NewsUCIPEM n. 757 – 9 giugno 2019

NewsUCIPEM n. 757 – 9 giugno 2019

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

ucipem@istitutolacasa.it                                           www.ucipem.com

 

“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

 

Supplemento on line. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

 

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, 2019che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

 

Sono così strutturate:

ü  Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.

ü  Link diretti e link per download a siti internet, per documentazione.

 

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.

La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

Il contenuto delle news è liberamente riproducibile citando la fonte.

 

In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviateci una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.com con richiesta di disconnessione.

 

Chi desidera connettersi invii a newsucipem@gmail.com la richiesta indicando nominativo e-comune d’esercizio d’attività, e-mail, ed eventuale consultorio di appartenenza.       [Invio a 1.491 connessi]

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02 ABORTO                                                       Aborto, un diritto da riconquistare

05                                                                          Proposta alternativa per emendare L. 194\1978.

06 ASSEGNO MANTENIMENTO                                L’assegno in favore del coniuge separato e dei figli.

10 ASSEGNO DIVORZILE                              Modifica e revoca dell’assegno di mantenimento e di divorzio

12 ASSOCIAZIONI-MOVIMENTI                AICCeF. Il termine “Consulente Familiare” è un marchio registrato

13                                                                          Centri Regolazione Naturale della Fertilità. Bando di concorso

13 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA   Newsletter CISF – n. 22, 5 giugno 2019.

15 CHIESA CATTOLICA                                  Sono fiduciosa, la riforma si farà se no le vocazioni crolleranno

16                                                                          Il vescovo: «Il celibato non sia un dogma»                       

17                                                                          Preti che amano le donne, la crisi a 40 anni

17 CINQUE PER MILLE                                   È tornato il tetto dei 400 milioni

18 COMM.ADOZIONI INTERNAZ.             Firmato nuovo accordo di collaborazione con la Slovacchia

18 CONFERENZA EPISCOPALE ITAL.        Bassetti: la sinodalità diffusa non si esaurisce in un Sinodo

19 CONGRESSI–CONVEGNI–CORSI         Corso in Consulenza Familiare con specializzazione pastorale

19 CORTE COSTITUZIONALE                       Libertà sessuale sì, ma…(sentenza n. 141, 7 giugno 2019)

20                                                                          Prostituzione: dignità umana e autodeterminazione

23 DALLA NAVATA                                         Domenica di Pentecoste – Anno C – 9 giugno 2019

23                                                                         Lo Spirito Santo? È Dio in libertà                                                           

23 DONNE NELLA CHIESA                            Un ministero più cattolico aperto a omnis utriusque sexus fidelis.

26 STORIA                                                          Lo sposo non è un marito, e altro riguardo il matrimonio medievale

30 TRIBUNALI CONFESSIONALI                 Tribunale religioso e divorzio: riconoscibilità pronuncia in Italia

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ABORTO

Aborto, un diritto da riconquistare

Prima del 1978, l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), in qualsiasi sua forma, era considerata dal codice penale italiano un reato e segg. codice penale, abrogati nel 1978), che lo puniva con la reclusione da due a cinque anni, comminati sia all’esecutore dell’aborto che alla donna stessa. Il clima in cui si è vissuto fino agli anni sessanta era quello di una scontata immoralità dell’aborto volontario.

 

{L’aborto volontario è tuttora punito dalla Legge 194, 22 maggio 1978, articoli 17→20.

www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1978-05-22&atto.codiceRedazionale=078U0194&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario&action=select-all

 L’art. 19 recita:

  1. Chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni;
  2. La donna è punita con la multa fino a lire 100mila;
  3. Se l’interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l’accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell’articolo 6 o comunque senza l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
  4. La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi.
  5. Quando l’interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l’osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile.
  6. Se dai fatti previsti dai commi precedenti deriva la morte della donna, si applica la reclusione da tre a sette anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da due a cinque anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita. Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma. Ndr}

 

Con la diffusione del femminismo ed un cambiamento della sensibilità morale, la legge sull’aborto in Italia e la legislazione proibitiva fu radicalmente modificata, anche a fronte dell’elevatissimo numero di aborti illegali, che causavano spesso complicazioni gravi ed un grande numero di morti. Radicalmente non è un avverbio usato a caso: è con i Radicali, e con la loro campagna referendaria, che nel nostro Paese si solleva l’onda antiproibizionista. Nel 1975 si autodenunciavano alle autorità di polizia per aver praticato aborti, e venivano arrestati, il segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia, la fondatrice del Centro d’Informazione sulla Sterilizzazione e sull’Aborto (CISA) Adele Faccio e la militante radicale Emma Bonino. Il 5 febbraio una delegazione comprendente Marco Pannella e Livio Zanetti, direttore de L’espresso, presentava alla Corte di Cassazione la richiesta di un referendum abrogativo degli articoli nn. 546, 547, 548, 549 2º Comma, 550, 551, 552, 553, 554, 555 del codice penale, riguardanti i reati di aborto su donna consenziente, di istigazione all’aborto, di atti abortivi su donna ritenuta incinta, di sterilizzazione, di incitamento a pratiche contro la procreazione, di contagio da sifilide o da blenorragia. Dopo aver raccolto oltre 700.000 firme, il 15 aprile del 1976 veniva fissato il giorno per la consultazione referendaria, che però non ebbe seguito perché il presidente Leone fu costretto a sciogliere le Camere per la seconda volta.

Intanto, però, con la storica sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 18 febbraio 1975, l’aborto non è più identificato come un «affare di donne» ma è portato nello spazio pubblico e della legge, come una questione di cittadinanza.                                          www.giurcost.org/decisioni/1975/0027s-75.html

Grazie alla sentenza 27 del 1975 furono definiti i termini del bilanciamento tra i diritti e gli interessi costituzionali coinvolti: da un lato la tutela del concepito, dall’altro il diritto alla vita e alla salute della madre.

 

{La Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 546 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre. Ndr}.

 

La posizione giuridica della donna fu declinata in termini di diritto, mentre con riguardo al concepito la declinazione cambia, troviamo l’«interesse costituzionalmente protetto»; interesse a cui la legge non può dare una prevalenza totale; perché «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».

La legge numero 194 del 1978, firmata 41 anni fa dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone, fu direttamente attuativa dei «principi costituzionali indicati dalla Corte con la sentenza 27 del 1975». Essa è pertanto legge ordinaria a contenuto costituzionalmente vincolato, e come tale non sottoponibile a referendum.

[La Legge, di iniziativa parlamentare, fu firmata da democristiani, che non esercitarono alcuna obiezione di coscienza: Giovanni Leone, presidente della Repubblica, Giulio Andreotti presidente del Consiglio, Ministri Tina Anselmi sanità, Francesco Paolo Bonifacio giustizia, Tommaso Morlino bilancio, Filippo Maria Pandolfi tesoro.]

 

Alcune delle sue disposizioni, infatti, si ispirano a quei «criteri di tutela minima di interessi ritenuti fondamentali dalla Costituzione che la […] sentenza n. 27 del 1975 aveva additato al legislatore, facendone l’oggetto di un vero e proprio obbligo dello stesso».

Una legge che ha una lunga storia, ma che nella nostra epoca, dopo più di 40 anni dalla sua entrata in vigore, deve purtroppo essere ancora difesa da chi ne chiede nelle piazze e in Parlamento l’abrogazione o da chi ne favorisce una applicazione non corretta.

            L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2003, ha pubblicato un importante documento, una sorta di «manuale» sull’aborto sicuro (Safe Abortion: Technical and Policy Guidance for Health Systems, Geneva, 2003-prima edizione, in www.who.int.), dove si sottolinea che le legislazioni in materia devono rispettare alcuni standard necessari che assicurino il rispetto per la decisione della donna, che deve essere informata; inoltre deve essere garantita l’autonomia e la riservatezza della stessa in coerenza con i diritti riconosciuti, anche nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 e nella Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1979. Ecco i punti salienti:

  1. Informazioni complete, accurate, comprensibili relative alla procedura prevista dalla legge, la predisposizione di una consulenza volontaria che consenta alla donna di considerare le diverse possibilità e di decidere senza condizionamenti. Una consulenza riservata ed affidata ad una persona esperta;
  2. La rimozione di ogni ostacolo all’accesso all’intervento abortivo, evitando in periodi di attesa e mancanza di privacy;
  3. Rispetto del diritto all’obiezione di coscienza e contemporaneo obbligo di indirizzare le donne verso colleghi non obiettori. Le strutture sanitarie che abbiano il compito di assicurare l’interruzione volontaria della gravidanza in osservanza di legge non possono rifiutare tale servizio, devono evitare che vi siano rischi per la salute o la vita delle donne;
  4. È indicata tra i metodi di interruzione volontaria di gravidanza nel primo trimestre, l’aborto farmacologico.

            Volendo confrontare queste indicazioni con la situazione italiana relativa all’applicazione della legge 194, è facile cogliere il mancato rispetto di molte prescrizioni dell’OMS. Ad esempio, in Italia:

  • I medici obiettori non indirizzano la donna ad un medico non obiettore;
  • La garanzia di riservatezza non è adeguatamente rispettata;
  • Vi è una ingiustificata resistenza all’uso di metodi più moderni e meno invasivi;
  • Vi è una rilevante restrizione degli attori e dei luoghi per le procedure abortive.

Inoltre, se le indicazioni dell’OMS sono violate in generale, nello specifico assistiamo all’introduzione di limiti ulteriori al diritto della donna ad una scelta libera e non condizionata, con metodi che tentano una “dissuasione” delle donne tramite una riprogettazione del colloquio e alla presenza di associazioni antiabortiste nei consultori.

Da anni l’Associazione Luca Coscioni si batte per l’aggiornamento della Legge 194/1978, per migliorarla, per renderla all’avanguardia rispetto agli altri paesi europei, attraverso le numerose richieste rivolte alla Ministra Lorenzin prima, e alla Ministra Grillo poi, volte a chiedere migliorie necessarie per garantire il diritto di scelta in materia di salute riproduttiva, soprattutto in un clima montante di odio contro le donne e le loro scelte in materia di gravidanza. Negli ultimi mesi, anche le notizie giunte da oltreoceano non sono state affatto confortanti: gli stati USA Alabama, Missouri, Lousiana, e forse dall’anno prossimo in Georgia, hanno recentemente emanato leggi che vietano l’aborto addirittura nei casi di stupro e incesto, con l’intento manifesto di chiedere l’annullamento della storica sentenza della Corte Costituzionale del 1973 Roe v. Wade.

Le stime legate all’aborto clandestino in Italia (in particolare per quanto riguarda l’assunzione di farmaci acquistati online e senza controllo medico) cominciano ad essere allarmanti e i rischi per la salute delle donne non possono più essere ignorati. Inoltre, come se non bastasse, la prevenzione e la contraccezione sono sempre meno obiettivi culturali e sociali perseguiti nell’agenda politica.

Le statistiche ci dicono che il 68% dei ginecologi sposa l’obiezione di coscienza. Ciò sta portando in alcune regioni (come il Molise) all’impossibilità per la donna di abortire.

Un sondaggio che abbiamo condotto come Associazione Luca Coscioni attraverso SWG ci dice inoltre che ben il 31% della popolazione – in forte aumento rispetto al 19% del 2016 – ritiene che la 194\1978 sia una legge che va cambiata: il 50% degli intervistati chiede, come noi, di accedere all’IVG farmacologica in regime ambulatoriale, presso i consultori o in autonomia con assistenza medica da remoto e il 27% reclama la gratuità della contraccezione.

            Come Associazione Luca Coscioni con l’AIED e Amica (Ass. Medici Italiani Contraccezione e Aborto), abbiamo lanciato da tempo quattro proposte concrete per la tutela della salute riproduttiva:

  1. Regolamentare l’obiezione di coscienza perché in Italia il 40% di ospedali con reparto di Ostetricia e/o Ginecologia pratica l’obiezione di struttura, non ammessa dalla Legge 194 e l’aumento degli obiettori di coscienza anche nelle strutture con ambulatori di IVG, aggravano anno dopo anno il disservizio in molte regioni, limitando di fatto il diritto alle scelte riproduttive e alla salute di molte donne che vivono nel nostro Paese;
  2. Introdurre in ogni struttura la possibilità di scegliere l’aborto farmacologico oltre a quello chirurgico;
  3. Eliminare l’obbligo di ricovero di tre giorni per la procedura farmacologica;
  4. Risorse da investire in consultori e contraccezione.

Per una sanità efficiente e accogliente, contro i rischi dell’aborto clandestino ci siamo anche mobilitati per una proposta di legge di iniziativa popolare regionale per la reale applicazione della legge 194/1978, che mira ad introdurre a livello regionale in tutta Italia, a seconda delle criticità riscontrate, una serie di soluzioni che possano facilitare l’applicazione della 194.

La Pdl regionale, “Aborto al sicuro”, promossa da Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica e da Radicali Italiani ha già chiuso l’iter di raccolta firme per l’iniziativa popolare in Lombardia, con una grande mobilitazione grazie all’impegno di tantissime realtà politiche e di attivismo sociale capitanate dall’associazione radicale milanese Enzo Tortora. La Pdl è già al vaglio di altre regioni e presto finirà sul tavolo di tutti gli uffici legislativi regionali del Paese. La proposta si articola in 10 punti:

  1. Le informazioni (procedure, accesso ai servizi) sull’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) saranno comprensibili, esaustive e facili da reperire anche online e per telefono.
  2. Qualunque consultorio o ambulatorio regionale potrà prendere appuntamenti in ogni territorio regionale, senza imporre alla donna estenuanti ricerche o code.
  3. Le attività, la qualità dei servizi e la loro omogeneità sul territorio saranno monitorate annualmente e sarà promossa l’implementazione e una maggiore efficienza dei servizi, ove necessario.
  4. I consultori familiari diventeranno i primari coadiutori delle attività ospedaliere per la fruizione dei servizi di IVG e saranno riqualificati per: fornire migliore assistenza (anche grazie all’eventuale potenziamento delle attrezzature) e partecipare ad alcune fasi delle procedure di IVG (es. aborto farmacologico, oltre alla certificazione).
  5. Tutte le strutture ospedaliere garantiranno la gestione dei casi urgenti in tempi brevi e certi.
  6. Sarà eliminato l’obbligo di ricovero per l’IVG farmacologica grazie a day hospital a più accessi, e si potranno svolgere alcune fasi della procedura anche presso il consultorio.
  7. Le strutture accreditate per le prestazioni di procreazione medicalmente assistita e di diagnosi prenatale dovranno assicurare continuità terapeutica alle donne che richiedano l’aborto in esito a diagnosi di anomalie fetali o di rischi per la paziente, accompagnando la donna nelle proprie scelte.
  8. Le donne che richiedono l’IVG riceveranno, durante o subito dopo la seduta, una consulenza contraccettiva e, se richiesto, saranno forniti e/o applicati gratuitamente contraccettivi (inclusi quelli a lungo termine) presso l’ospedale.
  9. Alle donne che non riescono a reperire farmaci contraccettivi di emergenza sarà fornita assistenza per immediato reperimento.
  10. La Regione istituisce e finanzia corsi di formazione e di aggiornamento sulle tecniche chirurgiche e farmacologiche di interruzione della gravidanza, sulla contraccezione, nonché su tematiche epidemiologiche, psicologiche e sociologiche correlate.

Si tratta di proposte semplici e concrete che consentirebbero non solo alle donne di trovare meno ostacoli nel loro percorso verso l’interruzione di gravidanza, ma soprattutto consentirebbero all’Italia di non fare sempre la parte del Paese incoerente, che con una mano ti “concede” un diritto e con l’altra te lo porta via.

Filomena Gallo, avvocato cassazionista, Segretario Nazionale Associazione Luca Coscioni

MicroMega 7 giugno 2019

http://temi.repubblica.it/micromega-online/aborto-un-diritto-da-riconquistare

Proposta alternativa per emendare L. 194\1978.

Con riferimento al documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Technical and Policy Guidance for Health Systems, Geneva, seconda edizione 2012,

https://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/70914/9789241548434_eng.pdf;jsessionid=C7EE73720CB93F4871E8890DEC3C020B?sequence=1

si propongono alcuni emendamenti al testo in vigore della L. 194\ 22 maggio 1978

www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_845_allegato.pdf

1.-        Art. 4. Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna omississi rivolge ad un consultorio familiare di enti pubblici o di istituzioni e enti privati istituiti ai sensi dell’articolo 2, lettere a) e b), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione. Omettere “o a un medico di sua fiducia”.            

www.trovanorme.salute.gov.it/norme/dettaglioAtto?id=25554

2.-        Art. 5 primo comma.Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, omissis hanno il compito in ogni caso di presentare il parto in anonimato e l’adozione nazionale e internazionale, omissis, e di esaminare con la donna e con il padre del concepito,ove la donna con espressa motivazione non lo rifiuti categoricamente, omissis di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendo anche un mediazione cultura ed etica, offrendole tutti gli aiuti necessari omissis..

Anche per il 2017 è stata effettuata la rilevazione dell’attività dei consultori familiari per l’IVG, e sono stati raccolti i dati per l’85% dei consultori. E’ stato richiesto, come gli anni precedenti, il numero di donne che hanno effettuato il colloquio previsto dalla Legge 194/78, il numero di certificati rilasciati, il numero di donne che hanno effettuato controlli post IVG (in vista della prevenzione di IVG ripetute). (…) Inoltre è emerso che molte sedi di consultorio familiare sono servizi per l’età evolutiva o dedicati agli screening dei tumori femminili pertanto non svolgono attività connesse al servizio IVG. (…) Dai dati  raccolti,  come  negli  altri  passati  emerge  un numero  di  colloqui  IVG  superiore  al numero  di  certificati  rilasciati(48.769  colloqui  vs  34.800  certificati  rilasciati), ciò potrebbe indicare l’effettiva azione per aiutare la donna “a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza” (art. 5 L.194/78).Per  quanto  riguarda  i  controlli  post  IVG risulta  un  numero minore  rispetto  a  quello dei certificati rilasciati (…) Negli ospedali in cui si sono effettuate  le  IVG  è  efficace  il  suggerimento  per  un  colloquio  post-IVG  in  consultorio,  più adeguato  rispetto  alle  strutture  ospedaliere  a  effettuare  azioni  di  sostegno  e counselling personalizzato  e  costante,  nel  tempo.  La consulenza post-IVG è una buona occasione di promozione per una procreazione responsabile, pertanto sarebbe importante promuoverla e implementarla ulteriormente.                             Pag. 53-54  www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2807_allegato.pdf

 

3.-        art. 5 omettere il secondo comma relativo al medico di fiducia {Il medico di fiducia non ha la competenza e la preparazione professionale e la possibilità concreta di attuare la norma prevista che coinvolge interventi e collaborazioni specifiche. Anche le relazioni governative riferiscono che il suo intervento di redazione del documento si è ridotto dal 52,9% del 1983 al 21% del 2017 e per le straniere nel 2017 è stato del 16,4% (13,2% nelle isole). Ndr}.

Pag. 34-35  www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2807_allegato.pdf

4.-        Art. 5 terzo comma. Se non viene riscontrato il caso di urgenza (con relativo certificato) al termine dell’incontro, se avvenuto in consultorio, contemporaneamente o separatamente, con almeno due operatori di diversa professione, il direttore dello stesso o un suo delegato (omettere il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia,) o il medico della struttura socio-sanitaria di fronte alla richiesta della donna omissis le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. (omissis). {da m0dificare il n. 13 del modello ISTAT D12}.

5.-        Art. 7 primo comma.   Omissis.  Il medico deve avvalersi della collaborazione di almeno uno specialista della patologia in esame. Omissis. Nel caso di aborto si prevede l’esame autoptico del feto. Omissis

6.-        Art. 9 primo comma.  Il personale sanitario (omissis) non è tenuto a prendere parte ad attività dirette a determinare l’interruzione di gravidanza, con qualsiasi modalità di svolgimento,quando sollevi

obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.

7.-        Art. 12 primo comma. La richiesta scritta d’interruzione della gravidanza secondo le procedure della presente legge è fatta personalmente dalla donna, che la sottoscrive. La copia della richiesta entra a far parte della documentazione clinica

8.-        Art. 12 secondo comma: omettere il medico di fiducia.

