delle associazioni e movimenti di cui sono responsabili. Per quanto riguarda le reazioni “esterne”, leggendo i commenti in rete io personalmente non ho provato soddisfazione per le molte attestazioni di gratitudine e di condivisione, anche se ovviamente fanno piacere. Piuttosto, una certa tristezza nel vedere quante persone abbiano sottolineato quasi con sorpresa il fatto che noi pur essendo cattoliche ci esprimiamo su questi temi con uno stile e un modo di argomentare non aggressivi e non generalizzanti. Questo mi fa male perché dà l’idea di quanto sia negativa l’immagine che normalmente molti hanno dei cattolici riguardo a questi argomenti: ci sarà certo un po’ di pregiudizio, ma se penso a quello che leggo da mesi su giornali e siti, mi sento di dire che c’è anche del vero.

            Al di là del battage mediatico, quanto pensi sia diffusa nel mondo cattolico, la percezione che esista davvero un'”ideologia di genere”?

            A questa domanda non so rispondere, perché bisognerebbe conoscere un gran numero di contesti indagandoli direttamente, non basandosi solo su quanto di essi viene raccontato: non tutte le posizioni fanno ugualmente notizia, e non tutti si fanno sentire con gli stessi decibel. Certo i cattolici sono molto esposti, nel circuito delle parrocchie e di altre realtà anche istituzionali, a un tipo di informazione e formazione “antigender” che mi pare goda del monopolio degli spazi e della legittimazione da parte della gerarchia ecclesiastica. Non trovo eccessivamente strano o scandaloso, in un contesto di questo tipo, che quelli che pensano diversamente preferiscano non manifestare apertamente prospettive divergenti, ma stiano appartati continuando a lavorare su quello in cui credono. Non è l’ideale per la vita della Chiesa, probabilmente, ma forse continuare a seminare è più utile che impegnarsi in confronti a cui gli interlocutori evidentemente non sono interessati.

            Sei l’autrice di un prezioso volume che indaga come anche l’educazione religiosa e la trasmissione della fede influiscano nella costruzione del maschile e del femminile (Mamma perché Dio è maschio?). Quale ruolo la Chiesa potrebbe svolgere in quest’ottica?

            Forse semplicemente prenderne atto. Abbiamo una storia che può insegnarci molto, è un tesoro prezioso: ci mostra le continue interpretazioni del dato biologico della dualità sessuale che nel discorso teologico ed ecclesiale si sono succedute e sovrapposte, il condizionamento a volte anche molto pesante che le pre-comprensioni di genere hanno esercitato sulla lettura delle Sacre Scritture, poi rafforzate dall’omiletica, dalla catechesi, dalla pratica delle confessioni; e anche ci mostra la benedizione rappresentata dallo sguardo di genere sulle fonti della nostra fede. Se non riflettiamo su tutto questo, rischiamo di far passare per naturale e oggettivo ciò che naturale e oggettivo non è, e di ingabbiare le coscienze, ma anche il Vangelo.

            In questi ultimi mesi anche il papa è tornato più volte sull’argomento, arrivando tra le altre cose a dire che «la complementarità tra un uomo e una donna, vertice della creazione divina, viene messa in discussione dalla cosiddetta ideologia gender». Come interpreti queste dichiarazioni?

            Ho difficoltà a interpretarle perché il papa si è espresso in discorsi non ufficiali, quindi mi mancano gli elementi per capire esattamente a quali fatti, studi (sia socio-culturali che teologici) e processi si riferisca. Già il fatto che Francesco parli di “cosiddetta ideologia gender” non aiuta: è una formula usata sempre e solo da chi sta promuovendo quelle campagne di cui parlavamo all’inizio dell’intervista, ma che non ha un significato univoco. Francesco stesso, in altri suoi discorsi, riguardo ai rapporti tra uomini e donne ha denunciato cose che da anni gli studi di genere denunciano, e a cui le politiche di genere in tutto il mondo tentano di porre rimedio. Quindi che dire? Mi piacerebbe molto parlare con lui di queste cose. E non sono l’unica: Cristina Simonelli (presidente del Coordinamento Teologhe Italiane, ndr) ad esempio, ha scritto una lettera aperta che spero Francesco abbia occasione di leggere.

