La famiglia che cambia in una società che cambia


La famiglia che cambia in una società che cambia

Autore: Giuseppe Anzani

Congresso U.C.I.P.E.M. – Oristano – 2/4 settembre 2016.

 

 

Sono un trovatello, ma fino ad otto anni ho creduto

d’avere una madre perchè, quando piangevo,

c’era una donna che mi stringeva al petto

confortandomi e cullandomi.  

Per le sue premure, le carezze e la dolcezza

credevo che fosse mia madre”. Era soltanto la mia balia”

(H. Malot)

 

1 – Con gli occhi del figlio

L’incipit di un libro che per molti fa parte dei ricordi d’infanzia, delle prime letture che restano a lungo nel cuore, è quello del romanzo  “Senza famiglia” di Hector Malot.

Senza famiglia: niente come la privazione, l’assenza, fa sentire il valore delle cose; come l’aria quando manca il respiro, l’acqua quando brucia la sete. Come la famiglia, invocata con gli occhi di un figlio che non l’ha e la sogna e la cerca. C’è un modo di apprendere che cosa vuol dire la famiglia imparando dall’orfano.

Dentro questo sguardo la famiglia è in primis, nella comune vicenda umana, il nido che si costituisce intorno alla vita che si rigenera. Il nido dove il figlio si gemma e cresce dapprima nell’intimità del corpo della madre, indi sul seno che lo nutre. E si nomina dal padre, in forma appunto “patronimica”, in tutte le lingue e le culture.

 

Così, essere è essere figlio. Figlio di. Nato da donna, e figlio d’uomo. Se dovessi raffigurare la “maternità” in un’opera d’arte, vedrei due volti in una sola creta. Se dovessi raffigurare la famiglia vedrei tre volti, gli stessi primi due della maternità, e dietro di essi l’abbraccio del padre.

Ogni membro del villaggio umano è figlio. Figlio del villaggio, perché se l’abbraccio dei genitori sta nella più privata intimità, la generazione è un fatto sociale. La famiglia che genera dona ogni volta un membro nuovo al villaggio; ne è semenzaio, “seminarium rei pubblicae”, secondo la felice intuizione di Cicerone. [1]

Quando il villaggio fa le sue regole, dedica una parte importante delle sue norme alla famiglia. Non è il villaggio che inventa la famiglia, anzi è vero l’inverso, vale a dire che sono le famiglie a creare il villaggio, sicchè il corpo di norme dedicate a questa realtà sono (o dovrebbvero essere) una sorta di “copia dal vero”, una lettura e ricognizione di qualcosa che preesiste, l’incontro con una realtà originaria, con una società naturale che si riconosce. Un compendio di questo concetto fondamentale si rinviene, ad esempio, nell’articolo 29 della Costituzione. “La repubblica riconosce i diritti della famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio”.

A questa “naturalezza” va data speciale attenzione, in un tempo in cui la locuzione “senza famiglia” può dilatarsi molto al di là del pianto dell’orfano o della ricerca d’una madre da parte di un trovatello.

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2 – La naturalezza biologica e antropologica.

Nell’abbraccio d’amore fra l’uomo e la donna, maschio e femmina, benedetto dal cielo, il figlio è il frutto di quell’ “una sola carne” di cui parla il Libro sacro: è il dono che restituisce al padre e alla madre il miracolo della novità della vita in risposta ai loro corpi donati.

      E’ la natura che crea i legami del sangue (ab antiquo la norma capitale sull’adulterio si caratterizza proprio per evitare la confusio sanguinis); come qualcosa di inerente alla verità dell’essere o alla sua falsificazione.

      E’ vero che esiste anche un concetto di relazione familiare che non poggia sul sangue, e che viene costruita dal diritto ad imitazione della natura (è il caso dell’adozione, che instaura una genitorialità sociale); nell’approccio moderno essa cerca rimedio a un “abbandono”, si caratterizza dunque per una funzione sussidiaria. Il desiderio di equivalenza ha condotto oggi il lessico normativo a parlare solo di “figlio” (senza che più nulla conti l’adottivo), ma il primato di ciò che è fisiologico su ciò che è medicina dell’abbandono brilla ancora nel primo articolo della nostra legge sull’adozione dei minori: “Il minore ha diritto di essere educato nell’am­bito della propria famiglia.”