9.-        Art. 14 Il medico che esegue l’interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla procreazione responsabile, informandola dell’attività dei consultori familiari e di altre strutture socio-assistenziali.

10.-      Art. 16 omissis il Ministro della sanità presenta al Parlamento una relazione sull’attuazione della legge stessa e sui suoi effetti, principalmente in riferimento al problema della prevenzione e dei relativi stanziamenti, suddivisi per Regione, e per consultori istituiti ai sensi dell’articolo 2, lettera a), b) della legge 29 luglio 1975 numero 405. omissis

{Inviare pareri in merito al testo a newsucipem@gmail.com. Ndr}

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

L’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato e dei figli.

Il dovere di assistenza morale e materiale e l’obbligo di mantenimento del coniuge separato. Prima di affrontare il tema della determinazione e della corresponsione dell’assegno di mantenimento a favore di uno dei due (ex) coniugi è bene comprendere quale sia la ragione intrinseca che ha spinto il legislatore a prevederne l’esistenza nel nostro ordinamento. Il mantenimento reciproco tra coniugi ha il proprio espresso riferimento giuridico nel dovere di assistenza morale e materiale a carico di ciascuno degli sposi (articolo 143 del codice civile). La comunione di intenti e di sostanze, caratteristica fondamentale del matrimonio, caratterizza e differenzia questo istituto da qualsiasi altro tipo di accordo di natura tipicamente contrattuale.

www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-vi/capo-iv/art143.html

Da qui, la conseguente previsione di legge del dovere di contribuire alle esigenze della famiglia, e primariamente al sostentamento e alla crescita dei figli. Se però da una parte il dovere di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge e della famiglia esiste in pendenza di matrimonio, è anche vero che la corresponsione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato privo di adeguati redditi propri trova il proprio obbligo di legge nell’articolo 156 del codice civile.

www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-vi/capo-v/art156.html

La ratio è la medesima ma i presupposti sono differenti: proprio per questo motivo si può affermare che “l’obbligazione di mantenimento (nei confronti del coniuge separato) non può preesistere alla relativa domanda giudiziale” (Cassazione Civile, sentenza n. 6403, 21 marzo 2011).

L’assegno di mantenimento in favore dell’ex coniuge in caso di separazione personale. Con la separazione personale (che sia consensuale o giudiziale) il vincolo matrimoniale non viene sciolto, bensì sospeso in maniera transitoria in attesa della sentenza di divorzio. La separazione potrebbe anche non sfociare mai in una richiesta di divorzio e, nella migliore delle ipotesi, anche interrompersi per avvenuta riconciliazione tra le parti che porterebbe al decadimento dei suoi effetti. Lo status giuridico di coniuge, infatti, rimane inalterato mentre a mutare sono alcuni aspetti legati al matrimonio quali, ad esempio, l’obbligo di fedeltà e di convivenza. In sostanza si congelano quei doveri di assistenza morale e di collaborazione, ma rimane attivo il dovere di assistenza materiale che va a confluire proprio nella determinazione dell’assegno di mantenimento per quel coniuge che necessita di un sostentamento in quanto privo di propri redditi o insufficienti per adempiere alle proprie necessità. Condizione essenziale affinché si genere tale onere a carico di uno dei due coniugi separati è la non titolarità di adeguati redditi propri. Per “adeguato” si intende quel reddito prodotto in maniera autonoma dall’individuo in grado di consentirne il mantenimento del tenore di vita adottato in costanza di matrimonio. Afferma la Suprema Corte che “se prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione”. Ciò poiché, in sostanza, la separazione “tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza” (Cassazione Civile, sentenza n. 5555, 19 marzo 2004). La corresponsione dell’assegno è a carattere periodico (in genere è stabilita una periodicità mensile) e, salvo diversi accordi inerenti ad una diversificazione delle voci di spesa, ammonta ad un’unica somma di denaro. L’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento decorre dalla data della relativa domanda e permane sino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia il divorzio. Il beneficiario dell’assegno non è obbligato a riceverlo e può anche rinunciarvi. Anche in pendenza dei relativi presupposti economici, l’assegno di mantenimento non è dovuto nei confronti del coniuge a cui sia addebitata la separazione.

Come emerge da una recente sentenza della Corte di cassazione, tra i fattori che possono incidere sull’assegno di mantenimento nel senso di negarne l’attribuzione rientrano l’effettiva capacità di produrre reddito anche in considerazione dell’età, il tenore di vita e la breve durata della coabitazione (Cass. n. 13902/22 maggio 2019 – www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_34727_1.pdf.

Come incide nella determinazione del mantenimento l’assegnazione della casa coniugale. Secondo l’articolo 155quater codice civile l’assegnazione della casa coniugale è finalizzata solamente alla tutela della prole e “non può essere disposta come se fosse una componente dell’assegno previsto dall’articolo 156 c.c.”.                             www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-vi/capo-v/art155quater.html

 Tuttavia è necessario altresì che egli valuti, “una volta modificato l’equilibrio originariamente stabilito fra le parti se sia ancora congrua la misura dell’assegno di mantenimento originariamente disposto” (Cassazione Civile, sentenza n. 9079, 20 aprile 2011). L’assegnazione della casa familiare è un vero e proprio atto che incide sensibilmente sulla disponibilità economica del coniuge cedente. Di conseguenza, quando il giudice determina il valore dell’assegno di mantenimento deve tener conto dell’intera entità patrimoniale dei coniugi in quanto le fonti di reddito non derivano solamente da introiti in denaro, ma anche da quei beni soggetti a reale valore economico, compreso l’assegnazione e l’uso della casa coniugale. Il godimento di tale bene è calcolabile sul piano economico in quanto costituisce un effettivo risparmio sulla spesa che bisognerebbe sostenere per abitare la casa con un contratto di locazione. Pertanto l’ammontare di tale importo va ad aggiungersi alla capacità di reddito del coniuge a cui è stata assegnata l’abitazione. Inoltre, nel caso in cui il coniuge debitore non sia economicamente in grado di versare l’assegno periodico di mantenimento, il giudice potrà assegnare la casa al coniuge creditore in sua totale o parziale copertura.

I criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento e lo strumento di calcolo. Nel caso in cui la separazione è consensuale sarà compito dei due coniugi, con la consulenza di un avvocato, stabilire, tra i vari punti dell’accordo, anche l’ammontare dell’importo dovuto per l’assegno di mantenimento. Il Tribunale, una volta accertata l’effettiva equità dell’accordo, soprattutto in tutela degli interessi di eventuali figli, provvederà all’omologazione delle condizioni determinando così la separazione legale. I dettagli sul mantenimento potranno poi essere modificati consensualmente senza sottostare ad un nuovo giudizio di omologazione. Differente, invece, il caso in cui ci sia un mancato accordo tra i coniugi oppure ci sia una specifica richiesta di addebito della separazione da parte di uno dei due. In questo caso sarà compito del giudice stabilire a chi attribuire le eventuali violazioni degli obblighi matrimoniali (che non potrà beneficiare dell’assegno) e dettare le varie condizioni all’interno di un procedimento di separazione giudiziale. La determinazione dell’assegno di mantenimento (che si fa comunque anche se nessuna delle parti ha chiesto l’addebito) è strettamente connessa all’individuazione della parte che risulta più svantaggiata a causa della sospensione del vincolo matrimoniale, qualora non sia in grado di garantire lo stesso tenore di vita di cui godeva in precedenza. Il compito del giudice, infatti, sarà quello di riequilibrare le reali capacità economiche della coppia separata stabilendo il giusto valore del mantenimento. Nell’eventualità di un inadempimento da parte del coniuge obbligato a corrispondere l’assegno, il giudice potrà disporre del sequestro dei beni o richiedere a terzi il versamento del denaro dovuto.

L’assegno per il mantenimento dei figli minori. Di natura sostanzialmente differente è l’assegno di mantenimento dovuto da uno dei due ex coniugi in favore dell’altro finalizzato al mantenimento dei figli minori. L’articolo del codice civile impone infatti ai coniugi separati o divorziati il dovere di sostenimento della prole: ciò nell’ottica di tutelare l’interesse superiore della crescita dei figli. Giurisprudenza recente (Cassazione civile, sentenza n. 785, 20 gennaio 2012) ha confermato come il giudice, nel determinare in che modo i genitori debbano contribuire al mantenimento dei figli, goda della più ampia discrezionalità “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole”. “Nella determinazione dell’assegno di mantenimento a favore del figlio occorre tenere in considerazione la situazione economica dei genitori e le esigenze del minore” (Cassazione Civile, sentenza n. 15556, 14 luglio 2011) attraverso una “ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali delle parti” (Cassazione Civile, sentenza n. 21649, 21 ottobre 2010). Tale intervento giudiziale potrebbe non rendersi necessario in caso di separazione consensuale dei coniugi, i quali, nelle proprie condizioni, hanno previsto un’equa distribuzione dei doveri nei confronti della prole (ad esempio, quando uno dei due, pur percependo reddito minore, lascia la casa coniugale all’altro per favorirne i figli conviventi). Nel caso in cui al contrario i coniugi non trovino alcun accordo, la legge concede all’organo giudicante il più ampio potere discrezionale in ordine alla determinazione del quantum.

Il mantenimento del figlio maggiorenne. Il diritto al mantenimento da parte del figlio maggiorenne perdura fino a quando non sopraggiunga la completa indipendenza economica, pertanto l’obbligo di assistenza materiale dei genitori si protrae oltre il raggiungimento della maggiore età e cessa solo quando egli sia in grado di occuparsi autonomamente del proprio sostentamento grazie ad un lavoro adeguato alle sue capacità e alle sue prospettive di crescita professionale. Se il figlio perde il lavoro stabile grazie al quale aveva raggiunto la propria autonomia l’obbligo di mantenimento rimane comunque estinto. Il giudice, all’atto di quantificare il valore dell’assegno, deve verificare quali siano le reali intenzioni del figlio maggiorenne nella ricerca di un lavoro al termine del suo percorso scolastico. Se venisse accertata una ingiustificata inoperosità nel tentativo di affrancarsi economicamente dalla condizione di mantenimento, il Tribunale può revocare il diritto al ricevimento dell’assegno mensile. L’obbligo di mantenimento decade anche nel caso in cui il figlio maggiorenne che sia stato messo nelle condizioni di rendersi autonomo non abbia saputo o voluto, in maniera del tutto volontaria o per colpe a lui imputabili, ottenere una definitiva indipendenza economica. Tuttavia il raggiungimento della maggiore età e dell’indipendenza economica non sono elementi sufficienti a giustificare una sospensione del versamento dell’assegno. Tale dovere da parte del genitore può mutare o estinguersi solo attraverso una procedura di carattere giuridico o tramite un accordo consensuale. Occorre cioè dimostrare che il figlio maggiorenne, grazie al conseguimento di un impiego stabile, consono alle attitudini acquisite nel corso dei sui studi o comunque inerente a quelle che sono le sue aspirazioni, non ha più diritto al mantenimento in quanto economicamente indipendente.

La revisione e l’adeguamento dell’assegno di mantenimento. Tutte le decisioni emesse dal giudice con la sentenza di separazione, che sia consensuale o giudiziale, possono essere sempre modificabili. Nel caso in cui ci siano obiettivi cambiamenti nel tenore di vita di uno dei due coniugi separati si può richiedere una revisione dell’assegno di mantenimento. Ci si può rivolgere ad un mediatore in sede stragiudiziale oppure effettuare un ricorso congiunto presso il Tribunale che ha pronunciato la separazione. Nel caso non si convenga ad un accordo tra le parti occorrerà dare inizio ad un nuovo procedimento. Il coniuge che si sente legittimato a richiedere la modifica dell’assegno di mantenimento dovrà essere in grado di produrre prove rilevanti inerenti il fatto che si sia profilato un “mutamento delle circostanze” come, ad esempio, un peggioramento delle sue condizioni di sostentamento o, al contrario, che ci sia stato un miglioramento nelle condizioni economiche dell’altro. Altre circostanze comuni che possono indurre uno dei coniugi a richiedere una modifica delle condizioni di separazione si possono verificare al momento della formazione di un nuovo nucleo familiare di fatto oppure quando mutano le spese inerenti alla corretta crescita dei figli e al loro mantenimento. Diverso è invece il caso dell’adeguamento dell’assegno di mantenimento. Esso riguarda la rivalutazione economica periodica dell’importo dovuto e fa riferimento sia agli indici ISTAT che alla situazione patrimoniale complessiva dei due soggetti coinvolti. L’adeguamento opera in maniera automatica ma al fine della sua applicazione occorre che il coniuge percepente faccia espressa richiesta di versamento del conguaglio al coniuge debitore.

L’ammissibilità del mantenimento in caso di rottura del legame di una coppia di fatto. Il nostro ordinamento giuridico riconosce formalmente solo la famiglia fondata sull’unione matrimoniale contratta in base a leggi civili. Le unioni di fatto e la formazione di famiglie fondate sulla semplice convivenza ha tuttavia spinto la giurisprudenza a riconoscere un certo grado di tutela anche per le famiglie naturali. Nel caso in cui si verifichi una rottura nella coppia di fatto occorre verificare se è possibile applicare per analogia le stesse regole previste per la corresponsione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato svantaggiato. Tacendo la legge sul punto, finora si è esclusa un’eventualità simile, la cui configurazione creerebbe scompiglio e rischierebbe di generare un effetto a catena nell’interpretazione delle norme che regolamentano il rilievo giuridico della vita matrimoniale. In mancanza di una precisa regolamentazione, al momento l’unica soluzione per tutelarsi da possibili conflitti e garantire così i diritti di entrambi i conviventi in caso di rottura della coppia di fatto è quella di sottoscrivere un accordo sotto forma di scrittura privata autentificata da un notaio.

Il mantenimento: cosa accade se chi paga il mantenimento forma una nuova famiglia (con o senza nuovi figli) e cosa accade se a formare la nuova famiglia è il coniuge che percepisce il mantenimento. La formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno di mantenimento non determina in nessun caso (nemmeno in presenza di nuovi figli) la sospensione o l’estinzione dei suoi doveri di assistenza materiale stabiliti dal giudice con la separazione legale. In questo senso si è pronunciata la Cassazione Civile nella sentenza n. 24056. 10 novembre 2006, la quale ha compreso sia la situazione di separazione tra coniugi che di divorzio: “Il diritto all’assegno di divorzio non può essere automaticamente negato per il fatto che il suo titolare abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona”. La convivenza more uxorio potrà solamente influire su una nuova determinazione del valore dell’assegno in base al miglioramento o al peggioramento delle sue condizioni economiche e in sostanza stabilire se egli sia ancora in grado o meno di poter garantire al coniuge più debole lo stesso tenore di vita di cui godeva durante l’unione matrimoniale. Di contro, la formazione di un’affidabile e stabile relazione familiare di fatto da parte del coniuge creditore, che sia favorevolmente incisiva sulla mutata condizione economica tanto da ridurre o persino annullare lo stato di bisogno riscontrato in sede giudiziale, può legittimare il coniuge debitore a chiedere la riduzione o la sospensione della corresponsione dell’assegno di mantenimento. Il carattere di stabilità della nuova unione certificata da una lunga durata temporale o, addirittura, suggellata dalla nascita di nuovi figli, scioglie ogni legame con il tenore e i modelli di vita che caratterizzavano la precedente relazione matrimoniale.

A tale proposito, merita di essere segnalata la sentenza della Corte di cassazione n. 32871/19 dicembre 2018, in cui si legge che “In tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l’interruzione dell’obbligo di corresponsione di mantenimento che grava sull’altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi more uxorio siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare; resta salva, peraltro, la facoltà del coniuge richiedente l’assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce in melius sulle proprie condizioni economiche e che i propri redditi rimangano inadeguati”.

www.firstnetsecurity.it/public/allegati_news/Sentenza%20Cassazione%20n.%2032871.18.pdf

Se il coniuge debitore risulta inadempiente: il sequestro conservativo e le garanzie a copertura del debito. Il codice civile prevede alcuni strumenti specifici introdotti al fine di tutelare il diritto di credito al mantenimento del coniuge avente titolo. A garanzia del credito il giudice, su richiesta dell’interessato, può disporre il sequestro conservativo sui beni del coniuge debitore. Giurisprudenza recente e costante ha infatti affermato che il sequestro in questione “non ha natura cautelare ma soltanto funzione di garanzia dell’adempimento degli obblighi patrimoniali stabiliti dal giudice della separazione dei coniugi” (Cassazione Civile, sentenza n. 10273.  28 maggio 2004). Il sequestro conservativo può essere validamente richiesto anche a garanzia del pagamento degli assegni di mantenimento destinati alla prole. Nel caso in cui il coniuge debitore sia a sua volta creditore nei confronti di terzi di somme di denaro da corrispondere periodicamente, il giudice, ex articolo 156 codice civile, può ordinare a questi ultimi di versare direttamente al coniuge avente diritto l’intero o una parte degli importi dovuti al coniuge inadempiente (Cassazione Civile, sentenza n. 23668, 6 novembre 2006 e n. 1398, 27 gennaio 2004 in tema di trattamenti pensionistici). Nei casi più rilevanti, anche l’iscrizione di ipoteca rappresenta idonea garanzia a tutela del diritto di credito al mantenimento, e può essere validamente presentata al giudice dal coniuge debitore.

L’assegno divorzile. Anche l’assegno divorzile ha una funzione di assistenza materiale e viene corrisposto al coniuge più bisognoso quando il vincolo matrimoniale cessa definitivamente con la sentenza di divorzio. Nel momento in cui viene a sciogliersi il nucleo familiare occorre intervenire in difesa delle condizioni vitali del coniuge economicamente più debole. Presupposto fondamentale, infatti, è l’oggettiva necessità del beneficiario il quale deve risultare privo dei mezzi di sostentamento e di essere altresì impossibilitato a mutare tale condizione (ad esempio l’incapacità fisica per poter lavorare). D’altro canto la cessazione del legame matrimoniale influirà anche in una maggior rigidità nella determinazione del giusto valore dell’assegno.

Sino a pochissimo tempo fa, la giurisprudenza era solita individuare il parametro di riferimento per la determinazione dell’assegno divorzile, al quale rapportare l’adeguatezza o meno dei mezzi di chi lo richiede, nel tenore di vita goduto dalla coppia in costanza di matrimonio. Con la rivoluzionaria sentenza n. 11504/10 maggio 2017,                                                 www.miolegale.it/sentenze/cassazione-civile-i-11504-2017

 tuttavia, la Corte di cassazione ha detto addio al parametro del tenore di vita nella determinazione dell’an dell’assegno divorzile, affermando che l’ex coniuge che richiede il beneficio deve essere considerato “esclusivamente come “persona singola” e non già come (ancora) “parte” di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale”. Oggi, quindi, il giudice del divorzio, nel valutare l’an debeatur dell’assegno, deve soffermare la propria indagine sull’eventuale indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge che lo richiede e, se sulla base di precisi indici (possesso di redditi, possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e/o immobiliari, capacità e effettive possibilità di lavoro, stabile disponibilità di una casa di abitazione), accerta che il richiedente è economicamente indipendente o è effettivamente in grado di esserlo, non deve riconoscergli alcun diritto all’assegno divorzile.

Va a tal proposito precisato che, sebbene non manchino posizioni di segno contrario, l’addio al tenore di vita riguarda solo l’assegno di divorzio e non l’assegno di separazione. Come chiarito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 12196/ 16 maggio 2017,  

www.altalex.com/documents/news/2017/05/16/assegno-di-separazione-la-cassazione-respinge-il-ricorso-di-berlusconi

infatti, la separazione, a differenza del divorzio, “non elide, anzi presuppone, la permanenza del vincolo coniugale” e, pertanto, non è possibile estendere ad essa i medesimi ragionamenti fatti dalla sentenza numero 11504/10 maggio 2017.