            Raccontate di esservi incontrate la prima volta per rispondere al Questionario in vista del Sinodo straordinario svoltosi nell’ottobre 2014. Avete ripetuto l’esperienza anche per il secondo Questionario in vista del Sinodo di quest’anno? Su quali temi avete posto l’accento nelle vostre risposte? E cosa vi aspettate e vi augurate dall’Assemblea del prossimo ottobre?

            No, non ci siamo trovate per il secondo Questionario. Come detto, siamo un gruppo informale, ci riuniamo e discutiamo su sollecitazione delle singole. E in questo caso la sollecitazione non c’è stata. Il motivo non lo so; mi pare che in generale, nella Chiesa, la seconda “chiamata” abbia avuto meno riscontri della prima. Forse un po’ di stanchezza, o di sfiducia riguardo al fatto di ricevere ascolto, o la percezione che il Sinodo ha percorsi suoi abbastanza autonomi e che le voci del popolo di Dio non ci possano entrare più di tanto; magari anche solo per il fatto che è un’Assemblea che coinvolte tutto il mondo, e nel mondo non c’è “la famiglia”, anche fra i cattolici, ma ci sono “le famiglie”, che vivono innanzitutto le dinamiche dei contesti in cui sono immerse, anche se il riferimento è o dovrebbe essere il Vangelo. Ma, appunto, il Vangelo viene sempre letto attraverso lenti culturali.

            Quindi non so cosa le Sante Lucie si aspettino dal prossimo Sinodo. Personalmente, ho notato che alcuni punti deboli di metodo e di merito riguardo al maschile-femminile sono rimasti più o meno uguali nell’ultimo Instrumentum Laboris; ma forse su questo incide non poco la composizione solo maschile dell’episcopato e quasi totalmente maschile dell’Assemblea sinodale stessa. Non c’è da scandalizzarsi. È normale: gli uomini parlano in quanto uomini, non possono parlare in quanto donne, o a nome delle donne. Se si esalta e si vuole difendere la differenza sessuale, bisogna rendersi conto che essa ha anche questo risvolto sulle strutture. Poi si decide sul da farsi. L’importante è non illudersi che un’Assemblea composta da persone di un unico sesso, e in cui solo un sesso ha parola autorevole e potere deliberante, sia “neutra” e “universale”.

Ingrid Colanicchia     Adista Notizie n. 28   01 agosto  2015 www.adista.it/articolo/55325

Coordinamento Teologhe Italiane    sabato 22 agosto 2015

www.teologhe.org/?newsletter=newsletter-cti-22082015

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MINORI

Sottrazione internazionale dei minori e obbligo di eseguire i provvedimenti del giudice.

Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 33989, 3 agosto 2015.

La Corte di Cassazione, ha respinto il ricorso di una donna condannata per sottrazione internazionale di minori.. La donna aveva impugnato la pronuncia della Corte di appello di Venezia che l’aveva condannata anche per non aver eseguito il provvedimento del giudice italiano. Per la Cassazione il delitto di sottrazione internazionale di minori non può essere giustificato per i presunti illeciti commessi dal padre, così come poco importa che il padre fosse a conoscenza che la bambina si trovava in Austria. La donna poi rivendicava il rispetto delle pronunce delle autorità giudiziarie austriache che avevano deciso per il non rientro in Italia della minore. Una pronuncia irrilevante considerando che si trattava di provvedimenti relativi solo ad attività successiva rispetto alla mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice italiano e alla sottrazione di minore incapace.

            Marina Castellaneta              18 agosto 2015

www.marinacastellaneta.it/blog/sottrazione-internazionale-dei-minori-e-obbligo-di-eseguire-i-provvedimenti-del-giudice.html

sentenza          www.marinacastellaneta.it/blog/wp-content/uploads/2015/08/33989.pdf

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OMOFILIA

“No alle due madri per un bambino, scelta in contrasto con l’ordine pubblico”.

