La famiglia crocevia di differenze e opportunità

La famiglia crocevia di differenze e opportunità

Autore: Francesco Lanatà 

 

 

 

Vi parlerò di una bambina che ho voluto chiamare Jessy. Per certi aspetti è proprio come i genitori la vedevano nei loro sogni durante la gravidanza. Ha un carattere estroverso, è gioviale anche con le persone che non conosce, ha il setto nasale un po’ appiattito ma la faccina è simpatica, le labbra sono carnose e ha due belle guance  paffute. Ha interesse per la musica, ha una ottima memoria uditiva, possiede perfino un orecchio assoluto e un notevole senso del ritmo, tutte doti che le conferiscono una straordinaria abilità musicale. Quale genitore non ne sarebbe orgoglioso.

Purtroppo Jessi presenta anche una stenosi aortica, un ritardo mentale, rime palpebrali corte, iridi azzurre con caratteristica forma stellata ed è destinata ad un invecchiamento precoce.

 

Jessy è affetta dalla “Sindrome di Williams”, comunemente nota come “Sindrome dagli occhi a stella”, una malattia genetica determinata dalla mancanza di un piccolo frammento, una microdelezione del braccio lungo del cromosoma 7; questa malattia interessa un neonato su 10000 – 20000 e in Italia si conoscono circa 3000 casi.

I suoi genitori, dal momento in cui è stata fatta la diagnosi, sanno che ogni giorno devono fare i conti sia con le numerose complicazioni che questa malattia comporta, sia con lo stigma di una realtà che tende ad emarginare qualsiasi persona percepita come “diversa”. Sanno che questa malattia dilata e sovverte il concetto delle loro priorità, che verranno loro imposti dei cambiamenti nei consueti modi di vivere e che muteranno le prospettive verso cui dirigere le speranze e i sogni.

 

La gestione degli aspetti medici e l’emarginazione a cui le famiglie con persone con malattie genetiche sono condannate valgono per qualsiasi malattia che faccia percepire l’essere umano, la persona come “diversa”, sia che si tratti di un bambino con Sindrome di Williams o con Sindrome di Down o con una malformazione anche lieve, sia che si tratti di altre malattie croniche.

Le diversità causate dalle malattie congenite, come da altre malattie o stati, sono capaci di suscitare sentimenti emarginanti.

Sosteniamo spesso convinzioni eccessivamente omologanti, della serie “siamo tutti uguali”, ma altrettanto spesso sottolineiamo le differenze tra le persone: di razze, etnie, ruoli sociali, professioni, stato di salute o di malattia e altri parametri soggettivi.

La diversità è comunque un dato per così dire “oggettivo”, se pensiamo alle caratteristiche genetiche.

Quante volte ognuno di noi ha visto l’immagine del cariotipo, cioè del corredo cromosomico umano proiettata sugli schermi dei media o su qualche giornale. Ad uno sguardo superficiale i cromosomi sembrano tutti uguali; se tuttavia li si guarda con più attenzione si può vedere che in realtà esistono delle differenze. La prima, quella più grossolana, è che la ventitreesima coppia di cromosomi maschili è diversa dalla corrispettiva femminile. Mentre la prima coppia è composta da un cromosoma a forma di X e uno a forma di Y, la seconda è composta da cromosomi ambedue a forma di X. Se andiamo a srotolare i filamenti di DNA che li compongono, vedremo che la loro struttura, costituita da sequenze di basi nucleotidiche che vanno a costituire i geni, è fatta in maniera tale da rendere tutte le persone diverse una dall’altra tranne i gemelli omozigoti per i quali il genoma è uguale. A questo è necessario aggiungere che nella popolazione generale circa una persona su 150-200 e portatrice di un riarrangiamento strutturale dei cromosomi, in forma bilanciata, cioè senza perdita ne acquisizione di informazioni genetiche, e quindi senza alcuna conseguenza patologica per lo sviluppo della persona in cui è presente.

Se poi andiamo ad analizzare tutte le influenze che possono essere esercitate sui geni di ogni singolo individuo, in ogni fase della vita, da fattori di natura biochimica, ambientale e culturale, ecco che ogni persona diventa un essere unico e irripetibile.

L’epigenetica ci spiega come vi sia una complessa interazione tra il genoma e i fattori ambientali, e questa interazione produce sulla persona importanti implicazioni biocomportamentali al punto che l’aspetto fenotipico può arrivare ad essere anche sensibilmente diverso da quello che il genotipo aveva previsto.

Nella concezione genetica tradizionale il genoma, sotto gli stimoli ambientali, può subire modifiche importanti solo lentamente; l’epigenetica suggerisce invece che il mondo esterno può avere importanti effetti su alcuni geni anche in tempi rapidi.