La sentenza numero 11504/10 maggio 2017 ha successivamente ricevuto un importante avallo anche dalle Sezioni Unite che, con la pronuncia n. 18287/ 11 luglio 2018, hanno confermato che la funzione equilibratrice dell’assegno divorzile non è finalizzata a ricostruire il tenore di vita endoconiugale.

www.altalex.com/documents/news/2018/07/11/assegno-di-divorzio-sezioni-unite

Con tale sentenza, la Cassazione ha anche precisato quali sono i criteri per il riconoscimento del diritto all’assegno, identificandoli nei seguenti:

  • Valutazione integrata tutti gli indicatori contenuti nell’incipit dell’articolo 5, comma 6, della legge numero 898/1 dicembre 1970                                                           www.brocardi.it/legge-sul-divorzio
  • Attenzione all’aspetto perequativo-compensativo e alla comparazione effettiva delle condizioni economico-patrimoniali alla luce delle cause che hanno determinato la successiva situazione di disparità;
  • Accertamento probatorio rigoroso del rilievo causale dei predetti indicatori sulla sperequazione determinatasi.

Riforma dell’assegno divorzile. Con una proposta di legge che ha già ricevuto l’approvazione della Camera e il consenso bipartisan e che è in attesa solo dell’ok definitivo del Senato, il legislatore si sta adeguando, nella regolamentazione dell’assegno divorzile, ai più recenti approdi giurisprudenziali.

In particolare, recependo il superamento del criterio del tenore di vita, la proposta prevede che il giudice, nel decidere dell’assegnazione dell’assegno divorzile, dovrà tenere conto:

  • Delle condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio;
  • Del contributo personale ed economico che ciascuno dei coniugi ha dato alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio personale e comune;
  • Del patrimonio e il reddito di entrambi;
  • Della ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, che sia derivata dall’adempimento dei doveri coniugali nel corso della vita matrimoniale;
  • Dell’impegno di cura di figli comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti;

Del comportamento che ciascuno dei coniugi ha tenuto in ordine al venir meno della comunione spirituale e materiale.

Una grande novità prevista dalla proposta di legge è la possibilità di predeterminare la durata dell’assegno divorzile, se la ridotta capacità reddituale del richiedente di configura come temporanea.

La riforma prevede poi esplicitamente l’addio all’assegno in caso di nuove nozze, unione civile o stabile convivenza con un’altra persona del beneficiario.

Liquidazione dell’assegno divorzile. La corresponsione dell’assegno divorzile può essere a carattere periodico (versato ogni mese), oppure liquidato in una sola tranche dopo aver moltiplicato l’assegno periodico per un coefficiente fisso individuato in base all’età del coniuge beneficiario. In questo caso in tale somma dovrà essere già inclusa anche una possibile futura pretesa di revisione in modo che non potrà più essere richiesta.

Rivalutazione e nuove nozze. L’assegno di divorzio è giuridicamente tutelato e ad esso può essere associato ogni tipo di garanzia (fino al sequestro dei beni) per cautelare il beneficiario dal pericolo che il coniuge obbligato al versamento possa sottrarsi al suo dovere. Esiste, inoltre, la possibilità di una rivalutazione del valore dell’assegno, ma solo se venga riscontrato un rilevante mutamento nella situazione patrimoniale di uno degli ex coniugi tale da poter rimettere in discussione le decisioni adottate dal giudice, come, ad esempio, “la sopravvenuta riduzione del reddito di lavoro dell’obbligato” (Cassazione Civile, sentenza n. 5378, 11 marzo 2006).

Come la riforma del 2019 sta mettendo nero su bianco, con la celebrazione di nuove nozze viene a cadere immediatamente il diritto all’assegno di divorzio. Tale decadenza è automatica, non richiede cioè alcun intervento giudiziale e decorre dal giorno stesso in cui viene celebrato il nuovo matrimonio.

Riferimenti e link           www.studiocataldi.it/guide_legali/assegno-di-mantenimento

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ASSEGNO DIVORZILE

La modifica e la revoca dell’assegno di mantenimento e dell’assegno di divorzio

Solitamente nel gergo comune si tende a confondere assegno di mantenimento e assegno divorzile, pur essendo due termini ben diversi concettualmente, vediamo le differenze:

L’assegno di mantenimento. Con il primo termine ci si riferisce a quell’assegno destinato al coniuge economicamente più debole (dal coniuge economicamente più forte) con lo scopo di tutelarlo dagli squilibri causati dalla fine del matrimonio. Questo assegno viene stabilito dal giudice (salvo accordo delle parti sul punto, fattispecie di rara occasione pratica) in sede di separazione e durerà fino alla sua revoca o alla statuizione postuma della futura ed eventuale sentenza di divorzio. La ratio di questa disposizione è rinvenibile nel principio di solidarietà che lega i coniugi anche qualora la loro unione finisca. Dall’anzidetto principio scaturisce un obbligo di assistenza materiale e morale – assunto con la celebrazione del matrimonio – perdurante anche dopo la rottura del vincolo coniugale.

L’assegno divorzile. Si parla invece di assegno divorzile quando l’assegno viene stabilito dal giudice in sentenza di divorzio e anche questo resterà valido sino alla sua revoca/modifica. Oltre al coniuge economicamente più debole sarà destinataria dei suddetti assegni (con statuizione separata non essendo prevista la possibilità di assegno cumulativo) anche l’eventuale prole scaturita dall’unione.

La ratio di questa disposizione è chiaramente evincibile nel dovere di mantenere i figli anche dopo la rottura del vincolo matrimoniale, si deve aggiungere inoltre che il vincolo della maggiore età non è un limite al diritto di mantenimento in senso assoluto dovendo necessariamente bilanciarsi con il criterio di legge che richiede che i figli abbiano raggiunto l’autosufficienza economica, pertanto tale non può dirsi raggiunta con il mero compimento dei diciotto anni (si pensi al caso della formazione universitaria).

Pertanto il giudice dovrà vagliare caso per caso secondo il suo prudente apprezzamento le situazioni dove il figlio abbia realmente raggiunto l’autosufficienza economica, per evitare abusi da entrambi i lati (numerose sentenze della Suprema Corte di Cassazione in merito hanno affermato che se il mancato raggiungimento dell’autosufficienza economica è destato da negligenza o inerzia esclusivamente imputabili figlio/i in tal caso si considererà compromesso il diritto al mantenimento in maniera analoga al caso in cui fosse stata raggiunta autonomamente l’autosufficienza economica).

Modifica o revoca dell’assegno di mantenimento: la casistica. Per quanto concerne la perdita del diritto all’assegno di mantenimento la norma di riferimento è l’art. 710 c.p.c.

www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-quarto/titolo-ii/capo-i/art710.html

La modifica dei provvedimenti relativi alla separazione può essere richiesta nel caso in cui sopraggiungano nuove circostanze di fatto o di diritto rispetto a quelli esistenti al momento della sentenza, ovvero nel caso in cui sussistano delle circostanze già esistenti ma che non sono state considerate dal giudice in sede di emanazione della sentenza.

La casistica relativa ai casi di perdita del diritto suddetto è piuttosto eterogenea e variabile in base al caso di specie ma si possono considerare, in via meramente esemplificativa e non esaustiva, tre macro categorie di notevole applicazione pratica:

Separazione con addebito. In tale caso si contempla l’ipotesi in cui uno dei due coniugi si veda addebitata la responsabilità della crisi coniugale e del conseguente venir meno del vincolo coniugale. L’addebito della responsabilità trova la sua ratio nel mancato rispetto dei doveri coniugali (ad es. coabitazione, collaborazione, assistenza materiale e morale), sicuramente l’esempio più celebre che si può fare al lettore è il caso di violazione del vincolo di fedeltà, pertanto il tradimento, qualora provato in giudizio, è causa di addebito della responsabilità della crisi coniugale.

Qualora l’addebito della responsabilità sia pronunciato nei confronti del coniuge economicamente più debole a quest’ultimo non spetta alcun diritto al mantenimento. La ratio di tale previsione trova ragioni essenzialmente logiche più che giuridiche perché la sua non applicazione porterebbe al paradosso di riconoscere alla moglie infedele e fedifraga il diritto al mantenimento.

Nuova convivenza/famiglia. Iniziando una nuova convivenza stabile con un’altra persona anche senza vincoli matrimoniali può sorgere la c.d. “convivenza di fatto” da cui origina un nuovo nucleo familiare. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il sorgere di una nuova relazione anche senza costituzione di vincoli formali come nel caso della c.d. unione di fatto è evento idoneo a interrompere definitivamente il vincolo matrimoniale. Pertanto, la nuova relazione potrà avere un’incidenza doppia sulla situazione di mantenimento, in termini riduttivi, qualora, ad esempio, le risorse da destinare diminuiscano a seguito di nuovi figli generati dalla nuova unione, ma anche in senso opposto, ovvero di perdita del diritto al mantenimento qualora il nuovo convivente di fatto possa far fronte alle necessità dell’ex coniuge.

A ciò si aggiunge un recente filone giurisprudenziale di legittimità certamente meno tollerante del summenzionato che ritiene la semplice genesi di una nuova relazione (aprioristicamente dalla convivenza o meno delle due persone) sia fattore già necessario e sufficiente a interrompere il vincolo coniugale).

Mutamento delle condizioni economiche a seguito di nuove entrate. Tale casistica è certamente la più vasta poiché all’interno di questa categoria si possono racchiudere numerosi esempi.

  1. Si pensi in primis al caso in cui il coniuge economicamente più debole trovi un nuovo impiego che gli permetta di essere autonomo sotto il profilo economico, questo è un caso pacifico di perdita del diritto al mantenimento. Al contrario, può anche verificarsi un licenziamento oppure una malattia invalidante, eventi che comportano chiaramente una significativa ricaduta sulla situazione economica del coniuge, tali per legge da giustificare una richiesta di revoca o modifica.
  2. Un secondo caso di modifica o revoca, può essere rappresentato da una cospicua entrata, pensiamo ad esempio ad una vincita alla lotteria nazionale.
  3. La terza ipotesi può consistere in un lascito ereditario tale per cui il mantenimento non ha più ragion d’essere poiché il coniuge può mantenersi autonomamente con le sostanze provenienti dall’eredità.

Modifica o revoca dell’assegno di divorzio: la casistica. In tema di perdita dell’assegno divorzile la giurisprudenza di legittimità si era assestata su un consolidato orientamento interpretativo che prevedeva il mantenimento del tenore di vita assunto durante il matrimonio come criterio sul quale decidere la spettanza e l’entità dell’assegno divorzile. Tale orientamento come è noto alla cronaca è stato superato a causa dei tanti paradossi applicativi che ha generato nel tempo, tanto da rappresentare la fortuna di alcune/i ex coniugi che beneficiavano a vita di un assegno molto alto. Un tale beneficio tradiva la ratio perequativa dell’istituto e la parità tra coniugi, pertanto il criterio interpretativo odierno si incentra sulle concrete ed effettive capacità per l’ex coniuge di potersi procurare autonomamente un reddito proprio.

Anche questo nuovo criterio ha però subito alcune modifiche a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. SS.UU. Sent. n. 18287/11 luglio 2018),

www.altalex.com/documents/news/2018/07/11/assegno-di-divorzio-sezioni-unite

 che ha sposato un criterio che possiamo definire intermedio tra i due orientamenti giurisprudenziali finora prospettati: la Sezione più autorevole della Suprema Corte afferma che è necessario porre l’attenzione del giudicante su elementi ulteriori, quali ad esempio la durata del matrimonio, l’età, le scelte di vita compiute dal coniuge economicamente più debole (si pensi ad eventuali sacrifici fatti da quest’ultimo in nome della famiglia, come la rinuncia alla propria attività lavorativa per accudire i figli a tempo pieno) [cfr. sul punto la recente Sentenza del 23 aprile 2019, Cass. Civ. Sez. I, n.11178].

https://sentenze.laleggepertutti.it/sentenza/cassazione-civile-n-11178-del-23-04-2019

In ogni caso, è valevole per ambedue gli assegni il criterio estintivo della morte del coniuge e della rinuncia di quest’ultimo all’assegno. La morte estinguendo ogni rapporto giuridico inter vivos è logico che comporti la cessazione del dovere o diritto di corrispondere l’assegno di mantenimento o quello divorzile.

Non si può pervenire alla medesima conclusione in tema di diritto ereditario, potendo l’ex coniuge destinatario di un mantenimento o assegno divorzile pretendere una quota ereditaria proporzionale alla somma percepita nell’assegno di mantenimento. La differenza tra le due tipologie di diritto sull’eredità è insita nei criteri di valutazione della quota spettante. In tali casi si parla di “assegno successorio a carico dell’eredità”.

Per quanto concerne la rinuncia questa deve essere resa per mezzo di dichiarazione espressa e non deve avere a riguardo crediti di natura alimentare, poiché in questo caso vige il divieto di rinuncia poiché trattasi di diritto indisponibile ai sensi dell’art. 443 c.c. La rinuncia in sede di separazione non comporta l’automatica rinuncia anche in sede di divorzio (cfr. sul punto Cass. Civ. I sez. n. 4424/2008). La rinuncia in sede di assegno divorzile può comunque essere revocata dal sopraggiungere di uno stato di bisogno imprevisto e successivo poiché tale revisione della rinuncia non contrasterebbe con la ratio dell’assegno divorzile.

Dr Carlo Casini           7 giugno 2019

www.studiocataldi.it/articoli/34872-la-modifica-e-la-revoca-dell-assegno-di-mantenimento-e-dell-assegno-di-divorzio.asp

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ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI

AICCeF. Il termine “Consulente Familiare” è un marchio registrato!    

L’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM) del Ministero dello Sviluppo Economico, a conclusione della sua istruttoria, ha inviato all’AICCeF l’Attestato di registrazione del marchio ‘Il Consulente Familiare‘, stabilendo che la nostra Associazione è la titolare esclusiva del marchio registrato.

L’idea di registrare la parola Il Consulente Familiare, come marchio esclusivo, e il logo relativo, è nata alla past-president Rita Roberto, quando era ancora in carica, per tutelare l’identità e la storia di questa figura professionale che da più di quarant’anni è al servizio della coppia e della famiglia. Allora molti apparivano i tentativi di utilizzare il termine e di legarlo a realtà diverse dalla Consulenza familiare.

Lo Studio legale Mari di Cremona, a cui abbiamo dato incarico di istruire la pratica presso il Ministero non è stato, all’inizio, molto ottimista sull’esito dell’impresa. Ma quando abbiamo portato loro l’imponente documentazione da cui risulta che questa parola e questo logo sono legati all’AICCeF dal 1977 e che per di più il Tribunale di Ravenna lo ha registrato nel 1990 come titolo del periodico d’informazione AICCeF, si sono ricreduti ed oggi possiamo essere soddisfatti di questo obiettivo raggiunto che ci farà essere sempre più orgogliosi delle nostre radici ed anche, e soprattutto, della nostra identità ed autonomia. Con il termine Il Consulente familiare è stato registrato anche il logo Aiccef come appare qui sotto

www.aiccef.it/it/news/il-termine–consulente-familiare-e-un-marchio-registrato!.html

 

Confederazione Italiana dei Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità. Bando di concorso

            La Confederazione Italiana dei Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità (CICRNF) bandisce un concorso per tesi di Laurea, Laurea Breve, Laurea Specialistica, Laurea Magistrale, Specializzazione, Dottorato di Ricerca, Master, Baccalaureato.

 Le tesi, discusse nell’anno accademico 2018-2019 (ovvero nel periodo di tempo compreso tra il 01/05/2019 ed il 30/04/2020), dovranno riguardare la regolazione naturale della fertilità in uno dei seguenti aspetti: biologico, medico, psico-sessuologico, pedagogico, sociologico, biostatistico, etico.

Il premio ha una dotazione di 2.000 Euro che saranno così suddivisi: 1.200 Euro per la tesi prima classificata e 800 Euro per la tesi seconda classificata.

I concorrenti devono presentare domanda di partecipazione al concorso, dichiarando di accettare le condizioni del presente Bando nonché inviando il certificato di Laurea, Laurea Breve, Laurea Specialistica, Laurea Magistrale, Specializzazione, Dottorato di Ricerca, Master, Baccalaureato, il titolo della tesi e la disciplina relativa, entro il 31 maggio 2020 a: Segreteria della Confederazione Italiana dei Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità Via Seminario, 8   37129 – Verona   Tel 045 9276228 fax 045 9276226, segreteria.cic1991@gmail.com 4

Le tesi dovranno pervenire allo stesso indirizzo entro il 31 maggio 2020 in 3 (tre) copie cartacee in lingua italiana.

www.confederazionemetodinaturali.it/bando-a-dede-a-a-2018-2019/s5868487e

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – N. 22, 5 giugno 2019

Toronto. Un workshop Cisf – Iccfr su famiglie migranti e minori non accompagnati. All’interno della 56.a Conferenza Internazionale AFCC (Association of Family and Conciliation Courts, una rete interprofessionale degli operatori del sistema giudiziario statunitense per le famiglie e i minori), il Cisf e l’ICCFR (International Commission for Couple and Family Relationships) hanno presentato un workshop sui modelli di intervento e di supporto per famiglie e minori migranti negli Stati Uniti e nell’Unione Europea (Workshop n. 19, How to Support Refugee Minors Arriving in the US and Europe, nel pomeriggio del 30 maggio 2019).

www.afccnet.org/Portals/0/Conferences/AFCC%202019%20Toronto%20Annual%20Brochure.pdf?ver=2019-05-21-204028-340

Ecco testi e slide (in inglese/English text) utilizzati dai relatori [Anne Berger (USA), Francesco Belletti (ITA), Sven Iversen (GER)].

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2219_allegato0.pdf

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2219_allegato1.pdf

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2219_allegato2.pdf

Conferenza Iccfr-Cisf. Il tema trattato nel workshop di Toronto è direttamente collegato alla prossima Conferenza Internazionale Cisf-ICCFR, che si terrà a Roma dal 15 al 17 novembre 2019, su “Famiglie e minori rifugiati e migranti. Proteggere la vita familiare nelle difficoltà” [Refugee and migrant children and families: Preserving family life through hard challenges], E’ ancora possibile proporre workshop su esperienze innovative, modelli virtuosi di intervento, buone pratiche e nuove fonti di ricerca. La scadenza per la presentazione delle proposte di workshop è il 30 giugno 2019.

https://iccfr.org/iccfr-conference-2019-in-rome-italy-migrant-families-and-children/call-presenters-rome

Migranti mostra fotografica Exodos/Exit. Milano, 7 giugno – 14 luglio 2019. Sempre collegata al fenomeno migratorio, presso il Chiostro dei Glicini della Società Umanitaria di Milano (Sala Bauer, ingresso da via San Barnaba 48), è allestita la mostra Exodos/Exit (rotte migratorie, storie di persone, arrivi, inclusione), realizzata da Associazione Allievi Master Giornalismo Giorgio Bocca e Regione Piemonte. “La mostra – che ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica, l’alto patrocinio del Parlamento Europeo, il patrocinio del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – presenta scatti dei seguenti fotoreporter: Marco Alpozzi, Stefano Bertolino, Cosimo Caridi, Simona Carnino, Mauro Donato, Max Ferrero, Mirko Isaia, Giulio Lapone, Carolina Lucchesini, Matteo Montaldo, Giorgio Perottino, Andreja Restek, Stefano Rogliatti, Paolo Siccardi, Stefano Stranges, Stefano Tallia”.

Bruxelles. Famiglie ed economia circolare. Un incontro in occasione della Giornata Internazionale della Famiglia. Il 14 maggio 2019 l’associazione MMM (Make Mathers Matter – Rendere le madri importanti), in collaborazione con il Comitato Economico e Sociale Europeo ha promosso un incontro per sottolineare il ruolo delle madri e delle famiglie per promuovere lo sviluppo sostenibile e l’economia circolare.

https://makemothersmatter.org/wp-content/uploads/2019/05/Le-Bon-20190515-Press-release-Int-day-of-families-Circ4life.pdf_

Ue – Agevolazioni e contributi pubblici per l’infanzia in Europa. Una sintetica comparazione. In occasione delle elezioni europee, Yoopies, piattaforma italiana per l’accesso a servizi di assistenza all’infanzia, pubblica uno studio che mette a confronto le agevolazioni e i contributi pubblici per l’assistenza all’infanzia in Danimarca, Finlandia, Svezia, Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna e Regno Unito. “I paesi nordici, in particolare la Danimarca, sono i campioni europei per quanto riguarda l’accesso a sussidi e sovvenzioni alle famiglie con figli. Anche la Francia e i Paesi Bassi sono noti per la loro generosa politica. La Germania e il Regno Unito, rimasti indietro per molto tempo, hanno recuperato terreno negli ultimi anni, mentre la Spagna e l’Italia appaiono ancora come i paesi meno solidali”. [Innografiche comparative sui sussidi all’infanzia in Europa].

