Capire l’adolescenza insieme ai suoi interpreti

Capire l’adolescenza insieme ai suoi interpreti

 

 AUTRICE: Carmine Lazzarini

 Relazione presentata nel 2000 durante il convegno “Adolescenti oggi”, organizzato dal consultorio di Viadana. 

 

 

Quello che mi accingo a dire è complementare a ciò che ha esposto il dott. Barrilà, anche se non ci siamo sentiti prima. E’ una piacevole coincidenza. Intendo presentare il lavoro della ricerca fatta due anni fa sul territorio cremonese sull’adolescenza, attraverso due momenti: uno a livello discorsivo, presentando alcune cose che sono contenute in un testo che è stato pubblicato all’inizio di quest’anno ed intitolato “Dare nomi alle nuvole”. L’altro invece è un filmato preso da interviste che abbiamo fatto agli adolescenti, i quali si sono “confessati” davanti alla telecamera. Una parte di queste interviste, poi, sono state fatte da adolescenti ad altri adolescenti.

 

Vista la complessità del tema e la brevità del tempo a disposizione, partirei dalla tesi che intendo presentare. Il punto di partenza del mio ragionamento è rappresentato dalla crisi attuale delle proposte educative rivolte agli adolescenti, che si constata un po’ dovunque. Ad esempio si sa che il gruppo dei “consumatori” di nuove sostanza è composto da ragazzi non definibili ‘a rischio’, anzi da soggetti perfettamente integrati, sani ed efficienti, magari che hanno seguito corsi di prevenzione e di educazione alla salute. Il gruppo di consumatori, come è stato detto su una importante rivista che si occupa di questi problemi (la rivista di don Ciotti, Animazione sociale, 1999) “è costituito in misura pressappoco simile da studenti nelle cui scuole si è praticata l’educazione alla salute e altri in cui si è trascurata”. Da questo sembra emergere che dieci anni di prevenzione hanno dato pochissimo e che il contesto scolastico sembra inadatto a modificare i comportamenti dei giovani. Da qui non l’adolescenza come età di crisi, ma la crisi delle proposte educative attuali.

In tale contesto negativo la ricerca che abbiamo compiuto nell’area cremonese (700 questionari, 376 pagine di ‘diario segreto’, 49 interviste), evidenzia invece la grande ricchezza degli adolescenti e della loro età: abbiamo incontrato giovani dai 12 ai 20 anni pieni di potenzialità, di spinte positive, di carica vitale, di cui spesso gli adulti non sanno avvalersi. Ragazzi e ragazze che cercavano un dialogo con l’adulto, che usavano un linguaggio vario, articolato, significante, alla ricerca di un rapporto serio e di un riconoscimento senza pregiudizi. La visione di adolescenza che intendo qui presentare è quella di un’età indubbiamente complessa ed anche ambigua e confusa, ma estremamente ricca, varia, profonda, in molte occasioni riflessiva e consapevole, destinata in molti casi a naufragare per mancanza di agganci e fondamenti solidi nelle istituzioni, nella famiglia, nella società degli adulti.

 

In questa visione l’origine del malessere non va individuato nell’adolescenza, ma nella carenza di un contesto educativo adeguato e coerente. Riccardo Massa, un pedagogista di grande valore, giunge ad ipotizzare nel nostro tempo una vera e propria fine dell’educazione. L’adolescenza sarebbe età di crisi perché momento vitale di  più impellenti bisogni educativi, che però nel nostro mondo rimangono insoddisfatti. L’adolescente quindi va in crisi perché dotato di potenzialità inespresse in un contesto deprimente, che ostacola la crescita: “Non è tanto la crisi della scuola, la smobilitazione delle politiche sociali educative: il punto di crisi sembra sia la modificazione dei contesti di esperienza, di appartenenza, di vita, per cui i ragazzi oggi crescono al di fuori di un contesto educativo, al di fuori di un ambiente dal quale trarre valori che consentano un inserimento ed anche un raccordo con le generazioni adulte” (R. Massa, 2000)

Da dove partire per capire gli adolescenti?

