UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUCIPEM n. 706 – 17 giugno 2018
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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02 ABORTO VOLONTARIO Il mondo orfano di 56 milioni di figli l’anno
03 ASSEGNO DI MANTENIMENTOReato non mantenere il coniuge separato.
03 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI Condannato il padre che non mantiene i figli maggiorenni.
04 ASSEGNO DIVORZILE Assegno alla ex anche se il matrimonio è durato poco
05 CO. ADOZIONI INTERNAZIONALI Rimborsi spese adottive 2012/2017. Nuova notizia.
05 CONSULENTI COPPIA E FAMIGLIA L’AICCeF studia la diversità
05 COPPIA DI FATTO Che succede se muore un convivente
07 DALLA NAVATA XI Domenica del Tempo ordinario – Anno B – 17 giugno 2018
07Commento di E. Bianchi.
09 DEMOGRAFIA ISTAT: prosegue il calo della popolazione in Italia.
09 DIVORZIO Negoziazione assistita: chi deve rilasciare il certificato.
10Posso oppormi al divorzio?
12 ENTI TERZO SETTORE-ex Onlus Formazione ed eventi.
12 FIGLI E SEPARAZIONE Che fare se i bambini non vogliono frequentare il padre separato?
14 FORUM ASS: FAMILIARI Indirizzo di saluto a Papa Francesco.
14 Gigi De Palo. «Famiglia sia priorità, serve un vero piano fiscale».
15Ciccarelli: “crescere un figlio in Italia può essere causa di povertà”.
16 FRANCESCO VESCOVO DI ROMALa famiglia è solo quella tra uomo e donna
17La svolta profetica di papa Francesco
20 GARANTE PER L’INFANZIA Relazione 2017: le dieci criticità per l’infanzia e l’adolescenza
21 GENITORE COLLOCATARIO Dopo la separazione la madre può trasferirsi con i figli?
22 GRAVIDANZA All’assunzione devo dichiarare che sono incinta?
23 HUMANÆ VITÆ Gronchi: esistono diversi modi di interpretare aspetti della dottrina
24 Luciani, i vescovi del Triveneto e il «sì» alla pillola.
26 Luciani e l’Humanæ Vitæ. Primato della coscienza
27 Humanæ vitæ, incontro cattolici-laici.
29 ISTAT Bilancio demografico nazionale.
30 NONNI Cosa fare quando i nonni diventano invadenti coi nipoti.
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ABORTO VOLONTARIO
Il mondo orfano di 56 milioni di figli l’anno
È una delle «principali organizzazioni di ricerca e politica, impegnata a promuovere salute e diritti sessuali e riproduttivi negli Stati Uniti e nel mondo»: è il Guttmacher Institute, nato nel 1968 grazie all’allora presidente della Planned Parenthood Federation (la potente Ong americana, bandiera pro choice per eccellenza), il ginecologo Alan Frank Guttmacher, che fu anche vice presidente della American Eugenics Society. Un think tank della salute sessuale e riproduttiva affrontata nell’ottica di controllo delle nascite mediante contraccezione e aborto: indicativa la voce pregnancy (gravidanza) nella home page international del sito, che tratta «l’incidenza, le conseguenze e i costi delle gravidanze non volute» a livello globale, al fine di promuovere «politiche e strategie che consentono alle donne di programmare e distanziare le loro gravidanze».
Le altre voci sono «aborto, contraccezione, Hiv e Stis (malattie sessualmente trasmissibili), adolescenti», e in questi temi è la «fonte primaria di ricerca e analisi politica negli Usa e internazionalmente». I suoi uffici, fra Washington e New York, ospitano «più di 100 fra demografi, specialisti in scienze sociali, analisti di politica pubblica, editori, scrittori, esperti di comunicazione, personale tecnico e finanziario», con un budget annuale di circa 20 milioni di dollari. È la fonte più importante di dati sull’aborto, a livello internazionale, anche se le contestazioni non mancano, come quella del Washington Post Fact Checker che ha sottoposto il prestigioso istituto al ‘Pinocchio test’, verificando una sopravvalutazione delle stime degli aborti negli Usa, poi corrette.
«Abortion worldwide 2017 – Uneven progress and unequal access» è il titolo dell’ultimo report sul tema, che dà l’idea delle tendenze internazionali in atto, con una chiara chiave di lettura dei dati: la legalizzazione dell’aborto è segno di progresso, ma c’è ancora molto da fare per rendere ugualmente legittimo e accessibile questo ‘servizio’ nel mondo.
Una prospettiva ‘di parte’? Sì. Ma bisogna osservare che il mondo pro life, impegnato principalmente nel concretissimo e meritorio sostegno alle donne nel continuare le gravidanze in condizioni di difficoltà, non ha espresso un analogo centro studi in qualche parte del mondo. Non sono stati costruiti spazi di riflessione di questa portata sul tema, e quindi di raccolta ed elaborazione dati per capire gli orientamenti e le tendenze a riguardo: non solo per contrastare le politiche pro-aborto ma anche per disegnare interventi più efficaci per le maternità difficili e per proposte educative adeguate ai tempi. C’è da riflettere.
I dati offerti da questo report sono tantissimi, ne riportiamo solo alcuni per ovvi motivi di spazio. Il confronto fra gli anni 2010-2014 con le cifre sul periodo 1990-1994 mostra un numero assoluto di aborti in aumento – da 50,2 a 55,9 milioni ogni anno – e un tasso di abortività in diminuzione – da 40 a 35 (numero annuale di aborti ogni 1.000 donne fra 15 e 44 anni), con una diminuzione importante nei Paesi sviluppati, e senza cambiamenti significativi in quelli in via di sviluppo.
L’apparente contraddizione fra numeri assoluti e tassi si spiega con l’aumento complessivo delle donne in età feconda. Va poi sottolineato che i tassi sono inferiori nei Paesi sviluppati, dove le statistiche sono complete e istituzionali, e superiori in quelli in via di sviluppo, dove invece spesso ci sono stime indirette e quindi meno accurate. Il report lo spiega correttamente, rimandando alla letteratura di settore ma, ovviamente, sono considerazioni per gli addetti ai lavori, e senza studi comparativi questa è l’unica ipotesi di lettura a disposizione.
Il calo nei Paesi sviluppati – che pesa meno, numericamente, anche se importante in percentuale – è dovuto principalmente ai Paesi dell’ex blocco sovietico, correttamente attribuito a una maggiore diffusione della contraccezione. Va ricordato però che in Unione Sovietica e nei Paesi satelliti l’aborto era utilizzato come contraccettivo: ad esempio, nell’Europa dell’Est negli anni ’90-’94 il tasso era 88, da confrontarsi con quello italiano che negli stessi anni era intorno a 10. In queste condizioni la diffusione della contraccezione ha un impatto importante, ma non va dimenticato che mentre adesso quel tasso nell’Europa orientale è sceso a 42 in Italia nello stesso periodo è circa 7,5. Si tratta cioè di due situazioni drasticamente differenti, nelle quali la contraccezione influisce diversamente: ad esempio, è proprio nell’ultima relazione al Parlamento che uno studio Istat dedicato alla lettura dei 40 anni di applicazione della legge 194 in Italia rivela come la maggiore diffusione della pillola contraccettiva fra le minori in Paesi con cui di solito ci confrontiamo (Svezia, Inghilterra e Francia) corrisponde a maggiori tassi di abortività rispetto a quelli italiani.
Va inoltre chiarito che nel report nulla viene detto sull’uso specifico della cosiddetta ‘contraccezione di emergenza’, che è noto poter agire sia come contraccettivo che come antinidatorio, e la cui diffusione andrebbe considerata per valutarne l’incidenza.