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2219_allegato3.pdf

Concorso “Io e i miei nonni”: promosso dall’Associazione Nonni 2.0.  Il concorso, per le scuole dei vari ordini (pubbliche e paritarie), è stato lanciato il 2 ottobre 2018, in occasione della festa dei nonni, e si concluderà il prossimo 4 giugno con la cerimonia di premiazione in Senato, alla presenza del Presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati. Sul sito una breve descrizione del concorso, e soprattutto i nomi dei vincitori, con il link ai testi premiati, alcuni davvero commoventi.

www.nonniduepuntozero.eu/concorso-io-e-i-miei-nonni/

Adolescenti, cyberbullismo, sexting. Il web degli adolescenti su cui vigilare. Foto hard scambiate online o usate per ricatti, vendetta o minaccia. E’ la preoccupante fotografia delle abitudini dei ragazzi italiani, scattata da una ricerca di Skuola.net condotta per la Polizia di Stato, che ha coinvolto 6.500 ragazzi tra i 13 e i 18 anni, i cui dati sono stati diffusi nell’ambito dell’iniziativa della Polizia ‘Una vita da social”.

Dalle case editrici

  • Edizioni Toscana Oggi/Associazione Nazionale Famiglie Numerose, Educazione orizzontale, Il mestiere di sorelle e fratelli nelle famiglie numerose (a cura di F. Belletti, R. e G. Butturini).
  • Erickson, Dalla tua parte. La voce del minore nella tutela e nella curatela speciale, Benzoni S.
  • San Paolo, Chi si prende cura del nonno? La mediazione familiare intergenerazionale, Cavenaghi S., Digrandi G.
  • Trilling Daniel, Luci in lontananza. Storie di migranti ai confini d’Europa, Marsilio, Venezia, 2019, pp. 270, € 17,00. La geografia dei flussi migratori che stanno ridisegnando il Vecchio Continente viene raccontata in questo volume attraverso le storie di chi sfida la sorte nella speranza di una vita migliore, per portare in superficie ciò che etichette come “richiedenti asilo” e “migranti economici” non sono in grado di restituire. Mettendo al centro le singole testimonianze dei migranti e seguendone gli spostamenti attraverso città, Stati e continenti, l’autore traccia una cartografia della migrazione e dell’Europa chiusa da confini nazionali, dove il mito dell’Unione Europea garante di pace tra le nazioni e prosperità si sta sfaldando di fronte all’incapacità di tutelare quei principi di tolleranza e rispetto per i diritti umani su cui è stata fondata. In questo percorso significativamente l’autore include la sua stessa famiglia, scappata prima dalla Russia scossa dalla guerra civile e poi dalla Germania nazista. Perché ogni identità, ogni senso di appartenenza è frutto di un dislocamento precedente, e del desiderio di approdare, un giorno, a un porto sicuro.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2219_allegatolibri.pdf

Save the date  

  • Nord  Silver economy forum. Building Together the Silver Future (Forum dell’economia degli anni d’argento. Costruire insieme il futuro per gli anni d’argento), tre giorni di incontri sulle opportunità economiche offerte dalle scelte e dai bisogni degli anziani (evento accreditato presso l’ordine dei giornalisti, avvocati, notai e assistenti sociali), Genova, 13-15 giugno 2019.

www.silvereconomyforum.it/wp-content/uploads/2019/06/Programma-Silver-Economy-2.pdf

www.caritasreggiana.it/articoli/Manifestopoverteducativaultimo.jpg

  • Centro Conferenza Nazionale per la Salute Mentale, promossa da oltre cento Associazioni di livello nazionale e locale, che hanno sottoscritto l’appello “Libertà, Diritti, Servizi: per la salute mentale”, Roma, 14-15 giugno 2019.

www.conferenzasalutementale.it/wp-content/uploads/2019/05/PROGRAMMA-CONF-SALUMENT-al-09-giugno-2019.pdf

  • Centro Promuovere la salute e la relazione di cura nei primi 1000 giorni con lo sguardo di Maria Montessori, convegno internazionale Organizzato dall’istituto Superiore di Sanità, dal Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la Promozione della Salute (C.Na.P.P.S.) e dal Centro Nascita Montessori, Roma, 27 giugno 2019.

http://progettointernazionalemontessori.centronascitamontessori.it/convegno-internazionale

  • Sud Dieci, cento, mille centri. Seconda Conferenza nazionale sulle periferie urbane. Per pensare un altro futuro attraverso esperienze nazionali ed europee, promosso dalla Fondazione Bracco e dal Comune di Palermo, Palermo, 14 giugno 2019.

https://www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=DIECI%2C+CENTO%2C+MILLE+CENTRI.+Seconda+Conferenza+nazionale+sulle+periferie+urbane.+Per+pensare+un+altro+futuro+attraverso+esperienze+nazionali+ed+europee  

  • Sud the migration conference 2019, conferenza internazionale sull’immigrazione promossa da Transnational Press – London in collaborazione con l’Università degli Studi di Bari e con altre istituzioni locali, Bari, 18-20 giugno 2019[GM1] .

www.migrationconference.net/mc/public/conferences/1/schedConfs/1/program-en_US.pdf

  • Sud  Le politiche di contrasto alla povertà: dal reddito di inclusione al reddito di cittadinanza, evento formativo (con crediti per assistenti sociali) promosso dalla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli, 26 Giugno 2019.

www.cnoas.it/cgi-bin/cnoas/vfale.cgi?i=KKRKCKWWUWLKVKJWHJBCWJ&t=brochure&e=..pdf

https://conference.issa.nl/sites/default/files/ISSA-Conference-2019-Program.pdf

  • Estero Shaping a healthy environment fit for children (Costruire un ambiente sano, adatto per i bambini), evento promosso da COFACE (rete di associazioni familiari accreditata presso l’UE), Helsinki, 3-4 ottobre 2019.

www.coface-eu.org/consumers/health/save-the-date-3-4th-october-2019-shaping-a-healthy- pensare un environment-fit-for-children-coface-open-spaces

Iscrizione                  http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio        http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/giugno2019/5127/index.html

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CHIESA CATTOLICA

Sono fiduciosa, la riforma si farà altrimenti le vocazioni crolleranno

Preti celibi, non sempre è stato così. Pietro, il primo Papa della storia, era sposato; Paolo, single innamorato di Dio, si considerava un’eccezione tra i discepoli di Cristo. La teologa Adriana Valerio, docente di storia del cristianesimo all’Università Federico II di Napoli, ricostruisce le ragioni che hanno portato definitivamente la Chiesa, con il Concilio lateranense secondo (XII secolo), a escludere dal matrimonio i presbiteri di rito latino (diverso il caso delle comunità cattoliche orientali). Il suo è un punto di vista particolare, di una studiosa, oltre che moglie di un prete.

Professoressa, come mai nel XII secolo, la Chiesa scelse la via del celibato obbligatorio in Occidente?

«La concezione negativa della donna e della sessualità, unita alla necessità di non disperdere il patrimonio ecclesiastico attraverso i legami familiari, spinsero a chiedere il servizio sacerdotale soprattutto ai monaci e poi a esigere dai preti il celibato come condizione essenziale per l’esercizio presbiterale».

Allo stato attuale, il clero si assottiglia sempre più, eppure la Santa sede non intende rivedere quella che resta una disciplina di diritto umano, non divino. Come si spiega questa riluttanza?

«Da una parte c’è l’orgoglio di sentirsi come dei “superuomini” che, a differenza degli altri, riescono a resistere al richiamo della cosiddetta ‘carne’, dall’altro si registra la necessità di avere tra le mani una categoria umana manovrabile, perché non soggetta alle necessità della quotidianità di una normale vita familiare. Questa superiorità, sentita nei confronti dei laici, comporta una sorta di separazione di casta con relativi privilegi».

Anche questioni ereditarie, che indussero a suo tempo a negare le nozze ai preti, oggi sconsigliano di modificare il diritto canonico?

«Sì, questo aspetto non va dimenticato».

È fiduciosa per una riforma nel futuro?

«Lo sono, se non altro per la necessità di non veder assottigliato a tal punto il numero dei preti da non poter più rispondere alle necessità sempre maggiore dell’evangelizzazione e del servizio liturgico ai credenti. Credo che anche una diversa considerazione positiva e paritaria della donna aiuterà in tal senso».

Intervista a Adriana Valerio a cura di Giovanni Panettiere in “www.quotidiano.net” 3 giugno 2019

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201906/190604valeriopanettiere.pdf

Il vescovo: «Il celibato non sia un dogma»

«Non ho nulla in contrario sul fatto che in futuro la Chiesa possa ripensare a una modifica della disciplina sull’obbligatorietà del celibato per quanti aspirano al ministero presbiterale. Deciderà ovviamente il Papa i tempi e le modalità, la fretta e le chiusure mentali non aiutano in tal senso».

Sono sempre di più i vescovi, che, in camera caritàtis, sono favorevoli ad avere in Occidente preti sia sposati sia celibi. L’arcivescovo Giovanni Richiudi, 70 anni, ordinario di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti e presidente di Pax Christi, rompe gli indugi e chiede l’avvio di una riflessione in materia. L’occasione all’ex rettore del pontificio seminario regionale pugliese ‘Pio XI’ è data dalla lettera al Papa scritta da Vocatio, l’associazione dei sacerdoti sposati.

Puntano a riammettere al ministero quei presbiteri, convolati a nozze, che vogliono tornare a dire messa. Qual è la sua opinione?

«Ritengo che, così come all’indomani del doppio sinodo sulla famiglia, la Chiesa ha avviato un processo di discernimento sull’accesso alla comunione dei divorziati risposati, bene sarebbe se si facesse altrettanto con questi preti. Sono dell’avviso che occorra valutare caso per caso».

Le è mai capitato che un sacerdote sposato le domandasse di tornare in servizio?

«Sì, ricordo almeno due casi. Ma io ho risposto loro che come vescovo non potevo accogliere positivamente questo desiderio. A uno in particolare consigliai di scrivere al Papa. Non so se poi l’abbia fatto».

Un tempo questi sacerdoti erano considerati una sorta di traditori, perché erano venuti meno all’impegno assunto al momento dell’ordinazione.

«Conosco tantissimi presbiteri coniugati. E sempre mi chiedo: chi sono io per giudicarli?»

Non sarebbe più semplice ammettere così come accade nelle chiese cattoliche orientali la presenza di un clero celibe o uxorato?

«Nelle riunioni interne fra noi vescovi siamo tanti quelli che sposano questa conclusione. Il tema del celibato facoltativo venne sollevato anche al concilio Vaticano secondo, ma Paolo VI avocò a sé la questione e non se ne fece nulla».

Anche Papa Francesco di recente ha dichiarato di non sentirsela di modificare una regola ormai millenaria.

«Ho fatto voto di obbedienza al pontefice. Quindi se lui intende soprassedere, mi attengo alle sue indicazioni».

Ma in cuore suo auspicherebbe una soluzione diversa?

«Credo che il modello della chiesa ortodossa, che consente il matrimonio a un candidato al diaconato e poi al sacerdozio prima di ricevere l’ordine sacro, possa essere una via percorribile.

A ottobre il sinodo speciale sull’Amazzonia potrebbe dare il via libera all’ordinazione dei cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa e comprovata fede.

«Sono favorevole a questa soluzione che applicherei in maniera diffusa. Di fianco a un clero celibe dedito completamente alla vita religiosa, si avrebbero dei presbiteri part-time che potrebbero dare il loro contributo in una situazione di grave carenza di sacerdoti».

Intervista a Giovanni Ricchiuti di Giovanni Panettiere        “www.quotidiano.net”  3 giugno 2019

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201906/190604ricchiutipanettiere.pdf

Preti che amano le donne, la crisi a 40 anni

Si abbassa l’età di chi abbandona la tonaca per il matrimonio. Il nodo di chi ci ripensa. Sono sempre più giovani i preti che entrano in crisi. Questioni di cuore, s’intende, che fino a vent’anni fa lasciavano il segno su sacerdoti 50enni e che oggi inducono a lasciare il ministero (per il matrimonio) uomini sulla quarantina. Eccezioni a parte, se potessero, i presbiteri innamorati indosserebbero ancora la talare. In fondo l’amore per una donna e l’unione sacramentale con Dio non sono che due facce della stessa medaglia: quel bisogno di relazione che non fa difetto neanche ai preti.

Il Papa è cauto sulla loro riammissione, ma, mentre il movimento dei sacerdoti sposati cresce in visibilità e organizzazione, la Chiesa valuta senza pregiudizi la possibilità di ordinare viri probati (uomini maturi di provata fede con moglie e figli adulti) in zone del pianeta dove la scarsità del clero pregiudica la celebrazione della messa. Come riporta l’Annuario statistico vaticano, ogni anno in Italia una quarantina di preti abbandona il ministero su un totale di 32mila sacerdoti diocesani (erano 40mila nel 1981). Il più delle volte la rinuncia è conseguenza di una relazione con una donna, di per sé incompatibile con la vita clericale.

Per la verità solo dal Concilio Lateranense II (1139) che ha blindato il celibato obbligatorio per i sacerdoti. Fanno eccezione quelli di rito orientale (in Italia il clero di Lungro e Piana degli albanesi). Un presbitero, che intenda lasciare il ministero, è tenuto a chiedere la dispensa alla Congregazione per il clero (800 le domande ogni anno da tutti i continenti). In media la pratica si sbriga in una decina di mesi e, qualora il responso sia positivo, il richiedente sarà libero di sposarsi in chiesa e ricevere legittimamente i sacramenti.

Certo, non potrà più dire messa, ma, visto che la Chiesa non può cancellare un sacramento (tale è l’ordine sacro), anche se sposato, il prete resta tale. Per sempre. Anche per questo la maggior parte dei sacerdoti innamorati rifiuta di regolarizzare la sua posizione. In questi casi la doppia vita va avanti fino alla dispensa, non più richiesta, ma in pœna.

Don Rosario Mocciaro, 78 anni, marito e padre di due figli, è uno di questi preti ‘ribelli’. “Non ho mai chiesto la dispensa – tradisce un certo orgoglio –, la mia è una sorta di obiezione di coscienza in quanto considero compatibili i ruoli di presbitero e marito. Come me ogni anno un centinaio di sacerdoti italiani matura questa scelta. Un sommerso fatto di uomini sempre più giovani e freschi di ordinazione, anche quarantenni”. Da due anni don Mocciaro è il presidente di Vocatio, l’associazione, nata nel 1981, che mette in rete i presbiteri uxorati (400 gli iscritti).

A lungo questa realtà è stata pressoché ignorata dall’episcopato. La svolta si è avuta nel 2017, quando monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli, celebrò messa per la prima volta davanti a quelli che un tempo sarebbero stati con lui sull’altare. Complice la fine della Guerra fredda con la Cei, Vocatio ha scritto una lettera al Papa nella quale s’invoca la riammissione al ministero dei sacerdoti che lo desiderano, oltre a un cammino di discernimento sul celibato facoltativo. Da Bergoglio nessuna risposta.

 Nonostante nel 2016 fece scalpore il suo incontro a Roma con alcuni giovani preti sposati e le loro famiglie, a gennaio, sul volo di ritorno dalla Gmg di Panama, il Pontefice ha confidato di non voler cambiare la legge sul celibato. Anche la decisione di riammettere quei sacerdoti uxorati desiderosi di tornare in servizio non sarebbe troppo nelle sue corde.

“Facciano i buoni laici”, avrebbe ‘risolto’ la questione durante un incontro riservato con i vescovi italiani. Ce ne è abbastanza per cullare poche speranze. “Francesco potrebbe, però, avallare l’ordinazione dei viri probati in zone dove si fatica a celebrare la messa – vede il bicchiere mezzo pieno don Mocciaro –. Il Sinodo di ottobre sull’Amazzonia sarà decisivo. Sarebbe un passo significativo”. In controtendenza con una storia quasi millenaria.

Giovanni Panettiere   “www.quotidiano.net”  3 giugno 2019

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201906/190604panettiere.pdf

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CINQUE PER MILLE

5 per mille: è tornato il tetto dei 400 milioni

Nel 2017 i contributi devoluti dai cittadini alle associazioni con il 5‰ hanno superato i 500milioni di euro. Una tendenza positiva e in costante crescita che conferma la fiducia degli italiani nei confronti di Onlus, Ong ed Istituti di ricerca, a cui decidono di devolvere, ogni anno, una parte delle proprie imposte.

La notizia negativa riguarda proprio l’importo raggiunto quest’anno, che superando i 400 milioni, ha fatto scattare quel tetto, stabilito dal 2010 al 2013, oltre il quale quanto devoluto al terzo settore torna nelle casse dello Stato.

A lanciare l’allarme la testata Vita non profit, che ieri ha tenuto a palazzo Madama una conferenza stampa convocata dal senatore Pd Edoardo Patriarca, a cui hanno partecipato anche Maurizio Mumolo (direttore del Forum terzo settore), Mario Consorti (presidente NP Solutions), Rossano Bartoli (presidente della Lega del Filo d’oro) e Francesco Gesualdi (direttore generale di Ail).

L’appuntamento avviene a seguito di un’interrogazione parlamentare ai ministri delle Politiche sociali e delle Finanze, avviata dallo stesso Patriarca per conoscere i dati precisi ed innalzare lo stanziamento, visto che stanno aumentando sia i cittadini che scelgono di donare, che gli enti beneficiari.”

Le dichiarazioni dei cittadini fatte nel 2018 e nel 2017 su redditi del 2017 e 2016 hanno infatti superato il finanziamento alla norma così come è stato previsto dalla riforma del terzo settore. “Serve quindi un finanziamento supplementare di circa 30 milioni” – hanno spiegato i promotori durante la conferenza stampa – “perché tutte le scelte indicate dai cittadini possano essere soddisfatte e non sia di fatto surrettiziamente reintrodotto il tetto di spesa alla norma che già in passato fece perdere 310 milioni ai destinatari del 5‰, come è stato detto nel corso della conferenza”.

Clara Capponi   Csvnet  5 GIUGNO 2019

https://csvnet.it/component/content/article/144-notizie/3319-5-per-mille-e-tornato-il-tetto-dei-400-milioni?Itemid=893

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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

Firmato nuovo accordo di collaborazione con la Slovacchia

In data 7 maggio 2019 è stato sottoscritto da parte dell’Autorità Centrale della Slovacchia, il Centro per la Tutela Legale e Internazionale dei Bambini e dei Giovani, il nuovo protocollo d’intesa volto a rafforzare la cooperazione tra l’Italia e la Slovacchia con l’obiettivo di attuare in modo efficace la Convenzione sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozioni internazionali del 29 maggio 1993.

Grazie al nuovo accordo siglato dalla Vicepresidente Laura Laera e dalla Direttrice del Centro Andrea Císarová potranno riprendere le procedure adottive in Slovacchia, che si erano interrotte nel 2012.

Il protocollo d’intesa, strumento fondamentale nei rapporti tra le autorità centrali, oltre a far riferimento ai principi dell’Aja, stabilisce i diritti e doveri del Centro, della CAI e degli Enti autorizzati definendo anche nel dettaglio le modalità di deposito dei dossier delle famiglie aspiranti all’adozione e le relative procedure per il post-adozione.

Le innovazioni introdotte dall’accordo consentiranno procedure più semplici e trasparenti. L’auspicio unanime è che, a breve, gli enti autorizzati e accreditati possano riprendere le attività nel Paese.