      Per quanto importante e significativa sia la disciplina dell’adozione, dobbiamo rammentare che statisticamente riguarda circa mille bambini all’anno, mentre le nascite sono cica 500mila.[2]

      Torniamo all’immagine del bambino sul seno della madre: sicut ablactatus super matrem suam, icona della felicità primaria. E proiettiamovi sopra, come in dissolvenza, quell’immagine vista da tutto il mondo su Internet: un bambino appena nato raccolto sul petto nudo d’un uomo (il padre, pensiamo d’istinto) vicino al quale un altro uomo guarda raggiante il bimbo come si guarda un figlio; e in un angolo della stanza, su un letto, una donna sfinita dal parto, con lo sguardo spento. I due maschi hanno mescolato gli spermi, si sono procurati l’ovocita, hanno contrattato la gestazione, un ventre in prestito, una maternità surrogata. Ora riscuotono il figlio. Quella madre l’ha portato in grembo, l’ha partorito, infine; il contratto dice che non è suo, non deve neppure guardarlo, non lo vedrà più.

Vietata da noi ma praticata in Paesi come l’Ucraina, la Russia, l’India, la maternità surrogata ha suscitato nel mondo una forte opposizione, e spesso alla testa si sono posti i movimenti femministi. Ma non è solo la donna la vittima bersaglio. La novità di un figlio destinato a due padri  senza madre, è la sua funzione di figlio-oggetto. Un prodotto periferico cercato a saturare un desiderio adulto impossibile. Ciò contrassegna, sul piano antropologico, un testacoda rispetto alla tendenza della civiltà giuridica moderna fino a ieri contrassegnata da una sorta di crescente protagonismo del figlio.

 

3 – Nel nome del figlio.

 Si può rammentare il principio che per l’art. 30 della Costituzione i genitori hanno il “dovere e diritto (prima dovere che diritto) di mantenere, istruire educare i figli”. Ma non basta; non devono farlo a loro talento e voglia ma “nel rispetto delle sue capacita’, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni” (codice civile).

      Tutti i figli sono figli, senza distinzione. Non più  figli “naturali”, legittimi o illegittimi, riconoscibili e non riconoscibili (incestuosi, anche), adottati o generati; oggi tutti e solo “figli” dopo la legge  219\2012 (costretta peraltro a scrivere l’ineliminabile distinzione fra “nati nel matrimonio” o “fuori del matrimonio”).

L’interesse morale e materiale del minore è preminente nelle vicende di separazione, e prevede l’affido condiviso preferibile a quello monogentitoriale, mantenendo comunque un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore, (e con i nonni). Perché entrambi i genitori hanno la responsabilità (parola che ha soppiantato la potestà)  e la esercitano di comune accordo.

Appare dunque codificato un protagonismo del figlio che ne recupera una sorta di primato, attorno al quale si affaccendano doverosamente i genitori che lo hanno messo al mondo.

Eppure l’orizzonte disegnato dalle leggi e dalle prassi dell’aborto assistito e della c.d. procreazione assistita lo pongono all’incrocio fra la rifiutabilità  dell’ indesiderato e la pretesa di un diritto del desiderio impossibile. Il figlio rifiutato sta nei 40 milioni di aborti stimati dall’OMS; sta nell’inclusione dell’accesso all’aborto assistito nel quadro della “salute riproduttiva”. Mentre il figlio reclamato dalla potenza del desiderio diviene l’oggetto di un diritto che compete anche in caso di sterilità (vedi la sentenza della Consulta n. 162/2014 che afferma: “La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile”).