Di fronte a questo malessere diffuso molti adulti vogliono capire meglio come gli adolescenti vivono la loro età e si chiedono da dove sia necessario partire. Qui bisogna essere molti chiari: spesso vogliamo capire gli altri eludendo il nostro sguardo soggettivo, dimenticando il nostro punto di vista di adulti, i nostri pregiudizi, le nostre paure. Invece, se vogliamo capire gli adolescenti, dobbiamo partire da noi adulti e dall’adolescenza che sempre ci accompagna. Dobbiamo avere il coraggio di guardarci dentro, di richiamare la nostra storia personale, le memorie di vita che ci portiamo dentro e che sono il filtro attraverso cui poi incrociamo lo sguardo dell’altro. L’atto di comprensione pone le sue radici nell’adolescenza che è in noi adesso, come dimensione permanente della nostra esistenza di adulti, un’adolescenza che molti si illudono di aver superato per sempre (i sempre vecchi) o che si illudono di vivere ancora integralmente (gli eterni e patetici Peter Pan).

Partendo da questa consapevolezza soggettiva è possibile porci in ascolto dei nostri interlocutori adolescenti, rinunciando ad inquadrarli in categorie pre-confezionate, a ‘scipparli’ del significato dei loro racconti, delle attribuzioni di senso che essi stessi danno alla vita. Consideriamoli interlocutori credibili, seri, esperti, degni di essere interpreti della loro età. Da qui il titolo dell’intervento:

 

–          si tratta di ‘capire’: spesso si applica uno schema esplicativo estraneo ai soggetti, si vuole acquistare scientificità applicando ‘categorie’ astratte, ma si finisce per stravolgere un mondo vitale. Perciò ci vuole ‘comprensione’! “C’è comprensione umana quando sentiamo e concepiamo gli umani come soggetti; essa ci rende aperti alle loro sofferenze e alle loro gioie; ci permette di riconoscere negli altri gli stessi meccanismi egocentrici di autogiustificazione che sono in noi…” (Morin, 2000).

–          “insieme ai suoi interpreti”. Gli interpreti dell’adolescenza sono certo gli studiosi, gli esperti, una letteratura ricchissima che abbiamo alle spalle (dalle varie correnti della psicologia agli studi piagetiani, alle indagini psicosociali); ma vero interprete, poi, va considerato il ragazzo stesso, oppure l’adulto che sa parlare e far parlare al ragazzo che c’è in lui. Perciò abbiamo privilegiato il metodo autobiografico, dove ognuno è autore e protagonista della propria storia.

 

Si crea così un ‘accoppiamento conoscitivo’, in cui i due interlocutori cercano di capire l’altro partendo da sé stessi e sé stessi confrontandosi con l’altro. Entropatia, dice la fenomenologia: sapere percepire il mondo collocandoci dal punto di vista dell’altro, sentendo la realtà come se fossimo al suo posto. Consapevoli che ogni altro intorno a noi è all’origine del senso del mondo di tutti. Da qui l’urgenza del passaggio da strumenti di indagine oggettivanti  ad altri che consentono la valorizzazione della soggettività giovanile, con l’integrazione di una molteplicità di strumenti (scritti ed orali) e di metodologie (quantitative, qualitative) (Besozzi-Colombo, 1998).

Una ragazza intervistata ci ha infatti detto: “ Un ragazzo non è solo parole scritte sul foglio bianco di un questionario, non ha vissuto solo le esperienze che solitamente vengono indagate con domande preconfezionate, predisposte al di fuori del contesto di comunicazione diretta, ma esistono anche ragazzi (esistono? wow!!! non l’avrei mai detto!) fatti di un linguaggio ricco, vivo ed espressivo, di una mimica sottovalutata e di esperienze da comunicare, a cui nessuno ha mai prestato attenzione, ma che una videocamera ed un adulto con un po’ di esperienza possono cogliere anche nel più piccolo dei particolari”.

Che cosa ci hanno detto gli adolescenti sulla loro adolescenza?

Molte cose ci sono state dette: tra di esse scegliamo le più significative.