Comunicato stampa 7 giugno 2019

www.commissioneadozioni.it/notizie/firmato-nuovo-accordo-di-collaborazione-con-la-slovacchia

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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Bassetti: la sinodalità diffusa non si esaurisce in un Sinodo

La Chiesa italiana «ha un impellente bisogno di essere guidata con comunione per poter rappresentare un punto di riferimento morale e sociale alle derive individualiste che si vanno affermando nel corpo sociale del Paese». E la via che indica il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, è quella dello «sviluppo di una coscienza sinodale». Ecco perché è urgente una «sinodalità diffusa». Che, «se abbiamo ben compreso le parole del Papa», vuol dire «qualcosa di diverso sia rispetto alla sola collegialità tra vescovi, sia rispetto alla celebrazione puntuale di un Sinodo». Compreso – verrebbe da pensare – quello nazionale della Chiesa italiana di cui si è parlato negli ultimi mesi.

Bassetti non ne fa esplicito riferimento aprendo ieri l’Assemblea diocesana di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola ma viene in mente anche quando il porporato scandisce: «Come ho già detto in Cei, voglio essere chiaro su un punto decisivo: non si può costruire la sinodalità partendo dall’alto». Spunto per tornare a riflettere su una questione cara al cardinale – la sinodalità, appunto – è il tema dell’itinerario in quattro giornate che da qui a settembre segnerà il cammino della diocesi guidata dal vescovo Armando Trasarti: “I cristiani sono sinodali. Compagni di viaggio, portatori di Cristo nostra speranza”. «La sinodalità – sottolinea l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve nel centro pastorale di Fano – è un metodo di vita e di governo della comunità diocesana: in definitiva, è un modo di vivere la Chiesa quotidianamente e non si esaurisce certo in un Sinodo».

 Il cardinale ricorda che i Sinodi possono essere accompagnati da «due grandi rischi»: da un lato, «che un Sinodo si trasformi in un’iniziativa di vertice diretta da una ristretta élite di laici e preti»; dall’altro lato, che il Sinodo diventi «un evento emozionale che dissipi il suo significato con la conclusione dell’evento». Nulla di più sbagliato. Per essere «sinodali» vanno coinvolte giorno dopo giorno le «varie componenti della Chiesa: i laici, il presbiterio, i diaconi, i consacrati, i movimenti ecclesiali e le associazioni d’ispirazione cattolica». Bassetti cita papa Francesco: «La Chiesa sinodale è sinfonica e “poliedrica”». E ha al centro «una maggiore corresponsabilità» fra clero e laicato e «il discernimento comunitario» che consente di «concretizzare il tema fondamentale dell’Evangelii gaudium: quello di una Chiesa in uscita e missionaria».

Il presidente della Cei esorta ad approfondire l’esortazione apostolica, testo programmatico di papa Bergoglio, che lo stesso Francesco aveva affidato alla Chiesa italiana nel Convegno ecclesiale nazionale di Firenze nel 2015. «È lo snodo cruciale attorno al quale ogni diocesi è chiamata a dare una risposta: ovvero, iniziare un autentico percorso sinodale, seguendo lo spirito dell’Evangelii gaudium, come ha auspicato il Papa», afferma Bassetti.

Non manca un’analisi a tratti critica della comunità ecclesiale nella Penisola. «Nelle varie diocesi – osserva il cardinale – il ministero episcopale, pur nello zelo e nella generosità della stragrande maggioranza dei vescovi, è troppo isolato a fronte di presbiteri infragiliti e di un mondo laicale frammentato, nonché di un popolo di fedeli sedotto da una secolarizzazione accattivante e suadente. Anche di fronte alla gestione dei casi delicati, come gli abusi o altre questioni, spesso il vescovo è troppo solo, senza il conforto della comunità. Le donne, inoltre, sono quasi completamente assenti dagli aspetti decisionali». Se manca «il coinvolgimento delle varie realtà e personalità», «non passa» l’annuncio del Vangelo che comunque va trasmesso «senza piegarlo ai propri interessi o alle proprie visioni culturali o addirittura politiche».

Giacomo Gambassi    “Avvenire”     4 giugno 2019

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201906/190604gambassi.pdf

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CONGRESSI – CONVEGNI – CORSI – SEMINARI

Corso di Alta Formazione in Consulenza Familiare con specializzazione pastorale

Il Corso di Alta Formazione in Consulenza Familiare con specializzazione pastorale, si svolgerà, per le due settimane estive, a La Thuile (AO) In Valle D’Aosta dal 7 al 21 luglio 2109.

In allegato è possibile scaricare il dépliant dettagliato del biennio e quello sintetico che mostra tutto il percorso del triennio

https://famiglia.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/23/2018/11/12/ALTA-FORMAZIONE2019.pdf

https://famiglia.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/23/2018/11/12/DEPL-SINTETICO-2018-2020.pdf

https://famiglia.chiesacattolica.it/corso-di-alta-formazione-2019

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CORTE COSTITUZIONALE

Libertà sessuale sì, ma…

Corte Costituzionale, sentenza n. 141, 7 giugno 2019

www.giurcost.org/decisioni/2019/0141s-19.html

Anche nell’attuale momento storico, e al di là dei casi di “prostituzione forzata”, la scelta di “vendere sesso” è quasi sempre determinata da fattori – di ordine non solo economico, ma anche affettivo, familiare e sociale – che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo. In questa materia, lo stesso confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono è spesso labile e sfumato.

            È, questo, uno dei passaggi della motivazione con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Bari sulle disposizioni della “legge Merlin” che puniscono il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione (articoli 3, primo comma, numeri 4, prima parte e 8 della Legge 20 febbraio 1958 n.75).

www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1958-03-04&atto.codiceRedazionale=058U0075&elenco30giorni=false

Con la sentenza n. 141 depositata oggi (relatore Franco Modugno) la Corte spiega che queste incriminazioni mirano a tutelare i diritti fondamentali delle persone vulnerabili e la dignità umana. Una tutela che si fa carico dei pericoli insiti nella prostituzione, anche quando la scelta di prostituirsi appare inizialmente libera: pericoli connessi, in particolare, all’ingresso in un circuito dal quale sarà difficile uscire volontariamente e ai rischi per l’integrità fisica e la salute cui ci si espone nel momento in cui ci si trova a contatto con il cliente.

È dunque il legislatore, quale interprete del comune sentire in un determinato momento storico, che ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, un’attività che degrada e svilisce la persona.

            La Corte d’appello di Bari aveva sostenuto che l’attuale realtà sociale è diversa da quella dell’epoca in cui le norme incriminatrici furono introdotte: accanto alla prostituzione “coattiva” e a quella “per bisogno”, oggi vi sarebbe infatti una prostituzione per scelta libera, volontaria, qual è quella delle “escort” (accompagnatrici retribuite, disponibili anche a prestazioni sessuali). Una simile scelta costituirebbe espressione della libertà di autodeterminazione sessuale, garantita dall’articolo 2 della Costituzione: libertà che verrebbe lesa dalla punibilità di terzi che si limitino a mettere in contatto la “escort” con i clienti (reclutamento) o ad agevolare la sua attività (favoreggiamento).

Al contrario, la Corte costituzionale ha osservato che l’articolo 2 della Costituzione, nel riconoscere e garantire i «diritti inviolabili dell’uomo», si pone in stretta connessione con il successivo articolo 3, secondo comma, che, al fine di rendere effettivi questi diritti, impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali al «pieno sviluppo della persona umana». I diritti di libertà – tra i quali indubbiamente rientra anche la libertà sessuale – sono, dunque, riconosciuti dalla Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona, e di una persona inserita in relazioni sociali.

            La prostituzione, però, non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma solo una particolare forma di attività economica. In questo caso, infatti, la sessualità non è che una “prestazione di servizio” per conseguire un profitto. Né vale obiettare che un diritto fondamentale resta tale anche se esercitato dietro corrispettivo. L’argomento prova troppo: in questo modo, qualsiasi attività imprenditoriale o di lavoro autonomo, se collegata a una libertà costituzionalmente garantita, diventerebbe un diritto inviolabile, nella misura in cui richiede l’esercizio di libertà costituzionalmente garantite.

            Né, secondo la Corte costituzionale, viene violata la libertà di iniziativa economica privata per il fatto di impedire la collaborazione di terzi all’esercizio della prostituzione in modo organizzato o imprenditoriale. Tale libertà è infatti protetta dall’articolo 41 della Costituzione solo in quanto non comprometta valori preminenti, quali la sicurezza, la libertà e la dignità umana.

            Le disposizioni incriminatrici contenute nella legge Merlin si connettono a questi valori. Il fatto che il legislatore individui nella persona che si prostituisce il soggetto debole del rapporto spiega, inoltre, la scelta di non punirla, a differenza di quanto avviene per i terzi che si intromettono nella sua attività.

            La Consulta ha anche escluso la violazione del principio di offensività. L’individuazione dei fatti punibili è rimessa alla discrezionalità del legislatore, nel limite della non manifesta irragionevolezza, poiché implica valutazioni tipicamente politiche: e ciò tanto più rispetto alla prostituzione, che, come rivela l’analisi storica e comparatistica, si presta a diverse strategie di intervento.

            Resta comunque ferma, rispetto alla disciplina vigente, l’operatività del principio di offensività “in concreto”, che impone al giudice di escludere il reato quando la condotta risulti, per le specifiche circostanze, concretamente priva di ogni attitudine lesiva.

            La Corte esclude, infine, che la norma incriminatrice del favoreggiamento della prostituzione sia in contrasto con i principi di determinatezza e tassatività perché l’eventuale esistenza di contrasti sulla rilevanza penale di determinate marginali ipotesi di favoreggiamento rientra nella fisiologia dell’interpretazione giurisprudenziale.

Roma, Comunicato del 7 giugno 2019

www.settimananews.it/diritto/liberta-sessuale-si

 

Prostituzione: dignità umana e autodeterminazione sentenza n. 141\2019 della Corte Costituzionale

Con la sentenza n. 141 del 7 giugno 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Bari con riferimento alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, sulla prostituzione.

www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1958-03-04&atto.codiceRedazionale=058U0075&elenco30giorni=false

In particolare, nel corso del giudizio d’appello contro la sentenza del Tribunale di Bari che aveva dichiarato quattro imputati colpevoli dei delitti di reclutamento di persone ai fini della prostituzione e di favoreggiamento della stessa, il dubbio di costituzionalità era stato posto, con l’ord. 6 febbraio 2018, sull’art. 3, comma 1 (n. 4, prima parte, e n. 8) della legge n. 75 del 1958, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 41 Cost., nella parte in cui configurano “come illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata».

Per il giudice che ha sollevato l’eccezione “il fenomeno sociale della prostituzione professionale delle escort” costituirebbe un elemento di novità non prevedibile all’epoca di scrittura della legge. Accanto alla prostituzione “per bisogno” e a quella “coattiva”, vi sarebbe oggi una prostituzione scelta liberamente e volontariamente ed è alla luce di questa nuova realtà sociale che andrebbe verificata la legittimità delle soluzioni normative adottate in precedenza.

La libertà di esercitare la prostituzione, concepita dal legislatore del 1958 come esigenza di tutelare la donna dallo sfruttamento altrui, avrebbe oggi bisogno di una “connotazione ben più positiva e piena”: la scelta di prostituirsi sarebbe una “modalità autoaffermativa della persona umana, che percepisce il proprio sé in termini di erogazione della propria corporeità e genitalità” verso la dazione di diverse utilità.
La scelta di offrire prestazioni sessuali verso corrispettivo costituirebbe per la Corte remittente una forma di manifestazione della libertà di autodeterminazione sessuale, garantita dall’art. 2 Cost. come diritto inviolabile dell’uomo, ma anche una espressione della libertà di iniziativa economica privata tutelata dall’art. 41 Cost.

Non solo. Le norme censurate sarebbero in contrasto con il principio di offensività, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27 Cost.: dal momento che il bene protetto dalla legge n. 75 del 1958 non sarebbe più la morale pubblica e il buon costume, ma la libera autodeterminazione della persona, a dire del Giudice di Bari, le condotte di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione, liberamente esercitata, risulterebbero inoffensive: esse sarebbero produttive di un vantaggio (e non di un danno) per lo stesso interesse tutelato.

La sola fattispecie del favoreggiamento sarebbe poi lesiva anche dei principi di tassatività e determinatezza dell’illecito penale, ex art. 25, comma 2, Cost., dal momento che la formula descrittiva utilizzata – “chiunque, in qualsiasi modo, favorisca…” – risulterebbe eccessivamente generica.

La Corte costituzionale prima di decidere nel merito le questioni di legittimità ricostruisce il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ricordando come il fenomeno della prostituzione volontaria rappresenta “un tema fra i più problematici per il legislatore penale”, vista “l’amplissima gamma di risposte differenziate circa l’an e il quomodo dell’impiego della sanzione penale”.

Alla base delle diverse soluzioni normative la Corte rileva una preliminare opzione tra due visioni alternative. In base alla prima, la prostituzione sarebbe da considerare “una scelta attinente all’autodeterminazione in materia sessuale dell’individuo” (visione, tra l’altro, fatta propria dalla Corte remittente): tale scelta darebbe luogo ad un’attività economica legale e lo Stato dovrebbe limitarsi a regolare l’esercizio dell’attività per far fronte ai possibili pericoli.

L’altra visione alla quale fa riferimento la Corte costituzionale considera la prostituzione come un fenomeno da contrastare per una pluralità di ragioni: la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili; la protezione della dignità umana “intesa in una accezione oggettiva, ossia come principio che si impone a prescindere dalla volontà e dalle convinzioni del singolo individuo”; la difesa della salute, individuale e collettiva; motivi di ordine pubblico. Lo Stato, in questa prospettiva, dovrebbe prevedere una disciplina di sfavore e stabilire diverse ipotesi punitive.

Dopo l’excursus, anche storico, della legislazione in materia, la Corte costituzionale entra nel merito del giudizio di legittimità costituzionale.

In relazione alla presunta violazione dell’art. 2 Cost. e, pertanto, del presunto diritto inviolabile alla libertà di autodeterminazione sessuale, la Corte dichiara la questione infondata giacché l’art. 2 Cost. costituisce “un parametro non conferente rispetto all’(intromissione di terzi nell’) esercizio dell’attività di prostituzione”.
La volontaria e libera scelta di offrire prestazioni sessuali verso corrispettivo “non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana”, contemplato dall’art. 2 Cost., “ma costituisce – molto più semplicemente – una particolare forma di attività economica”. Tanto più che l’incidente di costituzionalità mirava a tutelare non tanto la persona che si prostituisce, “ma, in prima battuta – e soprattutto – i terzi che si intromettono nell’attività o che cooperano con essa”.

Pertinente è, invece, per la Corte il riferimento all’art. 41 Cost, ma anche in questo caso la questione risulta infondata: la libertà di iniziativa economica è tutelata dalla Carta ma “a condizione che non comprometta altri valori che la Costituzione considera preminenti”, tra i quali la dignità umana.

Sono due i passaggi importanti nella riflessione che fa il giudice delle leggi: l’impossibilità di tracciare una “linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono” – essendo questa linea fluida già sul piano teorico (e ancor di più su quello di verifica processuale) visti i “fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali” (fattori di ordine economico, di disagio sul piano affettivo o sociale) – e il riferimento alla tutela della dignità umana, intesa nella cornice dell’art. 41 Cost., comma 2, in senso oggettivo.
Per la Corte, infatti, non si può far riferimento alla “dignità soggettiva”, “quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore” e la discrezionalità del Parlamento in materia a tutela del “soggetto debole” è piena (e dunque legittima la scelta di non intervenire penalmente nei confronti di quest’ultimo ma solo nei confronti dei terzi che “interagiscono con la prostituzione”).

È il legislatore che ravvisa nella prostituzione anche volontaria “una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente”.
Proprio rispetto alla discrezionalità del Parlamento in materia viene dichiarata infondata anche la questione di legittimità rispetto al principio di offensività del reato: “l’individuazione dei fatti punibili, così come la determinatezza della pena per ciascuno di essi, costituisce materia affidata alla discrezionalità del legislatore”, giacché “gli apprezzamenti in ordine alla ‘meritevolezza’ e al ‘bisogno di pena’ ..sono … per loro natura tipicamente politici”.

Mentre la Corte d’appello di Bari affermava la legittimità del reclutamento delle libere prostitute professionali all’interno “del libero incontro sul mercato del sesso tra domanda e offerta”, la Corte ribadisce un principio antichissimo – anche se oggi non più così scontato (si pensi, ad esempio, alla possibilità in ordinamenti diversi da quello italiano di “offrire” a pagamento gli ovociti a fini riproduttivi) – quello della non commerciabilità del corpo umano, in virtù della tutela della dignità umana.

Nella sentenza la dignità umana viene tutelata pienamente dalla Corte costituzionale, attraverso il riconoscimento del carattere oggettivo della stessa, non dipendente dalla percezione individuale o dagli interessi del singolo: una dignità non relegata esclusivamente sul piano soggettivo, ma in grado di proteggere valori superiori rispetto agli interessi economici e che arriva a porsi come limite, in questa sua accezione oggettiva, anche all’autodeterminazione personale.

In questo caso, pertanto, la Corte non soltanto riconosce la distinzione tra dignità e autodeterminazione – che sempre più spesso oggi sembrano confondersi l’una con l’altra – ma afferma anche la necessità di non limitarsi ad una concezione assoluta, fredda e tirannica dell’autodeterminazione, ma di riconoscere il suo carattere “fluido”, condizionabile da molteplici fattori (economici, famigliari, affettivi, sociali…) che vanno a  ridurre, “drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali”.

Non ogni volontà espressa sotto forma di diritto all’autodeterminazione personale può essere garantita come diritto inviolabile ex art. 2 Cost.

Il giudice delle leggi ricorda come i diritti inviolabili riconosciuti e garantiti ex art. 2 Cost. sono sempre in connessione a quanto previsto dal successivo art. 3 Cost., comma 2, “che al fine di rendere effettivi tali diritti, impegna altresì la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il ‘pieno sviluppo della persona umana’”.

L’art. 2 Cost. “collega, dunque, i diritti inviolabili al valore della persona e al principio di solidarietà”: “tale valore fa riferimento non all’individuo isolato, ma a una persona titolare di diritti e doveri e, come tale, inserita in relazioni sociali”.

Per la Corte “è il collegamento con lo sviluppo della persona a qualificare la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost.”, con la conseguenza che non tutte le espressioni di volontà partecipano alla natura di diritto inviolabile.

            I principi affermati nella sent. n.141 del 2019 costituiscono le basi a fondamento del principio personalistico nell’ordinamento italiano.

Stupisce come possano essere diametralmente opposti, a quelli contenuti nell’ordinanza n. 207 del 2018 della stessa Corte in tema di fine vita, nel caso dj Fabo. E ciò in riferimento al riconoscimento di un’accezione (anche) oggettiva insita nella tutela della dignità umana; all’individuazione di limiti (anche impliciti!) all’autodeterminazione personale; alla lettura data all’art. 2 Cost. sia per quanto riguarda i diritti inviolabili che i doveri di solidarietà (lettura che non abbandona l’individuo, ma ne tutela il valore all’interno di relazioni umane); alla discrezionalità piena lasciata al Parlamento in ambito d’individuazione dei fatti punibili e di determinazione della pena (in quanto scelte politiche).

È vero, la materia è differente.

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2018&numero=207

Nella sentenza n. 141 si parla di autodeterminazione nella sfera sessuale, di prostituzione (più o meno) volontaria, e si discute sulla legittimità costituzionale delle norme di legge che puniscono le attività che ne favoriscono l’esercizio; nell’ord. 207 si affronta il tema delicato della morte, del suicidio assistito, e si discute sulla legittimità costituzionale delle norme del codice penale che puniscono chi aiuta o agevola il suicidio di persone che si sono autodeterminate in tal senso. Il soggetto debole nella prima questione è la prostituta, nella seconda il malato che ritiene la sua vita non più degna di essere vissuta.
Tuttavia, non è possibile che la dignità umana possa avere una tutela diversa in relazione alla materia trattata; che in Costituzione siano contemplate varie dignità a seconda degli interessi e beni regolati dai singoli articoli; che, a seconda della fattispecie concreta, l’autodeterminazione incontri o meno il limite della dignità della persona.

