UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
Congresso U.C.I.P.E.M. – Oristano – 2/4 settembre 2016.
“Il diritto di famiglia oggi: dalla potestà alla responsabilità genitoriale, dall’affido congiunto nelle separazioni all’accesso all’origine nelle adozioni
Autrice: Rosalisa Sartorel
Prima di entrare nel vivo della mia esposizione vorrei partire dal tema del congresso (La famiglia crocevia di relazioni e opportunità) e dall’argomento trattato dal prof. Anzani (I cambiamenti in atto nella società), per tracciare la linea ideale che seguirà l’excursus del tema che mi è stato assegnato.
Le due parole chiave sono “cambiamento” e “relazione”.
Potremmo dire che i rapidi cambiamenti avvenuti nel diritto di famiglia negli ultimi 10 anni (con un’accelerazione particolarmente significativa negli ultimi 3/4) -cambiamenti normativi che riflettono e recepiscono (sempre a posteriori) i mutamenti sociali e familiari- sono avvenuti all’insegna della conservazione delle relazioni familiari e, più in generale, delle relazioni interpersonali.
Questo perché (mia riflessione), rubando l’espressione a Baumann, una “società liquida” non può che generare una “famiglia liquida”. E allora si è sentita la necessità, nell’informe stato liquido delle cose di famiglia, di “solidificare”, se non l’”istituzione”, quantomeno le relazioni di cui essa è formata.
Si tratta di relazioni che non sono più “gerarchiche”, in cui c’è qualcuno che esercita un “potere” esclusivo su qualcun altro, ma relazioni che trovano il loro fondamento nel principio e nel valore della responsabilità.
Cominciamo.
Il primo cambiamento in ordine cronologico è stato quello dell’affidamento condiviso dei figli nella separazione, nel divorzio e nella fine delle convivenze.
La legge che ha prodotto il mutamento è una legge del 2006, la nr. 54 entrata in vigore il 16 marzo del 2006, proposta da un collega e parlamentare bellunese, in qualità di primo firmatario, l’allora onorevole Paniz.
Apro una parentesi per sottolineare che in questa legge sono state gettate le basi anche per la successiva importantissima riforma che riguarda lo status giuridico di figlio, dal momento che con essa non solo è stato introdotto l’affidamento condiviso dei figli ma è stato dato anche un forte impulso al processo di unificazione del loro stato giuridico stabilendo espressamente l’applicabilità delle disposizioni in essa contenute anche ai figli naturali, assimilandoli in questo modo sul piano processuale ai figli legittimi per quanto riguardava la disciplina relativa alla regolamentazione delle questioni riguardanti i figli: in pratica si applicavano gli stessi principi (anche se per trattare dette questioni si continuava ad andare al Tribunale dei Minor).
La situazione precedente all’introduzione di questa normativa prevedeva che in caso di separazione dei genitori i figli venissero affidati in via esclusiva ad uno dei due, il quale ne esercitava in concreto la potestà: al 95% si trattava della madre. L’altro genitore era il cosiddetto genitore non affidatario il quale, pur non perdendo la potestà genitoriale, aveva in concreto pochissime occasioni per esercitarla, se non quando il suo parere si rendeva necessario e vincolante per le scelte più importanti nella vita del minore, e, in sostanza, finiva con l’essere un genitore “finanziatore”. Egli, infatti, non partecipava alla crescita e all’educazione della prole, semplicemente versava all’altro genitore il contributo economico necessario al mantenimento dei figli e del resto poteva anche disinteressarsi senza che ne derivassero conseguenze giuridiche pregiudizievoli. Con l’aumento delle separazioni e dei divorzi, il padre stava diventando una figura sempre più evanescente all’interno delle famiglie divise e questo aveva generato un vivo dibattito non solo giuridico, ma anche sociologico e psicologico, sull’impatto che questa situazione di “padri assenti” avrebbe avuto sulle nuove generazioni. In questo spirito è stata elaborata la normativa sull’affidamento condiviso, con lo scopo di coinvolgere entrambi i genitori (ma soprattutto i padri) nell’educazione della prole, in base al principio della condivisione della responsabilità genitoriale, o principio di bigenitorialità.