Emerge infine la spinta, fortissima, all’uso di metodi farmacologici: aumentano nel mondo, in proporzione, gli aborti nelle primissime settimane di gravidanza ‘grazie’ alla diffusione della procedura medica in luogo di quella chirurgica. Laddove non fosse disponibile la modalità ‘combinata’, con la pillola Ru486 in funzione antinidatoria e poi con prostaglandine per la successiva espulsione dell’embrione, si consiglia l’utilizzo del solo misoprostolo, una prostaglandina facilmente reperibile perché commercializzata per problemi gastrici. Un uso consigliato là dove l’aborto ha forti restrizioni, per rendere quello clandestino meno pericoloso, secondo gli autori, anche se – si ricorda – l’aborto sarà completo solo nel 75% – 90% dei casi, se nel primo trimestre. Non si specifica nient’altro sulla procedura e su effetti avversi e collaterali, citando invece uno studio che dimostrerebbe la pari sicurezza di abortire in clinica e «nella privacy della propria casa», anche con il solo misoprostolo. La tesi, neanche troppo implicita, è che se tutte fossero bene informate e potessero disporre facilmente di farmaci abortivi potrebbero farlo senza problemi a casa propria. E, aggiungiamo noi, il mondo non lo saprebbe mai, così che l’aborto diventerebbe invisibile.
Assuntina Morresi Av venire 14 giugno 2018
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/il-mondo-orfano-di-56-milioni-di-figli-lanno
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Reato non mantenere il coniuge separato, il punto della Cassazione
Corte di Cassazione, sesta sezione penale, sentenza n. 24947, 4 giugno 2018.
https://www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_30740_1.pdf
L’omesso mantenimento dell’ex non integra un’ipotesi di violazione degli obblighi di assistenza familiare penalmente rilevante se manca la volontà di disconoscere i vincoli di assistenza. L’omesso versamento dell’assegno di mantenimento al coniuge separato talvolta può configurare reato, ma non sempre. Se in alcuni casi tale condotta è idonea a integrare la fattispecie delittuosa di cui all’articolo 570 del codice penale, in altri la stessa resta penalmente irrilevante.
A tale proposito, particolarmente significativa è la sentenza della Corte di cassazione che ha chiarito quando l’ex coniuge inadempiente rischia una condanna penale e quando invece no.
In particolare, il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare deve ritenersi integrato quando il beneficiario dell’assegno di mantenimento si trovi in stato di bisogno e l’omesso versamento delle somme stabilite dal giudice sia riconducibile alla “volontà di disconoscere i vincoli di assistenza materiale e morale” ancora parzialmente in essere nonostante la separazione.
Nel caso di specie, all’imputato era stato contestato di essersi sottratto agli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge e di aver quindi tenuto una condotta contraria all’ordine e alla morale della famiglia per il solo fatto di non aver provveduto a mantenere la moglie separata secondo le modalità stabilite dall’autorità giudiziaria.
Per la Cassazione, però, tale conclusione non basta per poter emettere condanna ai sensi dell’articolo 570 del codice penale, essendo a tal fine indispensabile verificare la sussistenza dello stato di bisogno della moglie (che peraltro aveva delle cospicue possidenze immobiliari) e di una volontà dell’uomo di disconoscere i vincoli di assistenza e la non riconducibilità dell’omissione alle precarie condizioni economiche dell’obbligato.
Avv. Valeria Zeppilli Studio Cataldi 8 giugno 2018
www.studiocataldi.it/articoli/30740-reato-non-mantenere-il-coniuge-separato-il-punto-della-cassazione.asp
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO FIGLI
Condannato il padre che non mantiene i figli maggiorenni
Corte di Cassazione, sesta sezione penale, sentenza n. 24162, 29 maggio 2018.
https://www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_30795_1.pdf
È responsabile penalmente il padre che, violando gli obblighi di natura economica a suo carico, omette il versamento dell’assegno di mantenimento ai figli maggiorenni non indipendenti economicamente.
Lo ha rammentato la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, pronunciandosi sul ricorso di un padre ritenuto responsabile dai giudici per il reato di cui all’art. 3 della L. n. 54/2006 e condannato a due mesi di reclusione.
A seguito del provvedimento di separazione emesso dal Presidente del Tribunale, a carico dell’imputato veniva posto l’obbligo di versare un assegno di mantenimento sia nei confronti della moglie (poi successivamente revocato), sia nei confronti di entrambi i figli maggiorenni. Ciononostante, per quasi un anno questi non versava alcunché versando quindi in situazione di assoluto inadempimento.
Responsabile penalmente il padre che non versa il mantenimento ai figli. In Cassazione, l’imputato deduce in prima battuta l’inapplicabilità della sanzione prevista dall’art. 12-sexies della L. n. 898/1970 alla violazione degli obblighi di contribuzione economica derivanti dall’ordinanza del Presidente del Tribunale stante il divieto di applicazione analogica delle disposizioni incriminatrici.
Gli Ermellini, di contrario avviso, danno continuità al principio secondo cui, in tema di violazione degli obblighi di natura economica posti a carico del genitore separato, il disposto di cui all’art. 12-sexies cit. (richiamato dall’art. 3 della L. n. 54/2006) si applica anche all’inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore del figli minori, stabilito dal Presidente del Tribunale tra le disposizioni conseguenti all’autorizzazione dei coniugi a vivere separati.
Ciò in quanto l’art. 3 della legge n. n. 54/2006 sanziona la violazione degli “obblighi di natura economica”, senza operare alcuna distinzione quanto alla loro fonte. La conclusione non muta neppure per effetto dell’introduzione dell’art. 570-bis c.p. in vigore dal 6 aprile 2018.
www.studiocataldi.it/articoli/19805-il-reato-di-violazione-degli-obblighi-di-assistenza-familiare-alla-luce-delle-piu-recenti-pronunce-della-corte-di-cassazione.asp
Infondate sono anche le censure con cui l’imputato ritiene che l’ordinanza impositiva dell’obbligo di versare le somme in contestazione fosse stata sostanzialmente revocata dalla sentenza del Tribunale che aveva disposto di corrispondere l’assegno ai soli figli e che il denaro doveva essere versato alla moglie sebbene i figli non convivessero con la stessa, ma fossero maggiorenni e lavorassero, e che egli era disoccupato e privo di redditi.
Le questioni giuridiche da affrontare, evidenziano gli Ermellini, attengono all’applicabilità della disposizione incriminatrice di cui all’art. 3 della L. n. 54/2006 anche in caso di violazione degli obblighi disposti a beneficio dei figli maggiorenni, e ai limiti di rilevanza della situazione di difficoltà economica dell’obbligato.
L’art. 1 della medesima L. n. 54 cit., spiega la Corte, ha regolato specificamente la possibilità di imporre, in sede di separazione, il pagamento di un assegno periodico in favore dei “figli maggiorenni”, introducendo l’art. 155-quinquies c.c., nel quale, tra l’altro, si prevede che detto “assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”.
Del resto, sia pure incidentalmente, l’applicabilità dell’art. 3 della L. 54/2006 è stata più volte affermata con riferimento alle violazioni degli obblighi di natura economica nei confronti dei figli maggiorenni.
Infine, sempre in relazione alla configurabilità del reato in questione per l’omesso pagamento dell’assegno in favore dei figli maggiorenni, non occorre la prova della mancanza dei mezzi di sussistenza da parte dei medesimi posto che l’art. 155-quinquies c.c. prevede la possibilità di disporre il versamento di un assegno periodico in favore dei figli maggiorenni sul più limitato presupposto che gli stessi siano semplicemente non indipendenti economicamente.
Passando all’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall’art. 570 c.p., per la Cassazione questa deve essere assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva e incolpevole indisponibilità di introiti.