      Che cos’è dunque diventato un figlio, ora che può essere legalmente figliato senza essere generato? “Figlio” è la parola della vita, è la parola della relazione di vita. E’ la novità, è il futuro. Potete schivarlo (culle vuote), o rifiutarlo o persino sopprimerlo prima che veda la luce, se decidete che vi è d’inciampo o fastidio. O all’inverso potete assemblare la sua vita in un laboratorio in soccorso alla solitudine dei vostri desideri. Ma quel che il figlio è, nella sua essenza, nella sua identità, nel suo mistero, non è in vostro potere di fare o disfare. Perché il figlio è più di ciò che voi potete fare o disfare.

 

4 – L’eros nella genesi della famiglia e della vita

La riprova è che la novità della vita del figlio irrompe “naturaliter”  dentro una relazione umana singolarissima ed essenziale, predisposta ad accoglierla. Lo rammentava Cicerone, nel De officiis: “Prima societas ipsum coniugium”. I giuriconsulti della civiltà romana, di cui siamo eredi, e che ha innervato il mondo, hanno aggiunto parole bellissime: “Consortium omnis vitae, divini et humani juris communicatio” (Modestino).

Evochiamo qui l’emozione dell’eros, tra tutte le emozioni “alte” la più forte. E sia possibile parlarne in modo contemplativo, con purezza e venerazione; cogliendo quanto la crescita nella capacità di relazione e d’amore, dopo spaccato il guscio del narcisismo, approdi a un desiderio di intimità che assomiglia, più che a un possedere, a un traboccare e a un accogliere simultaneo, fino a colorarsi di un destino storico, che dà un altro senso alla vita come vita condivisa e donata.

(Senza saperlo, ci sono talvolta nei graffiti con cui gli adolescenti imbrattano i muri raccontando al mondo i loro palpiti, e l’immensità, l’esclusività, la definitività che il cuore avverte, delle assonanze che richiamano l’accostarsi a qualcosa che ha a fare con il destino, con la grandezza di una rivelazione, con qualcosa di sacro. Siano ripuliti i muri e sgridati gli imbrattatori, si capisce; ma prima copiatevi le scritte, a volte sono bellissime).

L’amore che perviene a maturità s’industria di “fare il nido”: e inizia con l’annuncio della “famiglia nuova” che si forma, e che merita un  riconoscimento festoso che coinvolge l’intero villaggio, perché è l’intero villaggio (la legge comune) che stende sulla nuova famiglia il suo ombrello di tutela (giuridica) e di rispetto (sociale).

Nella sua intimità, la coppia coniugale realizza la naturale vocazione umana dell’amore (“Il mio amato è mio, e io sono sua”, è l’espressione più intensa del Cantico). A parlare d’amore, o a scrivere d’amore si apre una biblioteca infinita. Quanti maestri, quanti aedi. Passione e raziocinio, istinto e ragione, possesso e dono, desiderio e oblatività. Navighiamo in un oceano di parole. E molte cose ci restano a volte confuse. Ma siamo certi che c’è nell’amore, o si potrebbe dire nell’“arte di amare” (come la chiama un celebre saggio di Erich Fromm) il senso della vita. Riporto qui un brano di un maestro della psicanalisi, Leonardo Ancona: “L’amore appare come la funzione più elevata della maturità umana, quella che reca in sé il colmo della donazione e al contempo della gratificazione. E se è vero che nell’incontro dei corpi maschile e femminile è sempre sotteso qualcosa di sacro, si può dire allora che in ogni fervore di innamorati, che sia depurato di egoismo, echeggi in qualche modo la ricerca del divino. Un incontro di amore fa sentire rispettivamente ‘più donna’, ‘più uomo’, un evento che per definizione non può realizzarsi in alcun rapporto omosessuale. Lo scambio può realizzarsi in modo così completo da far sentire a ciascuno dei partner ‘io sono l’altro, e l’altro è me’, e da rendere questa identità sempre più comprensiva, sino a far divenire i due partecipi della struttura dell’universo stesso”.

