Gruppo di donne immigrate perdita, accoglienza e adattamento al nuovo

Gruppo di donne immigrate

 

“Perdita, accoglienza e adattamento al

nuovo”

 

 Autrice: Elena Santini

 

 

 

 

 

L’idea di costituire un gruppo di donne immigrate nell’ambito dei servizi educativi e psicologici promossi dall’Istituto La Casa è nata dai docenti di una scuola di italiano per stranieri, operante nella nostra zona con finalità, oltre che propriamente linguistiche, di supporto ai disagi dell’immigrazione e al processo di adattamento al nostro contesto sociale. I docenti avevano osservato la tendenza a formare, all’interno della comunità scolastica, piccoli gruppi omogenei per paese di provenienza, chiusi e autoreferenziali, a scapito del confronto e della comunicazione tra culture diverse e soprattutto della cooperazione e dell’auto-aiuto nell’affrontare le difficoltà della vita da immigrato. Di qui la richiesta al nostro Consultorio di organizzare un gruppo di donne (l’utenza della scuola è prevalentemente femminile) di provenienza eterogenea, che favorisse la formazione di una rete relazionale suscettibile d’essere trasferita al di fuori del gruppo stesso, in primo luogo nell’ambito scolastico. Abbiamo quindi organizzato un gruppo di otto donne appartenenti a tre comunità straniere – Sudamerica, Europa dell’Est, Egitto – già da tempo radicate in Italia, con culture, visioni del mondo e storie personali diverse.

Anche le motivazioni della scelta migratoria erano diverse: accanto ad ingressi solo femminili di donne costrette a lasciare la famiglia, e a volte anche i figli, e a migrare per ragioni economiche, sono entrate nel gruppo due donne, una proveniente dall’Est europeo e una dall’Egitto, “ricongiunte” al marito insieme ai figli nati nel paese d’origine. Il gruppo si è riunito per sei incontri di due ore ciascuno, più un incontro iniziale di presentazione del lavoro, dei suoi scopi e delle modalità con cui ci saremmo trovate insieme. La gestione del gruppo era affidata a uno staff formato da un’assistente sociale esperta nelle problematiche dell’immigrazione, una consulente familiare con funzioni di stimolo e osservazione delle dinamiche emerse e una mediatrice linguistica-culturale, messa a disposizione dalla scuola. La costituzione del gruppo ci ha posto di fronte a problemi per noi inusuali, inerenti sia il metodo sia i contenuti.

 

 

Sul versante metodologico la variabile più rilevante era rappresentata dalla mancanza di una domanda esplicita da porre all’utenza, reperita dai docenti tra le allieve frequentanti i corsi di italiano che si stavano svolgendo in quel momento. Se i committenti avevano ben chiari i motivi e lo scopo della loro richiesta, le donne disponibili a entrare nel gruppo sembravano ancorate a una visione diversa dei loro bisogni e di come rispondervi.

A questo proposito, invitate nel corso dell’incontro preliminare a individuare i temi più urgenti che avrebbero voluto trattare in gruppo, hanno tutte, con una sola eccezione, fatto riferimento a questioni di tipo pratico: trovare un lavoro meno aleatorio e meglio retribuito, una casa più grande e confortevole e una via di accesso più agevole e più rapida alle istituzioni pubbliche che si occupano di immigrati.

Nelle loro attese, il gruppo doveva avere carattere preminentemente assistenziale ed essere un canale per trovare il modo di ottenere quello che le istituzioni tardavano a dare. “Credevo – dice con espressione pittoresca una partecipante – che il gruppo potesse essere un supermercato a prezzi discount”. Senza minimizzare l’importanza delle esigenze espresse, banalizzandole o incasellandole nel modello ben moto dell’emigrato che ha molte pretese e poche responsabilità, ci siamo trovati nelle condizioni di trasformare una iniziale domanda di tipo passivo – cosa posso ottenere di più dal paese ospitante – in una di tipo attivo – quali strategie posso mettere in atto per un miglior adattamento alla nuova realtà che mi circonda. Il gruppo doveva, in altri termini, cambiare orientamento e diventare, da ricettacolo di rivendicazioni e bisogni insoddisfatti, un luogo dove poter mettere insieme le energie per trovare un nuovo rapporto con il mondo e con se stessi. Come ottenere questa modifica?

