Il dono del dominio di sé

Il dono del dominio di sé

Autore: Mons. Egidio Faglioni

  1. L’atteggiamento di Giobbe [2,10; c. 3]

Il testo biblico ci presenta la figura del primo Giobbe (Gb 1, 6-22), un uomo umile e rassegnato.  Gli hanno tolto tutto ciò che gli apparteneva e lui si straccia le vesti, si rade il capo, cade a terra, si prostra ed esclama: “Nudo uscii dal seno di mia madre, / e nudo vi ritornerò. / Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, / sia benedetto il nome del Signore !”.  Il suo è un proposito di abbandono, di accettazione.

Sappiamo che nel capitolo seguente contempleremo la figura del secondo Giobbe, di colui che è colpito non solo nei suoi beni esteriori, ma nella sua stessa salute, nella sua stessa vita. Pronuncerà ancora parole di accettazione, però saranno più sofferte, esprimeranno fatica. Rispondendo, per esempio, alla moglie che lo invita a bestemmiare, dirà: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?” (Gb 2, 10).

E c’è anche un terzo Giobbe, al c. 3 e che apre la bocca per maledire il giorno in cui è nato.

Tre diversi gradi di rassegnazione e il problema consiste nell’accordarli.  Forse noi passiamo – secondo le diverse stagioni della vita – dall’uno all’altro, e poi torniamo indietro. Certamente, tutto il Libro è centrato sul terzo Giobbe, ma è importante ricordare che il primo è la radice del terzo, ci spiega come mai quest’uomo, pur nelle sue lamentele, non ha mai in fondo dubitato di Dio, perché era radicato in una profonda umiltà.

Noi siamo invitati a leggere il Libro nella sua interezza, così come ci viene presentato, ed è quindi giocoforza riflettere sul fatto che l’esclamazione iniziale (“Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, / sia benedetto il nome del Signore”) è fondante e regge anche rispetto alle successive lamentele e proteste.

Possiamo dire che l’atteggiamento umile di Giobbe è la radice della profonda pace interiore di cui gode almeno nella prima parte delle sue sofferenze.

  1. L’atteggiamento paziente di Tobia [2,14 – 3,6]

Qualcosa di simile avviene per Tobia. E’ un altro grande esempio di rassegnazione e di abbandono.

C’è pure qui, naturalmente, un secondo Tobia, quello rimproverato dalla moglie. Fino ad allora sembrava possedere la sua anima, ma quando la moglie lo provoca con  parole dure – “Dove sono le tue elemosine? Dove sono le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene da come sei ridotto!” -, facendo un po’ la parte degli amici di Giobbe, quasi insinuando che il marito soffre per colpe commesse, Tobia esce in una preghiera accorata: “I rimproveri che mi tocca sentire destano in me grande dolore. Signore, comanda che sia tolto da questa prova; fa’ che io parta verso l’eterno soggiorno; Signore, non distogliere da me il tuo volto. Per me infatti è meglio morire che vedermi davanti questa grande angoscia e così non sentirmi più insultare!” (Tb 2, 14 – 3,6).

Vediamo un primo Tobia, sapientissimo, e un secondo Tobia più affaticato, più sofferente, più depresso.

Giobbe e Tobia sono due modelli che ci offrono un saggio di enkràteia, di quel dono dello Spirito di cui parla San Paolo in Galati 5, 22 e che viene tradotto in italiano con dominio di sé. E’ la capacità di mantenere una certa pace anche nella sofferenza e nella prova.

Giobbe e Tobia sono dunque due figure che ci danno una coordinata cristiana molto importante, la coordinata dell’enkràteia intesa come dono dello Spirito, per aiutarci ad affrontare interiormente qualcosa del mistero di Gesù.

Infatti una terza lettura ci fa contemplare il modello evangelico di Gesù nel momento della prova: “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome” (Gv 12, 27ss.).

Come i primi due modelli, Gesù entra nel turbamento e grida a Dio: “Salvami da quest’ora … Sia glorificato il tuo nome”.