 

5 – Maturità dell’amore e matrimonio

Dovremmo soffermarci qualche istante sulla “gioia sponsale” dell’abbraccio dei corpi e sulla singolare intimità che lo caratterizza sul piano del dialogo interiore e dell’abbandonarsi a una appartenenza senza confronti con nessun’altra. Essa attinge indefettibilmente all’eros,  ma ne colma il senso con la simultanea e incrociata risposta di accoglienza e di dono, nella consapevolezza della “potenza di vita” che vi si racchiude, e della complementarietà (“maschio e femmina”) che muove la persona umana all’incontro sponsale.

 Il sesso coniugale è “l’intimità donata, io-tu, il dialogo della comunità d’amore” (Hortelano). Com’è diversa questa immagine da quella di un “sexual behavior” in un peculiare contesto fra i molti ipotizzabili.

No. E’ da un lato l’espressione autentica e matura dell’amore umano. Dall’altro lato, se riuscissimo a rileggere gli antichi canoni che allegano ai fini del matrimonio il remedium concupiscentiae; se li intendessimonon nel senso del meno peggio, ma nel senso profondo e positivo di una medicina vitale (remedium), cioè di una via di guarigione potremmo capire che la gioia sponsale (dialogo e dono) è il tesoro da difendere come guarigione contro i rischi dell’umana cupidigia egoista che può insinuarsi anche all’interno della vita di coppia.

E’ questo un capitolo tormentato e sensibile (e i giudici della famiglia sanno i racconti delle molte lacrime sul cuscino). Il coniugio non è una porta d’accesso travolta dall’urgenza sessuale (che orrenda parola quella dei giuristi circa lo jus in corpus), ma il grande oceano dell’amore maturo che tra i suoi tesori accoglie e chiede e include l’esercizio del dono sessuale. E resta peraltro più grande.

Resta l’immagine della felicità promessa: e così anche si capisce perché la delusione possa diventare l’immagine della felicità negata, e la distruzione della famiglia un lutto, come se la vita fosse passata a forza per i cancelli della morte.

 Per chi ha la fede, da ultimo (but not least), il matrimonio celebrato come segno sacro contiene un dono che lo collega alla storia della salvezza. Con esso l’uomo e la donna non dicono più soltanto “io ti do il mio cuore, il mio corpo, la mia vita, me stesso” – queste cose le dà anche il matrimonio civile – ; dicono “io ti do un segno di grazia, un segno di salvezza”.

 

6 – Disaffezione e precarietà dell’amore

Ma ora proviamo a sovrapporre a questa icona, come in dissolvenza, il fenomeno della disaffezione al matrimonio, della svalorizzazione di ciò che appare come un “istituto” superfluo rispetto alla spontaneità dell’amore, o ingombrante rispetto alla semplicità del poter convivere (e poter lasciarsi), indifferente rispetto agli effetti pratici in campo giuridico, e semmai più d’impaccio che di vantaggio.

Un numero sempre maggiore di coppie si chiede a cosa serva sposarsi. E se sia il matrimonio la garanzia di una vita amorosa felice. E se per l’avvenire del figlio in viaggio, o dei figli che verranno, sia necessario convolare a nozze; tanto, i figli nati dentro e fuori dal matrimonio sono per legge tutti uguali e tutti legittimi allo stesso modo. Fare famiglia senza sposarsi sembra la cifra tendenziale del nostro tempo. Tanto, si dice, i patti di convivenza producono ormai una sostanziale equiparazione tra coppie sposate e coppie di fatto. Anzi, si dice ancora,  per certi versi conviene di più non sposarsi che sposarsi (perchè i coniugi hanno preclusioni, incompatibilità giuridiche, svantaggi fiscali). Oppure sposarsi “leggermente”, con i nuovi istituti giuridici disponibili, che hanno fra l’altro il vantaggio dell’uscita di sicurezza, se ci si stanca, di liquidare il vincolo per le vie brevi.

