Prendilo di petto: in dialogo con la malattia

   

          Parlare di malattia, oggi più che mai, è una scelta scomoda e coraggiosa, per una serie di motivi. Innanzitutto perché si corre sempre il rischio di “ferire” qualcuno sfiorando ferite aperte, o di far sentire a disagio qualcun altro.

Sempre poi ci si accorge che, dopo tanta fatica, si rimane con molte domande e poche risposte da dare.

           Ma forse è proprio questo il motivo per cui è necessario ogni tanti ritrovarsi a parlare di malattia, di sofferenza, di dolore, per tenere accese le domande, anche quando le risposte tardano ad arrivare o non si trovano per niente. Si, forse questo è uno degli ambiti umani dove è più importante imparare ad abitare le domande che trovare subito le risposte.

          Ma perché è importante che tutti ci troviamo a confrontarci con il faticoso tema della malattia? La risposta ci viene da, Susan Sontag, una grande scrittrice e giornalista americana, deceduta negli anni ’90 del secolo scorso a causa di una leucemia e dopo aver avuta in precedenza una neoplasia della mammella. Nel tempo della sua malattia scriveva così:

“La malattia non è che il lato notturno della vita; una cittadinanza più scomoda, più impegnativa; è come se tutti noi avessimo una doppia cittadinanza, nel regno della salute e in quello della malattia.

          Tutti preferiremmo servirci solo del passaporto “buono”, ma prima o poi ognuno viene costretto almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese” (“la malattia come metafora”, 1992).

          Se le cose stanno così, se davvero prima o poi ognuno di noi deve fare uso del passaporto “scomodo” e per un certo tempo addentrarsi nel territorio notturno della vita, certamente ha un senso, soprattutto quando si è in perfetta salute, riflettere e confrontarsi con chi questa esperienza già la sta facendo, suo malgrado.

        Nella vita, solo chi fa esperienza di qualche cosa, ha pieno titolo per insegnare quanto sa o sta imparando; è per questo che quando si parla di malattia, i nostri maestri sono i malati, sono loro ad avere una sensibilità del tutto particolare per la verità e il senso dell’esistenza.

         Allora più che trovarsi a discutere e parlare della malattia, ha senso entrare in dialogo con essa, fare direttamente a lei qualche domanda; e questo lo si può fare solo ascoltando i malati. Non posso fare a meno di ricordare come il ritornello del salmo 48 più volte ripeta queste parole:” L’uomo nell’abbondanza non comprende”.

          Paradossalmente, quando stiamo bene, quando non ci manca nulla, ci sfugge il senso e il valore delle cose, la loro importanza. E’ sufficiente passare qualche giorno a letto per una banale influenza, e accorgersi di quale valore abbia una passeggiata al parco con la propria figlia o un caffè preso con un amico. 

          Allora è lecito pensare che anche il “lato notturno della vita”, abbia una sua logica, faticosa e scomoda, un suo messaggio da farci arrivare; la malattia e i malati sono messaggeri “scomodi”, ma che hanno qualcosa di importante da comunicare.

           Ricordo che diversi anni fa mi è capitato di vedere un film molto particolare, intitolato “l’educazione siberiana”; raccontava la vita di una comunità della steppa siberiana, dove i malati e i disabili godevano di grande rispetto da parte di tutti e venivano chiamati con un termine che nella traduzione italiana significa “i voluti da Dio”. Nella loro cultura si riteneva che Dio si servisse di questi messaggeri “autorevoli” per far arrivare i suoi messaggi agli uomini. I messaggi preziosi arrivano attraverso canali preziosi. Duemila anni prima di Cristo, Plotino si esprimeva già così: “Il dolore è il segnale che qualcosa sta per nascere”.

           Ogni parto contempla il dolore, ogni passaggio su questa terra prevede una certa dose di fatica e un po’ di coraggio: potremmo chiamarla la misteriosa dimensione Pasquale della nostra esistenza.  