Incombe sull’interessato l’onere di allegare gli elementi dai quali possa desumersi l’impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione, essendo a tal fine del tutto inidonea la dimostrazione di una mera flessione degli introiti economici o la generica allegazione di difficoltà.
La sentenza impugnata ha motivato sul punto rilevando come, ai fini del reato in contestazione, non rileva la prova dello stato di bisogno dei figli, quali beneficiari dell’assegno e che l’incapacità dell’imputato era oggetto di mera affermazione dello stesso e sprovvista di qualunque allegazione. Il ricorso va dunque respinto.
Lucia Izzo News Studio Cataldi 11 giugno 2018
www.studiocataldi.it/articoli/30795-condannato-il-padre-che-non-mantiene-i-figli-maggiorenni.asp
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ASSEGNO DIVORZILE
Divorzio: assegno alla ex anche se il matrimonio è durato poco
Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 15144, 11 giugno 2018.
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_30824_1.pdf
Per la Cassazione la scarsa durata della convivenza non costituisce un elemento idoneo a escludere il diritto all’assegno. In presenza dei requisiti economici per il diritto dell’ex di ricevere l’assegno di mantenimento, al godimento del beneficio non osta la circostanza che il matrimonio ha avuto una durata limitata.
La Corte di cassazione ha avuto modo di affermarlo, recentemente, confermando la scelta del giudice del merito di riconoscere il diritto di una donna a ricevere l’assegno di mantenimento dal marito in ragione del divario reddituale che li separava e, in generale, della loro diversa posizione economica.
La durata del matrimonio non conta. L’uomo si era rivolto ai giudici di legittimità per chiedere la riforma di tale decisione facendo leva, tra le altre cose, sulla circostanza che il legame coniugale si era protratto per poco tempo e non aveva quindi permesso il consolidamento di una comunione materiale e spirituale con l’ex moglie.
Per la Corte, però, la scarsa durata della convivenza, “non costituisce un elemento che possa indurre ad escludere il diritto all’assegno di mantenimento, peraltro sul rilievo che la durata del matrimonio non è un fattore della relativa attribuzione”.
La sentenza ecclesiastica di nullità. Nel caso di specie si era avuta anche una sentenza di nullità del matrimonio non delibata, che è anch’essa stata reputata irrilevante dai giudici, posto che la stessa si è espressa solo sui presupposti della valida insorgenza del vincolo religioso.
A carico del ricorrente resta quindi definitivamente l’obbligo di corrispondere alla ex moglie i 250 euro mensili stabiliti per l’assegno di mantenimento.
Valeria Zeppilli newsletter studio Cataldi 14 giugno 2018
www.studiocataldi.it/articoli/30824-divorzio-assegno-alla-ex-anche-se-il-matrimonio-e-durato-poco.asp
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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI
Rimborsi spese adottive 2012/2017.
Chiarimenti sulla certificazione di ingresso in famiglia del minore.
Attenzione è stata pubblicata una nuova notizia sui rimborsi delle spese adottive 2012/2017.
Comunicato 14 giugno 2018
www.commissioneadozioni.it/it/rimborso-spese-adottive.aspx
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CONSULENTI DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA
L’AICCeF studia la diversità
L’Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari affronta la tematica della diversità.
Nella splendida cornice della pianura umbra, ad un passo dalle Fonti del Clitunno, l’Hotel della Torre ospiterà la Giornata di studio residenziale dell’AICCeF, che si svolgerà da sabato 27 a domenica 28 ottobre prossimi.
La Diversità, argomento di approfondimento dell’anno sarà il tema su cui tutti noi lavoreremo.
Il programma è in via di definizione così come le modalità di iscrizione on line.
News AICCeF 14 giugno 2018
www.aiccef.it/it/news/giornata-di-studio-sulla-diversita-!.html
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COPPIA DI FATTO
Che succede se muore un convivente
Il diritto alla casa, alla pensione di reversibilità, al Tfr o alla successione: come funziona per chi non è sposato? Nel caso di una coppia di fatto, che succede se muore un convivente? Quali diritti ha il superstite sulla casa, sulla pensione di reversibilità o sul Tfr del defunto? Come funziona la successione? E ancora: ha diritto ad accedere alle cartelle cliniche del compagno o della compagna se muore un convivente? Può usufruire di un permesso lavorativo per lutto anche se si trattava di una coppia di fatto e non di una coppia sposata?
Coppia di fatto: il diritto all’informazione. Anche se non c’è il vincolo formale del matrimonio, per la coppia di fatto, se muore un convivente, quello superstite ha il diritto di accedere alla cartella clinica del defunto. Può farlo anche se gli eredi si oppongono, come confermato dal Garante della privacy [delibera del 17.09.2009]. I medici di ospedali o di altre strutture sanitarie devono informare il convivente sulle eventuali opportunità di tipo terapeutico per chi è in attesa di trapianto e sulla natura o sulle circostanze del prelievo di organi.
Coppia di fatto: che succede con la casa? Per quanto riguarda la casa in cui abita la coppia di fatto, per sapere che succede se muove un convivente bisogna esaminare diversi casi:
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Se la casa è intestata al convivente morto;
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Se la casa è di comproprietà del convivente defunto;
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Se la casa è affittata al convivente defunto;
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Se la casa è assegnata come alloggio popolare al convivente defunto.
Se la casa è intestata al convivente defunto. Nel caso in cui il convivente defunto sia il proprietario della casa in cui abita la coppia di fatto, il convivente superstite ha il diritto di continuare a vivere nello stesso immobile:
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Per due anni;
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Per il periodo pari alla convivenza se superiore a due anni;
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Non oltre cinque anni.
La legge sulle unioni civili [Art. 1 co. 42 legge n. 76/2016] fa un preciso riferimento a quanto stabilito dal Codice civile [Art. 337 sexies cod. civ.] sull’attribuzione del godimento della casa, che deve tenere conto in via prioritaria dei figli: in pratica, se nella stessa abitazione vivono figli minorenni o disabili del convivente superstite, quest’ultimo può continuare ad abitarci per un periodo non inferiore a 3 anni. Non avrà questo diritto, però, se:
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Cessa di abitare stabilmente nella casa comune;
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In caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.
Se la casa è di comproprietà del convivente defunto. Il secondo caso riguarda l’ipotesi di un immobile la cui proprietà appartenga ad entrambi i soggetti della coppia di fatto, cioè che sia in comproprietà. Che succede se muore un convivente e non c’è un testamento di mezzo? Succede che si crea una comproprietà tra il convivente superstite e gli eredi del defunto. Ciascuno di loro ha la facoltà di chiedere in qualsiasi momento lo scioglimento della comunione. Nel caso in cui nessuno di loro voglia acquistare la quota degli altri, l’immobile viene materialmente diviso oppure venduto all’asta con la conseguente ripartizione dei soldi ricavati dall’incanto.
Gli eredi, inoltre, potrebbero chiedere al convivente superstite il pagamento di un affitto se venisse deciso di lasciarglielo in godimento.
Se la casa è affittata al convivente defunto. Quando all’interno di una coppia di fatto muore il convivente a cui risulta intestato il contratto di affitto della casa in cui entrambi abitano, il convivente superstite ha il diritto di subentrargli nel contratto come titolare dello stesso.
Mettiamo, però, il caso di una locazione conclusa, per qualsiasi motivo, all’interno della coppia di fatto. Cioè, un convivente risulta proprietario dell’immobile e l’altro risulta come affittuario. Se muore il convivente proprietario, l’altro ha diritto a continuare la locazione fino alla scadenza del contratto. Gli eredi, quindi, non potranno entrare prima in possesso della casa, poiché subentrano in ogni rapporto attivo e passivo del defunto e sono tenuti a rispettare gli impegni che lui aveva preso quando era in vita. A meno che quel contratto fosse una sorta di «pro forma», cioè che fosse un contratto simulato. In questo caso, gli eredi potrebbero agire in giudizio, purché riescano a dimostrare tale circostanza.