Il cristiano è colui che non si lascia schiacciare dalle tentazioni, dalle preoccupazioni, dalle malinconie, dalle ansietà; le vive, però non ne è schiacciato.

  1. Due passi nel Nuovo Testamento

Riflettendo mi sono domandato dove nel Nuovo Testamento, anzi nei Vangeli, ci vengono raccomandati atteggiamenti di pazienza nella prova, di forza nel resistere alle preoccupazioni quotidiane. Tra i tanti brani possibili, ho pensato a due di Luca, uno al c. 10 e l’altro, con la corrispondente spiegazione parenetica, al c. 12.

  1. Dell’episodio che va sotto il nome di “Marta e Maria” (Lc 10, 38-42), sottolineo la risposta di Gesù a Marta: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno”.

Analizziamo brevemente il verbo agitarsi; del verbo preoccuparsi (merumnào) parleremo nel contesto di Luca 12, dove pure lo si incontra.

Agitarsi è un verbo molto forte. In Mt 9, 23 si riferisce alla gente agitata per la morte della figlia di Giairo; quindi l’agitazione suscitata dall’evento della morte. In At 17, 5 si riferisce alla città in subbuglio, in allarme per le conversioni di Giudei di Tessalonica. In At 20, 10 indica il turbamento della gente per la morte, almeno apparente, del ragazzo a Troade.

Potrebbe dunque stupire che questo verbo venga usato per una preoccupazione così quotidiana di andamento della casa, di cucina e di fornelli, come quella di Marta. Ma Gesù vuole insegnarci che le preoccupazioni, grandi o piccole, occupano comunque tutto il cuore. Il punto è che riempiono il cuore fino a ossessionarci, a rovinarci la pace. Spesso sono proprio le piccole irritazioni che guastano la giornata.

Giobbe e Tobia sono preoccupati della regalità di Dio e perciò affrontano situazioni dolorosissime con autocontrollo, con dominio su di sé. Marta, invece, desiderosa di fare bella figura, si lascia soverchiare da piccole preoccupazioni che però le occupano il cuore impedendole di onorare davvero l’ospite Gesù.

  • Vorrei tuttavia portare la vostra attenzione soprattutto sul verbo preoccuparsi, perché è tipico del Nuovo Testamento, là dove Gesù stigmatizza preoccupazioni che non sono per il Regno di Dio.

Il passo classico è nel Discorso della montagna, in Mt 6. Restando nell’ambito lucano, lo leggiamo al c. 12, vv. 22ss.: “Non datevi pensiero per la vostra vita … non cercate che cosa mangerete e berrete … di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo …”. Qui occorre più volte lo stesso verbo merumnào indicante le preoccupazioni che schiacciano lo spirito, che soffocano come le spine il seme della parola: “Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita” (12, 25); e di nuovo al v. 26: “Se non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto?”. Gesù condanna la preoccupazione e l’affanno.

Si tratta di un’esortazione fondamentale: il primato del Regno contrasta gli affanni per le cose della vita. E, come dirà la parabola del seminatore, gli affanni per le cose della vita soffocano il seme del Regno.

Quindi, il breve discorso di Lc 12, 22ss. è la parola nodale del Nuovo Testamento sul tema di cui ci hanno dato esempio Giobbe e Tobia. Gesù sottolinea con forza questa parola con l’immagine dei corvi che non seminano e non mietono, e con quella dei gigli che non filano e non tessono. E poi conclude: “Non state con l’animo in ansia”. Qui il verbo non è più merumnào, bensì meteorìzesthe che significa stare sospesi in alto, sulle nuvole, come uno che non ha terreno su cui appoggiarsi. Chi è pieno di preoccupazioni è sempre sul chi va là, non ha terreno solido. “Cercate piuttosto il Regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta”.

  1. Tre piste di meditatio

Dopo aver riletto questi testi vi offro tre piste di meditazione.

