Le Madri Contadine: due storie di vita

Le Madri Contadine: due storie di vita

 

Immigrati: e troppo spesso ci si dimentica che anche la nostra terra un tempo era terra di emigranti, emigranti per fame. E, per molti di coloro che restavano, la vita era durissima.

Nell’anno scolastico 1981-82, quando insegnavo all’Istituto Professionale per Assistenti di Comunità Infantile, feci con le alunne della 5^B una ricerca sulla condizione della donna nella prima metà del secolo.

Scoprimmo un mondo di sacrifici oggi inimmaginabili, vissuti con grande dignità e sorretti da una cultura diffusa e condivisa anche e soprattutto tra i più poveri; una cultura fatta di grandi valori, soprattutto familiari, di cui si va perdendo il ricordo e con esso la riconoscenza. 

La maggior parte delle alunne proveniva dalla provincia, da Sermide a Canneto: tutte avevano una nonna o una anziana vicina di casa da intervistare. Ne uscì un’ampia raccolta di storie di vita tuttora non prive di interesse: chiamammo la dispensa “Le Madri Contadine”. È storia anche nostra. Madri del nostro oggi.

Per questa ragione abbiamo pensato di riproporne due, a loro modo esemplari.

(A.O.P.)

 

 

Teresa F. di Canneto, nata nel 1901

La cura dei bambini più piccoli

Tutti lavoravamo in campagna e le donne portavano con sé i bambini anche di pochi mesi e li mettevano in pantaloni vecchi pieni di paglia.

I più piccoli dormivano, ma spesso per il caldo o la fame si svegliavano piangendo. Venivano allora coccolati dai più grandi di cinque o sei o sette anni che interrompevano i loro giochi per andare loro vicino cercando di farli ridere e distraendoli con filastrocche come: “bella manina, dove sei stata, dalla nonnina, cosa t’ha dato, pane e cicin, grin grin grin”, detta solleticando il palmo della mano.

Le donne dovevano continuare il lavoro e non avevano il tempo per fermarsi per correre dai loro figli quando scoppiavano in lacrime. Anch’io a sette anni tenevo i bambini piccoli. Spesso mi è capitato di doverli cambiare e di trovarmi impacciata e allora una donna sospendeva per qualche minuto il lavoro e veniva a mostrarmi come si faceva. Le madri tenevano in braccio i loro figli solo al momento del pasto.

Il lavoro nei campi e l’alimentazione

Ho incominciato a lavorare in campagna all’età di dodici anni. Svolgevo come potevo le stesse mansioni degli adulti. Si zappava e si mieteva per guadagnare magari in una settimana tre lire. Il lavoro era duro, il sole picchiava forte. Ci si alzava prestissimo, alle 3, e si smontava alle 10 di mattina. Durante queste ore si lavorava sodo e alle 7 i padroni portavano la colazione nei campi, composta di polenta e formaggio o salame o cotechino o frittata. La colazione allora era un lusso, era il nostro pasto migliore della giornata, mangiavamo da signori, mentre a casa si mangiava polenta e cuspetun o sardine e la sera a cena sempre polenta. Nella mia famiglia si variavano abbastanza i cibi, anche se le porzioni erano sempre scarse tanto quanto basta a sguraras an dent (per pulirsi un dente). La cena che mi piaceva di più era un fico e un quarto di uovo condito con l’olio. Mio padre faceva le parti e spesso aumentava la mia porzione e quella delle mie due sorelle diminuendo la sua.

Al pomeriggio alle 2 si riprendeva il lavoro che durava fino a quando il sole tramontava; il proverbio diceva: El sul in dal maciun, padron al ga po reson (il sole è nei cespugli, il padrone non ha più ragione = diritto di comandare). La sera si tornava a casa stanchissimi, tanto che mancava la voglia di mettere un boccone sotto i denti, anche se la fame era tanta. Si trovava sulla tavola una grossa polenta e, quando tutto andava bene, anche pane biscottato o un piatto di riso e verze imbevuto nel vino. Soprattutto nei bambini si notava che mangiavano troppo poco: i parea di stec! (sembravano stecchi). Il mangiare tanta polenta fiva vegner giald cuma an capon (faceva diventare gialli come un cappone) perché causava la pellagra. Le arance poi erano un frutto pregiato che solo i benestanti mangiavano: io a scuola ne gustavo le bucce che paria balsum (che sembravano un balsamo). Ricordo che quando una mia compagna detta Sifula sbucciava l’arancia, io e le mie amiche le correvamo intorno per succhiare la buccia. Nonostante questo non ero tra le più povere.