Se la casa è assegnata come alloggio popolare al convivente defunto. Anche quando in una coppia di fatto muore il convivente a cui è stato assegnato un alloggio popolare il superstite ha diritto a subentrare nel contratto, sia che si tratti di una coppia eterosessuale oppure omosessuale. A queste condizioni, però:
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Non ci devono essere un coniuge separato o dei figli minorenni frutto di un precedente matrimonio;
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La convivenza deve essere effettiva fino al momento del decesso;
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La convivenza deve essere iniziata almeno 2 anni prima della morte (fa fede il certificato anagrafico che attesta la nascita del nucleo familiare);
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Ci devono essere i requisiti di reddito che consentono l’assegnazione dell’alloggio.
A questo punto bisogna presentare una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (un’autocertificazione) in cui si attesta quanto appena elencato.
Coppia di fatto: il convivente superstite ha diritto alla successione? Se nella coppia di fatto muore un convivente senza lasciare testamento, il superstite non ha alcun diritto alla successione in quanto non è considerato un erede del defunto, a meno che il contratto di convivenza contenga delle clausole che riguardano le regole patrimoniali di entrambi in caso di decesso.
Nulla vieta, però, ai conviventi di redigere un testamento che stabilisca di:
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Nominare erede il convivente;
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Lasciare la proprietà, l’usufrutto o il diritto di abitazione della casa al convivente;
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Istituire un legato a favore del convivente su certi diritti;
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Prevedere un obbligo di mantenimento del convivente.
Quanto stabilito dal testamento, però, non intacca il limite della quota di legittima spettante agli eredi.
Coppia di fatto: il superstite ha diritto alla pensione di reversibilità? Questa è una delle più importanti differenze tra essere sposati ed istituire una coppia di fatto. A differenza dei coniugi con la fede al dito, se uno dei conviventi muore l’altro non ha diritto alla pensione di reversibilità, poiché il convivente superstite non è compreso tra le persone che ne hanno diritto, come stabilito dalla legge e confermato dalla giurisprudenza [Legge n. 335/1995 e Corte Cost. Sent. n. 461/2000].
La pensione di reversibilità spetta, invece, ai figli del defunto a patto che:
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Abbiano un’età inferiore ai 18 anni;
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Abbiano un’età fino ai 21 anni se studenti di scuola media o professionale;
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Abbiano un’età fino a 26 anni se iscritti all’università e frequentano i corsi nei limiti della loro durata (non devono essere fuori corso, insomma), siano a carico del convivente al momento del decesso e non lavorino;
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Abbiano una disabilità accertata al momento del decesso del genitore che impedisce loro qualsiasi attività lavorativa.
Sono equiparati ai figli i nipoti minorenni sempre che si dimostri che erano a carico dell’ascendente defunto.
Coppia di fatto: il superstite ha diritto al Tfr del defunto?
Come sopra: in una coppia di fatto, se un convivente muore l’altro non ha diritto al Tfr del defunto per gli stesso motivi appena esposti a proposito della pensione di reversibilità.
Coppia di fatto: si ha diritto ad un permesso in caso di morte del convivente? Da questo punto di vista, la coppia di fatto ha lo stesso diritto di una coppia sposata. Se un convivente muore, l’altro ha diritto ha 3 giorni di permesso retribuito, purché la convivenza risulti da una certificazione anagrafica (esattamente come un matrimonio).
Carlos Arija Garcia La legge per tutti 9 giugno 2018
www.laleggepertutti.it/209032_coppia-di-fatto-che-succede-se-muore-un-convivente
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DALLA NAVATA
XI Domenica del Tempo ordinario – Anno B – 17 giugno 2018
Ezechiele 17, 24 Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Salmo 91, 15 Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi, per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità.
2Corìnzi 05, 06 Sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Marco 04, 26 Gesù diceva ai suoi discepoli: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.
La potenza del seme del Regno. Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose
Nel vangelo secondo Marco Gesù pronuncia un lungo discorso in parabole, come insegnamento rivolto ai discepoli che ha chiamato alla sua sequela e alle folle che ascoltano la sua predicazione del Regno veniente (cf. Mc 4,1-34). Le parabole sono un linguaggio enigmatico che diventa però “mistero” (Mc 4,11) per chi segue Gesù e in qualche modo entra nella sua intimità, fino a trovarsi in uno spazio che può essere definito da Gesù stesso éso, “dentro”, contrapposto a quello éxo, “fuori” (cf. Mc 3,31-32; 4,11).
Nello stesso tempo, le parabole sono da lui dette in modo che gli ascoltatori cambino il loro modo di pensare. Esse, infatti, contengono sempre un messaggio di contro-cultura, correggono ciò che tutti pensano o sono portati a pensare, e di conseguenza sono annuncio di qualcosa di nuovo: una novità apportata da Gesù non a livello di idee, ma come qualcosa che cambia il modo di vivere, di sentire, di giudicare e di operare. Gesù era un uomo che innanzitutto sapeva vedere: vedeva, osservava, contemplava tutto ciò che gli era intorno e tutti quelli che gli si avvicinavano e che egli avvicinava a sé. In lui la consapevolezza e l’adesione alla realtà erano sempre in esercizio, sicché poteva poi pensare. Di più, potremmo dire che il suo pensare davanti al Padre e alla sua volontà era un pregare che gli permetteva di immaginare racconti e situazioni, da comunicare ai discepoli attraverso la narrazione di molte parabole.
Nella nostra pericope Gesù, dopo aver pronunciato la parabola del seminatore, spiegata in seguito ai soli discepoli come semina della parola di Dio (cf. Mc 4,1-20), e i due brevi detti sulla lampada “che viene” per essere vista e sulla misura dell’ascolto (cf. Mc 4,21-25), narra due ultime parabole, quelle offerteci dalla liturgia odierna, che vogliono attestare l’efficacia della Parola seminata. La prima, presente solo in Marco, afferma che “così è, viene il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”. Gesù ci parla ancora del seme, un elemento che lo intrigava e sul quale aveva molto meditato. Il seme è sempre qualcosa che resta dal raccolto precedente, è il frutto di una pianta che, raccolto, secca e sembra morto. Ma se il seme cade, se è gettato sotto terra, allora nella terra intrisa di acqua marcisce, visibilmente si disfa e scompare; in realtà, però, genera vita, che diventa un germoglio, poi una pianta, e che apparirà infine addirittura come una moltiplicazione e una trasformazione del seme stesso, attraverso frutti abbondanti. Il seme è adatto per rappresentare la dinamica dell’enigma che diventa mistero, ed è per questo che Gesù ricorre più volte a questa immagine, la più presente nelle parabole da lui create.
La venuta del regno di Dio, il suo apparire, è dunque paragonato al processo agricolo che ogni contadino conosce bene, anzi che vive con attenzione e premura: semina, nascita del grano, crescita, formazione della spiga e maturazione. Di fronte a tale sviluppo, occorre meravigliarsi, guardando alla potenza, alla forza presente in quel piccolo seme secco, che sembra addirittura morto. Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Di fronte a questa realtà, il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui. Anzi, se il contadino volesse misurare la crescita e andasse a verificare cosa accade al seme sotto terra, minaccerebbe fortemente la nascita e la vita del germoglio.