Torino, il procuratore generale Marcello Maddalena: “No alle due madri per un bambino, scelta in contrasto con l’ordine pubblico

.           Intervista dopo il ricorso della Procura alla Cassazione contro la trascrizione nell’anagrafe torinese di due donne sposate in Spagna e del figlio: “Avere figli è una legittima aspirazione, non un diritto fondamentale. Mi rendo conto di apparire politicamente scorretto ma la Costituzione parla di uomo e donna”

«Il principio per cui la filiazione sia necessariamente discendenza da persone di sesso diverso è un principio fondamentale, e addirittura immanente perché discendente dal diritto naturale». Lo scrive il procuratore generale Marcello Maddalena nel ricorso alla Corte di Cassazione contro il decreto di Corte d’Appello che aveva ammesso l’iscrizione allo stato civile di Torino di due donne, già sposate in Spagna, come madri di un bambino. Maddalena non è d’accordo, anzi ritiene che sia «in contrasto con l’ordine pubblico l’accettazione di soluzioni antitetiche quale quella spagnola che consente un atto di nascita nel quale al minore siano attribuite due madri.

Dottor Maddalena, perché un ricorso così rigido contro la decisione delle due madri di un solo bambino?

«Perché ritengo che si tratti di un decreto in contrasto col nostro ordinamento, che non lo prevede e che vieta anche la fecondazione eterologa tra persone di sesso diverso. È opportuno che sia la Cassazione a pronunciarsi».

Non è possibile che a nuovi tipi di famiglie possano seguire nuovi tipi di diritto?

«La creazione di nuovi diritti è sempre da considerare con estrema prudenza. Come dimostra anche il fatto che si potrebbe sostenere il diritto del bambino in questione a sapere chi siano stati sua madre e suo padre. Non volendosi addentrare su questo terreno, vale il principio stabilito dalla nostra Costituzione, che prevede che alla base di una famiglia ci siano un uomo e una donna. Al momento, vale questo».

Eppure del diritto ad avere figli si parla comunemente.

C’è una tendenza a definire “fondamentali” diritti che in realtà sono individuali, o meglio ancora fanno parte delle aspettative e delle speranze che ogni persona ha nella sua vita. Per esempio, più che di diritto alla salute io parlerei di diritto alle cure. Così come non penso debba esistere un diritto alla clandestinità. Avere figli è un’aspirazione, un desiderio umano rispettabilissimo, ma non un diritto fondamentale di qualsiasi coppia, paragonabile al diritto alla vita o a quello a manifestare il proprio pensiero».

L’aspetto giuridico e quello politico si intrecciano da vicino quando si parla di famiglia?

«In un certo senso mi rendo conto che sostenendo questi principi posso rischiare di diventare “politicamente scorretto”. Tuttavia penso che la giurisprudenza vada tenuta distinta. Altrimenti prima o poi ci ritroveremo col diritto fondamentale alla felicità, e chi non si riterrà abbastanza felice farà causa allo Stato chiedendo i danni per i propri dispiaceri».

Resta il fatto che i bambini, e le decisioni che li riguardano, sono sempre un tema delicato. Mentre si discute sulle due madri ci si accapiglia anche su quali coppie abbiano diritto ad allevare il proprio figlio.

«È vero. Esasperando certi concetti verrebbe da pensare che solo famiglie “perfette” e genitori ricchi abbiano diritto a essere tali. Ovviamente, non è così. Ma il rischio esiste, e bisogna tutelarsene».

Vera Schiavazzi         la repubblica                          21 agosto 2015

            http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/08/21/la-costituzione-parla-di-uomo-e-donna-per-ora-vale-questoTorino02.html?ref=search

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SINODO DEI VESCOVI SULLA FAMIGLIA

Temi del Sinodo: le chiavi della casa di Dio sono per tutti.

La mia proposta, in vista del Sinodo sulla famiglia, è di sostituire al termine “famiglia” il termine“casa”. Se, infatti, il termine “famiglia” rischia non solo di dividere ma soprattutto di ferire, il termine “casa” non può che accomunare. Se preferissimo il termine “casa” (cfr Lc 9, 24) a quello di “famiglia”, forse sarebbe più facile porci in un atteggiamento di umile accoglienza di tutte le realtà in cui uomini e donne vivono la loro avventura umana, soprattutto quando si fa alleanza per affrontare insieme la vita, spesso segnata da complessità non cercate, ma che vanno comunque patite, sofferte insieme e, possibilmente, accompagnate e sostenute con spirito fraterno e umana solidarietà. Ormai molte delle nostre case non assomigliano più tanto a quella di Nazaret, né forse neppure a quella di Betania o a quella di Cana di Galilea.