 

 

 

Ci siamo interrogati sul modo di utilizzare i nostri strumenti di lavoro per raggiungere l’obiettivo prefissato, cercando nel contempo di mantenere un equilibrio dinamico tra momento “passivo” e momento “attivo”. A questo scopo abbiamo individuato due elementi caratteristici. Il primo riguarda la conduzione del gruppo, che ha visto il venir meno della divisione tradizionale di funzioni tra chi sollecita, verbalizza e interpreta il materiale prodotto dal gruppo, che appartiene all’area psicologica, e chi, spinto da urgenze di varia natura, dà risposte pratiche, che appartiene all’area dell’intervento sociale. Nel nostro gruppo si è andata affermando una diversa modalità operativa, improntata a un libero scambio di informazioni tra conduttori, partecipanti e mediatrice culturale: ognuno dà il suo apporto, fa la sua proposta e si confronta con l’altro, in un clima di ricerca comune che cancella la differenziazione tra il “fare”, il “comprendere” o semplicemente il “tradurre”. Anche la mediatrice culturale non è riuscita a mantenere la distanza dalla vita del gruppo, ma ha dato un contributo di suggerimenti e, su un piano più personale e affettivo, di ricordi e racconti in diretta, divenuti parte integrante dei contenuti osservati.

 

 

Un secondo elemento caratterizzante è stata la scelta del luogo dove tenere gli incontri e del clima emotivo che doveva accompagnarne lo svolgimento. Tenendo conto di ciò che le partecipanti si aspettavano da noi e delle inevitabili frustrazioni che ne sarebbero derivate, abbiamo cercato di organizzare un’accoglienza calda e ospitale che permettesse di sperimentare da subito, in un contesto protettivo, i temi della nostalgia del proprio paese e del rapporto della nuova realtà dei quali avremmo poi parlato. Gli incontri si sono tenuti in un locale di dimensioni ridotte ma “gradevole” e luminoso e quasi interamente occupato da un grande tavolo attorno al quale prendevamo posto come per un banchetto. Il clima doveva rimandare alla dimensione della convivialità e a questo scopo ogni incontro si apriva con l’offerta di the e pasticcini tipici dell’Italia e dei paesi d’origine delle partecipanti, confezionati, questi ultimi, ad hoc dalle allieve della scuola. Il cibo diventa motivo di scambio: ognuno parla della propria terra e delle sue eccellenze e nello stesso tempo parla di sé e della famiglia che ha dovuto lasciare e impara a conoscere l’altro nella condivisione di “cose buone”. I discorsi assumono, con una certa frequenza, i toni di una piacevole chiacchierata tra amici o, per usare il termine proposto da una conduttrice sulla scia del ricordo di un film di Zeffirelli, di “un the con le amiche”.

La convivialità facilita il passaggio alla fase, più intensa e impegnativa, del lavoro di gruppo che è guidato, in modo sempre flessibile e consono alle esigenze della situazione, da una consegna precisa: quella di parlare insieme delle proprie esperienze di emigranti, dal momento del distacco dal proprio a quello dell’ingresso e del successivo adattamento al paese ospitante.

Compito del gruppo è di mettersi insieme a ricordare, riaffermare le proprie radici, riconoscere il trauma della migrazione e dei suoi effetti e le ansie e le difficoltà che si accompagnano all’inserimento nel nuovo ambiente. L’ipotesi teorica che sta alla base della consegna è che la migrazione è un cambiamento che comporta separazioni, rottura e strappi. “La perdita di oggetti è massiccia e include quelli più significativi: persone, case, luoghi, lingua, culture e costumi, clima, a volte professione e ambiente sociale, tutte cose cui sono legati ricordi e affetti” e che contribuiscono alla costruzione della propria identità e alla definizione del sé (Grinberg, Identità e cambiamento, 1992). Il cambiamento è sempre un momento di crisi e la crisi comporta la necessità di ripensare e di assumere nuovi ruoli. “Nel mio paese – ricorda una partecipante – godevo di una situazione di relativo benessere. Poi sono sopravvenuti gravi dissesti finanziari e ho dovuto emigrare per dare un futuro a mio figlio. Qui ho trovato lavoro come badante. Agli inizi continuavo a ripetermi: eri una signora bene e adesso sei una sguattera. Non mi riconoscevo più”.