Ecco allora l’insegnamento di Gesù: occorre meravigliarsi del Regno che si dilata sempre di più, anche quando noi non ce ne accorgiamo, e di conseguenza occorre avere fiducia nel seme e nella sua forza. E il seme è la parola che, seminata dal predicatore, darà frutto anche se lui non se ne accorge né può verificare il processo: di questo deve essere certo! Nessuna ansia pastorale, ma solo sollecitudine e attesa; nessuna angoscia di essere sterili nel predicare: se il seme è buono, se la parola predicata è parola di Dio e non del predicatore, essa darà frutto in modo anche invisibile. Questa la certezza del “seminatore” credente e consapevole di ciò che opera: la speranza della mietitura e del raccolto non può essere messa in discussione.
Segue un’altra parabola, sempre sul seme, ma questa volta su un seme di senape. Gesù è veramente un uomo esercitato all’attenzione, discernere, al pensare, e quale rabbi sapiente esprime con poche parole la dinamica del Regno, da lui annunciato attraverso la semina e la crescita del granello di sé. Il chicco di senape è tra i semi più minuscoli, non più grande di un granello di sale, eppure anch’esso, se seminato in terra, cresce e diventa il più grande degli arbusti. Sembra impossibile che da un seme così minuscolo possa derivare una pianta tanto rigogliosa: anche qui c’è dunque da stupirsi, da meravigliarsi! Eppure proprio ciò che ai nostri occhi è piccolo, può avere una forza impensabile per noi umani. Ecco, infatti, che il seme di senape sotto terra marcisce, germoglia, poi spunta e cresce fino a essere un arbusto sulle cui fronde gli uccelli possono fare il nido. Qui Gesù allude certamente a quell’albero intravisto da Daniele, simbolo del regno universale di Dio (cf. Dn 4,6-9.17-19). Sì, anche questa parabola vuole comunicarci qualcosa di decisivo: la parola di Dio che ci è stata donata può sembrare piccola cosa, rivestita com’è di parola umana, fragile e debole, messa in bocca a uomini e donne poveri, non intellettuali, non saggi secondo il mondo (cf. 1Cor 1,26). Eppure quando essa è seminata e predicata da loro, proprio perché è parola di Dio contenuta in parole umane, è feconda e può crescere come un albero capace di accogliere tante creature. E non solo la parola di Dio, ma anche l’inizio del Regno, l’inizio della comunità del Signore può apparire una realtà, insignificante; eppure in seguito crescerà, diventerà una realtà inattesa, impensabile per molti, ma veramente significativa e capace di accogliere chi vuole trovare ristoro alla sua ombra.
La rivelazione dell’efficacia della parola di Dio è decisiva per noi cristiani. Questa Parola, infatti, è “potenza di Dio” (Rm 1,16), è seme di vita immortale (cf. 1Pt 1,23) e ha in sé una potenzialità che noi non possiamo prevedere. Proprio come afferma il profeta Isaia a nome del Signore: “La Parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,11). Certo, l’efficacia della Parola ha una modalità propria di operare in forme molto diverse, non prevedibili, che possono anche contraddire il nostro modo di pensarla e discernerla. È un’efficacia non mondana, non misurabile in termini quantitativi, perché la parola del Signore è anche “parola della croce” (1Cor 1,18). Quando è seminata nei cuori degli ascoltatori, la parola di Dio deve essere accolta, interiorizzata e custodita, deve essere discreta rispetto alle altre parole e quindi essere realizzata, in modo che appaiano i suoi frutti: frutti quasi mai percepiti e visti dal discepolo, perché “come la Parola cresca in lui, egli non lo sa”.
Queste parabole ci interrogano dunque sulla nostra consapevolezza della parola di Dio che ci è data e che noi dobbiamo seminare, sulla nostra visione del Regno come realtà di piccoli e di poveri, realtà di un “piccolo gregge” (Lc 12,32), che può divenire una raccolta delle genti del mondo intero, in cammino verso il regno di Dio veniente per tutti. Ma riflettiamo: chi pronunciava queste parabole era un oscuro figlio di Israele di Galilea, un “ebreo marginale”, non un sacerdote e neppure un rabbino formatosi in qualche scuola riconosciuta a Gerusalemme o lungo il lago di Galilea. E con lui c’era una comunità itinerante che lo seguiva: una dozzina di uomini e poche donne senza appartenenza all’élite culturale o religiosa giudaica: una realtà piccola e oscura, eppure significativa.
Allora, perché avere timore di essere noi cristiani una minoranza oggi nel mondo? Basta che siamo significativi, cioè che crediamo alla potenza della parola di Dio, che la seminiamo con umiltà e molta pace, senza angoscia né frenetica attesa di vedere i risultati. Occorre saper attendere, occorre pazienza e soprattutto fede nella parola di Dio: se il seme è buono, spunterà e darà il suo frutto. Il disegno di Dio si compie sempre, ben al di là delle nostre previsioni e della nostra impazienza
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12400-la-potenza-del-seme-del-regno
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DEMOGRAFIA
ISTAT: prosegue il calo della popolazione in Italia.
Prosegue nel 2017 la diminuzione della popolazione residente già riscontrata nei due anni precedenti. Al 31 dicembre risiedevano in Italia 60.483.973 persone, di cui più di 5 milioni di cittadinanza straniera, pari all’8,5% dei residenti a livello nazionale (10,7% al Centro-nord, 4,2% nel Mezzogiorno). È quanto certifica oggi l’Istat, diffondendo i dati del “Bilancio demografico nazionale”. Nel 2017 la popolazione in Italia è diminuita di 105.472 unità rispetto all’anno precedente. “Il calo complessivo – spiega l’Istituto nazionale di statistica – è determinato dalla flessione della popolazione di cittadinanza italiana (202.884 residenti in meno), mentre la popolazione straniera aumenta di 97.412 unità”. Saldo naturale (nati meno morti) negativo per gli italiani per 251.537 unità mentre è risultato positivo per i cittadini stranieri (quasi 61mila unità).
L’Istat conferma poi che continua il calo delle nascite in atto dal 2008. “Per il terzo anno consecutivo – si legge in una nota – i nati sono meno di mezzo milione (458.151, -15mila sul 2016), di cui 68mila stranieri (14,8% del totale), anch’essi in diminuzione”. I decessi, invece, sono stati quasi 650mila, circa 34mila in più rispetto al 2016, proseguendo il generale trend di crescita rilevato negli anni precedenti dovuto all’invecchiamento della popolazione.
www.istat.it/it/files//2018/06/bilanciodemografico2018.pdf
Agenzia SIR 13 giugno 2018
https://agensir.it/quotidiano/2018/6/13/demografia-istat-prosegue-il-calo-della-popolazione-in-italia-i-residenti-a-fine-2017-erano-60-483-973-stranieri-all85
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DIVORZIO
Divorzio e negoziazione assistita: chi deve rilasciare il certificato
Ministero giustizia circolare del 22 maggio 2018
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_30720_1.pdf
Il ministero della giustizia ha fornito chiarimenti sulle misure di degiurisdizionalizzazione in materia di famiglia ed emissione del certificato che il richiedente deve produrre nello Stato in cui vuole ottenere il riconoscimento dell’accordo raggiunto.
Con la circolare del 22 maggio 2018 scorso (vedi sopra il link), il ministero della giustizia ha fornito chiarimenti sulle “Misure di degiurisdizionalizzazione in materia di famiglia ed emissione del certificato previsto dall’art. 39 del Regolamento CE n. 2201 del 2003”.
In particolare, nel silenzio della norma sul punto, spiega il ministero si sono registrati casi in cui, nei procedimenti conclusi davanti all’ufficiale di stato civile o con l’assistenza degli avvocati, “le richieste di certificato siano state presentate ai tribunali o alle procure del luogo in cui l’accordo è stato concluso”. La questione ha “incidenza diretta sui servizi di cancelleria e – ha – già condotto a una segnalazione alla Commissione Europea” continua via Arenula, ritenendo dunque opportuno, “in attesa di eventuali interventi legislativi specifici, fornire alcune indicazioni in ordine alla corretta individuazione dell’autorità competente al rilascio del certificato in esame”.
