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Il dolore al tempo del covid-19
Autori: Giuseppe Cesa e Silvana Ignaccolo
Uno noto scrittore, qualche decennio fa, scriveva un bellissimo libro titolato “L’amore ai tempi del colera”, parlo di Gabriel Garcia Marquez..
Il pensiero immediato, che già dal titolo si impone, è che l’amore si incarna su una spinta potente, a volte prepotente e trova le sue strade … sempre e comunque.
E il dolore?
È impressionante quello che i nostri sanitari vivono quotidianamente nei reparti ospedalieri; è impressionante quanto visto a Bergamo con i camion militari che portano via le salme come altrettanto impressionante è vedere le fosse comuni di New York in cui vengono sepolti i corpi di coloro che non hanno parenti che li reclamano; è impressionante non potersi accomiatare decentemente dai propri cari morti e dover accettare funerali minimal.
Lo riconosciamo, non ci sono alternative, non siamo infantili e lo accettiamo.
Ma il dolore, intimo e profondo, dove finisce quando vengono meno gli spazi ed i tempi consoni per la sua condivisione? Già in condizioni normali è difficile accettare il dolore della morte di una persona cara, soprattutto in un tempo come quello attuale che ci vorrebbe sempre brillanti ed al top di forma ed efficienza. Questo lo vediamo bene nel nostro lavoro ed in particolare nei nostri gruppi per l’elaborazione del lutto. Oggi può non essere facile raccogliersi per piangere il dolore di una perdita.
Da sempre, di fronte alla morte di una persona cara l’essere umano ha cercato la vicinanza umana, e non solo, per la condivisione di un dolore altrimenti lacerante. Il gruppo, di parenti, di amici, o in qualunque altra forma si potesse realizzare ha sempre rappresentato la più potente cassa di risonanza ed il più efficace contenitore dei vissuti, evitando le lacerazioni della psiche. In passato, addirittura, in alcuni contesti era consuetudine che dopo il funerale i parenti e gli amici più intimi venissero invitati in casa del defunto per una cena di commiato. Cena che simbolicamente e concretamente, quasi come un rito di passaggio, attraversava momenti di dolore per giungere e sancire il riemergere ad una nuova vita, una nuova convivialità riconosciuta ed autorizzata.
Ma oggi questo non è possibile. Giustamente, gli assembramenti vanno evitati … e la psiche? Può lacerarsi?
Quante volte nel nostro lavoro ci ritroviamo al cospetto di queste e altre lacerazioni, ancora attive dopo decenni.
Non è facile trovare vie alternative per condividere, far aleggiare il dolore e renderlo digeribile, pur sempre un calice amaro ma digeribile.
Oggi la moderna tecnologia ci fornisce di strumenti come i telefoni, gli smartphone, le chat, le videochiamate e le videoconferenze. Non vanno disprezzati tali strumenti. Ma sono poca cosa in confronto ad una mano stretta, una carezza, un abbraccio, uno stare un po’ assieme in silenzio piangendo. E tutte le idee alternative ci appaiono come banali ed inutili surrogati.
Ma forse non è proprio così.
Il primo motivo per cui credo non sia cosi è legato al fatto che nella nostra realtà comunque i nostri malati vengono curati con grande professionalità ed umanità. Credo che la capacità del personale sanitario dei nostri ospedali di mantenere alto il livello delle cure prestate ed il livello di rispetto ed interazione umana, nonostante il forte stress a cui è sottoposto, rappresenti di per sé qualcosa di encomiabile che da dignità a qualunque epilogo.
Il secondo motivo, invece, sta nel fatto che se ci pensiamo bene, la vera banalità non sta nel gesto in se. La banalità si ha quando si fa qualcosa tanto per farlo, come si dice comunemente, senza metterci l’anima, la passione. Ecco, allora, che qualunque gesto o segno, pur se ingabbiato nei limiti consentiti, se fatto con l’anima e con passione, può trasformarsi in una potente cassa di risonanza utile a dar voce al dolore e renderlo meno lacerante.
Qualcosa di analogo avviene quando, ad esempio, confrontiamo un brano musicale suonato perfettamente da un computer con lo stesso brano suonato da un musicista che lo interpreta. Abbiamo a che fare esattamente con la stessa sequenza di rumori ma nella seconda, nell’interpretazione, passa l’anima dell’interprete che risuona dentro di noi commuovendoci, rilassandoci, caricandoci, ecc.
Lo stesso, mi si permetta l’analogia, credo valga anche per il gesto di un sacerdote quando, ingabbiato dai doverosi limiti sanitari, deve limitarsi nel suo ruolo. E, lo stesso lo sperimentiamo noi nel momento in cui, gioco forza siamo costretti a chiudere gli studi e limitarci alle cosiddette sedute da remoto, telefonicamente oppure on-line.
È vero, al primo impatto la sensazione è triste, quasi di disagio per non parlare di smarrimento, eppure dopo un po’ la nostra mente riesce a cogliere da mille altre sfumature quegli stessi segnali, quegli stessi indizi, quegli stessi messaggi che coglieva nell’altro presente e la relazione ricomincia a fluire.
Anzi, questa situazione paradossalmente mi riporta alla mente la storiella del ” Re nudo”. Questa storia, che tutti conosciamo, essenzialmente ci insegna a guardare all’essenza delle cose, non alle apparenze e tanto meno alle illusioni che le nostre convinzioni ed il nostro conformarsi impongono alle nostre percezioni. Condizione ampiamente studiata dalla psicologia della percezione.
Allora, se ci pensiamo bene, quante volte è capitato che il nostro bambino interno avrebbe voluto, giustamente, dire “il Re è nudo” di fronte ad eventi tanto suntuosi, con tempi e spazi adeguati, ma vuoti e senz’anima?
Beh, per finire, credo che quanto sta succedendo debba incoraggiarci ad essere umili e presenti con l’anima in quello che facciamo. L’anima è potente, a volte prepotente, al pari dell’amore e passa anche lungo i sentieri più minimal … l’importante è che ce la mettiamo!
Giuseppe Cesa, Silvana Ignaccolo
Consultorio Ucipem di Mantova