Solo a Natale e a Pasqua compariva il pane bianco e fragrante da far venire l’acquolina in bocca. Per noi ragazzi era una festa poterne mangiare un po’ accompagnato da qualche pezzettino di carne. Si mangiava discretamente anche per la fiera paesana, quando arrivavano i parenti e si uccideva il cappone e poi si ballava.

Maria R. di Moglia, nata nel 1906

Mi sono sposata giovane: avevo solo 17 anni. Ho avuto subito una bambina, Luciana, e poco dopo un altro figlio che è morto di pochi giorni, e poi un altro ancora: insomma, ne ho avuti sette di cui cinque sono ancora al mondo. Uno è morto di meningite a sette anni.

A n’ho pasà ad tuti i culur (ne ho passato di tutti i colori): una vita che sembrava impossibile poter continuare. Comunque ce l’ho, fatta; grazie a Dio ho avuto la salute, ho lavorato e abbiamo tirato avanti. Quando mio marito è tornato a casa, la Luciana aveva sedici anni e aveva paura che me l’avessero portata via i tedeschi. A quell’età i tedeschi le prendevano, rasavano i capelli e le portavano in Germania: ’na roba che a ricordarla am vegn ancura i brivid.

Mio marito è tornato dalla prigionia a piedi; ci ha impegnato venti giorni perché, anche se la guerra era finita, i tedeschi erano sparsi da tutte le parti, fermavano i reduci e li tenevano fermi per un giorno o due. Poi, quando riuscivano a scappare, facevano un altro po’ di strada. Dalla prigionia mi scriveva: “la Luciana può vedere ancora le stelle?” Io sapevo che cosa voleva dire con quelle parole e gli risposi di sì, così lui capiva che non l’avevano portata via. Facevamo così perché le lettere le aprivano e le controllavano tutte, e se c’era scritto qualcosa che non andava non arrivavano a destinazione.

In quel tempo andavo in campagna tutto il giorno e la Luciana veniva a lavorare con me. Un anno abbiamo lavorato la barbabietola, ma bombardarono lo zuccherificio, così abbiamo lavorato tanto per niente perché non abbiamo tirato i soldi. Poi abbiamo mietuto il frumento, andavamo a zappare in campagna, a spargere il letame, e con quel che si prendeva si tirava avanti. Partivo la mattina molto presto e i bambini restavano a casa da soli, d’estate li chiudevo fuori di casa e stavano sotto il portico del fienile. C’era gente che gironzolava per la campagna e non avevo piacere che la casa fosse aperta. Dietro casa avevo un piccolo orto dove tiravo su la verdura così facevo senza comprarla, ma l’orto era sempre incustodito. Una sera, tornata dal lavoro, volevo cucinare un po’ di verdura per i miei figli ma nell’orto non ho trovato più niente: avevano portato via tutto. Ma a pudeva mia curga a drè: iera puvret cuma mi (non potevo corrergli dietro: erano poveri come me).

Per andare a lavorare facevo 13 o 14 chilometri a piedi: partivo la mattina verso le cinque e arrivavo a casa quando il Signore voleva, e il sole era già giù. I bambini erano lì davanti alla porta che mi aspettavano. Gli ultimi due anni vicino a noi era venuta ad abitare una vecchia e dava loro un’occhiata, così io ero più tranquilla. Siccome a mezzogiorno non ero a casa, preparavo la minestra la sera prima e questa vecchia gliela scaldava e gliela dava.

Giusto un anno dalla morte della mia bambina di sette anni è venuta una paralisi a Camillo, ed è rimasto sordo e muto. Ho girato tanto per poterlo guarire, prima a Mantova, ma lì non hanno concluso niente, allora l’ho portato a Ferrara, ho venduto anche la biancheria per guarirlo perché non avevo i soldi e volevo guarirlo ad ogni costo.