Così è stato introdotto il principio secondo il quale i figli hanno diritto di trascorrere tempi adeguati con entrambi i genitori, in modo da superare quella consuetudine che si era andata consolidando nel tempo in cui c’era il genitore del tempo ordinario e quello del weekend e dei divertimenti. La nuova norma così recitava: “anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. In precedenza l’articolo era invece così formulato: “Il giudice che pronuncia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole…ecc.”.
Cos’è cambiato con l’introduzione della nuova disciplina in materia di affido condiviso? Dal punto di vista pratico non molto. Nel senso che i figli continuano ad avere una collocazione prevalente presso uno dei due genitori, nella maggior parte dei casi la madre, che è anche il genitore cui viene attribuito di solito il diritto di abitazione nella casa familiare (anche se non ne è proprietaria) fino all’indipendenza economica dei figli. Vi è, sì, normalmente, la previsione di una maggiore frequentazione dell’abitazione paterna da parte dei figli, che col padre dovrebbero trascorrere più tempo per essere accuditi anche da costui, ma non sempre la dilatazione dei tempi di permanenza col padre viene rispettata, nella maggior parte dei casi essa si riduce ad uno o due pasti serali in più.
Ciò che di rivoluzionario c’è stato, tuttavia, è un cambiamento nelle relazioni genitoriali. Nel senso che con l’introduzione del principio secondo il quale i figli hanno diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi i genitori (i quali entrambi esercitano sui figli una responsabilità condivisa), si è “obbligato” i genitori a comunicare fra di loro per continuare a crescere insieme i figli, e quindi a continuare ad esercitare insieme la funzione genitoriale.
Sembra facile, ma non lo è. Soprattutto quando un rapporto coniugale si interrompe nel conflitto tra i due. Com’è possibile, si chiedeva qualche interprete della prima ora, obbligare i genitori ad andare d’accordo sui figli, quando non vanno d’accordo su nulla? Quando sono in lite perenne, magari con denunce penali in corso?
La risposta della giurisprudenza non si è fatta attendere: anche se i genitori sono in conflitto si deve disporre l’affidamento condiviso dei figli minori, nel loro superiore interesse. Si sanciva, in sostanza, la separazione di concetti tra non essere un buon coniuge e non essere un buon genitore: colui che si era rivelato un coniuge inadeguato poteva non di meno essere un buon genitore, ed inoltre si voleva obbligare i genitori a non interrompere il legame genitoriale e quindi a tenere aperta (o magari aprire per la prima volta) la comunicazione relativa ai figli.
In questa situazione di condivisione “coatta” della genitorialità, i Consultori che tra i primi avevano attivato il servizio di Mediazione Familiare sono stati (e continuano ad essere) di grande aiuto alle coppie genitoriali separande o separate. Il nostro Consultorio ha attivato il servizio di M.F. poco dopo l’entrata in vigore della legge ed è stato gratificante lavorare con i genitori su questi nuovi valori che in qualche modo aprivano loro una nuova visione della famiglia, non convenzionale, ma comunque conservata nella sua funzione essenziale dell’accudimento e della crescita dei figli.
Con questa prima riforma è stato istituzionalizzato un nuovo modello di famiglia, fatto di figli e di genitori che non vivono più sotto lo stesso tetto, ma che continuano a collaborare nell’interesse dei figli.
Ecco servito dal Legislatore il primo importante cambiamento dell’idea di famiglia e della sua struttura, nell’ottica della salvaguardia delle relazioni.
La seconda rivoluzione nel diritto di famiglia arriva nel 2012 e riguarda i figli e la relativa responsabilità genitoriale.
Con la L. 219/2012 (10.12.2012) pubblicata nella G.U. n. 293 del 17.12.2012, il Legislatore italiano ha definitivamente equiparato il trattamento giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio e dei figli adottivi a quello dei figli legittimi.
È stata quindi sancita l’unicità dello stato giuridico di figlio, sicché d’ora innanzi i figli avranno gli stessi diritti e gli stessi doveri nei confronti dei loro genitori, nonché dei parenti del genitore, a prescindere dalla circostanza che la loro nascita sia avvenuta all’interno del matrimonio o al di fuori di esso.
Si tratta di una riforma storica, a più voci definita epocale; certamente rappresenta una rivoluzione culturale, che dà finalmente risposta alle tante attese sia della società civile sia degli operatori del diritto che da molto tempo auspicavano un intervento normativo che spazzasse via non solo la dicotomia terminologica tra figli naturali e figli legittimi, ma soprattutto eliminasse le molte discriminazioni tra le (allora) diverse categorie di figli.