Tra i  segnali rivelatori di questa temperie, nel costume e nelle fonti normative, possiamo ravvisare:

a) la rinuncia al matrimonio sacro. Nel 2014 in Italia si sono celebrate solo 108mila nozze in chiesa. Partendo dai dati Istat sul crollo complessivo delle nozze (erano 291.607 nel 1994, sono scese a 189.765 nel 2014) il Censis ha elaborato uno scenario nel quale “nel 2020 si avranno più matrimoni civili che religiosi, e nel 2031 non sarà celebrato un solo matrimonio nelle nostre chiese”.

b) l’evoluzione del matrimonio civile: negli ultimi 40 anni il  “rapporto”, cioè la legge di famiglia, ha subito mutamenti profondi, in parte recependo il costume in parte foggiandolo. Se rileggiamo la legge n. 151 del 1975, prima riforma “epocale” del diritto di famiglia, e scorriamo il tempo intercorso fino alla legge n. 51 del 2015 che contiene fra l’altro la previsione del divorzio-sprint (sei mesi), possiamo seguire il tracciato dei mutamenti. Per brevità, rinviamo a una nota la sintesi dei titoli normativi.[3]

Oggi dunque annotiamo questi fenomeni salienti:

– che la  famiglia fondata sul matrimonio si forma sempre meno (nel 2014 sono stati celebrati 421 primi matrimoni per 1.000 uomini e 463 per 1.000 donne, valori inferiori rispettivamente del 18,7% e del 20,2% rispetto al 2008);

– si dissolve sempre più frequentemente (nel 1995 si verificavano in media circa 158 separazioni e 80 divorzi ogni 1.000 matrimoni, nel 2014 le separazioni sono diventate 320 su mille e i divorzi 180 su mille) [4];

– procrea sempre meno (nel 2015 le nascite sono state 488mila (-15mila), nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia. Il 2015 è il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità, giunta a 1,35 figli per donna. L’età media delle madri al parto sale a 31,6 anni);

– si accentua la propensione alla convivenza di fatto (secondo l’Istat nel 2014 le coppie che convivono sono oltre un milione, e di queste 641.000 sono formate da partner che non si sono mai sposati, un numero dieci volte superiore a quello registrato nel 1994;

– i figli nati fuori dal matrimonio sono il 27,5 per cento (più di uno su quattro) di tutti i nati. Se si rammenta che la percezione della famiglia “naturale” è quella del “nido del figlio”, essa si stacca in modo sempre più numeroso dal fondamento del matrimonio.

 

7 – Egolatria postmoderna e solitudine

Se intendiamo i fenomeni sopra descritti come frutto del costume, l’analisi incontra in primis l’immagine della sessualità “postmoderna”, consecutiva ad una datata “rivoluzione sessuale”. Il suo esito sembra quello di una cultura del desiderio, centrata sull’eccitazione e sul piacere;  e di una utilizzazione del  corpo per attingere il massimo della voluttà desiderata. Il corpo divenuto strumento da cui estrarre questa prodigiosa energia orgasmica; il corpo dell’altro come attrezzo del mio piacere.  La reciprocità, se accade, come implicito patto di reciproca utenza. Non importante la “familiarità”, forse neppure la conoscenza, il nome, il volto, lo sguardo. Il corpo non è più neppure maschile o femminile. E’ un corpo comunque, e se qualcosa merita attenzione nel contatto è la protezione (secondo la locuzione del “rapporto protetto”) di tener lontana l’indesiderata potenzialità della vita.

La parola amore è estranea. E’ parola stanca, svuotata. Sull’argomento ha scritto anni fa pagine splendide il filosofo del diritto Luigi Lombardi Vallauri nel suo libro “Terre del nulla”. E più di recente Zygmunt Baumann, il teorico della “società liquida”: come potrebbe il sesso non essersi allo stesso modo liquefatto, con l’affermarsi della società dei consumi?  Nel saggio “Gli usi postmoderni del sesso”, Bauman scrive che la liberazione sessuale avviata negli stessi anni della rivoluzione consumistica ha scollato il sesso dall’amore, ne ha fatto un oggetto di consumo per cui il desiderio si accende, si satura, si estenua e si riaccende in una coazione ripetitiva. E ora noi sappiamo che il punto più misero della liquefazione è la fine stessa dell’eros, soppiantato dalla porneia (per soft che appaia, in cinquanta sfumature).

