Il testamento biologico. Bioetica di fine vita

Il testamento biologico. Bioetica di fine vita

 

 

 Autore: Armando Savignano

Ha suscitato una vasta eco la drammatica vicenda di Fabo; a tal proposito ci sembra che la questione fosse abbastanza chiara: Fabo aveva intrapreso tutte le vie per poter continuare a vivere, ma di fronte agli esiti fallimentari ha scelto consapevolmente di morire. Occorre tuttavia riferirsi ai casi ordinari – non a quelli eclatanti ed estremi – dove non è sempre agevole una soluzione solo a livello legislativo tenendo conto di tutte le sfaccettature e complessità delle situazioni.

 

Distinzione tra testamento biologico e eutanasia

Anzitutto è quanto mai opportuno distinguere tra testamento biologico – o direttive anticipate di trattamento (DAT) – ed eutanasia (nelle sua varie forme). Il testamento biologico non è assimilabile all’eutanasia, né apre necessariamente ad essa, altrimenti bisognerebbe rivedere molte norme del codice penale sul suicidio assistito, omicidio del consenziente, ecc.

L’eutanasia è invece un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte allo scopo di eliminare ogni dolore. Tra le varie forme di eutanasia (volontaria, non volontaria, involontaria), ci soffermiamo qui su quella attiva che implica l’utilizzo di farmaci per determinare la morte senza dolore. L’eutanasia passiva è, per contro, l’ omissione delle cure e dei trattamenti in quanto si ritiene che una vita non è più degna di essere vissuta.

Occorre tuttavia distinguere non solo tra uccidere e lasciar morire, ma anche e soprattutto tra trattamenti ordinari e straordinari: questi sono insostituibili, gli altri sono oggetto di opzione da parte del medico tenendo conto delle particolari situazione del paziente e dei progressi della medicina tecnologica. Un trattamento che, ad esempio, un tempo era ritenuto straordinario, in un altro momento storico diviene ordinario grazie ai meravigliosi progressi della medicina.

 

 

Idratazione e alimentazione

Un’altra questione cruciale – sia nel testamento biologico che nell’eutanasia – concerne l’idratazione e l’alimentazione, le quali servono a mantenere in vita chiunque: ciò è intuitivo; sono pertanto assimilabili ad una terapia in senso stretto? Se gliele avessero tolte – idratazione ed alimentazione – Fabo, ad esempio, sarebbe potuto morire anche in Italia. Invece casi come quelli di Eluana Englaro sarebbero passibili di regolamentazione giuridica mediante il testamento biologico.

Occorre distinguere, nel caso dell’alimentazione-idratazione (quella assunta convenzionalmente e artificialmente), tra lo stato vegetativo e l’eutanasia. Non alimentare o idratare un malato, che non è in condizioni di assoluta terminalità potrebbe rientrare in una forma di eutanasia passiva.

L’intenzione gioca tuttavia un ruolo essenziale, in quanto solo se c’è intenzione di causare la morte di un paziente siamo in presenza di un’eutanasia. Un chirurgo, ad esempio, che per un errore provoca la morte di un malato non commette eutanasia anche se può essere accusato di omicidio colposo. Non costituisce eutanasia, ad esempio, interrompere l’alimentazione e l’idratazione di un paziente il cui organismo non è più in grado di accettarle, ma che anzi causerebbero un aggravamento delle sue condizioni. Idratazione ed alimentazione possono essere lecitamente rifiutate solo se dannose o se il paziente è prossimo a morire.

 

Alleanza terapeutica tra medico e paziente

In ogni caso, pur assegnando un ruolo essenziale all’autodeterminazione del paziente (Art.32 della nostra Costituzione)sulla base di una corretta informazione, sarebbe quanto mai opportuno attuare quell’alleanza terapeutica tra medico e malato i quali non sono in posizione antagonista in quanto entrambi perseguono il medesimo obiettivo: curare il malato – curare sempre, guarire il più possibile – e soprattutto ‘prendersi cura’ che occorre distinguere dai trattamenti terapeutici.

 

Libertà e dignità

Ma quando una vita è degna di essere vissuta? Bisogna ricordare che non è la libertà che costituisce la dignità dei nostri comportamenti, anche se oggi, nella nostra cultura, sembrerebbe che sia così: l’agire liberamente viene identificato con l’agire con dignità. Non è però la libertà che dà dignità al comportamento umano. È vero tuttavia che l’atto può essere degno della persona solo se è un atto umano, cioè libero. Ma non sempre è degno ciò che è libero; vi sono tanti comportamenti che sono liberi e non sono degni della persona: né della persona su cui si agisce, né della persona che agisce. Esistono azioni libere indegnedella persona umana.

La libertà quindi, non dà la dignità alle proprie azioni, dà sì la possibilità di agire in modo degno o indegno. Ma la dignità o indegnità di un atto libero non dipende dal fatto che sia libero, ma dalla corrispondenza di quella scelta libera alla dignità della persone altrui e della propria persona. Ecco perché offendere, ad esempio, deliberatamente l’altro è un comportamento indegno dell’altro e di me.

L’equivalenza ‘morte degna’= eutanasia, perché scelta libera, è per certi versi discutibile. Vi sono molti mascheramenti in tal senso, soprattutto se si rispondesse al soggetto in modo affermativo: “Sì, ti aiuto”. In tal modo viene compiuta un’azione che tiene conto della sua libertà, ma rispetta anche la sua dignità?

La vita è un bene indisponibilenon solo riguardo alla vita altrui, ma prima di tutto riguardo alla propria vita. Si potrebbe pertanto dire che la vita non è mia, ma io sono di essa.

Occorre discriminare tra vite degne e non degne di essere vissute? E’ solo il caso di riferirsi qui alla recente proposta illustrata al Parlamento olandese nella quale si sottolinea che : “Le persone anziane che credono, dopo una seria riflessione, di aver esaurito il loro ciclo vitale dovrebbero potervi mettere fine, a rigide condizioni, nella maniera dignitosa che ritengono opportuna.

 

Il dualismo antropologico

Bisogna evitare di cadere in un’antropologia dualista, spesso presente in coloro che difendono l’eutanasia. Tipica è infatti l’espressione: “Ormai è solamente una vita biologica, non c’è più vita personale, è un vegetale”. E’ anche frequente la distinzione radicale tra “vita biologica” e “vita biografica”, considerando la seconda come l’unica che dia senso alla esistenza della persona, e la prima come qualcosa di sub-umano. Ma una persona che si trova in ‘in stato vegetativo persistente’ è persona degna di rispetto? La persona è un’unità: non c’è mai un corpo umano che sia solo una specie di vegetale, un fenomeno biologico vivente, senza che sia il corpo di un io, di una persona. In questo senso bisogna affermare che la vita biologica di un individuo umano è sempre vita umana, e forma parte sempre della sua vita biografica.

 

 

 

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