Per comprendere l’importanza della riforma è sufficiente riflettere su questo dato: ogni anno in Italia il 23% dei bambini nascono fuori dal matrimonio, credo che questa sia un’esperienza ben conosciuta non solo a livello giudico, ma anche consultoriale.
Anche qui possiamo dire che è stato il cambiamento della società a produrre il cambiamento della normativa: non era possibile pensare che a carico di un bambino su quattro permanessero disparità di trattamento giuridico per il solo fatto di essere nato fuori dal matrimonio.
La l. 219/12 consta di sei articoli che modificano il codice civile i cui interventi sono ispirati al principio “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”, quindi “tutti i figli sono uguali”.
Ma la legge, all’art. 2, contiene anche un’ampia delega al Governo il cui termine di esercizio scadeva ad un anno dall’entrata in vigore della legge e cioè il 1° gennaio 2014: l’esercizio della delega è stato puntualmente svolto entro il termine, tanto che il 28 dicembre 2013 è stato approvato il D. Lgs. N. 154, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 8 gennaio 2014 n. 5.
Lo scopo della delega era quello di modificare tutte le disposizioni vigenti al fine di eliminare ogni residua discriminazione tra figli legittimi, naturali ed adottivi.
Esaminiamo brevemente alcune delle modifiche principali al Codice Civile, partendo dall’art. 74 c.c. intitolato “parentela”.
La norma è stata interamente riformulata ed è stata data una nuova definizione della nozione di parentela stabilendo espressamente che il vincolo di parentela riguarda le persone discendenti dallo stesso stipite, qualunque provenienza abbia il vincolo di consanguineità e anche nell’ipotesi in cui il vincolo discenda da un rapporto giuridico estraneo ad un legame di sangue.
La nozione di parentela dunque, prescinde dal legame biologico essendo estesa non solo ai figli nati fuori dal matrimonio ma anche a quelli minori di età adottati.
La parentela cui si riferisce l’articolo è non solo quella in linea retta ma anche quella in linea collaterale: questi figli saranno nipoti dei genitori dei propri genitori e nipoti dei fratelli e delle sorelle dei propri genitori, nonché cugini dei figli degli zii e così via…
(art. 74 c.c. nuovo testo: “La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti.”)
Anche per i figli incestuosi il Legislatore del 2012 compie un passo avanti nel percorso di eliminazione delle discriminazioni prevedendo che potranno essere riconosciuti previa autorizzazione del tribunale avuto riguardo al loro interesse e alla necessità di evitare loro pregiudizio. In tal modo si è inteso privilegiare i valori e i diritti della persona a ricostruire i legami e le relazioni, ed eliminare ogni forma di discriminazione con la parificazione di tutte le forme di filiazione, in attuazione ai principi costituzionali e alle norme internazionali.
L’art. 250 del c.c., prima della riforma, era intitolato al riconoscimento dei figli naturali. Con la riforma l’articolo è stato modificato eliminando l’aggettivo “naturale” e sostituendolo con “nato fuori dal matrimonio” poi invertendo l’ordine dei soggetti legittimati al riconoscimento (da padre-madre a madre-padre) poi ancora prevedendo l’abbassamento dai sedici ai quattordici anni quale soglia di età per l’assenso del figlio al riconoscimento e infine prevedendo che il consenso del genitore che ha effettuato per primo il riconoscimento è necessario per il figlio infraquattordicenne.
Vale a dire che il riconoscimento del figlio infraquattordicenne non potrà avvenire senza il consenso dell’altro genitore. La ratio di questi interventi va ricercata in primo luogo nell’abbandono di ogni forma di discriminazione, poi nella presa d’atto da parte del Legislatore che il processo di maturazione del minore avviene oggi in modo sicuramente anticipato e da qui la necessità di un maggiore coinvolgimento dello stesso nelle decisioni che lo riguardano, anche alla luce della legislazione sopranazionale che, com’è noto, attribuisce al minore il diritto ad essere ascoltato in tutti i procedimenti che lo riguardano (conv. New York art. 12 sui diritti del fanciullo ratificata in Italia nel 1989, e la Conv. Di Strasburgo del 25.01.1996 ratificata in Italia il 20.03.2003 sull’esercizio dei diritti del fanciullo).