Il sesso come capitolo salutista sembra aver contagiato alcune espressioni del pensiero socio-politico. Si può verificare che cosa si intenda per “diritto alla salute sessuale e riproduttiva” nelle proposte che si fanno davanti al Parlamento europeo; o che cosa significhi, culturalmente, una “Dichiarazione” (della World Association for Sexual Health) redatta con lo stile delle Carte universali, che enuncia solennemente il “diritto al piacere”.

Ma più sottilmente, dove le emozioni amorose sono conservate e quasi inversamente enfatizzate in un’aura di sublimità che reputa grezze le forme (“noi ci amiamo, a che serve sposarci? Quotidianamente ci sposiamo, il nostro amore rinasce ogni mattina, – il nostro anniversario è tutto il calendario…”) è difficile discernere quanto vi sia di profondo (oppure di  implicitamente rimesso al “finché dura”) nella scelta “giorno per giorno” (etimologicamente: “effimera”) e quanto di egocentrico vi si annidi. La provvisorietà è lo specchio di un rifiuto (o spesso incapacità) di scelta; è una libertà trattenuta, non spesa. Forse è persino il calcolo inconscio di una paura, uno spiraglio di fuga di sicurezza. E’ una versione, infine, di un individualismo diffuso che occhieggia alla solitudine.

E’ in questo preciso punto, in questo contesto, che bisogna rammentare che la famiglia, nella sua funzione sociale, è generatrice di socialità. L’individualismo, che assolutizza gli interessi particolari, la devitalizza e la schiva. Oggi i sociologi annotano annunciarsi una nuova stagione di individualismo che può spingersi in forme che Giuseppe De Rita chiama “egolatriche”. Un primato dell’ego che somiglia a un culto, e che è figura di una povertà interiore che spegne le relazioni umane. Nel luglio 2016 è uscito un lavoro di Erik Gandini, italo svedese, che rivela che in quel Paese che si reputa socialmente avanzato, il 50% dei cittadini vive solo.  Vita e morte; un cittadino su quattro muore in solitudine, abbandonato dai figli. Curiosa teoria dell’amore? Nei dogmi di indipendenza assoluta dell’ego un amore autentico può avvenire solo tra estranei. O tra sconosciuti. O tra sé e sé stessi: la relazione non serve, è un peso che sempre meno persone sembrano disposte a sopportare. Non serve nemmeno per avere figli. C’è il kit del fai da te.

Cose svedesi? L’Aied, in Italia, rivela che all’associazione si rivolgono spesso persone che dicono essere difficile trovare un’altra persona con cui condividere la vita. Non si riesce a “sopportarsi”.

 

8) Fra sogno o distopia

Singolarità paradossale in questo tempo di fuga dal matrimonio, è l’unione civile omosessuale che rimescola il diritto all’amore, al sesso da fare  “ognuno come gli va”, al “matrimonio gay” , che in alcuni Paesi c’è già. E chiede, in controtendenza alla fuga dal “vincolo”, il vincolo.

Gli argomenti addotti in superficie sono i diritti: la pensione, la reversibilutà, l’eredità, la cura in ospedale, le informazioni, il testamento biologico, o che altro. Ma al profondo non è questa la posta, raggiungibile per molte ordinarie vie. Lo straordinario è la rivendicazione dell’indifferenza dell’istituto familiare ad annoverare in modo aeque principalis le relazioni affettive quali che siano.

Prendo molto sul serio la dignità umana degli omosessuali, sul piano della persona e del vissuto relazionale.  Ma la legge c.d. Cirinnà, che li “coniuga” (salvo insultarli, dicendo che il loro patto non è degno di una promessa di fedeltà) è sbagliata se fa della famiglia una melassa. La differenza fra l’unione civile omosessuale e la famiglia è incolmabile. Per la Corte costituzionale è una formazione sociale “anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri” (sentenza 138/2010). Ma il villaggio non vi può conferire lo stesso  rilievo di una famiglia seminarium rei publicae, per l’inidoneità a trasmettere la vita.