Francesca Piergentili, dottore di ricerca nell’Università Europea di Roma

www.centrostudilivatino.it/prostituzione-dignita-umana-e-autodeterminazione-nella-sentenza-n-141-2019-della-corte-costituzionale/

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DALLA NAVATA

Domenica di Pentecoste – Anno C – 9 giugno 2019

Atti Apostoli    02, 01. Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo.

Salmo              103, 30 Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.

Romani            08, 14.  Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio.

Giovanni           14, 26. «Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

Lo Spirito Santo? È Dio in libertà

Lo Spirito, il misterioso cuore del mondo, radice di ogni femminilità che è nel cosmo (Davide M. Montagna), vento sugli abissi e respiro al primo Adamo, è descritto in questo vangelo attraverso tre azioni: rimarrà con voi per sempre, vi insegnerà ogni cosa, vi ricorderà tutto quello che vi ho detto. Tre verbi gravidi di bellissimi significati profetici: “rimanere, insegnare e ricordare”.

Rimanere, perché lo Spirito è già dato, è già qui, ha riempito la “camera alta” di Gerusalemme e la dimora intima del cuore. Nessuno è solo, in nessuno dei giorni. Se anche me ne andassi lontano da lui, lui non se ne andrà mai. Se lo dimenticassi, lui non mi dimenticherà. È un vento che non ci spinge in chiesa, ma ci spinge a diventare chiesa, tempio dove sta tutto Gesù.

Insegnare ogni cosa: nuove sillabe divine e parole mai dette ancora, aprire uno spazio di conquiste e di scoperte. Sarà la memoria accesa di ciò che è accaduto “’in quei giorni irripetibili” quando la carne umana è stata la tenda di Dio, e insieme sarà la tua genialità, per risposte libere e inedite, per oggi e per domani. Letteralmente “in-segnare” significa incidere un segno dentro, nell’intimità di ciascuno, e infatti con ali di fuoco/ ha inciso lo Spirito /come zolla il cuore (Davide M. Montagna).

Ricordare: vuol dire riaccendere la memoria di quando passava e guariva la vita e diceva parole di cui non si vedeva il fondo; riportare al cuore gesti e parole di Gesù, perché siano caldi e fragranti, profumino come allora di passione e di libertà. Lo Spirito ci fa innamorare di un cristianesimo che sia visione, incantamento, fervore, poesia, perché “la fede senza stupore diventa grigia” (papa Francesco).

Un dettaglio prezioso rivela una caratteristica di tutte e tre le azioni dello Spirito: rimarrà sempre con voi; insegnerà ogni cosa, ricorderà tutto.

Sempre, ogni cosa, tutto, un sentore di pienezza, completezza, totalità, assoluto. Lo Spirito avvolge e penetra; nulla sfugge ai suoi raggi di fuoco, ne è riempita la terra (Sal 103), per sempre, per un’azione che non cessa e non delude. E non esclude nessuno, non investe soltanto i profeti di un tempo, le gerarchie della Chiesa, o i grandi mistici pellegrini dell’assoluto. Incalza noi tutti, cercatori di tesori, cercatrici di perle, che ci sentiamo toccati al cuore dal fascino di Cristo e non finiamo mai di inseguirne le tracce.

Che cos’è lo Spirito santo? È Dio in libertà. Che inventa, apre, fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio fuorilegge, a Elisabetta un figlio profeta. E a noi dona, per sempre, tutto ciò di cui abbiamo bisogno per diventare, come madri, dentro la vita donatori di vita.

Padre Ermes Ronchi, OSM

www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=46029

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DONNE NELLA CHIESA.

Un ministero “più cattolico” aperto a “omnis utriusque sexus fidelis”.

Incontro con Mattia Lusetti

In un lungo e argomentato testo, Mattia Lusetti [filosofo, Università Tor Vergata, Roma] si è sobbarcato il compito di ricostruire un frammento del dibattito sul “ministero al femminile” che mi coinvolge direttamente. Anche il titolo appare chiaramente orientato a entrare in discussione con ciò che ho scritto negli ultimi due anni: Tradizione cattolica e sacerdozio femminile. Contro Andrea Grillo.

www.breviarium.eu/2019/06/03/andrea-grillo-tradizione-cattolica-sacerdozio-femminile

Contrariamente a quanto appare dal sottotitolo, tuttavia, si tratta di un testo non particolarmente polemico e realmente interessato al dibattito sul ministero femminile. L’autore, infatti, ricostruisce ampiamente il senso del dibattito e lo colloca, correttamente, nell’ampio orizzonte della “evoluzione della tradizione”. Io direi, si appassiona alla “traduzione della tradizione” e per questo merita una risposta almeno altrettanto argomentata e sicuramente riconoscente. Ne deriva, perciò, non uno scontro, ma un incontro con una sua efficacia chiarificatrice e riconciliatrice.

Pertanto vorrei brevemente riassumere l’approccio di Lusetti (1), mettere a fuoco il centro del suo argomentare (2), rispondere a questa sua impostazione (3) e infine concludere sul piano generale.

1.La sintesi di una questione. La ricostruzione della discussione, come appare nella dettagliata rassegna che ne offre Lusetti, si concentra giustamente sul “punto-chiave” della mia argomentazione: ossia una concezione della autorità ecclesiale capace di assumere i segni dei tempi, di tradurre la tradizione, tenendo conto di quei criteri che già il Concilio di Trento aveva considerato rilevanti nella “dispensatio sacramenti”, secondo il mutare dei tempi e dei luoghi.

Vi è dunque uno sviluppo nella comprensione della rivelazione e un progresso della tradizione. In un passaggio successivo, sempre sul piano della ricostruzione, Lusetti organizza il dibattito sul ministero femminile come la interazione tra tre “fuochi” della argomentazione:

– la rivelazione come fondamento di prassi e comprensione

– la rivelazione come sviluppo di prassi e di comprensione

– i segni dei tempi come principi di riconsiderazione della tradizione

            La relazione tra questi tre fuochi permette all’autore di chiarire meglio la sua perplessità. Restando ancora sul piano di una chiarificazione egli precisa due punti, che risultano importanti per capire bene la sua contestazione nei confronti della mia prospettiva:

  • La “trasformazione” del ruolo della donna nella cultura a partire dal XIX secolo e la sua emancipazione dalla “minorità”, che viene apertamente riconosciuta, non può esigere che si risponda “in maniera unica e univoca con l’accesso al ministero ordinato”: ciò sarebbe una chiusura non tanto verso la tradizione come ripetizione, ma piuttosto sarebbe “chiusura dell’agire di Dio in un intervento giuridico-sacramentale di istituzionalizzazione”;
  • D’altra parte la “obbedienza al passato”, dal quale emerge la assenza di ordinazione sacerdotale della donna, potrebbe a sua volta essere considerata una chiusura non soltanto verso gli “errori del mondo e di altre chiese”, ma piuttosto “chiusura rispetto a ciò che si pretende custodire come oggetto di fede”.

La dialettica messa in campo da Mattia Lusetti appare molto articolata e ben costruita. Mi sembra di poter riconoscere in larga parte la pertinenza di questa impostazione. Che tuttavia giunge ad una “stretta”, nella quale credo di ravvisare un punto cieco e una confusione. Espongo subito questo passaggio centrale della sua obiezione.

2. La obiezione fondamentale. Dopo la sua accurata ricostruzione, l’autore riassume il centro della sua obiezione in un passaggio che voglio riportare per intero, perché la discussione di esso mi sembra decisiva per far progredire il dialogo e chiarire alcuni elementi della mia posizione che non trovo rappresentati in modo adeguato.

Ecco il passaggio centrale che contiene la obiezione di fondo e di cui sottolineo in grassetto le locuzioni che intendo discutere: “Mi pare si possa mostrare come la riflessione del nostro teologo comporti alcuni appiattimenti. Il discernimento e la prassi che la libertà è chiamata ad assumersi responsabilmente è appiattita su di una modalità rivendicativa condivisa da alcuni movimenti all’interno della Chiesa e sull’assoluta ed inderogabile necessità di un’affermazione dogmatico-giuridico-istituzionale ben precisa: il sacerdozio/diaconato femminile. Il problema è che qui del segno dei tempi dell’emancipazione femminile si elimina un reale discernimento e una invenzione creativa. Infatti il segno è diventato univoco, la forma unica e l’unica possibile: l’accesso delle donne al sacerdozio. Se è l’agire creativo e fedele di Dio ciò a cui bisogna rispondere qui mi pare che ci sia una chiusura anche se paradossalmente sotto la forma di un’apertura cioè di un accesso ad un ministero. Infatti il teologo – a meno che non debba assumersi il solo compito di “dare ragione dell’esistente” – ha la possibilità, per certi versi il dovere, di indagare tutte quelle possibilità di partecipazione d munera e funzioni che restano aperte. Se invece il teologo chiude il lavoro di discernimento e di rilancio dei segni dei tempi su di un punto soltanto, il sacerdozio femminile, rischia di sclerotizzarsi inaugurando una specie di scontro di pressioni”.

            Questo testo, che riprende in modo critico la dettagliata analisi precedente, introduce una serie di imprecisioni e di appiattimenti, di cui io non mi sento responsabile, ma che mi pare di subire nella ricostruzione.

E’ evidente che ogni teologo, che voglia evitare soltanto di “dare ragione dell’esistente”, si avventura sempre su un terreno “minato”. Ma per giudicarne l’operato occorre dire esattamente quello che lui sostiene, e non altro. Per questo voglio rispondere a questa ricostruzione con una serie di chiarificazioni necessarie.

3. Una risposta articolata

  1. Il cuore della obiezione starebbe nella “univocità” e nella “unicità” della risposta che io chiederei alla “libertà della autorità ecclesiale”, che sarebbe il “sacerdozio femminile”. Ma dai testi che Lusetti ha così accuratamente studiato, non si può desumere mai questa opzione. Io parlo sempre di “accesso della donna al ministero ordinato” e specifico questo accesso nella forma della “ordinazione diaconale”. Il campo di esercizio possibile della autorità ecclesiale, nel quale occorre certamente una “traduzione della tradizione”, non è univoco, ma discerne nel campo del ministero ordinato, e si orienta sul terzo grado, quello del diaconato, su cui la tradizione offre qualche testimonianza e un grande silenzio. Ciò è inevitabile, dato che questo “terzo grado” è una “reistituzione” e una “restituzione” che inizia solo nel 1966.
  2. La qualificazione di “rivendicativa” che viene attribuita a questa mia posizione sembra a me ingiustificata. Perché dovrebbe essere rivendicativo proporre la apertura del diaconato permanente anche alle donne, e non sarebbe invece rivendicativo pretendere di riservare il diaconato agli uomini? Un assetto di esercizio della autorità, per quanto attestato da una tradizione, non può considerare semplicemente come una “rivendicazione” un ampliamento soggettivo e oggettivo dell’esercizio della medesima autorità. Si potrebbe considerare una “rivendicazione” pagana la estensione del battesimo agli incirconcisi? Si potrebbe considerare una “rivendicazione pauperistica” il richiamo di s. Francesco a una Chiesa povera? Si potrebbe considerare “rivendicazione” la domanda di ascolto dei 5 continenti rispetto alla Europa nelle dinamiche post-conciliari degli ultimi 50 anni? O è “rivendicazione” celebrare la liturgia nella lingua del popolo?
  3. Dunque la mia posizione non è né rivendicativa, né univoca. Distingue tra rivendicazione di soggetti e ricchezza di cui la Chiesa non può privarsi; e tra “univocità del sacerdozio” e “articolazione del ministero ordinato in tre gradi”. Ed è il “combinato disposto” di queste due novità – la donna nello spazio pubblico, e una comprensione nuova del ministero ordinato, non solo più sacerdotale – a dischiudere un campo di interesse teologico e pastorale nuovo, che d’altra parte Lusetti riconosce apertamente.
  4. Vi è poi una terza e più insidiosa dialettica, su cui Lusetti richiama la attenzione: è la possibile chiusura di cui resterebbe vittima una effettiva apertura istituzionale, mentre solo una chiusura istituzionale sembrerebbe garantire una efficace apertura. Ciò che per Lusetti è problematico è che la risposta debba assolutamente assumere la forma istituzionale di una “ammissione all’ordine sacro”. Mentre sarebbe auspicabile – e a suo dire realmente aperto – un orientamento del dibattito e della attenzione su altri “munera e funzioni”, che lascino intatta la tradizione esclusivamente maschile del ministero ordinato. D’altra parte, va riconosciuto apertamente che Lusetti, con rigore, applica la medesima dialettica di “apertura/chiusura” non solo al teologo, ma anche al Magistero, che potrebbe trovare la propria profezia proprio nella elaborazione di una tale possibilità, e trovare invece nella chiusura la via più “comoda”. Tuttavia, alla fine di queste dialettiche raffinate, mi sembra che un certo “sospetto” verso la “istituzionalizzazione” appaia come una sorta di “preferenza”, che giustificherebbe il “contro” del titolo, altrimenti quasi ingiustificabile.
  5. A questo punto a me pare che si debba molto ampliare il discorso e ragionare su un piano più vasto. Infatti i “segni dei tempi” annunciati da Pacem in terris nel 1963 – non solo quello della donna che si emancipa, ma anche quello dei lavoratori che si affrancano e dei popoli che si liberano – hanno avuto inevitabilmente ricadute di tipo istituzionale. Per restare al “segno” donna, vorrei fare un esempio diverso, ma altrettanto forte: come si è passati dalla “patria potestà” alla “potestà genitoriale”? Attribuendo formaliter non solo al padre, ma anche alla madre, la autorità nella educazione dei figli. Questo è stato un processo lungo, lento, che la Chiesa ha saputo gradualmente riconoscere, e lo ha fatto entrando direttamente nella gestione di una autorità più complessa. Se avessimo detto: che bisogno c’è di dare forma istituzionale a questa nuova comprensione della autorità femminile, che cosa ne sarebbe disceso? Credo che lo stesso ragionamento, mutatis mutandis, debba essere fatto per la “autorità ecclesiale”, intesa non semplicemente come “esercizio della autorità”, ma come “testimonianza ecclesiale e custodia della fede apostolica incarnata e resa sperimentabile nella persona di una donna”. Per quello che, con bella lucidità, Serena Noceti ha chiamato “il noi ecclesiale”, che il ministero diaconale, esteso anche alle donne, sarebbe in grado di attestare: “Le donne potrebbero, a mio parere, servire in questa specifica figura ministeriale il noi ecclesiale, che ne uscirebbe indubbiamente trasformato. La presenza di donne diacono ordinate, sul fondamento di quanto avveniva già nei primi secoli (per altro in un contesto patriarcale e androcentrico, di per sé non favorevole), permetterebbe una parola pubblica di proclamazione del Vangelo, l’apporto dell’omelia, la moderazione di celebrazioni della Parola e del battesimo con ministri ordinari da parte di donne: l’apostolicità della fede verrebbe custodita in modo nuovo e il volto della Chiesa mostrerebbe più chiaramente la sua natura inclusiva, di popolo di uomini e donne” (S. Noceti, Il tempo del noi. Donne e ministero diaconale, “Il Regno- attualità”, 19(2019), 305-314, qui 314).

4. Lavorare dialogicamente al servizio di una autorità “più cattolica”. Come appare evidente, la correlazione tra diversi livelli della tradizione impegna la Chiesa in un discernimento complesso ed esigente. Nulla sarebbe più dannoso di una soluzione poco meditata. Per questo ritengo che il contributo della teologia alla elaborazione di una “autorevolezza ministeriale della donna” costituisca un passaggio decisivo, nel quale è possibile impegnarsi con audacia e con pazienza. In tutto ciò, e tenendo conto di tutti e tre i livelli messi in luce dal mio interlocutore, possiamo riconoscere, con non troppa difficoltà, ciò che K. Rahner vedeva lucidamente molti decenni or sono, quando diceva: “La donna, vista come unica e sempre uguale…in fondo non esiste” (K. Rahner, La donna nella nuova situazione della Chiesa, in Id., Nuovi Saggi II, Roma 1968, 445-465, qui 463). Se mettiamo insieme due eventi che si sono manifestati negli anni 60, pur avendo una storia molto più antica, possiamo facilmente comprendere come si possa avviare un processo di “nuova recezione” sia del ministero che della autorità femminile:

  1. Una profonda ricomprensione del ministero ordinato, portata dal Concilio Vaticano II, con la scoperta della sacramentalità e della autonomia dell’”episcopato” e del “diaconato” rispetto al presbiterato (che tradizionalmente aveva concentrato tutta la attenzione sul sacerdozio);
  2. Una altrettanto profonda ricomprensione della “donna”, non più ridotta a “sesso femminile” come impedimento e considerata e scoperta nello “spazio pubblico”, come risorsa capace di autorità e portatrice di “presenza ecclesiale autorevole e ufficiale”.

La composizione di questa duplice novità dovrebbe impedire di chiudere il discorso semplicemente con la “negazione” alla “donna” della “rivendicazione” del “potere sacerdotale”. Impostata così, la risposta sarebbe comandata da una domanda mal formulata. Si tratta, invece, di un arricchimento del ministero ecclesiale, che non solo ha reistituito e ricompreso il diaconato con antiche e nuove funzioni, ma che, grazie alla evoluzione della propria tradizione ministeriale, ha scoperto in sé la libertà di riconoscere alla donna la autorità per poter esercitare in pienezza questo grado del ministero ordinato. Rispetto ad una comprensione che rischia di “bloccare” il cattolicesimo sul suo passato prossimo, seguendo invece le orme del Concilio Vaticano II mi sembra che questa apertura dischiuderebbe una prospettiva più inclusiva, più universale, direi “più cattolica”.

Andrea Grillo  blog Come se non     5 giugno 2019

www.cittadellaeditrice.com/munera/un-ministero-piu-cattolico-aperto-a-omnis-utriusque-sexus-fidelis-incontro-con-mattia-lusetti

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STORIA

Lo sposo non è un marito, e altre mirabolanti realtà che non conoscevate riguardo il matrimonio medievale

E dire che di romanzi e di film storici ne ho letti e visti tanti. Non uno – non uno – tra tutti quelli che ho all’attivo, che sia mai riuscito a rappresentare il matrimonio medievale così come realmente era. Nei telefilm ad ambientazione storica, a me piange il cuore tutte le volte che vedo entrare in chiesa l’emozionata sposa, raggiante nel suo vestito bianco, con lo sposo che l’aspetta all’altare al suono delle campane.

Il fatto gli è, signori e signori, che il matrimonio medievale era quanto di più lontano dalla nostra idea di “matrimonio moderno”. (Ammesso e non concesso che di “matrimonio moderno” si possa parlare: sarebbe forse più corretto dire “contemporaneo”. Come spiegavo qui, il nostro concetto di “matrimonio tradizionale” esiste solo nelle nostre teste)

            Certo è che, se ci spostiamo un po’ più in là nei secoli, il senso di disorientamento cresce. Se, disponendo di una macchina del tempo, venissimo invitati a un matrimonio medievale, ci troveremmo di fronte a un qualcosa di così bizzarro che probabilmente non capiremmo nemmeno a cosa stiamo assistendo.

E dunque, per la serie “demoliamo un po’ dei preconcetti che abbiamo sulla Storia”, ecco a voi cinque convinzioni (errate) sul matrimonio medievale che sicuramente avete (o avete avuto) anche voi… con relativa spiegazione sul perché sono sbagliate.

1. Il giorno del matrimonio è uno. Ti sposi un momento ben preciso. Se le coppie medievali avessero avuto la consuetudine moderna di festeggiare gli anniversari di matrimonio, le sposine medievali sarebbero state le donne più fortunate della terra: sì, perché per loro “l’anniversario di matrimonio” non era uno solo. Ce ne potevano essere tre o quattro, se non anche di più. Noi, oggigiorno, abbiamo la non irragionevole tendenza a presumere che il matrimonio sia una cosa che si formalizza in un momento solo. Nel Medioevo la gente era strana forte, e dunque aveva un matrimonio a tappe. Tappe tra le quali potevano trascorrere, se necessario, anche parecchi anni.