In buona sostanza viene senza dubbio valorizzata la volontà del figlio minore di età.
(Art. 250 c.c. nuovo testo: “Il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente.
Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso.
Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento.
Il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio. Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315-bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262.
Il riconoscimento non può essere fatto dai genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età, salvo che il giudice li autorizzi, valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio.”)
Nella stessa direzione della valorizzazione dell’autodeterminazione e della maggiore consapevolezza del minore va letto l’ultimo comma dell’articolo in esame nel quale viene fatta un’apertura al riconoscimento del genitore infrasedicenne, che prima della riforma non era previsto.
Il divieto, infatti, non è più assoluto in quanto viene prevista la possibilità di ottenere l’autorizzazione al riconoscimento da parte del giudice “valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio”. Sebbene la procreazione in età adolescenziale non sia molto frequente il Legislatore ha voluto attenuare gli ostacoli all’esercizio della genitorialità, ed evitare l’avvio della procedura di adottabilità e la conseguente incertezza relativa allo status e all’identità personale del figlio. Intervenuta l’autorizzazione del giudice al riconoscimento da parte del genitore infrasedicenne, verrà impedita all’origine la procedura adottiva.
Circa un anno fa mi sono trovata proprio nella situazione di dover proporre molto velocemente un ricorso al Giudice Tutelare per una minore quindicenne, affidata ai servizi sociali, al fine di consentirle di riconoscere il bambino che aveva appena partorito. In effetti, i servizi avevano già attuato, nei fatti, la separazione del neonato dalla madre, impedendo a quest’ultima di vederlo in ospedale e di portarlo con sé all’atto delle dimissioni. La ragazzina era molto determinata a volersi tenere il figlio per poterlo accudire e crescere da sé. In questa occasione la legge recentemente varata, che ha derogato al limite d’età assoluto (16 anni) per poter riconoscere il figlio, mi è tornata molto utile e la ragazzina è stata la prima minore infrasedicenne della provincia ad avvalersi della normativa e a poter riconoscere il figlio. Ottenuta molto velocemente l’autorizzazione da parte del Giudice Tutelare, il quale ha ritenuto che il riconoscimento andasse nella direzione dell’interesse del neonato, la minore, quindicenne, in seguito al riconoscimento, ha potuto andarsi a prendere il figlio in ospedale per portarlo con sé.
Veniamo ora ad esaminare molto rapidamente l’ art. 315 c.c.
La disposizione in esame, prima dedicata ai doveri dei figli verso i genitori, con la nuona legge viene riformulata già nella rubrica che ora si chiama “Stato giuridico della filiazione”. L’art. 315 c.c. sancisce espressamente: “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”.
La portata innovatrice della disposizione consiste nell’introduzione di una condizione unitaria di figlio, senza più alcuna distinzione né nominale né sostanziale tra le varie categorie di figli. Con tale norma è stato proclamato il principio di parità assoluta tra figli naturali, legittimi ed adottivi.
Ed eccoci giunti, infine, al nuovo statuto dei diritti e dei doveri del figlio, contenuto nell’art. 315 bis c.c.
Questa è una nuova norma, introdotta con la legge 219/12. In essa è stato trasfuso l’intero contenuto del vecchio art. 315 c.c., relativo prima solo ai doveri del figlio verso i genitori, inserendo nella nuova disposizione la previsione organica dei diritti del figlio, cosicché, ora, la stessa rappresenta, come anticipato, un vero e proprio statuto dei diritti e dei doveri del figlio.
(art. 315-bis c.c.: “ Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”).
Interessante, al primo comma l’introduzione del principio del diritto del figlio ad essere assistito moralmente dai genitori.
Il diritto all’assistenza morale era già contemplato nel nostro ordinamento come obbligo coniugale nell’art. 143 c.c., tuttavia, la circostanza che il Legislatore lo abbia previsto espressamente, inserendolo nell’elencazione relativa ai diritti del figlio, è molto importante e significativo considerata la sempre maggior frequenza di casi di disinteresse affettivo dei genitori verso i figli.
L’assistenza morale è stata dunque elevata al rango di diritto del figlio, conferendole una valenza corrispondente al soddisfacimento delle stesse esigenze materiali dei figli.