E se la fisionomia del villaggio si compone come un mosaico vivo delle tessere delle sue microsocietà familiari e coniugali, l’immagine risultante da una destrutturazione della famiglia può essere vigilia di una società amorfa.

O forse di una società distopica, sul tipo di quella descritta da Aldous Huxley (Il nuovo mondo) nel secolo passato, o da altri scrittori che parevano visionari ed erano forse veggenti precursori. Una società  in cui  l’identità personale e l’intimità affettiva si voglia radicalmente svincolata dalla diversità biologica fra maschio e femmina, sicchè i due non possano nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna.

 

9 – L’antica certezza e la sfida futura

Vorrei finire con una storia scritta mille anni prima di Cristo. La storia di un uomo e del suo rapporto con tre donne: la prima è Circe, la maga, la donna che rende l’uomo animale. La seconda è Calipso, la dea nascosta, l’eterna giovinezza, l’eterna felicità. L’uomo resiste all’una e all’altra, perché vuole tornare a casa, dove c’è la terza donna, l’unica; e il figlio che il loro amore ha generato. Penelope dice che non lo riconosce, vuole una prova. In realtà lo ha ravvisato da subito, ma la “prova” (il riconoscimento) che quell’uomo tornato sia davvero l’Ulisse partito vent’anni prima è la condivisione, unica e indivisibile, del segreto del talamo nuziale; memoria e certezza di quella irriducibile intimità definitiva che non muta col tempo né con le alterne fortune.

Ma per raggiungere le sfide dei nostri giorni, un passo finale della lettera Amoris Letitia, dopo il Sinodo che ha fatto così tanto discutere. Perché con questi chiari di luna credere nell’attività efficace di un consultorio “pre e post” (che importanza in quel pre-matrimoniale; e che coraggio di continuare a chiamarlo matrimoniale invece che familiare) può sembrare folle. Ma chi ama è sempre un po’ folle: “la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto: invoca con essi la grazia della conversione, li incoraggia a compiere il bene, a prendersi cura con amore l’uno dell’altro e a mettersi al servizio della comunità nella quale vivono e lavorano”.

Se la famiglia è ferita, fragile, come un cristallo che può facilmente incrinarsi, tanto più prezioso è il suo tesoro da custodire, o da guarire. Se conoscete famiglie felici, dite loro di mostrarsi, di avere volto raggiante. Per capire che le tendenze culturali egolatriche, tana della vita paga delle sue paure senza orizzonti, possono essere vinte: e la famiglia ridiventare il sogno più consapevole delle nuove generazioni.

Non rinunciate al sogno, alla speranza, alla promessa, a tenere in salvo questo “patrimonio dell’umanità” che è la famiglia. Prendendo quello che c’è, con misericordia e con tenerezza, ma senza rassegnazione, senza rinunciare a “dire” che cos’è la relazione, il rischio, il dono, la bellezza e la fatica della vita: la scelta di amare.

 



[1] Cicerone, De officiis: “Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae.”

[2] Al 1° gennaio 2016 la popolazione in Italia è di 60 milioni 656 mila residenti (-139 mila unità). Gli stranieri sono 5 milioni 54 mila e rappresentano l’8,3% della popolazione totale (+39 mila unità). La popolazione di cittadinanza italiana scende a 55,6 milioni, conseguendo una perdita di 179 mila residenti.  I morti sono stati 653 mila nel 2015 (+54 mila). Il tasso di mortalità, pari al 10,7 per mille, è il più alto tra quelli misurati dal secondo dopoguerra in poi. L’aumento di mortalità risulta concentrato nelle classi di età molto anziane (75-95 anni).

Nel 2015 le nascite sono state 488 mila (-15 mila), nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia. Il 2015 è il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità, giunta a 1,35 figli per donna. L’età media delle madri al parto sale a 31,6 anni.