Poi l’ho portato a Verona in collegio ed è rimasto lì nove anni; dopo è andato a Pavia per specializzarsi e quindi è andato a cercar lavoro a Milano, ma là nessuno lo voleva perché era ancora un po’ malato.

Ricordo che, quando ancora mio marito era in Germania e io ero a casa con i figli da tirar su ed ero disperata, c’era uno di Moglia che aveva un negozio di alimentari e che era disposto ad aiutarci, ma in cambio voleva portarsi a casa sua la Luciana quando gli faceva comodo. No, gli ho detto di no sbattendogli più volte la porta in faccia, ma avevo sempre paura che me la portasse via lo stesso quando non c’ero.

Anche quando si è ammalato Camillo e ho venduto la biancheria, quel commerciante non me l’ha voluta comprare: voleva assolutamente la Luciana. A quei tempi nessuno dalle nostre parti aveva soldi per comprarmela, così sono andata a Ferrara con le mie lenzuola di dote ricamate da mia mamma, sperando di venderle là e nello stesso tempo di guarire il mio bambino … e ce l’ho fatta. Ho fatto tutto quello che ho potuto: ora sta bene, ha perso l’udito ma cammina ed è come gli altri. La guarigione di Camillo è stata la mia più grande soddisfazione. Ora si è sposato e posso morire tranquilla. Tuti robi che a rimvarli am vegn ancora mal da stomac (tutte cose che a rinvangarle mi viene ancora mal di stomaco); a raccontarla così è facile, ma tante volte mi domando come ho fatto a tirare avanti.

I momenti più brutti sono stati quando c’erano i bombardamenti: abitavo in mes (in mezzo) a la campagna e quando bombardavano incominciavano da noi. Di notte dalla paura non riuscivamo a dormire. Eravamo agitati e sconvolti. Avevamo portato il letto giù dalla paura che i bombardamenti ci sorprendessero di sopra. A star su avevo più paura, così invece senza dover fare le scale facevamo prima a scappare. Nei momenti più brutti mi tenevo abbracciati stretti i miei figli. Non ricordo di averli mai abbracciati nei momenti più tranquilli perché non avevo tempo.

La sera non raccontavo favole e neanche ninna-nanne: li mettevo a letto e mentre dormivano a fasevi i me’mester (facevo i miei lavori): lavavo, mettevo in ordine e preparavo la minestra per il giorno dopo. La facevo solo con le patate perché l’altra verdura i m’lea fregada (me l’avevano rubata). Mio padre aveva anche degli alberi di mele e quando era la stagione dovevamo fare presto a raccoglierle perché la gente di notte l’andava a rubar i pom.

Qui in campagna eravamo tutti poveri ma a Moglia i ghera i sior chi iutava la gent cumpagn mi (c’erano i signori che aiutavano la gente come me), il R. per esempio, ma l’era un fascista e in cambio di roba da mangiare voleva anche lui la Luciana. Così as magnava quand ag n’era e quand ag n’era mia as saltava (si mangiava quando ce n’era e quando non ce n’era si saltava). Tante sere prendevo dalla sportina del pane vecchio, lo tagliavo a quadretti e lo friggevo nello strutto: quella era la cena mia e dei miei bambini.

Per lavare la roba dei bambini che si facevano la pipì addosso fino a cinque o sei anni adoperavo acqua, giarela (ghiaia sottile) e sabbia: altroché lavatrici! As frigava con le man e i gombet (si strofinava con le mani e con i gomiti).

Quando finalmente mio marito è tornato, la Luciana si è fidanzata e la s’è maridada. Noi abbiamo avuto un altro figlio, Ledo, che è stato l’ultimo. Ma io mi sono ammalata di pleurite e per quattro anni non sono potuta andare a lavorare e si faceva fatica a tirare avanti. Lavorava solo mio marito, i tempi erano brutti e il lavoro non c’era neanche sempre. È stato anche quello un periodo molto brutto: a raccontarlo così si fa presto, ma a esserci dentro era proprio un brut fat (una brutta cosa)

Comunque ora sono contenta: abbiamo avuto la salute, mio marito ha avuto tanta volontà di lavorare e siamo riusciti a tirar su i nostri figli.

 

 

 

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