Altro diritto del figlio inserito nella presente disposizione e non riconosciuto finora come diritto vero e proprio, se non nelle legge speciale sull’adozione 183/1984 (così come modificata dalla l. 149/2001) è il diritto a crescere in famiglia. Trattasi di diritto che la migliore dottrina ha qualificato come diritto soggettivo assoluto e come tale tutelabile erga omnes. Il Legislatore ha quindi voluto proclamare solennemente che il distacco del bambino dalla propria famiglia è giustificabile solo se le carenze del proprio nucleo familiare siano tali da poter arrecare pregiudizio al minore, e l’interesse del minore a crescere nella sua famiglia deve essere perseguito anche a costo di impegnare le strutture sociali, con azioni di sostegno non solo economiche ma anche di ordine psicologico e pedagogico.
Tra i vari principi contenuti nella delega al Governo troviamo quello di rimodellamento del concetto di potestà genitoriale che viene adeguato al lessico psicologico-giuridico moderno, delineando il concetto di responsabilità genitoriale, così da porre l’accento sull’aspetto di cura, piuttosto che di potere sul minore.
Un rapido excursus storico aiuterà a capire la portata dell’evoluzione, del cambiamento nel concetto di potestà. Il legislatore del 1942, riconobbe il “carattere pubblicistico” dell’istituto della patria potestà e in esso vide la “affermazione del principio giuridico della sottoposizione dei figli al potere familiare dei genitori” in questo modo riaffermando il rapporto potestà-soggezione, nel solco della tradizione romanistica.
Fu la Legge n. 151/1975 di riforma del diritto di famiglia a modificare, già nell’intestazione, il titolo IX del libro I del Codice Civile. Da lì in poi non si sarebbe più potuto parlare di “patria” potestà, bensì di potestà “genitoriale” (cioè una potestà condivisa da entrambi i genitori secondo un modello paritetico) che diventava così esercizio di una funzione, di un munus diretto a realizzare gli interessi della prole e non quelli di chi ne fosse investito.
La legge delega del 2012 aveva previsto che la rubrica del titolo IX fosse sostituita dalla seguente “Della potestà dei genitori e dei diritti e doveri del figlio” e nell’enunciare i principi e criteri direttivi cui si sarebbe dovuto attenere il legislatore delegato, assegnava al Governo di provvedere, con decreto, alla “unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, delineando la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale”.
Quindi, ove la delega fosse stata scrupolosamente osservata, avremmo, oggi, il mantenimento della locuzione “potestà dei genitori” ed una configurazione della responsabilità genitoriale “quale aspetto della potestà dei genitori”. Il legislatore delegato, invece, ha varcato il confine fissato nella delega.
Eccedendo rispetto alle indicazioni il Governo ha, infatti, disposto la modifica della rubrica del titolo IX, ora intitolato “Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”.
Ma il Governo si è spinto anche oltre, facendo scomparire il riferimento alla potestà dal Codice Civile e di Procedura Civile (articolo 709 ter), dal Codice penale e di Procedura Penale.
Vi è da dire che l’espressione parental responsibility figurava già in numerose fonti internazionali, ben prima di questa riforma. Il decreto delegato ha inteso farsi carico di una simile evoluzione giuridica.
A livello di diritto internazionale, la locuzione responsabilità genitoriale era già apparsa nella Dichiarazione ONU dei diritti del fanciullo approvata il 20 novembre 1959.
La modifica terminologica, come spiega la relazione al decreto, intende assumere una diversa visione prospettica dei rapporti genitori-figli, alla luce della quale occorre porre in risalto l’interesse superiore dei figli minori e non quello dei genitori investiti della responsabilità genitoriale. Detto altrimenti, con le efficaci parole del prof. Francesco Ruscello, potrebbe dirsi che “con la nuova formulazione linguistica si abbandonerebbe l’idea asimmetrica e adultocentrica del rapporto genitori-figli a vantaggio di una idea improntata all’eguaglianza di diritti e di doveri e più marcatamente puerocentrica”.
Anche in questo particolare aspetto delle relazioni genitori-figli il Legislatore ha recepito, e non poteva essere altrimenti, il cambiamento in atto nella società, una società in cui i figli sono divenuti destinatari di diritti, molto più che di doveri, e quindi titolari di relazioni diremmo quasi “tra pari” con i loro genitori, i quali ultimi hanno il dovere di esercitare responsabilmente le loro funzioni a tutela di una crescita equilibrata dei figli, non solo dal punto di vista economico, ma anche psicologico e morale.