Divorzio al comune o tramite negoziazione assistita. Anzitutto, ricorda il ministero nella circolare, il decreto-legge 12 settembre 2014 n. 132, convertito dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, ha introdotto misure di degiurisdizionalizzazione agli articoli 6 e 12, prevedendo all’art. 6 che “la convenzione di negoziazione assistita da almeno un avvocato per parte può essere conclusa tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio”, con trasmissione dell’accordo alla procura della Repubblica in caso di presenza di figli minori, maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave per la dovuta autorizzazione, nonché all’art. 12 (in assenza di figli minori, maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti), la possibilità di concludere i medesimi accordi innanzi al sindaco, quale ufficiale dello stato civile. Le disposizioni elencate si applicano anche agli uniti civilmente (ex art. 1, comma 25, legge n. 76 del 2016).
Negoziazione o accordo all’estero: il certificato. La normativa del 2014 tuttavia evidenzia la circolare “nulla ha previsto per il caso in cui una parte sia interessata a far riconoscere o a far eseguire l’atto contenente l’accordo in un altro Paese dell’Unione Europea”.
Al riguardo, giova premettere che il Regolamento (CE) n. 2201/2003 prevede che il richiedente debba produrre, nello Stato in cui vuole ottenere il riconoscimento o l’esecuzione, a seconda del caso, uno dei certificati previsti dall’articolo 39, i quali vanno rilasciati «dall’autorità giurisdizionale o dall’autorità competente dello Stato membro d’origine».
L’autorità competente per l’emissione del certificato è, in linea di principio, ricorda quindi via Arenula, “quella che ha formato l’atto e ben può essere una autorità non giurisdizionale (ma amministrativa) tenuto conto del campo di applicazione del Regolamento n. 2201 del 2003”.
Chi è competente a rilasciare il certificato. Fatte queste premesse, la circolare spiega, quindi, di chi è la competenza nel rilascio del necessario certificato:
Accordo davanti all’ufficiale di stato civile. Nel caso in cui l’accordo sia stato concluso davanti all’ufficiale di stato civile, “non è predicabile – scrive il ministero – una competenza del tribunale per il rilascio del certificato in questione, atteso che l’atto destinato a circolare non è stato formato né davanti né con l’intervento dell’ufficio giudiziario”.
L’atto è formato in modo integrale dall’autorità amministrativa, per cui, “nel silenzio della legge, l’adempimento in parola non può certo essere richiesto al tribunale e, applicando i principi generali, dovrebbe essere invece richiesto all’autorità pubblica che ha formato l’atto, ossia, nella specie, all’ufficiale di stato civile”.
Negoziazione assistita. Nel caso, invece, degli accordi conclusi in sede di negoziazione assistita da avvocati, deve ritenersi che il certificato ex art. 39 “debba essere emesso dalla procura della Repubblica che ha autorizzato l’accordo o ha rilasciato il nullaosta, atteso che l’avvocato non è qualificabile come ‘autorità’ ai fini del Regolamento n. 2201 del 2003, nonché in considerazione del fatto che solo il provvedimento conclusivo del pubblico ministero rende l’accordo valido ed efficace, e dunque riconoscibile ed eseguibile all’estero”.
Da ciò consegue che, ove il pubblico ministero si sia rifiutato di autorizzare l’accordo e l’autorizzazione sia stata adottata dal presidente del tribunale, “sarà invece l’ufficio giudiziario giudicante a dover rilasciare il certificato in parola”.
Redazione Studio Cataldi 5 giugno 2018
www.studiocataldi.it/articoli/30720-divorzio-e-negoziazione-assistita-chi-deve-rilasciare-il-certificato.asp
Posso oppormi al divorzio?
Ci si può rifiutare di firmare le carte della separazione o del divorzio se la moglie o il marito vuole ugualmente procedere?
Immaginiamo che un coniuge voglia separarsi dall’altro ma questi non ne vuole sapere di firmare le carte e intende ostacolargli la strada. Oppure che marito e moglie abbiano già ottenuto la separazione ma, giunti al momento di prepararsi per il divorzio, uno dei due si tiri indietro, magari perché nel frattempo c’è stata una riconciliazione. Cosa succede in queste ipotesi? Non sempre separazione e divorzio sono un percorso scelto consensualmente o, comunque, con la reciproca consapevolezza che non ci sono più margini per una riappacificazione. A volte capita di subire la scelta dell’altro coniuge di interrompere il matrimonio pur non avendo alcuna colpa e senza aver mai violato i doveri del matrimonio. È naturale in questi casi chiedersi: posso oppormi al divorzio? Di tanto ci occuperemo in questo articolo. La risposta è diversa a seconda che l’opposizione riguarda la scelta di separarsi o di divorziare. Vediamo quindi le due ipotesi separatamente.
Quando ci si può separare? Immaginiamo che un giorno, sul più bello, la moglie dica al marito: «Non ti amo più: voglio separarmi». Lui, che non aveva mai intuito il malessere della donna, le chiede cosa ha fatto di male, ma lei non sa spiegarglielo. Attribuisce il suo calo di desiderio e di affetto a un clima statico e pesante che si respira in famiglia e che non le dà la possibilità di muoversi, farsi un viaggio con le amiche o comunque di frequentare chi vuole. Mentre l’uomo tenta di capire e di ragionare per farle cambiare idea, la moglie sta già parlando di assegno di divisione della casa, dell’arredo e di un assegno di mantenimento che lui le dovrà versare. Al che, il marito decide fermamente di opporsi e di non firmare le carte della separazione. Può farlo? Può opporsi alla decisione della moglie e paralizzarla o, quantomeno, contrastarla? Le cose stanno così.
Ciascuno dei due coniugi può chiedere al giudice di pronunciare la separazione se la convivenza è divenuta “intollerabile”. L’intollerabilità non significa necessariamente un clima conflittuale tra i due coniugi ma anche una situazione di disaffezione e di incapacità a vivere sotto lo stesso tetto con la medesima persona. Insomma, le cause che possono giustificare una richiesta di separazione non devono essere necessariamente “oggettive” e riguardare entrambi i coniugi ma possono anche essere “soggettive” e toccare solo la sfera personale e affettiva di uno dei due. Siamo proprio di fronte a una sorta di diritto di “ripensamento” che può essere esercitato in qualsiasi momento, senza termini di scadenza e senza che il giudice possa sindacare sui motivi che lo hanno determinato. Detto senza peli sulla lingua: il marito o la moglie può andare dal giudice e dire «voglio separarmi perché non riesco più a vivere con lui/lei» per ottenere la separazione.
Se poi le motivazioni dovessero trovare fondamento in una altrui colpa, ossia in una violazione dei tre doveri fondamentali del matrimonio (ossia: 1) fedeltà; 2) obbligo di convivenza; c) assistenza morale e materiale) si avrà una separazione con addebito e il coniuge colpevole non potrà ricevere l’assegno di mantenimento.
E se non volessi separarmi? Ci si può separare in due modi:
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Attraverso la cosiddetta separazione consensuale, con cui i coniugi firmano un accordo e lo portano al giudice che lo ratifica (la stessa procedura però può essere presentata anche in Comune o formalizzata dagli avvocati con la negoziazione assistita). Da questo momento decorrono sei mesi per poter divorziare;
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Attraverso la separazione giudiziale: in questo caso, i coniugi non raggiungono l’accordo e pertanto si faranno causa davanti al giudice, ciascuno per sostenere e difendere i propri diritti.