Nel matrimonio-tipo, cioè quello tra famiglie ricche, le prime fasi erano affidate alle sapienti cure di un sensale, un professionista del mestiere che fungeva da “agenzia matrimoniale” mettendo in contatto le famiglie che avevano figli da maritare. Se le due famiglie riuscivano a trovare un compromesso soddisfacente, aveva luogo un incontro ufficiale tra i genitori dei futuri sposi, durante il quale l’accordo matrimoniale era suggellato da una stretta di mano. La si chiamava “impalmamento”, dai due palmi che si toccavano. Ancor oggi nel linguaggio colloquiale si dice scherzosamente che “eh! T’hanno impalmato!”: il termine deriva proprio da questa antica cerimonia, che costituiva già di per sé un impegno formale ufficialmente assunto. Annullare un matrimonio dopo la cerimonia d’impalmamento sarebbe stata un’onta grave, che avrebbe generato pesantissima inimicizia.

La cerimonia di impalmamento faceva sì che si parlasse già di “matrimonio”, anche se, da sola, non bastava a rendere legalmente valido il contratto. Per arrivare a una piena validità legale era necessario il secondo il step del matrimonio: le “giure”, che potevano tenersi il giorno stesso dell’impalmamento, oppure – a discrezione delle famiglie – a qualche tempo di distanza. In occasione delle giure, le due famiglie al gran completo (per intenderci: la reunion dei parenti che non vedevi da vent’anni ma che ti tocca invitare al pranzo sennò la zia si offende) si davano appuntamento al cospetto di un notaio, ove lo sposo e il padre della sposa davano pubblicamente il loro assenso alle nozze. Il notaio era testimone di questo assenso, che aveva dunque da quel momento piena ufficialità.

La sposa non era presente. Sola come una derelitta mentre tutta la famiglia era fuori a – ehm – festeggiare il suo proprio matrimonio, la sposa se ne stava in casa con qualche serva, ad aspettare che lo sposo venisse a visitarla. Quando finalmente gli invitati arrivavano – ehm – a casa della sposa, la sposa si univa al neo-marito (?) e partecipava con lui a un sontuoso banchetto (quello che noi definiremmo “il pranzo di nozze”).

Dopodiché, i novelli sposi si salutavano con cari saluti e tornavano a farsi i fatti loro per gli anni a venire.

Tecnicamente, i due erano già marito e moglie, anzi no: tecnicamente, erano sposo e sposa. E se guardiamo all’etimologia del termine (dal latino spondeo, “prometto”) ci rendiamo conto che il termine “sposi” ha una sfumatura di significato che vira di più sul versante di “promessi sposi”. Gli sposi medievali, insomma, sono coniugi a metà: sono già sposati, ma non sono ancora marito e moglie; hanno diritti e doveri coniugali, ma, ad esempio, non vivono ancora assieme.

Potevano passare mesi, talvolta anni, talvolta anche parecchi anni, prima che il matrimonio giungesse a completezza. Le ragioni per cui si aspettava tanto erano le più svariate, e solo raramente l’età troppo giovane era una motivazione. Nella maggior parte dei casi, lo sposo doveva allontanarsi dalla città per cercare lavoro, per prender parte a una guerra, perché costretto all’esilio dalla fazione politica avversa… e così via dicendo. Erano eventi frequenti e normali, così come era assolutamente normale che due sposi vivessero vite separate per un bel po’, dopo il loro matrimonio.

            Quando finalmente i due sposini erano pronti “per fare sul serio”, si passava al matrimonio 2.0, che prendeva il via con il rito dell’anellamento: lui piglia la fede nuziale e la mette al dito della sposa. Ai nostri giorni, è il momento clou di ogni matrimonio; nel Medioevo, era un momento dalla valenza simbolica, sì… ma niente di che. Il dì dell’inanellamento era una cerimonia privata, celebrata in casa e alla presenza di pochi cari. L’atto che rendeva ufficiale il fatto che “Tizio e Caia si sono sposati un po’ più di prima” era il sontuoso corteo nuziale che, qualche giorno dopo l’inanellamento, avrebbe condotto la moglie nella casa del marito. La donna, a cavallo, attraversava le vie della città con un corposo seguito di servitori; la sera, nelle vie antistanti la casa del marito, si sarebbe tenuto un rinfresco – all’aperto, dunque visibile a tutti, creato con il preciso scopo di rendere la notizia del matrimonio il più pubblica possibile.

            Grossomodo, era quello il D-Day che – diremmo noi, con mentalità moderna – sanciva l’inizio della vita coniugale vera e propria. Anche se in realtà alla coppietta restava da fare un ultimo passo, prima di avviare una vera routine coniugale. Un passo che serve a smentire un altro grande preconcetto che molti di noi hanno riguardo al matrimonio tradizionale, e cioè:

2.  Il matrimonio sanciva una alleanza tra famiglie, perché “quando ti sposi, sposi anche la famiglia del partner”. Non so chi sia il primo che s’è inventato questa vaccata, ma, no: nei ceti più alti, il matrimonio serviva senz’altro a sancire momentanee alleanze tra famiglie… ma queste alleanze non erano niente di definitivo e di intoccabile (come tristemente potrebbero confermare molte nobildonne andate in spose a re stranieri, i cui mariti, a distanza di pochi mesi, hanno dichiarato guerra a suoceri e cognati ammazzandoli malissimo sui campi di battaglia).

Nel complesso e instabile clima politico di un Medioevo europeo in cui tra i clan rivali esistevano voltafaccia tra i più impensabili, nessuno ha mai sognato di dire che, in un buon matrimonio, le due famiglie d’origine devono andare d’accordo per sempre e giocare a tombola al pranzo di Natale. Anzi: proprio per sottolineare il carattere effimero dell’alleanza tra famiglie venutasi a creare per via matrimoniale, esisteva nel Medioevo una ulteriore, immancabile, cerimonia cui gli sposi dovevano necessariamente sottoporsi. Questa cerimonia prendeva il nome di “ritornata”. A ritornare era la moglie, che, entro una settimana dal matrimonio (cioè: dal corteo nuziale con trasloco nella casa del marito) faceva fisicamente ritorno presso la casa paterna.

Lo scopo era lanciare alla famiglia di lui un neanche tanto velato “occhio a cosa fai”: ti abbiamo dato nostra figlia, sì, ma noi siamo sempre qui presenti, pronti a riprenderci lei (e la sua dote) se le cose dovessero mettersi male o se lei dovesse rimaner vedova. Quindi, occhio.

            Era proprio durante la ritornata che le due famiglie organizzavano il secondo Pranzone Di Nozze Con Tutti I Parenti (che erano già stati invitati, a suo tempo, alla stipula dell’accordo col notaio). E i parenti accorrevano in gran numero e vestiti in pompa magna, sennonché le due famiglie festeggiavano… aehm: ognuna per conto loro.

La moglie festeggiava a casa di suo padre con i suoi parenti, e dall’altra parte della città festeggiava il marito, a casa di suo padre, con i suoi parenti. Una soluzione così surreale che dovremmo cominciare a porci serie domande anche per quanto concerne un nostro altro grande pregiudizio, e cioè…

3. La famiglia medievale è una famiglia allargata. Ogni tanto su Internet li leggi pure, i saputelli che dicono “no, perché si parla tanto di famiglia tradizionale, ma per tutto il corso della Storia umana la famiglia è stata composta da nuclei familiari che vivevano nello stesso posto, dando origine a una famiglia allargata. La famiglia composta da marito, moglie e figli è una invenzione degli anni ‘50”. Ehm, ma anche no. Lasciamo perdere le consuetudini di vita di una certa Italia contadina di fine Ottocento, e lasciamo perdere il caso dei nobili che facevano vita di corte. Scopriremo che le famiglie mononucleari erano molto più frequenti di quanto tendiamo a immaginare, e che ciò accadeva soprattutto nelle città. Un lavoratore salariato godeva di una indipendenza economica che non aveva nulla a che vedere con la ricchezza della famiglia d’origine: ergo, dopo il matrimonio andava a vivere con la moglie per i fatti suoi. Agli artigiani, molto spesso il matrimonio consentiva di “metter su bottega”, cioè di ultimare l’apprendistato e di andare a lavorare in proprio, forte dell’aiuto in termini di manodopera che avrebbe potuto dargli la sua sposa. In questi casi, siamo addirittura di fronte al “modernissimo” modello di lui e lei che si sposano e mandano avanti il negozietto sotto casa, con la moglie che si divide tra lavoro e famiglia.

            Quelli che erano “costretti” a vivere in una famiglia allargata composta da suoceri e cognati erano i contadini di media agiatezza, legati economicamente alla gestione di una “impresa agricola”, e i membri della media nobiltà. I primi, ovviamente, non potevano abbandonare la casa paterna perché essa coincideva con la fonte di reddito della famiglia: in questo caso, la sposa andava a vivere nella casa di lui con suoceri e cognati (più infrequente, ma non impossibile, era che lo sposo andasse a vivere e lavorare nella casa dei genitori di lei).

Nel caso della media nobiltà, la possibilità di farsi una famiglia autonoma dipendeva dal modo in cui i genitori intendevano suddividere il patrimonio. Se esso veniva ripartito equamente tra i figli maschi, generalmente i ragazzi uscivano di casa al matrimonio, formando una famiglia autonoma. Se invece si decideva di destinare l’intero patrimonio al primogenito, ecco che lui, fortunello, poteva sposarsi… ma a patto di tenersi in casa tutti gli altri fratelli (o, quantomeno, quelli che avevano rifiutato il chiostro).

Ma, come vedete, non era la norma. In una significativa maggioranza dei casi, le coppie di sposi lasciavano i genitori e formavano una famiglia propria nella loro nuova abitazione, esattamente come si fa oggi.

4. Per la famiglia di lei, il matrimonio era un gran peso: tante donne povere non si potevano sposare a causa della dote, che sbilanciava le trattative in modo ingiusto. A parte che, se posso essere impopolare, “la dote come la intendiamo noi moderni” a me sembra pure un istituto equo. Detto brutalmente, se devo pensare di accollarmi a uno sconosciuto e farmi mantenere da lui vita natural durante, l’idea di presentarmi con un tesoretto da destinare alle casse familiari “a fondo perso” non mi sembra nemmeno così scandalosa. Ma io sono una donna all’antica, molto più di quanto lo fossero le dame medievali – e infatti la dote medievale non assomiglia un granché alla “dote come la intendiamo noi moderni”.

La dote era, sì, una somma di denaro (anche molto consistente) che passava dalla famiglia di lei alla famiglia di lui. Ed è vero che mettere assieme una dote dignitosa era un bel grattacapo per chi aveva numerose figlie femmine … ma non è che la famiglia di lui fosse messa tanto meglio. Per la serie “gentili sì, ma non cretini” i parenti della sposa si tutelavano. Innanzi tutto, la dote passava sì alle casse del marito, ma restava proprietà della moglie. Sembra una sfumatura, ma non lo è. Il marito aveva il diritto di amministrare la dote, ma non di spenderla, anche perché la moglie aveva il diritto di riprendersi l’intera somma in caso di vedovanza (che era un po’ come la nostra pensione di reversibilità, ma più consistente!). Inoltre, cosa da non trascurare, la famiglia del marito era tenuta a farsi carico delle cerimonie di vestizione della novella sposa.

            “Vestizione” vuol dire che rifacevi il guardaroba alla pulzella: e glielo rifacevi per intero, dai calzini al pellicciotto! Abbandonati (anche fisicamente) gli abiti della sua giovinezza, che restavano nella casa paterna, la sposa veniva rivestita da capo a piedi dalla famiglia del marito, nel momento in cui iniziava la convivenza. Il gesto aveva un significato evidente sul piano simbolico (cioè, mostrare anche visivamente la netta cesura tra il prima e il dopo). Sul lato pratico, però, la consuetudine aveva lo scopo dichiarato di “andare in pari” con la dote femminile. Il costo del guardaroba nuovo della sposa era grossomodo equivalente alla somma che lei aveva portato in dote. Inoltre, il guardaroba restava proprietà del marito (così come la dote restava proprietà della moglie). In ogni momento, il marito poteva decidere di riprendersi i gioielli (o addirittura gli abiti) che aveva regalato alla sua sposa – cosa che capitava non di rado, se la famiglia si trovava a fronteggiare ristrettezze economiche.

Insomma: sposarsi costava uno sproposito, sì. Ma il costo era alto per entrambi le parti in gioco.

5. Ci si sposava in chiesa. Ehm. Giunti alla fine di tutto questo ambaradan, io vi domando: vi risulta che io abbia mai nominato la chiesa, in questo articolo? Ho elencato almeno cinque fasi in cui prendeva forma questo “matrimonio a tappe”, ma in nessuna di queste fasi compare uno straccio di sacerdote.

Non è che io me ne sia dimenticata! È che, originariamente, non ci si sposava in chiesa. Ai noi moderni può sembrare assurdo, ma, se ci pensate, tra i sette sacramenti, il matrimonio è l’unico a non essere stato inventato da Gesù.  Ci si sposava già da mo’, nessuno s’era mai lamentato: chi oserebbe mai mettere in dubbio la validità del matrimonio “non cattolico” tra Maria e Giuseppe, o tra Abramo e Sara?

Per secoli, dunque, il matrimonio è stata una questione solo civile. Il che non vuol dire “laica”, badate bene: chi si sposava, nel Medioevo, aveva la consapevolezza di star compiendo un atto importante, per il quale si invocava la protezione di Dio e dei santi. Non pensiate insomma delle nozze laiche, tipo “Dio non deve mettere il naso nel mio matrimonio, né men che meno accetto consigli di vita dal prete”.

Però, dovete decisamente pensare a delle nozze civili. La consuetudine di sposarsi in chiesa alla presenza di un sacerdote (o, peggio ancora, nel bel mezzo di una Messa) non esisteva e sarebbe sembrata folle, agli uomini del Medioevo. Se io, nell’atto di firmare un contratto a tempo indeterminato che stravolgerà per sempre la mia vita, pretendessi di firmarlo in chiesa alla presenza del vescovo e nel corso di una celebrazione eucaristica, riceverei dal mio datore di lavoro occhiate non più stranite di quelle che avrei ricevuto, nel Medioevo, proponendo al mio fidanzato “sì, maaa… che ne diresti di sposarci in chiesa?”. Niente di personale contro la Chiesa, mi direbbero, ma perché mai bisognerebbe voler fare una cosa così strana? Esiste un notaio, vai dal notaio: no?

Raccontare nei dettagli il perché (e soprattutto il come) la Chiesa cominci gradualmente a interessarsi ai matrimoni, richiederebbe troppo tempo. I dettagli li rimando a un secondo momento, se vi aggrada. Per intanto, basterà dire che: la Chiesa, sicuramente, si interessa fin da subito al matrimonio, nel senso che fin da subito inizia a dettare una sua propria morale coniugale (e sessuale). Innumerevoli uomini di fede elargiscono i loro consigli per una buona riuscita dell’unione e dettano le regole a cui tutti i cristiani devono conformarsi per essere sposi santi.

Quello che, per mille anni, non è mai interessato alla Chiesa è proprio il momento del matrimonio in sé. L’atto (ehm. Gli svariati atti) con cui lui e lei diventano marito e moglie. Quelli sono atti civili, roba da notai: lasciamo i giuristi compilino le scartoffie, e limitiamoci alla nostra funzione pastorale. Gli sposi che lo desideravano (ed erano in molti a desiderarlo) potevano certamente invitare il prete a una delle molteplici cerimonie nuziali, invitandolo a dispensare la sua benedizione. Era una pratica frequente, anche incoraggiata, ma non obbligatoria. Molto spesso, si decideva di invitare il sacerdote al banchetto pubblico che si teneva al termine del corteo nuziale, e cioè nel momento in cui gli sposi iniziavano la loro coabitazione. Il sacerdote visitava la casa dei due sposini (talvolta, accompagnandoli addirittura in camera da letto) e li benediceva, in una breve cerimonia che era una via di mezzo tra la pratica cristiana e il rito apotropaico, alla vigilia della “prima notte di nozze” attorno a cui si addensavano tanti timori (non nel senso che la gente era sessuofoba. C’era molta paura di scoprirsi sterili, e/o resi impotenti da riti di malocchio o influssi demoniaci).

            A onor del vero, poteva capitare che gli uomini di Chiesa comparissero in altre fasi del matrimonio. Ma, quando capitava, capitava per casualità. Talora, le famiglie nobiliari decidevano di stipulare il contratto matrimoniale (cioè: le giure alla presenza del notaio) all’interno di un luogo sacro (non direttamente in chiesa, ma magari dentro al chiostro. Oppure in sacrestia). Non lo si faceva per una questione di devozione, ma per una questione di opportunità: in quel momento delicato e teso in cui, in teoria, tutto avrebbe ancora potuto esser ribaltato, poteva essere conveniente che le due famiglie (…cioè, le due fazioni) si incontrassero in un luogo pubblico e neutrale. Lo scopo era evitare spiacevoli sorprese in stile Red Wedding, [serie tv il trono delle spade: le nozze rosse] per capirci.

Ma i consuoceri si incontravano in luogo sacro solo se tirava una brutta aria; altrimenti, si faceva tutto comodamente in casa. E inoltre: solo per coincidenza, poteva capitare che fosse un sacerdote a “ufficializzare” un matrimonio tra popolani. Capitava, talvolta, nei piccoli paesi, in cui il mestiere di sacerdote e quello di notaio erano esercitati dalla stessa persona. Ma era una coincidenza, non certo una prassi.

Fino all’anno Mille, la Chiesa si è completamente disinteressata degli aspetti burocratici del matrimonio. E bisogna aspettare il 1215 per trovare, negli atti del Concilio Lateranense, un vero e proprio obbligo a che i cristiani si sposino in chiesa

Lucia   pillole di storia                                   9 giugno 2019

https://unapennaspuntata.com/2019/06/09/matrimonio-medievale/#comment-35510

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TRIBUNALI CONFESSIONALI

Tribunale religioso e divorzio: riconoscibilità della pronuncia in Italia

La Corte di Giustizia Europea si sofferma sul tema generale dei cd. divorzi privati.

La Corte di Giustizia, con una pronuncia del 20 dicembre 2017, resa nel procedimento Soha Sahyouni contro Raja Mamisch (una coppia con doppia cittadinanza sia siriana che tedesca), ha affrontato un caso che riguardava una dichiarazione unilaterale di divorzio resa davanti a un tribunale religioso di uno Stato terzo ed il suo riconoscimento nell’ordinamento tedesco.

La Corte di Giustizia soffermandosi sul tema generale dei cd. divorzi privati ossia di quelle ipotesi di scioglimento del matrimonio non derivanti da pronunce emesse da una autorità pubblica, ha affermato che “alla luce della definizione della nozione di divorzio di cui al regolamento n. 2201/2003, risulta dagli obiettivi perseguiti dal regolamento n. 1259/2010 che esso ricomprende unicamente i divorzi pronunciati da un’autorità giurisdizionale statale, da un’autorità pubblica o con il suo controllo”, con la conseguenza che le pronunzie rese dai tribunali religiosi restano escluse dalla sfera di applicazione delle norme Europee di conflitto.

 

  1. Presupposto per la domanda di divorzio è che sia venuta meno tra i coniugi la comunione materiale e spirituale e non sia più possibile ricostituirla per l’esistenza di una delle cause elencate dall’art. 3, L. 1° dicembre 1970, n. 898 e successive modificazioni (artt. 1 e 2).

www.altalex.com/documents/leggi/2012/06/27/disciplina-dei-casi-di-scioglimento-del-matrimonio

In altri termini è richiesto che il giudice accerti l’irreversibilità della crisi coniugale, non potendo la dichiarazione di divorzio “conseguire direttamente dalla constatazione della presenza di una delle fattispecie normativamente previste” [in giurisprudenza, v. ad esempio Cass. 6 dicembre 2006, n. 26165, in Fam. e dir., 2007, 642; Cass. 17 giugno 1998, n. 6031, in Fam. e dir., 1998, 317; Trib. Piacenza 31 maggio 1996; Cass. 6 novembre 1986, n. 6485].

