Dare parole al disagio: il ruolo preventivo della scuola

Autore: Paolo Breviglieri

Dare parole al disagio: il ruolo preventivo della scuola

          I frequenti fatti di cronaca che ci riportano episodi di forte disagio e di esplosioni comportamentali nella fase preadolescenziale, ci colpiscono e ci interrogano profondamente. Se da un lato questi fenomeni appaiono accompagnati da situazioni sociali e psicologiche molto difficili e già facilmente individuabili, altre volte sembrano scaturire da condizioni emotive e ambientali apparentemente normali o “sotto soglia”; in alcuni casi vediamo ad esempio che un malessere espresso in forma abbastanza contenuta e comune, dà poi la carica e la stura per comportamenti dirompenti.  In effetti, se pensiamo alle situazioni che talvolta vivono gli adolescenti quali atti di autolesionismo, episodi di aggressività, momenti di depressione o ansia non sempre questi aspetti sono strettamente connessi con un disturbo psichico che si manifesta in modo stabile e riconoscibile. Questi disagi interrogano i genitori, gli educatori e gli stessi insegnanti che di fronte ad essi si pongono la domanda se appartengono a manifestazioni “fisiologiche” e quindi temporanee o al contrario sono le spie di un imminente tracollo psichico o comportamentale. Riuscire a discriminare questi aspetti è molto difficile e talvolta francamente impossibile in quanto dobbiamo mettere in conto che la fase adolescenziale è caratterizzata da una tendenza al passaggio all’atto e all’impulsività che rende molto più probabile il verificarsi di esiti comportamentali improvvisi.

          Questi aspetti della fase evolutiva preadolescenziale e adolescenziale sono stati ampiamente confermati anche dagli studi neurofisiologici che hanno evidenziato come il processo di maturazione del cervello si possa considerare concluso solo attorno ai 25 anni e come quindi, nelle fasi precedenti, possano presentarsi modalità di funzionamento particolari, quali ad esempio la ricerca accentuata della gratificazione immediata, la difficoltà di controllo emotivo, la capacità di immaginare le conseguenze delle azioni o di pianificarle a lungo termine. In particolare, la corteccia prefrontale, deputata all’integrazione delle diverse reti cerebrali, alla funzione delle capacità empatiche e alla previsione del comportamento altrui, giunge a completare il suo sviluppo solo nella tarda adolescenza. In questa condizione evolutiva quindi la possibilità di fare previsione può essere più difficile, nello stesso tempo però non possiamo esimerci dallo sforzo di intercettare i disagi presenti nei ragazzi e tentare di elaborarli e contenerli attraverso diversi dispositivi educativi, relazionali, terapeutici.

In questa breve riflessione vorrei portare l’attenzione su quali potrebbero essere dei fattori protettivi e preventivi presenti nell’ambito scolastico. Ritengo infatti che la scuola costituisca per certi aspetti una “seconda famiglia” sociale per i ragazzi in quanto in essa sono presenti tutti gli ingredienti necessari e fondamentali per proseguire il percorso evolutivo impostato nella famiglia. La scuola è luogo di relazione tra pari, luogo di confronto con adulti, ambito di impegno e di sperimentazione di sé nei confronti di un compito, ambito di fondamentale rispecchiamento della propria identità, del proprio valore, delle proprie potenzialità. In questo senso la scuola ha enormi potenzialità e nello stesso tempo può vedere al suo interno il generarsi anche di significative sofferenze nei ragazzi: pensiamo ad esempio ai fenomeni di bullismo, di isolamento, di insuccesso scolastico, al senso di inferiorità che talvolta i ragazzi vivono nel confronto con gli altri.

          Mi pare che un primo dispositivo che possa essere ipotizzato in senso preventivo è costituito da un momento in cui la classe ha modo di esprimersi in merito ai disagi o alle esperienze emotive che ciascun ragazzo sperimenta. Questa attività è stata denominata con più termini, tempo del cerchio, gruppo di parola, tra questi mi piace particolarmente l’espressione Cerchio della Fiducia.

          Si tratta di una pratica che può essere svolta con una certa periodicità da un insegnante che ha la funzione di guidare e moderare il gruppo. Le regole che il gruppo deve fare proprie sono molto semplici: l’ascolto e il rispetto di ciò che ciascuno dice, l’impegno a tenere riservato ciò che viene detto e l’impegno ad ascoltarsi senza disprezzare o a prendere in giro i compagni. Gli obiettivi che questo momento permette di raggiungere progressivamente sono molteplici:

  1. Aiutare i ragazzi ad esprimersi e a mettere in parole stati emotivi o situazioni personali, che possono creare tensione e angoscia
  2. Consolidare il senso di appartenenza e di coesione nel gruppo classe che può essere percepito come un luogo di protezione e di libertà di espressione;
  3. Aiutare i ragazzi a sentirsi “simili nella loro diversità”, ovvero tutti accomunati da momenti di maggiore/minore benessere, momenti di insicurezza che possono riguardare diverse situazioni ma che sono sempre molto frequenti alla loro età.
  4. Questo aspetto è molto significativo in quanto frequentemente i ragazzi soffrono della sensazione di essere gli unici ad avere difficoltà interne e questo fatto accresce enormemente il loro senso di insicurezza;
  • Promuovere nei ragazzi un atteggiamento di responsabilizzazione nei confronti dei loro disagi, evitando di ripiegare in un tunnel di fatalismo o vittimismo. Di fronte ai problemi sia relazionali che emotivi è importante insegnare ai ragazzi che vi sono sempre diverse opzioni di scelta, e che in ogni modo occorre ricercare attivamente delle soluzioni o degli adattamenti. Questa fase di “problem solving emotivo e sociale” può essere assunto anche dai compagni che in modo libero possono scambiarsi suggerimenti ed idee.

          La conduzione di questi momenti può essere gestita da uno o più insegnanti sensibili e formati, con un eventuale supporto esterno sia nella fase dell’avvio che in quella del suo funzionamento ordinario.

          Non poter parlare dei propri problemi, sentirsi diversi, isolati, sprofondare nei propri pensieri e sensazioni senza un confronto con gli altri, sono le più sicure premesse per trasformare un problema comune di un adolescente in un macigno che schiaccia e verso il quale si possono immaginare delle soluzioni disadattive o anche catastrofiche.

Questo tipo di intervento così brevemente descritto si colloca quindi nell’ambito di un rinforzo delle relazioni di coesione e di supporto all’interno della classe e di potenziamento delle capacità espressive e di consapevolezza dei ragazzi.

          Sul versante più educativo/preventivo sono altresì disponibili diversi programmi su temi trasversali molto importanti che possono essere svolti a scuola da un team di insegnanti dopo un breve corso di formazione: mi riferisco ad esempio ai programmi regionali Life skills training o Unplugged. Altri programmi suono disponibili sul tema del bullismo o dell’educazione socio affettiva.

          Credo inoltre che in questa fase storica sia importante centrare una serie di attività di riflessione con i ragazzi sul tema del modo in cui si vive nella realtà virtuale che certamente è non meno reale di quella sperimentata nella vita in presenza ma che assume regole e meccanismi di funzionamento specifici. E’ sempre più evidente infatti come l’impatto del mondo social, online o mediatico sia sempre più potente sul nostro funzionamento psichico e relazionale sia con aspetti di criticità ma anche di potenzialità. E’ essenziale quindi aiutare i ragazzi a muoversi in questa realtà particolare che assume talvolta connotazioni ipnotiche o dissociate rispetto alla percezione più globale e “incarnata” della realtà. Se da un lato la tendenza a vivere

alcuni momenti in un mondo parallelo può essere fisiologica durante l’adolescenza, la pervasività dei sistemi mediatici e del mondo online, può amplificare questa propensione creando vere e proprie dissociazioni o confusioni tra ciò che si è

sperimentato, detto o agito online e quello che si agisce nella vita concreta e complessiva.

          La terza dimensione che può essere favorita nella scuola in senso preventivo, oltre a quella relazionale ed educativa, consiste nel favorire una presa in carico terapeutica di fronte alle situazioni in cui il disagio si mostra significativo e persistente. Il passaggio da un disagio espresso a scuola, magari ad un insegnante con cui si ha maggiore confidenza, o la rilevazione di un problema familiare e la predisposizione di una presa in carico psicologica, sociale o medica, non è affatto semplice né banale. Non si tratta infatti semplicemente di dare indicazioni alla famiglia o al ragazzo, ma di creare un contesto in cui insegnante e operatore sociosanitario possano interloquire e riflettere per valutare il modo più funzionale per costruire quest’invio. Per questo è cruciale che il mondo della scuola e quello dei servizi psicologici o sociali sia sempre più vicino e vi sia il modo di parlarsi con fiducia non appena i livelli di sofferenza diventano significativi e non transitori.

          Queste condizioni sono molto spesso presenti nei diversi territori anche grazie alla continuità con cui operatori ed insegnanti lavorano negli stessi, tuttavia è evidente che questo sforzo va ampliato e tenuto vivo da entrambe le componenti.

In sintesi: il mondo della scuola è un ambito di crescita di straordinaria rilevanza psicologica, identitaria e sociale ed è indubbio che in essa si possano esercitare importanti azioni preventive. Gli attori adulti di queste azioni sono senza dubbio gli insegnanti coadiuvati e sostenuti dalle figure che da un lato possono già “abitare” la scuola come psicologi scolastici ed educatori o che dall’altro sono i più stretti “vicini di casa”: servizi sanitari, sociali, risorse territoriali. Se gli insegnanti non possono lasciare soli i ragazzi di fronte ai loro compiti evolutivi, noi operatori non possiamo lasciare soli gli insegnanti in questa impresa, affascinante ma comunque estremamente impegnativa anche perché segnata inevitabilmente dà il senso di incertezza e da una quota di imprevedibilità che non è totalmente riducibile.

Paolo Breviglieri

 Psicologo

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