  • Non è detto che l’adolescenza sia un’età di crisi. La crisi c’è, ma come in tutte le altre età, come ci ricorda questa diciassettenne: “Per il momento io credo di vivere la mia adolescenza in modo molto positivo. Mi reputo un ragazza ‘a posto’. Mi diverto quando sono con gli amici, anche se non ne ho tantissimi. Certe volte, però, quando ho dei piccoli problemi, preferisco ‘chiudermi’ in casa e guardare la TV, pensare ed ascoltare musica. Tante canzoni e tanti giovani dicono che questo è un ‘mondo di merda’, secondo me no! La vita è bella, anche quando ci sono problemi ed il susseguirsi di questi ti aiuta a diventare forte e a superare il prossimo. La vita è bella e bisogna viverla così com’è!”
  • Quasi tutti sanno gestire un’infinità di rapporti e di inserimenti in gruppi diversi. Si muovono molto sul territorio, da vari oratori ai centri sociali, dalla birreria alla discoteca (frequentata da una netta minoranza). Sono altamente socializzati, flessibili, sanno comunicare e adattarsi, anche mimetizzarsi. Vivono quasi sempre in gruppo, che è punto di riferimento ineliminabile: le ore lontano dal gruppo sono considerate ore perse. Per questo ritengo non corretto né efficace, nelle politiche giovanili, puntare soprattutto su proposte pratiche e di socializzazione: questi giovani sono socializzati dall’età dell’asilo, conoscono bene le dinamiche dei gruppi. Semmai la loro è una crisi di identità, di individualità, quindi è su questa che bisogna lavorare, aiutandoli magari a ‘difendersi’ dalla omologazione sociale e di gruppo.
  • I luoghi educativi da noi predisposti non vengono riconosciuti come tali: per questi giovani ciò che vale per crescere sono le dimensioni private, personali: il gruppo amicale, la famiglia, l’esperienza diretta. Su più di settecento ragazzi, la scuola è individuata come fattore di crescita dal 7%, l’oratorio dal 2,8%, le associazioni sportive dal 2%. Tutte queste istituzioni sono frequentate ed accettate, ma non sono considerate occasioni di crescita.
  • La scuola è vissuta come fattore di crescita non per le discipline che impone di studiare, ma come occasione di incontro, come necessità  di misurarsi con molte persone diverse. Si cresce in corridoio, non nelle aule! La delusione maggiore è data dall’insoddisfacente possibilità di rapporti positivi con gli insegnanti, la burocratizzazione delle relazioni, basate su regole solo formali: “soprattutto ora capisco che questa scuola non mi ha dato ciò che mi aspettavo in termini di rapporto umano e capacità di ascolto” (Andrea, 18 anni). Disturba molto anche il controllo continuo, i criteri di giudizio che obbligano a seguire quello che pensa il professore, a rinunciare alla propria personalità. L’ingiustizia viene vissuta come particolarmente dolorosa, forse perché l’aspettativa di comportamenti modello da parte dei docenti è ancora molto alta.

 

Si cresce dunque per altre vie

L’approccio autobiografico ha permesso di far risaltare alcuni aspetti, che erano sfuggiti alla nostra percezione dell’adolescenza:

  • il dolore e la riflessione sono percepiti come i momenti privilegiati di maturazione. In queste testimonianze, scritte e orali, c’è molta ricerca del ‘piacere’, del vivere come se fosse l’ultimo giorno, ma anche molta ‘saggezza’ nell’accettare il momento formativo del dolore. Un solo esempio: “Penso che l’adolescenza sia una fase molto bella, in realtà penso che tutta la vita sia bella. Spesso però si vorrebbe tornare indietro (soprattutto quando guardo le mie foto di bambina) perché quando si è piccoli, pur capendo tante cose, non si conoscono e non si immaginano nemmeno le grandi sofferenze del mondo…e degli uomini. Forse l’aspetto più negativo dell’adolescenza è che nel conoscere questi dolori (che non per forza devono essere personali), li incontri… Crescendo penso che si soffra molto…. Nonostante tutto sono convinta che anche se ci sono molte cose che fanno star male, occorre conoscerle, perché non si può vivere nell’egoismo personale e credo che se non avessi conosciuto certe cose, se non avessi sofferto (anche per queste), oggi non sarei così, non potrei capire quanto invece dentro di me capisco!” (17 anni)
  • la solitudine viene recuperata come importante, laddove si sappia gestirla. Molti adolescenti, che abbiamo incontrato, hanno manifestato questa esigenza di elaborazione interiorizzata della loro storia. Per una ragazza di quindici anni, nella solitudine “ci sono aspetti positivi… quando sei sola riesci a pensare con più calma, puoi farti un’idea della tua vita, della realtà che stai vivendo…”; e un’altra di 18: “…a me piace anche stare da sola, perché se sto nel gruppo non posso pensare alle cose che voglio fare, non penso a me stessa e se sento che manca il tempo per me, è difficile stare anche col gruppo, organizzare le mie cose”.