La case di Levi e di Zaccheo. Si potrebbe dire che molte delle case, in cui gli uomini e le donne del nostro tempo vivono con i loro bambini e spesso anche con i loro vecchi, assomigliano di più alla casa di Levi: un luogo di passaggio di amici, di conoscenti, di gente con cui si condivide una storia. Non saremo mai abbastanza toccati e consolati dal fatto che, quando il Signore Gesù chiama Levi-Matteo a seguirlo, non gli chiede di cambiare compagnia e, persino, sembra non gli chieda di abbandonare i suoi amici e le sue abitudini. Laddove ci aspetteremmo una rottura assoluta con il suo mondo di relazioni e di abitudini troviamo invece che “Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla numerosa di pubblicani e di altra gente, che erano con loro a tavola” (Lc 5, 29). Quando le nostre case sono il luogo in cui convengono e convergono storie diverse e non sempre facili, tanto da scandalizzare e imbarazzare, come avvenne per i farisei alla vista di Gesù che entra in casa di Levi, il Signore si fa presente con la sua benedizione che non approva tutto, eppure non giudica nessuno e siede accanto a tutti come un “medico” (Lc 5, 31) che non solo ci prescrive le cure necessarie, ma sa pure aspettare i tempi e i modi della guarigione di ciascuno.

Ancora, si potrebbe dire che molte delle nostre case, in cui gli uomini e le donne del nostro tempo vivono con i loro piccoli e i loro anziani, assomigliano di più alla casa di Zaccheo. Come Zaccheo, spesso, cerchiamo di arrampicarci su un “sicomoro” per non essere visti e, nello stesso tempo, vedere, col desiderio di trovare un indizio di speranza per la nostra vita, apparentemente piena di tante cose e che talora è segnata da un vuoto insopportabile. Il Signore sorprende col suo invitarsi più che con il suo accoglierci: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5). È il Signore a riportarci nella nostra stessa casa e così ci permette di riconciliarci con le nostre ferite, i nostri fallimenti relazionali, i nostri errori e persino il male che abbiamo fatto agli altri nel disperato tentativo di superare il nostro complesso di inferiorità – era “piccolo di statura” (Lc 19, 3) – che ci fa sentire talmente a disagio da mettere talora gli altri ancora più a disagio specie quelli che ci vogliono bene.

Famiglia: una realtà complessa. Alla luce di questi esempi del Vangelo, possiamo veramente allargare il nostro modo di pensare alla “famiglia” o, ancora più generosamente, non identificare la famiglia così come l’abbiamo intesa finora, soprattutto idealmente, perché la realtà delle famiglie non escluse quelle “cattolicissime”, è sovente non solo più complessa, ma anche assai dolorosa, come l’unica forma adeguata a ricevere, condividere e trasmettere vita attraverso l’amore. La famiglia non può essere ridotta alla circolazione di cura e di affetto all’interno della coppia che si apre all’accoglienza, talora iperprotettiva, di uno o più figli. Nella logica che ritroviamo nelle Scritture, siamo messi di fronte ad un lungo cammino di umanizzazione non ancora compiuto e ancora in divenire. Ogni umana convivenza – necessariamente imperfetta e abitata da aspetti positivi e da inevitabili ambiguità – è chiamata a diventare “famiglia di Dio” che si riveli come casa in cui tutti possano trovare il sostegno e il conforto per la propria vita reale.

Il Concilio di Gerusalemme. Per vincere le molte resistenze davanti a possibili aperture che, per alcuni, rischiano di annacquare le esigenze di fedeltà alla tradizione, riferiamoci al primo Concilio di Gerusalemme come ad un’icona cui ispirarsi per adempiere il compito di cambiamento e di novità che spesso la storia impone alla Chiesa. La decisione della prima comunità riguardo ad una questione di rapporto con tradizioni complesse ed esigenti, come via via nel tempo, erano diventate le osservanze giudaiche e, in particolare, della circoncisione, va nella linea della semplificazione e dell’essenzializzazione.

Tutto ciò esige la relativizzazione e che non coincide, automaticamente, con il relativismo. Così pure il modo di procedere nell’applicazione va nella linea di scegliere sempre, per quanto è possibile, di comunicare le decisioni “a voce” (At 15, 27), perché ogni decisione sia, il più possibile, l’occasione per approfondire i legami, nonostante le differenti sensibilità e i diversi modi di sentire e di reagire, di pensare e di agire. Al motto “credere, obbedire, combattere” corrisponde il moto evangelico che si potrebbe riassumere così: “credere, obbedire, amare”. Solo che, in questo caso, il terzo elemento – amare – non solo è quello che autentica il credere e l’obbedire, ma li fonda.