Se un coniuge non firma le carte della separazione ha, come unico risultato, di impedire la separazione consensuale, ma l’altro potrà sempre agire con la separazione giudiziale, anche contro il suo consenso. Risultato: il giudice dichiarerà ugualmente la separazione, nonostante l’opposizione di uno dei due coniugi.
In definitiva, condizione per la separazione è l’intollerabilità della convivenza, ma tale situazione può riguardare anche un solo coniuge, sicché questi ha diritto a rivolgersi al tribunale per chiedere la separazione nonostante l’altro non voglia firmare un accordo e quindi procedere con la separazione consensuale. Si avrà allora una richiesta di separazione giudiziale. Il giudice non può negare la separazione se uno dei due vuol separarsi e l’altro no. Con la conseguenza che il processo andrà avanti anche senza la parte che ha rifiutato l’accordo (alla quale comunque è sempre data la possibilità di costituirsi e difendersi in qualsiasi momento del giudizio, anche se già iniziato).
Non ha quindi alcun senso opporsi alla domanda di separazione, perché questo comportamento non ostacola il normale svolgimento del processo: anzi c’è anche il rischio di essere condannati alle spese processuali. Con o senza l’altrui collaborazione, la separazione verrà ugualmente pronunciata.
Resta sempre la possibilità di fare una marcia indietro: una separazione iniziata come giudiziale può successivamente trasformarsi in consensuale, così interrompendo la causa e procedendo alla stipula di un accordo.
Ci si può opporre al divorzio? Se la separazione viene concessa solo sulla base di una valutazione soggettiva di uno dei due coniugi (o di entrambi), per il divorzio è necessario accertare il ricorrere di una condizione oggettiva: il decorso di un termine prestabilito dalla separazione senza che, nel frattempo, i coniugi si siano riconciliati. In particolare il divorzio può essere richiesto se:
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In caso di separazione consensuale, sono passati sei mesi dalla convalida dell’accordo dei coniugi;
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In caso di separazione giudiziale, è passato un anno dalla prima udienza presidenziale che ha deciso i provvedimenti provvisori in attesa della sentenza definitiva.
Quindi, a differenza di quanto avviene con la separazione, nel caso di divorzio diventa necessaria una verifica effettiva della sussistenza delle condizioni richieste dalla legge (appunto il decorso dei predetti termini), senza le quali il giudice non può dichiarare definitivamente cessato il matrimonio. Se c’è stata una riconciliazione che ha interrotto tali termini, è possibile opporsi al divorzio.
In cosa consiste la riconciliazione? La riconciliazione può avere luogo:
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Durante la causa di separazione: in tal caso può risultare dal verbale di riconciliazione oppure se non è indicata nel verbale si desume dall’estinzione del procedimento per mancato compimento delle attività processuali;
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Dopo l’emanazione della sentenza di separazione (o dopo l’omologazione dell’accordo di separazione).
La riconciliazione può essere di due tipi:
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Tacita ossia con un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione (si pensi ai due coniugi che tornano a vivere sotto lo stesso tetto e intrattengono rapporti affettivi). Per accertare l’avvenuta riconciliazione i coniugi devono avere tenuto un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione. Si deve dare rilievo alla concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti dei coniugi, valutati nella loro effettiva capacità di dimostrare la loro disponibilità a riprendere la convivenza e a costituire una rinnovata comunione;
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Espressa: dichiarando in un accordo scritto di volere riprendere la normale vita matrimoniale e ripristinarne tutti i doveri.
Ai fini della riconciliazione tacita è necessaria una ripresa concreta e durevole della convivenza coniugale e della comunione spirituale e materiale fra i coniugi: non è sufficiente una temporanea ripresa della coabitazione, magari solo per “fare un tentativo”, o un ripristino delle relazioni. Non rilevano neanche i saltuari ritorni del marito nella casa ove vive la moglie o la ripresa sperimentale della convivenza. Anche i saltuari rapporti sessuali e, addirittura la nascita stessa di un figlio, sono insufficienti. È necessario ricostituire l’unione coniugale e all’accordo deve conseguire il ripristino di fatto della vita familiare.
Solo se si è verificata la riconciliazione è possibile opporsi al divorzio: lo si potrà fare anche nella causa, dando prova degli elementi esteriori, oggettivi e diretti inequivocabilmente alla seria e comune volontà di ripristinare la comunione di vita.
La riconciliazione comporta l’interruzione del termine, richiesto a partire dalla separazione, entro cui è possibile divorziare. Essa ripristina la comunione tra i coniugi.
Se la riconciliazione fallisce, le parti non possono valersi della precedente sentenza di separazione per divorziare ma devono riproporre la causa di separazione. In questa il giudice non è tenuto a riconfermare le condizioni economiche e personali decise in precedenza e, pertanto, potrebbe anche mutare la misura dell’assegno di mantenimento. Il tribunale dovrà quindi riesaminare di nuovo tutta la questione
Redazione La legge per tutti 6 giugno 2018
www.laleggepertutti.it/212176_posso-oppormi-al-divorzio
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ENTI TERZO SETTORE
Formazione ed eventi
Le attività di formazione ed organizzazione di eventi rientrano tra le attività che possono essere svolte dall’impresa sociale?
Ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo n. 112 del 2017, la formazione ed organizzazione di eventi può essere esercitata dalle imprese sociali se, per le modalità con cui è svolta, è riconducibile ad una o più dei seguenti settori:
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Formazione professionale / attività culturali di interesse sociale con finalità educativa;
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Formazione universitaria e post universitaria;
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Organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato, e delle attività di interesse generale;
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Formazione extra-scolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica e al successo scolastico e formativo, alla prevenzione del bullismo ed al contrasto della povertà educativa.
News del portale del terzo settore 15 giugno 2018
www.nonprofitonline.it/default.asp?id=508&id_n=7811&utm_campaign=Newsletter+Non+profit+on+line+15+giugno+2018&utm_medium=email&utm_source=CamoNewsletter
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FIGLI E SEPARAZIONE
Che fare se i bambini non vogliono frequentare il padre separato?
È possibile per il padre separato obbligare i figli a vederlo anche se questi non vogliono? E come si può risalire alle reali ragioni che portano i bambini a rifiutare il padre? Con questo articolo si esamineranno le strade percorribili dal padre rifiutato per ritrovare l’intesa con i propri figli.
Sei un padre separato e i tuoi figli si rifiutano di frequentarti? Vuoi capire se dietro il loro rifiuto c’è la tua ex moglie che ostacola i rapporti e vuoi ricostruire il legame con i tuoi bambini? Ecco cosa puoi fare concretamente per risolvere la situazione e ritornare a fare pienamente il padre.
Il rifiuto dei bambini di vedere il padre separato dalla madre. Può accadere che nel corso della separazione tra i coniugi il regime di visite tra il padre e i figli non venga rispettato.
Frequenti sono i casi, ad esempio, in cui il genitore presso cui i figli sono collocati, magari la madre, ostacoli le visite del padre, o che quest’ultimo si rifiuti di vedere i figli.
Ma cosa accade se ad ostacolare le visite con il padre non sia la volontà di uno o dell’altro genitore, ma quella dei figli che rifiutano di frequentare il padre?
In questi casi, quando il rifiuto dei figli non è in alcun modo superabile, vi sono due strade percorribili per il padre separato.
Riprendere i contatti con i bambini senza rivolgersi al giudice? La prima via senz’altro da preferire sia per tutelare i figli ed evitare un lungo percorso giudiziale, sia per contenere i costi e le spese di una procedura giudiziale, consiste nell’avviare una consulenza medica sui minori e sugli stessi genitori concordata fra quest’ultimi.
In questo caso è essenziale, però, che i genitori siano d’accordo di avviare questo percorso medico al di fuori delle aule giudiziarie.