Sappiamo che l’espressione di un gene avviene attraverso la trascrizione del DNA in RNA messaggero e successivamente attraverso la sintesi proteica. Esistono alcuni meccanismi biomolecolari indotti dall’ambiente, come la metilazione del DNA che interferiscono con la capacità di trascrizione di un gene anche in maniera permanente. Per intenderci, questi meccanismi sono paragonabili ad un interruttore che ha la capacità di spegnere, di inattivare un intero gene o anche solo una parte di esso. A sua volta, la mutata capacità di espressione del gene e della relativa sintesi proteica porta necessariamente a cambiamenti nel funzionamento delle cellule bersaglio e quindi a cambiamenti nel funzionamento dell’organismo intero.

A questo punto è necessaria una riflessione: l’epigenetica è senz’altro una affascinante prospettiva per indagare gli effetti dell’ambiente sullo sviluppo biocomportamentale. Occorre tuttavia sottolineare che siamo solo all’inizio di questo filone di ricerca e che molte altre conferme sono necessarie. La tentazione di spiegare in modo deterministico che lo sviluppo biocomportamentale della persona umana sia soltanto il risultato della programmazione epigenetica, dove l’informazione data dal DNA passa in secondo ordine rispetto alle influenze esterne, è un grave errore che rischia di condurci a facili, superficiali e demagocici riduzionismi.

 

Ognuno di noi è un essere unico ed irripetibile e, in quanto tale, è diverso da qualsiasi altro.

Quello che fa la differenza nella percezione delle diversità tra gli esseri umani è il valore che diamo ad esse: una ricchezza, una opportunità di relazioni ricche e feconde oppure un elemento di discriminazione tra chi è considerato migliore o peggiore, perfetto o imperfetto, addirittura degno di vivere o no.

Le differenze possono indurre ad amare, stimare, ammirare, proteggere, apprezzare gli altri oppure ad emarginarli, disprezzarli, odiarli, combatterli fino a cercare di eliminarli.

Dobbiamo ammettere che le differenze rappresentano sempre una sfida e le sfide spesso ci fanno paura, alcune, come le malattie genetiche, ci fanno molta paura. Hanno paura i genitori che hanno visto venire alla luce un figlio con quella malattia, ha paura la persona estranea alla famiglia, ha paura il figlio se si sente emarginato dai suoi stessi genitori e dalla società. 

Già in assenza di malattie molte famiglie, specialmente quelle che vivono in contesti sociali deprivati, sono logorate da condizioni di crisi e di disagio; sono tormentate da pressioni e incertezze legate a perturbazioni di natura economica, sociale, politica, ambientale e etica. Frequentemente succede che la malattia di un membro della famiglia si inserisce, si aggiunge a problemi già esistenti, ma non solo: spesso è la stessa malattia a far si che si aggiungano ulteriori problematiche come separazioni, divorzi, perdite, lutti. Quante volte capita di vedere una famiglia in cui uno dei genitori, di fronte alla malattia di un figlio, specialmente se genetica o psichiatrica, scappa via e magari va a costituire una nuova convivenza. Tutte le malattie comportano una interazione di influenze biologiche e psicosociali. Le sofferenze emotive ed interpersonali causate dalle malattie gravi e dalle disabilità possono determinare, nelle persone che se ne prendono carico, una ampia varietà di sintomi fisici e alterazioni del funzionamento del sistema immunitario; sono spesso accompagnate ed esacerbate da stati di ansia, confusione, depressione, stress da oneri di assistenza e perfino rischio di morte prematura. Le interazioni corpo – mente sono complesse. D’altronde è dimostrato scientificamente che i disturbi psichiatrici gravi hanno una base biologica.

Le stesse persone che si prendono carico di questi pazienti possono essere coinvolte nelle sofferenze emotive con un’ampia varietà di sintomi fisici e alterazioni del funzionamento del sistema immunitario e sono spesso accompagnate da stati di ansia, confusione, depressione, stress da oneri di assistenza.

Di fronte a certe malattie non è sufficiente l’abilità chirurgica e la perfezione nelle cure mediche che peraltro non esiste.

In questi casi la medicina non può limitarsi ad essere una medicina supertecnologica, una medicina cosiddetta basata sulle evidenze o una medicina difensiva. La medicina dovrà essere anche “Narrativa”. Non possiamo limitarci a curare la malattia. Dopo la diagnosi di una malattia cronica, le famiglie non possono semplicemente “fare un salto indietro” e tornare alla solita vecchia vita, devono essere aiutate a fare “uno scatto in avanti” per passare attraverso un territorio nuovo. Gli operatori del consultorio, e qui per operatori non intendo solo i medici, ma tutti gli operatori (dai medici agli  psicologi, dai consulenti familiari agli assistenti sociali, tutti insieme in èquipes interdisciplinari coadiuvati al bisogno da operatori delle altre associazioni di volontariato). Tutti devono ascoltare la famiglia, tutti devono operare in favore della resilienza  familiare.