 

Questi aspetti non vanno mai generalizzati: si deve parlare di assoluta individualità in queste esperienze profonde: ogni generalizzazione, anche le mie in questo momento, vanno prese con molta cautela. Però mi sento di dire che l’adolescenza si presenta come età ricchissima, con grandi potenzialità. Nella nostra interpretazione l’adolescenza va interpretata come la condizione soggettiva in cui per la prima volta nel corso della vita, in un breve volgere di stagioni, le singole persone incrociano tutti i passaggi esistenziali costitutivi del diventare adulti, che a questa età appaiono in tutta la loro complessità e pregnanza.

Per questo è un’età difficile, filosofica in senso lato: momento meraviglioso e drammatico della vita di ciascuno, che ti costringe a scoprire le bellezze e le infinite potenzialità del corpo, la gioia delle relazioni, la fame di esperienze, l’innamorarsi e fare all’amore per la prima volta, il calore dell’amicizia, il continuo interrogarsi ed interrogare l’altro, il gioco di scoprire e di scoprirsi. Contemporaneamente, quasi negli stessi istanti, ti costringe a guardare nel baratro della vita: l’accorgersi che si muore, che l’annullamento fisico è lì, davanti a te, che sta scomparendo il proprio ‘sè’’ infantile, che è necessario allontanarsi dai genitori come modelli assoluti, che la separazione, il tradimento, le delusioni si susseguono come parti ineliminabili dell’esistenza. E che, nonostante tutto ciò, la vita continua e bisogna pur vivere, bisogna imparare di nuovo a vivere dopo ogni caduta, dopo ogni distacco.

L’adolescente riassume un poco tutti gli aspetti paradossali dell’essere umano, con l’aprirsi improvviso di potenzialità per il nuovo soggetto nascente, con l’intuizione faticosa di molteplici progetti personali, attraverso i quali si cerca la propria identità, scoprendosi uno e molteplice. E’ di conseguenza, data la dimensione e la profondità di questi aspetti, l’età del timore di scegliersi e di scoprirsi ogni volta diversi.

Partendo da queste considerazioni si possono comprendere le continue giravolte che compiono i nostri giovani, nel loro tentativo di sfuggire alla necessità di ‘determinarsi’, a calarsi nell’esserci, nella ‘finitudine’, la continua ricerca di senso della vita e del mondo, che poi accompagnerà sempre l’adulto, con il ripresentarsi di domande che puntualmente ritornano ad ogni passaggio esistenziale. E come meravigliarsi se tali scoperte ed esperienze innescano negli adolescenti continui processi di fuga, ma anche continui processi riflessivi sulla propria nascente soggettività?

Necessità di  nuovi  percorsi  educativi

“Di fronte a queste caratteristiche non si tratta di valorizzare un ego omologato al sociale né racchiuso in sé, oppure una personalità utilitaristica, ma una soggettività adolescenziale che non si stacchi mai da sé stessa, che sia attraversata dal meticciato culturale, cioè abitata da tutte le storie del mondo e che ha come orizzonte la terra” (Calari Galli, 1998).

Una soggettività che si apra al mondo e alle numerose vite possibili, partendo dall’arricchimento del proprio molteplice sé, come ci ha scritto questo ragazzo di 18 anni: “Una sola vita è poca, ne vorrei di più per sperimentare tante cose: la vita di uno studente modello e di un uomo in carriera, la vita di un artista, la vita di un figlio di papà che possiede tutte le comodità, la vita di un mafioso, di un gangster, la vita di un drogato, la vita di un uomo di campagna, la vita di un uomo di colore che vive in una tribù, la vita di un americano medio, la vita di un cinese che raccoglie il riso tutto il giorno”.