Il terzo importante cambiamento avvenuto nell’ambito del diritto di famiglia che segna la strada del perseguimento del diritto alla ricostruzione dei legami e delle relazioni nell’ottica della tutela dei diritti dell’individuo, riguarda la possibilità per l’adottato di conoscere le proprie origini. Va detto che ancora non c’è se non una proposta di legge unificata, approvata dalla Camera il 18 giugno del 2015; tuttavia l’intervento importante è venuto dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 278 del 2013.
Originariamente, la legge sulle adozioni (Legge n. 184 del 1983) prevedeva che il minore adottato entrasse a far parte giuridicamente di una nuova famiglia con il presupposto però che fosse mantenuto il segreto sulle sue origini.
Il legislatore italiano, a seguito della legge (27 maggio 1991, n. 176) di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989, ha cercato di accordare una maggiore tutela all’interesse dell’adottato a conoscere le proprie origini, pur non dimenticando la relazione conflittuale tra questo interesse e quello dei genitori naturali e adottivi. Infatti, con la legge n. 149 del 2001, ha modificato la disciplina sulla segretezza dell’adozione prevista dalla legge 184/1983 e introdotto, attraverso la novella dell’art 28, la possibilità, se pur a determinate condizioni, per la persona adottata di accedere alle informazioni riguardanti l’identità dei genitori naturali, al fine di tutelare la fondamentale esigenza dell’adottato di ricostruire la propria identità personale.
L’articolo 28 della “legge sulle adozioni” riconosce quindi, da un lato, il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini e l’identità dei propri genitori biologici, dall’altro, prevede un limite insuperabile all’informativa, radicalmente esclusa nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata. Si tratta della cosiddetta possibilità di assicurare il “parto in anonimato” o “parto anonimo”, pensata con il fine di tutelare il più possibile la salute della madre e la vita del nascituro, consentendo alla donna di partorire nella piena riservatezza, ma anche con la migliore assistenza all’interno delle strutture ospedaliere. Solo in questo caso, quindi, il segreto sulla avvenuta maternità è protetto dalla regola dell’inaccessibilità, per cento anni, alla documentazione relativa al parto (ai sensi dell’art. 93 del Codice della Privacy).
Ed è proprio questo il punto ritenuto incostituzionale dalla Consulta: la madre anonima non può essere conosciuta dal figlio così partorito, il quale poi sia stato dato in adozione.
Il diritto di poter rintracciare le proprie “radici” è già, peraltro, riconosciuto dal diritto internazionale: dalla già citata Convenzione sui diritti del fanciullo, già citata, dalla Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, firmata all’Aja il 29 maggio 1993 e dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950.
Al di là dei principi, pensiamo a come sia facile oggigiorno per un ragazzo o anche per un adulto, accedendo alle informazioni più svariate tramite internet, i social ma anche partecipando ad alcune trasmissioni televisive, fare ricerche per giungere a conoscere le proprie origini. In alcuni casi la scoperta è avvenuta proprio così. Per chi non lo sapesse in Facebook c’è un sito che si intitola “Figli adottivi cercano genitori biologici”. E lì, chi è alla ricerca delle proprie origini, posta foto, e pubblica informazioni atte a farsi riconoscere dai genitori naturali. Ricordiamo che secondo alcuni dati, un figlio adottato su tre ritrova “on line” la propria famiglia d’origine. E con questa nuova realtà di connessione globale, che consente l’accesso ad informazioni un tempo impensabili, devono fare i conti tutti: sia i genitori adottivi, sia quelli naturali sia, infine, le istituzioni.