 

 

 

 

 

Il cambiamento può alterare o indebolire il legame con le culture di riferimento e i suoi modi di intendere l’individuo e la famiglia e mettere in contatto con altre convinzioni e altri valori, magari vissuti come migliori, ma diversi e perciò ancora ignoti e carichi di imprevisti. “Nel mio paese vivevo, come d’usanza, nella famiglia di mio marito, una grande famiglia invadente e oppressiva che mi toglieva il fiato. Il ricongiungimento con mio marito in Italia è stato liberatorio. Qui ho scoperto il piacere dell’autonomia familiare e abitativa. Però a volte mi sono sentita insicura soprattutto nella cura dei bambini. Mi chiedevo: Che cosa devo fare? Chi mi può dire che sto facendo le cose giuste? Inoltre ho scoperto che mio marito non più rassicurato dal controllo esercitato dai suoi familiari, è molto geloso ed entra in ansia ogni volta che ritardo a rispondere alle sue telefonate. Non me lo aspettavo”.

Infine il cambiamento stimola la tendenza ad aggrapparsi a ciò che è conosciuto e familiare e agli strumenti che ogni cultura fornisce a difesa della propria immagine sociale minacciata dal venir meno del gruppo sociale originario che la appoggia e la conferma. Una donna egiziana di religione musulmana, impiegata in Italia come badante, indossa, contrariamente a quanto faceva nel suo paese, il velo e ampi abiti di foggia araba: “Mi vesto così perché tutti possano capire dove sono nata e cresciuta e a chi appartengo. Se mi vestissi all’occidentale, come facevo a casa mia, qui mi sentirei nuda”. Se la crisi indotta dalla migrazione si accompagna a lacerazioni e lutti, essa però, al pari di tutte le altre esperienze che connotano – dalla nascita all’invecchiamento – il nostro ciclo di vita, può essere percepita anche come occasione di crescita e di nuovi apprendimenti, a patto che si incontrino luoghi dove sia possibile elaborare le perdite e ristabilire nuovi equilibri. Il gruppo è il luogo privilegiato in cui il processo di crescita può rimettersi in moto. Infatti aiuta l’immigrato a contenere le ansie suscitate dall’urto della novità e ad abbandonare gli arroccamenti difensivi che inibiscono la capacità di apprendere dall’esperienza di vita e di modificarsi.

Nel gruppo è possibile confrontarsi con schemi di pensiero differenti, coniugare il proprio sapere con quello degli altri e trovare nuove opportunità di identificazione, dando avvio, attraverso il gioco delle reciproche attribuzioni, a un processo di riappropriazione della propria identità mutata (Pichon-Riviere, Il processo gruppale, 1986). Il nostro gruppo, ispirato al modello teorico che ho qui brevemente delineato, ha, sia pure in misura ridotta e con andamento discontinuo, svolto questi compiti, seguendo un percorso che si articola essenzialmente in due fasi. Nella prima fase prevalgono sentimenti d’incertezza e diffidenza, attivati dalla proposta di parlare insieme delle proprie esperienze di migranti e forse anche del contatto con conduttrici che, rappresentando il paese ospitante, avrebbero potuto non comprendere e accettare i disagi e i bisogni espressi. “Non so se può capire, lei è estranea, appartiene a un mondo diverso dal mio” è una delle frasi ricorrenti nelle prime comunicazioni del gruppo. Indubbiamente noi ci siamo avvicinate al “loro mondo” con convinzioni e stereotipi mutuati dalla nostra cultura e che ci predispongono a leggere la realtà dell’immigrazione in modo spesso riduttivo e schematizzato.