          La nostra vita, prima o poi, viene attraversata da una diagnosi che, per un certo periodo ne sospende o quantomeno ne rallenta lo scorrere del tempo. Siamo allora costretti a rivedere i nostri programmi, riorganizzare le relazioni, trasformare i nostri pensieri e le nostre emozioni.

          Anche le nostre priorità possono subire profondi cambiamenti e portare ad un’esistenza completamente trasformata: la nostra vita troppo spesso fallisce per priorità sbagliate. 

          La malattia mette in movimento le nostre risorse biochimiche, ormonali e immunitarie, ma anche quelle psichiche e spirituali. Scava in profondità, apre canali interiori impensabili e da quel momento in poi non si è più la medesima persona, e come se nascesse un uomo novo.

          Le ferite diventano quelle miracolose feritoie da cui passa la nostra verità, canali per messaggi che vengono da lontano e che altrimenti avremmo probabilmente perduto. 

Non è un caso che qualcuno, confrontandosi sulla malattia, in anni recenti abbia parlato proprio di “oro nelle ferite”.

           Ogni parola ha un senso da chiarire.

         Le ferite sono quelle aperture temporanee che si formano sulla nostra pelle quando qualcosa la danneggia. E’ indispensabile prendersene cura per un certo tempo, più o meno lungo, a seconda della profondità della ferita; in caso contrario, se trascurate o curate male, le ferite possono complicarsi in modo anche serio e qualche volta, mettere a rischio la vita. Quando alla fine guariscono, lasciano sempre dei segni sulla pelle, più o meno evidenti, a seconda della loro profondità e del tempo che hanno richiesto per guarire.

          Il motivo di questo è molto semplice, ma altrettanto significativo: ogni ferita lascia sempre un segno sulla pelle, perché il tessuto di cui è fatta è “diverso” da quello della pelle originaria. Il tessuto di prima, “non c’è più”, è guarito, ma è diverso, e il segno di questa diversità è evidente a tutti.

          Possiamo dire che le ferite segnano e in-segnano, segnano fuori e segnano “dentro”. Anzi, quando guardiamo una pelle che è stata ferita e curata, quello che appare con maggior evidenza sono proprio le cicatrici, i segni della sua guarigione.

          La nostra storia è scritta sul nostro corpo e sulla nostra anima. Ma sul fondo di queste ferite è depositato dell’oro, simbolo di luce, di preziosità e di durevolezza.

L’oro è qualcosa che risplende e fa luce; è qualcosa di prezioso perché non si corrompe e dura nel tempo. Perché l’oro che si deposita sul fondo delle nostre ferite non vada perduto, è indispensabile che il tempo della malattia trovi i giusti compagni di viaggio.

          Negli ultimi anni si parla tanto di quella branca medica che passa sotto il termine di “medicina narrativa”: la parola è la terapia prima della terapia, è il più potente psicofarmaco. La parola, soprattutto quella “ascoltata” più ancor che quella detta, può fare miracoli. Avere la possibilità di raccontare la propria storia, sapendosi ascoltati,

può essere il modo più efficace per mettere ordine nella trama nel nostro racconto e capirne il senso. Non c’è vita e non c’è sofferenza che non meriti di essere raccontata.

          Ognuno di noi è una” identità narrativa”, e ha il bisogno di trovare la relazione fra gli eventi della propria storia.

          Sono sempre più convinto che la vita, e la malattia a maggior ragione siano un luogo e un tempo “sacro” da attraversare non prima di essersi tolti i sandali, direbbe il libro dell’esodo.

          Significa che non tutto è nostra disposizione, la dimensione del mistero non è qualcosa di occasionale, ma è l’atmosfera costitutiva di tutta la nostra esistenza. Il mistero non chiede di essere spiegato e compreso, ma accolto e abitato.

Forse solo così anche la malattia può essere attraversata con passo “leggero” e vorrei chiudere la mia riflessione richiamando la parole di un salmo: “…hai mutato il mio lamento in danza”.

Il filosofo Nietzsche, che si definiva ateo, diceva: “Posso credere in un Dio, solo se scende e danza con me”.   

Giuseppe Galli

Chirurgo e Diacono  

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