Di fronte a questa apertura di orizzonti, in sé assai positiva, è però necessaria la presenza di adulti, che aiutino a conquistare il senso del limite. L’esplosione delle possibilità che la mente adolescenziale è in grado di percepire e di creare (e che la nostra società illusoriamente moltiplica in continuazione, come se niente possa essere negato), richiede di essere ridimensionata da adulti che sanno misurarsi sui limiti: limiti da porre a sè stessi prima di tutto, e poi agli adolescenti, non dimenticando che senza limiti non c’è né crescita né vita.

L’invito è quindi quello di alzare il tiro su tematiche esistenziali profonde, sulla ricerca di senso, sullo scoprire il significato del perdurare nel tempo, del cammino da percorrere insieme, ma avendo anche la forza di fare la strada da soli.

 

Presentarsi a questi adolescenti come adulti credibili

Dice Andrea Canevaro che uno dei problemi dei giovani è la frantumazione del tempo, per cui l’istante e l’immersione nell’istante diventa l’unica dimensione temporale vissuta. In realtà questo è uno dei problemi della  nostra organizzazione sociale: su questo si investono migliaia di miliardi!

Per questo occorre fare scoprire e insegnare ai giovani la durata, la permanenza, la ritualità, senza abbassarsi troppo al loro livello: va bene seguire i giovani dove si ritrovano, adottare i loro linguaggi, ma non bisogna fermarsi lì, in quanto è necessario porre sempre le domande di fondo: “Come andrà a finire questa tua storia, questa vostra storia?”. Domanda indispensabile, perché la vita non è una serie di quadri staccati – questa è la TV – : la vita è una storia, con un protagonista e non solo comparse, è un inizio, uno sviluppo, delle scansioni, una fine.

Mai quindi rinunciare ad offrire occasioni per elevare il livello delle tematiche che vanno affrontate con i giovani, naturalmente rispettando i loro tempi, la loro ricerca Diceva don Primo Mazzolari: “Quando ci sono delle giovani in crisi, invece di chiedere poco bisogna chiedere di più!”. Aveva ragione, senza dimenticare che è necessario chiedere molto non solo ai giovani, ma a noi stessi in quanto adulti e responsabili. In questo ci vuole il coraggio di mettere a repentaglio comodità e stabilità, soprattutto le nostre certezze: creare occasioni ed opportunità per ripensare la propria esistenza.

Bisogna ritrovare il coraggio di vivere la vita come protagonisti, e per fare questo ci vogliono donne e uomini coraggiosi. Il coraggio non è lo sfidare insensato i pericoli, varcare i limiti, ma, come dice Lucia Boella, il vero coraggio è quello quotidiano, il coraggio di dire la verità, il coraggio di affrontare il dolore e la morte, il coraggio di essere sé stessi.

Demetrio, un altro studioso, sostiene che educare significa organizzare incontri: con l’altro (la differenza), con i saperi (l’ignoto), con il desiderio (il possibile), con sé stessi (l’identità), con l’inspiegabile (l’enigma).

“Fare il mestiere di educatore significa organizzare ed inventare esperienze autobiograficamente significative e valutare quanto esse lascino traccia a livello di incremento delle capacità narrative. Una competenza da educare e cioè da sospingere verso incontri, ma con il fine di trasformarli in racconti e memoria” (D. Demetrio, 1999).

Ma quanti sono gli adulti che, nelle scelte della loro vita,  hanno il coraggio di guardare in faccia il dolore e la morte, il coraggio di essere sé stessi, di ridiventare sé stessi nelle sempre nuove fasi della propria vita? Il linguaggio dell’educazione dell’adolescenza passa attraverso esempi, testimonianze, solidarietà reali. Anche questi sono limiti, sono vincoli, punti di resistenza indispensabili, perché su di essi si può crescere, evolversi, diventare uomini e donne che sanno dare senso al mondo a alle relazioni.

 

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