  1. Anzitutto la Chiesa vuole presentarci in questi giorni degli esempi eroici di superamento dell’affanno mondano. Noi li accogliamo con gratitudine lasciandoci attrarre dal comportamento di Gesù che in maniera eroica, a partire dal momento del Getsémani, lotta direttamente contro l’assalto delle paure mondane umane e poi, nella passione, affronterà le prove più terribili con nobiltà, regalità, assoluto dominio di sé.
  • Il Signore teme molto per noi l’affanno mondano e anche l’affanno pastorale, non nel senso del fare, bensì nel senso di preoccuparsi troppo. C’è una certa misura di preoccupazione anche pastorale che è buona, e ce n’è una eccessiva perché turba l’intimo dello spirito, del cuore.
  • La stessa tradizione spirituale mette in guardia dall’affanno, da un tipo di ansia eccessiva. Sarebbe bello, in proposito, rileggere alcune Regole del discernimento degli spiriti nel libretto degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, dove nota che lo spirito maligno, in coloro che vanno di bene in meglio, procede “turbando con false ragioni affinché non si vada avanti” (cf. n. 315). “False ragioni”, cioè lo spirito maligno dà delle ragioni apparentemente giuste per turbarsi, però di fatto sono false. E, al n. 332 si sottolinea che il nemico “insinua buoni e santi pensieri conforme all’anima pia e dopo, poco a poco, cerca di avere la meglio trascinando l’anima verso i suoi inganni occulti e le sue perverse intenzioni”. Anzi, proprio qui Ignazio pone il criterio per il discernimento: se un pensiero, anche buono, alla fine produce turbamento, distrazione, fiacchezza, è segno che viene dallo spirito negativo (cf. n. 333).

      La tradizione spirituale ha così approfondito il problema generale dell’affanno, dell’ossessione, della preoccupazione eccessiva, mostrando che tali preoccupazioni hanno delle ragioni e toccano specialmente le persone che camminano bene, santamente, che sono zelanti.

  • Una conclusione operativa

Quale può essere un’actuatio per noi?

  • Ritengo che sia semplicemente la coscientizzazione di essere tutti soggetti a questo tipo di affanno, perché tocca diversi momenti della nostra esistenza. Spesso è la salute fisica a causare molti affanni; proprio perché è un bene prezioso, quando va in crisi crea paure, sofferenze, disagi, angosce dalle quali non è facile sottrarsi. Tuttavia il Signore ci insegna, attraverso l’esempio di Giobbe e di Tobia, che neppure queste cose dovrebbero togliere del tutto la pace del cuore.

Prendiamo quindi coscienza di quanto la salute fisica, nostra o altrui, è sovente fonte di gravi e legittimi affanni, che però non devono mai bloccare lo spirito, inaridirlo, ma semmai purificarlo.

  • Ugualmente, la nostra salute spirituale è occasione di affanno soprattutto in alcune persone buone, sante, perché si ha giustamente l’impressione di non fare mai abbastanza, di non essere mai all’altezza dei propri doveri; è una prova purificante, a cui è difficile sottrarsi in un cammino spirituale. Anche qui però uno sguardo sul Signore sofferente e risorto, ci aiuterà a comprendere che si può insinuare un’eccessiva preoccupazione di sé, quasi un senso di orgoglio in questo affannarsi per la propria santità o per la propria rispondenza alle esigenze del momento.
  • C’è infine l’azione pastorale che può essere motivo di eccessive preoccupazioni e penso che non di rado lo sia.

Anche nell’azione pastorale è dunque importante distinguere tra le preoccupazioni inutili, gonfiate ad arte e le domande vere che sono sì inquietanti, ma non tolgono la pace interiore perché partono dalla certezza che il Signore risorto è in mezzo a noi, che lo Spirito Santo c’è e sta operando prima di noi, meglio di noi, e a noi non tocca né soffiarlo, né suscitarlo; tocca soltanto riconoscerlo e dargli spazio.

Potremmo, nel momento di preghiera, rivolgerci al santo Giobbe, al santo Tobia e, soprattutto, al Santo dei Santi, Cristo Gesù, chiedendogli di farci partecipi del loro senso della Provvidenza, del primato del Regno, a partire dal quale è possibile giudicare tutto il resto, giudicare le altre preoccupazioni storiche trovando il giusto mezzo e la giusta misura.

                                                                                   Mons. Egidio Faglioni

Asola

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