Salvaguardare l’essenziale. Per la Chiesa primitiva non è stato facile accogliere il Vangelo del Signore Gesù Cristo e soprattutto, non è stato facile rinunciare a tutto ciò che si è abituati a ritenere come garanzia di una vicinanza a Dio e di una fedeltà alla sua volontà. Come già i discepoli, quando Gesù era ancora con loro (Mc 9, 38-40), e come ancora oggi, ogni giorno nella Chiesa si fa fatica ad accogliere la libertà e imprevedibilità di un Dio che di punto in bianco, come afferma Pietro, “ha reso testimonianza in loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi” (At 15, 8), Discussione mai chiusa né tantomeno finita ed oggi di nuovo al centro di molte diatribe nella Chiesa! Eppure la risposta ci viene data ed è una risposta dolcissima che ci viene attraverso gli apostoli e, in particolare, attraverso Giacomo: “io ritengo che non si debba importunare quelli che si convertono tra i pagani, ma solo” (At 15, 19). È bellissimo notare come gli apostoli sono capaci di convertirsi, di andare oltre i propri parametri e di accogliere le sfide che lo Spirito di Dio pone loro a partire da una constatazione di fatto umile e sincera: “perché continuate a tentare Dio imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare?” (At 15, 10). Si tratta di uno stile che la Chiesa primitiva impara dallo Spirito Santo: bisogna salvaguardare il minimo essenziale per tutti che funga da minimo comune denominatore, per non cadere nella trappola del massimo comune divisore.

Consegnare le chiavi di casa. Lo stesso servizio pastorale dovrebbe assomigliare meno ad un blocco dottrinale e di più all’atteggiamento di un padre che parla a suo figlio e non dice esattamente cosa deve fare o non fare, ma consegna finalmente le chiavi di casa, non senza ricordare alcune regole di comportamento, alcune delle quali – sa già in partenza – saranno trasgredite. Questo per dare al proprio figlio non solo una sensazione di conquistata libertà, ma pure il conforto di una presenza di attenzione e di cura che non si esaurisce con l’età, ma che semplicemente muta nei modi, senza cambiare nel desiderio del bene e della felicità dell’altro che riparte continuamente dalla fiducia nell’altro.

L’immagine del pescatore che ripara la rete: è un’immagine che resta dentro e cresce, illuminando anche situazioni ed esperienze diverse da quelle legate ai temi del Sinodo, ma che parlano dell’atteggiamento della Chiesa sempre più chiamata a percepirsi parte del mondo. Si potrebbe parlare anche di “esame di maturità” della Chiesa e per la Chiesa; una buona pista per prepararsi al prossimo Sinodo ordinario, cercando di fare al meglio tesoro di quello che è avvenuto in quello straordinario. Si potrebbe dire che l’esame riguarda il livello che la Chiesa ha raggiunto e vuole raggiungere per essere icona della casa di Dio non solo aperta a tutti, ma di cui ciascuno ha le chiavi e non deve chiedere “permesso” per entrare, né tantomeno bussare alla porta o suonare il campanello. “Speriamo… in ‘bene’” (At 15, 25).

Michael Davide Semeraro, Monaco benedettino, biblista    “Viandanti”    22 agosto 2015

Queste riflessioni l’autore le sviluppate nel suo libro “Le chiavi di casa. Appunti tra un sinodo e l’altro” Edizioni la meridiana, Molfetta (BA) 2015, pp. 128

Il tema della casa, come è presentato, mi trova molto d’accordo. La casa può essere prigione ma anche scambio, luogo d’incontro, per crescere e far crescere, innanzi tutto noi stessi,e figli. nipoti, amici cercando sempre di allontanare pregiudizi ma imparare dal dialogo accogliendo idee e pensieri non sempre collimanti con i propri. Grazie

Eugenia Colaprete                 22 agosto 201

            Da un punto di vista sociologico (e anche scritturale) posso essere d’accordo. Tuttavia: la famiglia non è un sacramento, il matrimonio sì. Ritengo che sia tempo di ripensare tutti i sacramenti, con esclusione di battesimo ed eucaristia. Ma in vista del Sinodo sarebbe il caso di interrogarsi sul significato della sacramentalità di un evento umano che è valore in sé se implica l’amore, a prescindere dai gender delle coppie e dai fallimenti di relazioni che intaccano la “casa” allo stesso modo della famiglia. I problemi vanno affrontati direttamente nella loro scomodità rispetto alle formulazioni vigenti degli ordinamenti ecclesiastici; altrimenti non è detto che ritocchi semiologici migliorino le situazioni.