Ad esempio, ci aspettavamo che le donne egiziane, in accordo al cliché che vuole la donna araba riservata e discreta in pubblico, fossero le più reticenti a parlare di sé nel gruppo; al contrario, sono state quelle che si sono maggiormente esposte, portando più ricordi, riflessioni e sentimenti, e accettando di rivivere i momenti critici della loro storia anche con chi non apparteneva alla loro comunità.

Gli incontri iniziali sono caratterizzati anche da modalità difensive di attacco verso di noi e il paese ospitante. “Lei pensa che siccome sono araba allora sia un terrorista? Qui tutti la pensano così”. Tra le donne di più recente immigrazione la recriminazione è un tema ricorrente. Si denunciano le inadempienze sociali: “Che cosa aspettano a darmi una casa più grande?”; l’ottusità delle istituzioni e l’indifferenza del mondo del lavoro –“Voglio solo un lavoro decente, ma quando lo chiedo mi guardano tutti con fastidio”.

 

 

 

La convinzione di venire rifiutati o trascurati, unita all’espressione della rabbia che ne consegue, inizia a ridimensionarsi quando una conduttrice, utilizzando se stessa come persona che ha fatto fatica a realizzarsi, apre uno spazio di riflessione sugli inevitabili conflitti tra i progetti di vita e le delusioni che la realtà impone e sollecita il gruppo a interrogarsi su quali opportunità di intesa e di relazione si possano individuare in un mondo che, per certi versi, ha difficoltà a prestare ascolto alle molteplici richieste di aiuto degli immigrati. Queste osservazioni, accolte e fatte proprie dai partecipanti, permettono di transitare verso una seconda fase del percorso del gruppo in cui, indebolite la rabbia e la persecutorietà, prevalgono la condivisione dei problemi e la ricerca di soluzioni, in un processo significativo di integrazione tra risorse personali, comunità dei connazionali e servizi operanti sul territorio o messi a disposizione dalla scuola. Una donna dell’est europeo, con una figlia di pochi mesi, manifesta una grande sofferenza perché, da poco ricongiunta al marito, deve di nuovo separarsi da lui che per sei mesi andrà a lavorare in Asia: “ Cosa farò da sola? Mi sento sospesa nel vuoto”. La sua sofferenza viene presa in carico dal gruppo: innanzitutto con un ascolto colmo di interesse e partecipazione e poi con l’indicazione degli strumenti che avrebbe potuto utilizzare (asilo nido, consultorio familiare, gruppi parrocchiali) per affrontare la sua solitudine. Il vuoto così si anima di una moltitudine di figure amiche e si crea una rete femminile di sostegno, sostitutiva della famiglia – quella originaria e quella coniugale – assente. In uno degli incontri conclusivi del gruppo una donna egiziana segnala la sua assenza la volta successiva perché tornerà a casa per un periodo di vacanza. L’annuncio della sua prossima partenza introduce nel gruppo il tema del ritorno e della nostalgia. Si ricordano i parenti e gli amici lontani, le feste di famiglia, le luci, i colori e i suoni della propria terra che, attraverso il filtro della memoria, appare come un eden, un luogo ancora incontaminato dalla bruttezza e dal dolore.

Nel gruppo si diffonde un clima depressivo da lutto e il lutto viene progressivamente elaborato quando cade la scissione tra il “qui” e il “là” e si cercano incroci e punti di convergenza tra il vecchio e il nuovo. Allora si crea una linea di discontinuità tra le tre dimensioni temporali in cui si snoda la nostra vita: il passato si lega al presente e il presente si apre al futuro. “Al mio paese le cose non andavano bene. Qui sono un po’ diverse da come me le aspettavo, ma chissà che in futuro non succeda qualcosa di bello”.

Il passato, con i suoi limiti e a volte i suoi drammi, conduce al presente e il presente, pur con le sue difficoltà e le sue promesse disattese, alimenta un futuro ricco di nuove speranze e nuovi obiettivi. Il gruppo esce così da un’iniziale condizione di staticità, in cui il ricorso a luoghi-rifugio che replicano il passato serve a evitare l’impatto con la novità, e con il ricupero della capacità di stabilire contatti attivi con la realtà esterna e di progettarsi evolve verso un futuro che tutti ci auguriamo davvero migliore.

 

Elena Santini

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