[3] 1975 – Legge. n. 151/1975 –  Equiparazione dei coniugi nei diritti e nei doveri (art. 143 c.c – abolizione della patria potestà, divenuta potestà genitoriale, “complesso diritti e doveri dei genitori nei confronti del figlio” (oggiancora mutata in  responsabilità genitoriale);–  introduzione del regime legale della comunione dei beni.

1978 – L. n. 194/1978. Aborto – Irrilevanza del padre di fronte alla decisione materna

1983  – L. n. 184/1983 Riforma dell’adozione –  Diritto del minore alla propria famiglia. Abbandono. Gli adottanti devono essere uniti in matrimonio da almeno 3 anni, non deve sussistere separazione personale neppure di fatto. La differenza di età tra gli adottanti e l’adottato deve essere compresa tra i 18 e i 40 anni (successivamente portata dalla legge n. 149/2001 a 45 anni);

 1987 –  L. n. 74/1987 Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio (). Riduzione del tempo intercorrente tra separazione e divorzio (da cinque a tre anni) e facoltà del tribunale di pronunciare una sentenza parziale che dichiari lo scioglimento definitivo del vincolo ovvero la cessazione degli effetti civili, separatamente dalla discussione sulle ulteriori condizioni accessorie dello sciogliment.

2001  – L. n. 149/2001 – Modifiche alla legge adozione – possibilità di adottare per i coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni “o che raggiungano tale periodo sommando alla durata del matrimonio il periodo di convivenza prematrimoniale” ( convivenza sino a quel momento non rilevante).

 2001 – L. n. 154/2001, modificata dalla legge n. 304/2003 – Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) –  cessazione della violenze e’allontanamento del soggetto dalla casa familiare; –   divieto di frequentazione di luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa; –  ’obbligo di pagamento di un assegno periodico a favore delle persone conviventi che, per effetto dei suddetti provvedimenti, siano rimasti privi di mezzi adeguati; –   l’intervento dei servizi sociali del territorio e dei centri di mediazione familiare in presenza di situazioni di forte tensione

2004 – L. n. 40/2004 – Norme in materia di procreazione medicalmente assistita  –  la possibilità di accedere alle tecniche di fecondazione alle coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, possibilità comunque circoscritta ai casi in cui sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione; Peraltro, con sentenza n. 162/2014, la Corte Costituzionale ha ammesso l’eterologa. 

2006 –  L. n. 54/2006 – Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli.

2012 –  L. n. 219/2012 e D.Lgs. 54/2014.  –   Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali. –      eliminazione degli status di figlio naturale, di figlio adottivo minorenne (per gli adottati maggiorenni la disciplina non è stata modificata), e di figlio legittimo, e creazione di un unico status di “figlio”; dentro o fuori del matrimonio.

2014  – D.L. 132/2014 convertito in legge con modifiche dalla L n. 162/2014. –   Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile. –
la coppia che consensualmente vuole separarsi o divorziare  fa  la negoziazione assistita da avvocati,  ovvero la conclusione di un accordo avanti il Sindaco

2015 –  L. n. 55/2015.    –  Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi – in luogo dei tre anni prima previsti, in caso di separazione giudiziale, basterà un anno per porre fine al matrimonio. Il termine decorre sempre dal giorno della comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale. Rimane fermo, inoltre, il requisito della mancata interruzione: la separazione dovrà essersi “protratta ininterrottamente” e l’eventuale sospensione dovrà essere eccepita dalla parte convenuta;-   il termine di un anno si riduce ulteriormente a sei mesi, secondo il nuovo testo dell’art. 3 lett. b), n. 2 della l. n. 898/1970, nelle separazioni consensuali. Ciò indipendentemente dalla presenza o meno di figli e questo anche in caso di separazioni avviate in contenzioso; –    l’art. 2 della l. n. 55/2015 aggiunge un comma all’art. 191 c.c. anticipando il momento dello scioglimento della comunione tra i coniugi. nel momento in cui “il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati”

 

[4] Il fenomeno non è solo italiano. In Europa (UE-28), sulla base dei dati disponibili, nel 2012 ci sono stati circa 2 milioni di matrimoni e 1 milione di divorzi registrati.   

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