Giancarla Codrignani           25 agosto 2015

www.viandanti.org/?p=11311#more-11311

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VIOLENZA

Matrimonio: il sesso forzato è sempre reato, anche la prima notte di nozze.

Confermata dalla Cassazione la condanna di un uomo per violenza sessuale per aver obbligato la moglie ad avere rapporti, Non c’è nessun diritto allo ius primae noctis e qualsiasi costrizione anche nel rapporto coniugale è violenza sessuale. Lo ha ricordato la Cassazione, in una sentenza depositata in questi giorni, confermando la condanna di un uomo di 43 anni per il reato di violenza sessuale nei confronti della moglie 29enne.

            La coppia si era sposata nella primavera del 2010 e dopo 3 mesi di matrimonio era finita davanti ai giudici. La vicenda, resa nota dal legale della vittima, come riportato dall’Ansa, vedeva infatti l’uomo obbligare la moglie ad avere rapporti sessuali la prima notte di nozze, sulla pretesa dell’adempimento dei doveri coniugali, nonostante il netto rifiuto di lei.

            Risultato, dopo tre mesi di un matrimonio rivelatasi un incubo, la coppia si era separata e la donna aveva denunciato il marito per violenza sessuale. L’uomo era stato condannato a un anno e 8 mesi sia in primo che in secondo grado e la Cassazione ha pronunciato ora il verdetto definitivo.

            Confermando la condanna gli Ermellini hanno rigorosamente affermato che, pur essendo vero che l’unione matrimoniale è fondata anche sui doveri di soddisfazione sessuale reciproca, tanto che il rifiuto, reiterato e ingiustificato di un coniuge di avere rapporti con l’altro può rilevare ai fini dell’addebito della separazione, è altrettanto vero che il codice penale, “vieta qualsiasi forma di costringimento idoneo a incidere sulla libertà di autodeterminazione della persona, a nulla rilevando l’esistenza di un rapporto di coppia coniugale”.

Marina Crisafi                       Newsletter studio Cataldi  17 Agosto 2015

www.studiocataldi.it/articoli/19158-matrimonio-il-sesso-forzato-e-sempre-reato-anche-la-prima-notte-di-nozze.asp#commenti

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WELFARE

Congedo parentale a ore: senza contrattazione collettiva è di mezza giornata.

            INPS, circolare 18 agosto 2015 n. 152

www.inps.it/bussola/VisualizzaDoc.aspx?sVirtualURL=/Circolari/Circolare%20numero%20152%20del%2018-08-2015.htm&iIDDalPortale=&iIDLink=-1

In assenza di una contrattazione collettiva che disciplini compiutamente il congedo parentale su base oraria, i genitori lavoratori dipendenti possono fruire del congedo parentale ad ore in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo parentale.

            E’ quanto chiarisce la Circolare 18 agosto 2015, n. 152 con la quale l’Inps ricorda che con il Decreto Legislativo del 15 giugno 2015, n. 80, attuativo della delega contenuta nel Jobs Act, il legislatore è intervenuto sull’articolo 32, T.U. maternità/paternità (Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151) introducendo un criterio generale di fruizione del congedo in modalità oraria che trova attuazione in assenza di contrattazione collettiva anche di livello aziendale (comma 1 ter dell’art. 32 cit.).

            La riforma prevede inoltre, in questa ipotesi, l’incumulabilità del congedo parentale ad ore con altri permessi o riposi disciplinati dal T.U.

            La riforma in esame ha natura sperimentale ed è quindi attualmente in vigore per i periodi di congedo parentale fruiti dal 25 giugno 2015 al 31 dicembre 2015, salva l’adozione di ulteriori decreti legislativi.

Altalex, 19 agosto 2015

http://www.altalex.com/documents/news/2015/08/19/inps-circolare-numero-152-del-2015?utm_source=nl_altalex&utm_medium=referral&utm_content=altalex&utm_campaign=newsletter&TK=NL&iduser=144450

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