Si è osservato come la norma sembri imporre un duplice accertamento: da un lato l’effettiva cessazione della comunione morale e materiale e, dall’altro l’esistenza di una delle cause elencate nell’art. 3, L. 1° dicembre 1970, n. 898 [in giurisprudenza Cass. 17 giugno 1998, n. 6031, cit., secondo la quale la dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall’art. 3, L. n. 898/1970 (oggi dagli artt. 1 e 7 , L. n. 74/1987), ma presuppone, in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, l’accertamento, da parte del giudice, della esistenza (dell’essenziale condizione) della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio familiare per effetto della definitività della rottura dell’unione spirituale e materiale tra i coniugi (accertamento di ampiezza ed approfondimento diversi, secondo le circostanze emergenti dagli atti e le deduzioni svolte in concerto dalle parti)].

            Gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché i procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli artt. 5 e 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898, sono esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa. La speciale normativa fiscale sugli atti esecutivi degli accordi relativi a detti procedimenti impone che i soggetti che li pongano in essere siano gli stessi coniugi che li hanno conclusi, e non anche terzi (Cass. civ., sez. V, 17 gennaio 2014, n. 860).

            È necessario l’accertamento della ricorrenza di motivi sopravvenuti, rispetto alla situazione accertata dalla sentenza di divorzio, perché il giudice possa provvedere alla modifica delle condizioni fissate in sede divorzio (Cass. civ., sez. VI, ord. 30 ottobre 2013, n. 24515).

  1. Cause indicate dall’art. 3, L. n. 898/1970. Nella prassi giurisprudenziale, l’impossibilità di ricostituire la vita coniugale è accertata in ogni caso in cui il divorzio viene chiesto da un coniuge sulla base della semplice verifica della sussistenza di una delle cause indicate all’art. 3, L. 1° dicembre 1970, n. 898. Ciò significa, in particolare, che un coniuge riesce ad ottenere la pronuncia di divorzio, anche senza provare alcuna violazione da parte dell’altro dei doveri che derivano dal matrimonio, semplicemente chiedendo la separazione (che, secondo la prassi già ricordata, viene di fatto pronunciata sulla base della semplice volontà unilaterale di un coniuge) e attendere tre anni dall’autorizzazione dei coniugi a vivere separati.

In particolare, l’art. 3 della L. 1° dicembre 1970, n. 898 elenca le cause tassative che possono fondare la pronuncia di divorzio.

  1. Separazione personale. La riforma del c.d. “divorzio breve” ha modificato i termini temporali della separazione. Essa è intervenuta sostituendo tali parametri nel testo dell’art. 3 della legge sul divorzio. Nello specifico: al secondo capoverso della lettera b) del numero 2) dell’art. 3 della L. 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, le parole: “tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale” sono sostituite dalle seguenti: “dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale”. Autorevole dottrina [C. Rimini] ha osservato che attraverso tale riforma, in particolare nell’ultimo periodo della frase relativa alla riduzione di sei mesi estesa anche alle coppie che abbiano acconsentito di trasformare il giudizio da contenzioso in consensuale, introduce un vulnus nell’indisponibilità degli status matrimoniali. Infatti, l’accordo dei coniugi, visto nella prospettiva deflattiva dei contenziosi giudiziari, consente un acceleramento della procedura. La citata dottrina esprime perplessità sulla consapevolezza del Legislatore in merito all’introduzione di ciò che è configurabile come un diritto di recesso con un atto dichiarato di autonomia privata che consiste proprio nell’accordo di abbreviare i tempi per l’ottenimento del divorzio.

La separazione tra i coniugi non deve essersi interrotta: il riferimento è alla riconciliazione o qualunque fatto interruttivo – sia esso una dichiarazione espressa o un comportamento non equivoco – incompatibile con lo stato di separazione (Cass. 29 novembre 1990, n. 11523, in Giur. it., 1991, I, 1022).

            Ancorché il tenore letterale dell’art. 3, n. 2, lett. b), L. n. 898/1970, ultima parte – secondo il quale “L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta”- sia inequivoco, è dibattuto se la riconciliazione sia rilevabile d’ufficio da parte del giudice del divorzio: in senso affermativo Trib. Trani 26 gennaio 1994; Trib. Civitavecchia 17 gennaio 1990, sulla base della considerazione per la quale il giudice ha il potere-dovere di rilevare d’ufficio l’avvenuta riconciliazione dei coniugi e, quindi, di respingere la domanda per l’insussistenza del titolo posto a suo fondamento. In senso negativo si sono invece espresse Cass. 9 maggio 1997, n. 4056; App. Napoli 2 marzo 2001, in Fam. e dir., 2002, 385.

  1. Cause penali. L’art. 3, L. 1° dicembre 1970, n. 898 annovera anche le seguenti cause di natura penale:
  • La condanna del coniuge dopo la celebrazione del matrimonio, con sentenza passata in giudicato (alla quale deve essere tuttavia equiparata la sentenza di patteggiamento), anche per fatti commessi in precedenza, essendo sul punto irrilevante l’eventuale conoscenza da parte dell’altro coniuge, all’ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale (la cui valutazione è rimessa al giudice penale: Cass. 25 settembre 1996, n. 8457, in Fam. e dir., 1997, 65);
  • A qualsiasi pena detentiva per delitto di incesto (art. 564 c.p.) e per uno dei delitti di violenza sessuale (previsti originariamente dagli artt. 519, 521, 523, 524 c.p. ed a seguito della L. n. 66/1996 compendiati ora dagli artt. 609bis ss. c.p.), ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione; a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio;
  • A qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per il delitto di lesioni personali (art. 582c.p.), quando ricorrano le circostanze aggravanti delle lesioni gravissime (art. 583, comma 2, c.p.), o della violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), o di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) o di circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.), in danno del coniuge o di un figlio.

Ai sensi del comma 2 dell’art. 3, L. 1° dicembre 1970, n. 898, nelle ipotesi da ultimo richiamate il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta, anche in considerazione del comportamento successivo del convenuto, la di lui inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare;

  • Quando l’altro coniuge è stato assolto per vizio totale di mente per uno dei delitti previsti dalle lett. b) e c) del n. 1 dell’art. 3, L. 1° dicembre 1970, n. 898, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta l’idoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare;
  • Quando il procedimento penale promosso per i delitti previsti dalle lett. b) e c) del n. 1 dell’art. 3, L. 1° dicembre 1970, n. 898 si sia concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ritiene che nei fatti commessi sussistano elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi;
  • Quando il procedimento penale per incesto si sia concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo.

L’art. 3, L. 1° dicembre 1970, n. 898. div. esclude la proponibilità dell’azione di divorzio da parte del coniuge che abbia concorso nel reato.

            Ai fini della pronuncia di divorzio restano prive di effetto le modifiche della pena, su cui si è formato il giudicato, che possono intervenire in conseguenza dei provvedimenti di clemenza di qualsiasi natura (Cass. 25 settembre 1996, n. 8457, in Fam. e dir., 1997, 65).

c) Annullamento, divorzio, matrimonio estero. Costituiscono causa di divorzio l’annullamento e il divorzio ottenuti all’estero o il nuovo matrimonio celebrato all’estero. Tali cause rispondono alla ratio di evitare che, nell’ipotesi in cui uno dei coniugi sia straniero ed abbia ottenuto all’estero la pronuncia di divorzio o addirittura abbia già contratto un nuovo matrimonio, il coniuge italiano rimanga vincolato dal matrimonio (in giurisprudenza v. Trib. Livorno 8 aprile 1995; App. Torino 20 settembre 1993; App. Napoli 15 aprile 1991). Al riguardo si è altresì precisato in giurisprudenza, che, dovendo considerarsi la sentenza di divorzio ottenuto all’estero quale mero presupposto di fatto per l’istanza di divorzio in Italia, il giudice deve esimersi dal compiere qualsivoglia valutazione in ordine alle cause per cui esso sia stato pronunciato o circa la sua compatibilità con il limite dell’ordine pubblico (Trib. Velletri 7 gennaio 1977).

Al divorzio ottenuto all’estero è equiparato nella giurisprudenza quello ottenuto nelle sedi consolari (Trib. Milano 5 ottobre 1991; Trib. Roma 19 gennaio 1985).

            Secondo un orientamento giurisprudenziale più risalente la domanda non potrebbe essere proposta qualora il coniuge avesse aderito alla domanda all’estero del coniuge straniero (Trib. Lucca 26 aprile 1984); secondo un orientamento più recente ciò invece non rileva (Trib. Parma 16 ottobre 1999; Trib. Livorno 8 aprile 1995).

            Prima della riforma del diritto internazionale privato (L. 31 maggio 1995, n. 218) e dell’introduzione dei Reg. CE nn. 1347/2000 e 2201/2003 – che hanno introdotto il principio di immediata efficacia in Italia delle sentenze straniere in generale e delle sentenze relative ai rapporti di famiglia in particolare – questa era una delle cause di divorzio più frequentemente invocate. Oggi, invece, essendo possibile domandare agli uffici dello stato civile l’annotazione delle sentenze straniere di divorzio, la causa di cui all’art. 3, n. 2, lett. e), L. 1° dicembre 1970, n. 898 è privata di gran parte della sua pratica rilevanza.

            Le ipotesi in cui appare ammissibile la pronuncia di divorzio in Italia sulla base del divorzio ottenuto all’estero sono dunque marginali: si tratta dei casi in cui è stato pronunciato un divorzio, pur efficace nello Stato in cui il coniuge straniero è cittadino, che tuttavia non può essere riconosciuto in Italia ai sensi degli artt. 64 e 65, L. n. 218/1995. Infatti, l’unica circostanza rilevante nell’applicazione della norma in commento è che sia stato pronunciato un divorzio (o un annullamento del matrimonio) efficace nello Stato di cui è cittadino il coniuge straniero, inteso come semplice presupposto di fatto per la pronuncia del divorzio italiano. Può perciò essere pronunciato il divorzio in Italia sulla base di una sentenza straniera nelle marginali ipotesi in cui questa ancora deve considerarsi contraria all’ordine pubblico, come nel caso del ripudio (Cass. 14 gennaio 1982, n. 228; App. Torino 9 marzo 2006). Può essere parimenti pronunciato il divorzio in Italia sulla base di un provvedimento amministrativo straniero (Trib. Parma 16 ottobre 1999, relativamente ad un divorzio notarile straniero), oppure in base ad una sentenza di una autorità religiosa a cui l’ordinamento straniero riconosca efficacia immediata (Trib. Milano 5 ottobre 1991, che ha considerato rilevante per la pronuncia di divorzio in Italia ex art. 3, n. 2. lett. e), una sentenza di un tribunale rabbinico, che aveva immediata efficacia in Israele), oppure ancora sulla base di una sentenza resa da un giudice che non poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano.

            Con sentenza del 20 dicembre 2017, nella causa C-372/16, Soha Sahyouni/Raja Mamisch, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che il Regolamento Roma III non si applica di per sé al riconoscimento di una decisione emanata da un tribunale religioso straniero pronunciata in uno Stato terzo. Infatti, il Regolamento Roma III si applica ai casi relativi ai divorzi pronunciati da un’autorità pubblica statale ovvero sotto il controllo dello Stato. Si ricorda che il Regolamento Roma III No. 1259/2010 del 20 dicembre 2010 è attuativo della cooperazione rafforzata nel settore applicabile al divorzio e alla separazione personale.

Recentemente, la Corte di Cassazione ha ribadito che in tema di riconoscimento di sentenza straniera di divorzio, la circostanza che il diritto straniero preveda che il divorzio possa essere pronunciato senza passare attraverso la separazione personale dei coniugi ed il decorso di un periodo di tempo adeguato tale da consentire ai coniugi medesimi di ritornare sulla loro decisione, non costituisce ostacolo al riconoscimento in Italia della sentenza straniera che abbia fatto applicazione di quel diritto, per quanto concerne il rispetto del principio dell’ordine pubblico, richiesto dall’ art. 64, comma 1, lett. g), L. 31 maggio 1995, n. 218, essendo a tal fine necessario, ma anche sufficiente, che il divorzio segua all’accertamento dell’irreparabile venir meno della comunione di vita tra i coniugi (Cass. civ. sez. I, ord., (ud. 13 aprile 2018) 21 maggio 2018, n. 12473).

d) Inconsumazione. L’inconsumazione del matrimonio, mutuata dall’ordinamento canonico, determina lo scioglimento del rapporto di coniugio e non l’invalidità dell’atto di matrimonio (Cass. 21 settembre 1998, n. 9442, in Fam. e dir., 1999, 22). Essa deve essere considerata di per sé, quale mancanza di congiunzione carnale tra i coniugi, indipendentemente da quale sia la causa che la ha determinata (Trib. Santa Maria Capua Vetere 15 aprile 1999; Trib. Napoli 28 aprile 1998).

            Si profila al riguardo la questione problematica relativa ai mezzi di prova dell’inconsumazione. È infatti tendenzialmente insufficiente la testimonianza concorde di entrambi i coniugi – ancorché possano rilevare quelle fornite da terzi disinteressati (Trib. Napoli 28 aprile 1998, cit.) – se non corroborata dai documenti acquisiti agli atti (App. Genova 15 marzo 2003, in Fam. e dir., 2003, 234; Trib. Modena 27 febbraio 2004). La prova può essere fornita con ogni altro mezzo, come, ad esempio, dimostrando la lontananza tra i coniugi (Trib. Palermo 8 maggio 1996; Trib. Modena 5 aprile 1973), la verginità della moglie (Trib. Napoli 28 aprile 1998, cit.), l’impotenza coeundi del marito. La mancata coabitazione è mero indizio dell’inconsumazione del matrimonio (Trib. Napoli 2 maggio 1997, in Fam. e dir., 1997, 451).

Al fine della domanda di divorzio sono irrilevanti tanto la circostanza che la copula sia avvenuta a seguito di violenza o narcosi (Trib. Vicenza 20 giugno 1972), quanto che i coniugi avessero tra loro stretto patti di continenza (App. Firenze 22 agosto 1988).

            Secondo una parte della giurisprudenza il ricorso per divorzio per inconsumazione può essere presentato anche su domanda congiunta (Trib Patti 16 giugno 2004; Trib. Verona 31° dicembre 1999; Trib. Napoli 2 maggio 1997, in Fam. e dir., 1997, 451; Trib. Palermo 8 maggio 1996; contra Trib. Perugia 4 luglio 1996; Trib. Palermo 10 novembre 1990).

            Poiché la non consumazione del matrimonio non incide sulla validità giuridica del matrimonio stesso, ma è causa del suo scioglimento, sussistendo le altre condizioni di legge, il giudice può attribuire un assegno periodico ad uno dei coniugi anche in caso di divorzio per mancata consumazione (Cass. 4 febbraio 2009, n. 2721; Cass. 21 settembre 1998, n. 9442, Fam. e dir., 1999, 22).

e) Rettificazione dell’attribuzione di sesso. La rettificazione dell’attribuzione di sesso, causa di divorzio inserita nel corpo della legge sul divorzio a seguito della riforma del 1987, è stata introdotta nell’ordinamento dalla L. 14 aprile 1982, n. 165 sulla rettificazione dell’attribuzione di sesso, ove si afferma che “la rettificazione provoca lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso Si applicano le disposizioni del codice civile e della L. 1° dicembre 1970, n. 898 e successive modificazioni”.                                www.esteri.it/mae/doc/l164_1982.pdf

La norma contenuta nella legge sul divorzio, tuttavia, afferma non già lo scioglimento automatico del vincolo coniugale, stabilendo per contro che il divorzio “può essere domandato” dai coniugi sulla base della attribuzione ad uno di essi di un sesso diverso da quello che risulta nell’atto di nascita. In considerazione del non univoco dato normativo, era dibattuto se lo scioglimento del matrimonio dovesse o meno considerarsi come effetto automatico del mutamento di sesso, lasciando così ai coniugi, o ad uno di essi, la scelta se considerare definitivamente venuta meno la comunione coniugale per effetto della modifica dei caratteri sessuali, oppure se mantenere il vincolo coniugale (per la soluzione negativa in giurisprudenza Trib. Fermo 28 marzo 1996, che ha pronunciato il divorzio contestualmente alla pronuncia di rettificazione di sesso).

Sul punto è da ultimo intervenuto il legislatore che, con il D.L. 1° settembre 2011, recante “Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’art. 54 L. 18 giugno 2009, n. 69”, ha stabilito come “La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso non ha effetto retroattivo. Essa determina lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso. Si applicano le disposizioni del codice civile e della L. 1° dicembre 1970, n. 898” (art. 31, com 6).

www.gazzettaufficiale.it/gunewsletter/dettaglio.jsp?service=1&datagu=2011-09-21&task=dettaglio&numgu=220&redaz=011G0192&tmstp=1317640201442

Tuttavia, recentemente, la Corte costituzionale ha affermato che è costituzionalmente illegittima la mancata previsione della facoltà, in caso di sentenza di rettificazione dell’attribuzione del sesso di uno dei coniugi e qualora questi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato, che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi. Pertanto, Sono incostituzionali gli artt. 2 e 4, L. n. 164/1982 nel caso in cui non sia permesso ai due coniugi, in seguito al cambio di sesso di uno dei due, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, sempre ove entrambi lo richiedano.                                                          www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1982/04/19/082U0164/sg

La Corte costituzionale ha spronato il legislatore ad attivarsi con la massima sollecitudine per coprire il vuoto normativo (Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170).

Sul punto la Corte di Cassazione ha affermato che In attesa dell’intervento del legislatore, cui la Corte ha tracciato la via da percorrere, il giudice a quo è tenuto ad individuare sul piano ermeneutico la regola per il caso concreto che inveri il principio imperativo stabilito con la sentenza di accoglimento. Secondo i giudici di Piazza Cavour, la Corte costituzionale, con la sentenza additiva di principio, ha indicato al giudice il nucleo di diritti da proteggere. Il principio, come è stato sostenuto in dottrina [Pezzini, A prima lettura (la sent. 170/2014 sul divorzio imposto), in www.articolo29.it], è costituzionalmente inderogabile ed impone un adeguamento necessario.

            Nella specie tale adeguamento, non può che comportare la rimozione degli effetti della caducazione automatica del vincolo matrimoniale sul regime giuridico di protezione dell’unione fino a che il legislatore non intervenga a riempire il vuoto normativo, ritenuto costituzionalmente intollerabile, costituito dalla mancanza di un modello di relazione tra persone dello stesso sesso all’interno del quale far confluire le unioni matrimoniali contratte originariamente da persone di sesso diverso e divenute, mediante la rettificazione del sesso di uno dei componenti, del medesimo sesso. Tale opzione ermeneutica è costituzionalmente obbligata e non determina l’estensione del modello di unione matrimoniale alle unioni omoaffettive, svolgendo esclusivamente la funzione temporalmente definita e non eludibile di non creare quella condizione di massima indeterminatezza stigmatizzata dalla Corte Costituzionale in relazione ad un nucleo affettivo e familiare che, avendo goduto legittimamente dello statuto matrimoniale, si trova invece in una condizione di assenza radicale di tutela.

Al riguardo deve rilevarsi che la mera possibilità di richiedere giudizialmente l’adeguamento, come indicato dalle sentenze n. 138 del 2010 della Corte Costituzionale e 4184 del 2012 della Corte di Cassazione, nella titolarità e nell’esercizio dei diritti fondamentali che costituiscono il nucleo del riconoscimento costituzionale ex art. 2 Cost., alle unioni omoaffettive è del tutto inidoneo a colmare il deficit di tutela individuato dalla Corte Costituzionale, perché la fattispecie cui aver riguardo non è una relazione di fatto, ancorché costituzionalmente protetta, ma un’unione matrimoniale, caratterizzata dal massimo grado di protezione giuridica dei suoi componenti.

Risulta, in conclusione, necessario, al fine di dare attuazione alla declaratoria d’illegittimità costituzionale contenuta nella sentenza n. 170 del 2014, accogliere il ricorso e conservare alle parti ricorrenti il riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consenta ad esse di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi. La conservazione dello statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale è, pertanto, sottoposta alla condizione temporale risolutiva costituita dalla nuova regolamentazione indicata dalla sentenza (Cass. 21 aprile 2015, n. 8097).

Elena Falletti, ricercatore confermato           Altalex 10 giugno 2019

www.altalex.com/documents/biblioteca/2019/06/10/tribunale-religioso-divorzio

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