La resilienza implica qualcosa di più di una mera capacità di sopravvivere di sopportare la sofferenza: essa implica la capacità di riprendersi e di uscire più forti e con nuove risorse dalle avversità, scoprire nuove prospettive di senso, ricomponendo e rinsaldando le relazioni.  

Le malattie come quella di Jessy sottopongono le famiglie ad una molteplicità di tensioni, motivo per cui i processi di adattamento e di coping esigono una considerevole capacità di resilienza.

Il cervello umano possiede una notevole plasticità, è in grado di riparare se stesso e di modificare il suo sistema di connessioni sinaptiche per compensare i danni e le perdite se attiviamo le nostre risorse per il recupero.

Un medico, anche quando comunica diagnosi pesanti di malattia, se ha un atteggiamento di reale disponibilità e fiducia, un approccio vicino alla prospettiva della resilienza piuttosto che ad un modello di cura tradizionale, può curare in modo più efficace in quanto costruisce una alleanza terapeutica di tipo collaborativo, prende il tempo necessario per ascoltare i timori del paziente e rispondere alle sue domande, aiuta il paziente a comprendere la sua esperienza di malattia, suggerisce strategie e mezzi per ridurre le vulnerabilità e reintegrare le energie, aiuta ad accettare le difficoltà o a convivere con esse nel miglior modo possibile.

Un approccio basato sulla resilienza familiare, rivolto alle gravi malattie, implica l’adozione di un linguaggio e di concetti volti ad umanizzare le difficoltà della malattia ed a promuovere un benessere personale e relazionale. In qualità di professionisti delle relazioni di aiuto, le rappresentazioni e il linguaggio che utilizziamo sono importanti per comunicare il nostro rispetto e rendere più umana una esperienza di malattia. 

Interventi volti a rafforzare la resilienza familiare possono attenuare lo stress, contribuire a migliorare il funzionamento biologico e rinforzare i processi fisiologici immunitari. Le famiglie devono essere aiutate ad accettare la persistenza o permanenza di una patologia cronica, imparare a convivere con i sintomi e le cure. Anche perché il sostegno familiare aumenta l’aderenza ai trattamenti farmacologici.

La malattia e la relativa sofferenza comprendono questioni di natura culturale e spirituale, ponendo interrogativi di senso sulla condizione umana, sulla vulnerabilità fisica e sulla mortalità.

I compiti evolutivi di una famiglia insistono sulla necessità di costruire un significato da affidare alla malattia che consenta di preservare un senso di controllo, di affrontare il dolore e il lutto per la perdita dell’identità familiare, di sopportare  i processi di riorganizzazione a breve termine imposti dalla crisi e sviluppare una certa flessibilità di fronte all’incertezza e all’eventualità della perdita. Nella fase cronica, le famiglie vanno aiutate anche a trovare un ritmo di vita che consenta di evitare un esaurimento psicofisico e trovare soluzioni ai bisogni e alle priorità discordanti di tutti i componenti della famiglia stessa. Le necessità di natura psicosociale che qualsiasi malattia propone vanno colte e accolte nel progetto terapeutico in relazione a ogni singola fase del disturbo. Vanno valutati i collegamenti tra la malattia, e le dinamiche individuali e familiari, la storia multigenerazionale della famiglia nell’affrontare la malattia e il significato dell’esperienza della malattia per i vari componenti della famiglia. I clinici devono riconoscere ed approfondire le differenze culturali e le preferenze che una famiglia può esprimere.

Una serie di ricerche ha esaminato il ruolo della comunicazione nei processi di adattamento e nelle competenze esibite da famiglie con un figlio affetto da gravi disabilità. I ricercatori hanno trovato che le famiglie più disfunzionali hanno rivelato un sentimento di disperazione, amplificato da una forte interdizione all’espressione dei sentimenti. Al contrario, quelle famiglie che affrontano apertamente i loro sentimenti mostrano un buon livello di adattamento. I vari componenti sono capaci di esprimere una vasta gamma di sentimenti, come la gioia, il dolore, la frustrazione in una dinamica di sostegno reciproco.

È quindi importante che le famiglie vengano aiutate a trovare dei modi per conquistare uno sguardo lucido sulla malattia, di modo che essa non esaurisca la definizione dell’identità di una persona né finisca con il dominare la vita della famiglia. La sfida consiste nel riconoscere l’importanza della malattia, controllare quel che è possibile controllare, accettare ciò che va oltre la capacità o la possibilità di un controllo e adattarsi a convivere con essa.

Ecco che allora la resilienza potrà trasformare la differenza di Jessy in risorsa e il limite imposto dalla sua malattia in ricchezza.

                                                                                                        FrancescoLanatà

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