Comunque, tornando all’aspetto più prettamente giuridico, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 278 del 2013 si è occupata del problema del bilanciamento tra i due valori in conflitto: il diritto all’anonimato della madre e il diritto a conoscere le proprie origini del figlio. Nella sua pronuncia, la Corte ha sancito che tra i due valori debba prevalere la tutela dell’anonimato della madre volto, da un lato, ad assicurare che il parto avvenga nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio e, dall’altro, a «distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi». La salvaguardia della vita del neonato e della salute della madre sono quindi ritenute preminenti rispetto al bisogno del figlio di conoscere le proprie origini. Tuttavia, la pronuncia della Corte segue il solco tracciato dalla decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (decisione 25 settembre 2012, Godelli c. Italia– La signora era nata a Trieste nel 1943 e fu abbandonata dalla madre biologica, la quale non volle rendere nota la propria identità. All’età di sei anni, venne costituito un rapporto di “affiliazione” tra la bambina e i coniugi Godelli. All’età di dieci anni, la bambina apprese di non essere la figlia biologica dei coniugi Godelli, e chiese notizie sulle proprie origini, senza avere risposta. Questa signora sosteneva di aver avuto un’infanzia molto difficile per l’assenza di informazioni sulle proprie origini. Nel 2006 richiese all’ufficio di stato civile del comune di Trieste dei ragguagli, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 184 del 1983, ma nell’atto di nascita il nome della madre biologica non appariva perché quest’ultima aveva deciso di non rendere nota la propria identità. Il tribunale dei minorenni di Trieste rigettò la sua domanda di rettificazione dell’atto di nascita , in quanto il diniego della madre biologica impediva di divulgarne l’identità. La Corte d’appello confermò la pronuncia del tribunale, affermando che il divieto posto dall’art. 28 comma 7 della legge corrispondeva anche ad un interesse pubblico), che ha ritenuto che la legislazione italiana violasse i principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo per una tutela dell’anonimato della madre giudicata non equa, in quanto non adeguatamente bilanciata con il diritto del figlio adulto, pur se adottato da terzi, di avere informazioni sulle sue origini familiari. Pertanto la Corte Costituzionale, nel riconoscere la disciplina attuale troppo rigida nella parte in cui non prevede la possibilità di ripensamento della madre in relazione alla scelta dell’anonimato, ha ritenuto incostituzionale la parte della normativa che non prevede, attraverso un procedimento stabilito dalla legge, la possibilità per il giudice di interpellare la madre, su richiesta del figlio, al fine di un’eventuale revoca della dichiarazione di non volere essere nominata.
La sentenza non ha quindi intaccato il diritto alla riservatezza della madre, ma ha posto in capo al legislatore il compito di individuare un percorso che, da un lato, possa consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non volere essere nominata, dall’altra, a cautelare in termini rigorosi il diritto all’anonimato.
In attesa dell’approvazione di una legge da parte del Parlamento, i Tribunali per i Minorenni hanno ritenuto immediatamente applicabile la sentenza della Corte Costituzionale, riconoscendo nel procedimento di cui all’articolo 28 della “legge sulle adozioni” il percorso utilizzabile. Ad oggi, quindi, per il tramite dei Tribunali per i Minorenni, su istanza dei figli adottati non riconosciuti, le madri che hanno deciso di partorire in anonimato possono già essere interpellate dal giudice in merito alla perdurante volontà di ribadire o meno la scelta fatta in passato.
Nel giugno del 2015, come già accennato, la Camera ha approvato in prima lettura un testo risultante dall’accoglimento di alcuni emendamenti presentati in Aula.
In questo testo l’ente individuato per l’attività di mediazione tra figlio e madre naturale è proprio il Tribunale per i Minorenni il quale, con modalità che assicurino la massima riservatezza, avvalendosi preferibilmente del personale dei servizi sociali, contatta la madre per verificare se intenda mantenere l’anonimato.
Al fine di garantire che il procedimento si svolga con modalità che assicurino la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della madre, si chiede che il Tribunale tenga in adeguato conto, in particolare, dell’età e dello stato di salute psicofisica della madre, delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali. Se la madre conferma di voler mantenere l’anonimato, il Tribunale per i minorenni può autorizzare l’accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all’eventuale presenza di patologie ereditarie trasmissibili.
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Conclusivamente, si può osservare come il diritto di famiglia stia rapidamente innovando i propri istituti giuridici di pari passo con l’accelerazione dei cambiamenti che stanno avvenendo all’interno della famiglia e della società e che questi cambiamenti, pur nel rispetto dei principi costituzionali, recepiscono l’essenza dell’istituto familiare costituito da relazioni tra le persone, perché è di questo che è costituita la famiglia. Quindi il fulcro dell’intervento normativo del legislatore non è più la salvaguardia della famiglia come “Istituzione”, ma le relazioni umane intese come legami che, se adeguatamente tutelati nella loro integrità, anche oltre il permanere dell’Istituto familiare stesso, costituiscono una ricchezza per l’individuo.