Se, dunque, vi è intesa tra i genitori essi potranno rivolgersi ad un avvocato che indicherà loro il consulente medico più opportuno nel caso che li riguarda e, così, verrà avviato un percorso terapeutico al fine di valutare le reali ragioni che portano i bambini a rifiutare di frequentare il padre.
Il consulente medico farà una serie di valutazioni sui minori sottoponendoli a colloqui e test della personalità. Le valutazioni mediche se necessario, come si è detto, potranno riguardare anche i genitori.
All’esito del percorso di valutazione dei bambini il consulente medico se ritiene fondato il rifiuto di quest’ultimi di frequentare il padre dovrà spiegarne le ragioni (ma si tratterà di casi estremi: quando, ad esempio, ci sono violenze del padre sui figli e allora sarà necessario procedere anche penalmente).
In caso contrario il consulente medico potrà indicare la soluzione più opportuna per facilitare il riavvicinamento tra i bambini e il padre.
Ad esempio potrà prevedere che la frequentazione avvenga, almeno inizialmente, in presenza di uno psicologo, o indicare un percorso di sostegno e aiuto psicologico per il padre separato affinché egli sappia come è meglio approcciarsi con i bambini che lo rifiutano.
E così, gradualmente, potranno essere ripresi i contatti con la garanzia di una continua osservazione da parte di specialisti che darà sicurezza al padre di non essere abbandonato in questo difficile cammino.
Gli accordi presi al di fuori delle aule del tribunale dovranno poi essere presentanti al giudice per ottenerne riconoscimento. Così il padre separato potrà agire in giudizio nel caso non venissero rispettati.
{È anche proficuo rivolgersi al consultorio familiare. Ndr}
Agire giudizialmente per frequentare i figli: è possibile? Se, invece, non vi è spazio per un’intesa tra i genitori il padre separato che vorrà proteggere il suo rapporto con i figli dovrà necessariamente rivolgersi al tribunale per capire le reali motivazioni per cui i bambini non lo vogliono frequentare.
Si tratta di un percorso non facile, soprattutto per i bambini che verranno sottoposti a degli esami psicologici e poi sentiti direttamente dal giudice, ma che molte volte si rende necessario per tutelare i minori che hanno bisogno, nonostante la separazione dei genitori, di mantenere un rapporto equilibrato con la figura paterna.
Il tribunale per decidere si servirà di specialisti (medici e psicologi, attraverso una consulenza tecnica), che ascolteranno i bambini sottoponendoli a degli esami psicologici per approfondire la cause del rifiuto di frequentare il padre.
Inoltre il giudice potrà ascoltare direttamente il minore [Art. 336 bis c.c.1] per capire in prima persona lo stato emotivo dei figli. Questo percorso verrà compiuto con delicatezza da parte dei consulenti medici e del giudice.
Infatti è bene ricordare che quando viene previsto un ascolto diretto dei minori da parte del giudice debbono disporsi tutte le cautele affinché essi non siano turbati e siano liberi di esprimersi serenamente [Tribunale minori di Trieste sentenza del 28 marzo 2012].
Per esempio potrà essere utilizzato un vetrospecchio: questa misura viene utilizzata soprattutto se i bambini hanno meno di dodici anni, cosicché essi potranno parlare liberamente senza vedere cosa succede e chi lo ascolta al di là del vetro. Si parla di forma di ascolto protetto [Cassazione, sentenza 5 marzo 2014 n. 5097].
Come fa il giudice a decidere se i bambini debbano tornare a frequentare il padre? Nei procedimenti davanti al tribunale avviati da un padre separato che si vede rifiutata dai figli una regolare frequentazione, tutto ruota attorno all’ascolto dei bambini da parte dei medici specialistici e da parte del giudice.
Tre sono i punti fondamentali che vengono valutati dai giudici in questi casi.
La situazione concreta. Infatti potrebbe darsi che il rifiuto sia dovuto a comportamenti della madre che influenzano i figli e la loro volontà. Si parla in questi casi di condotte alienanti della madre che potrebbe voler ostacolare il rapporto tra il padre separato e figli. Questa situazione sarà oggetto di accertamento del giudice.
Così in un caso i giudici hanno condannato la madre che non rispettava il calendario di visite del padre separato con i figli minori: la signora sosteneva di aver assecondato la volontà dei figli di non stare con il padre, invece nel corso della consulenza medica disposta dal tribunale era emerso che il rifiuto dei figli in realtà dipendeva dagli atteggiamenti della madre di profonda ostilità verso l’ex marito e che i bambini avevano assorbito [C. App. Milano, sent. del 9 giugno 2011]. In questi casi, però, è il padre separato che deve fornire tutte le prove necessarie per dimostrare le condotte ostili della madre, ad esempio facendo vedere ai giudici i messaggi di quest’ultima dai quali emerga chiaramente la volontà di allontanarlo dai bambini, o servendosi di qualche testimone che possa essere a conoscenza della reale situazione [Trib. Torino, sezione VII, sentenza del 4.4.2016,].
I giudici terranno conto dell’età dei figli. È chiaro che se il minore è già in età adolescenziale e ha tra i 12 e i 15 anni, oppure ha un’età ancora maggiore, ad esempio, 16 o 17 anni, il giudice sarà più propenso a rispettare la sua volontà. È evidente, infatti, che il rifiuto di frequentare il padre da parte di un ragazzino adolescente viene espresso con una capacità di giudizio senz’altro già ben chiara. È necessario in questi casi, dicono i giudici, che sia rispettata la sua volontà espressa in modo lucido e il suo interesse, senza imposizioni [Cass. Sent. Del 7.10.2016 n. 2010].
La valutazione della condotta tenuta dal padre. In un recente caso i giudici hanno deciso che la figlia minore non potesse essere obbligata a frequentare il padre separato il quale nel corso degli ultimi anni aveva manifestato poca attenzione e interesse nei suoi confronti mandandole solo qualche messaggio e facendole qualche sporadica telefonata.
La Cassazione in questo caso ha stabilito che, dato il rifiuto della figlia, espresso in modo netto, di frequentare con regolarità il padre, un riavvicinamento con quest’ultimo poteva avvenire solo spontaneamente.
Tuttavia il padre separato non ha certamente sbagliato nel agire giudizialmente per vedersi riconosciuto il suo ruolo di genitore perché la Cassazione ha stabilito che a quest’ultimo fosse dato un supporto psicologico {anche in consultorio. Ndr} al fine di fornirgli tutti quei suggerimenti necessari per avviare un percorso che gli permettesse di riprendere la frequentazione con la figlia [Cass. Sent. del 7 ottobre 2016 n. 2010]
La giurisprudenza europea sul rifiuto dei bambini di vedere il padre. I giudici italiani quando devono affrontare il tema della frequentazione dei figli con il padre separato fanno spesso riferimento anche alla giurisprudenza europea.
In particolare i giudici italiani ricordano che la Corte europea più volte ha stabilito, in casi come questi, che ai bambini non possa essere imposto un legame con il genitore che non vogliono frequentare.
Perciò il diritto dei figli di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e quello di quest’ultimi ad avere un rapporto effettivo con i figli deve essere valutato nel caso concreto [Corte EDU, 17 dicembre 2013, Santilli/Italia; Corte EDU, 29 giugno 2004 Volesky/Rep.Ceca].
Ciò vuol dire che se il figlio rifiuta di frequentare il padre separato, ad esempio perché non ha mai avuto una relazione stabile e continua con lui, o perché gli provoca un profondo disagio emotivo o uno stato di ansia ogni qualvolta lo deve incontrare, non sono possibili imposizioni!
Sarà necessario invece, gradualmente, verificare la possibilità di un percorso di riavvicinamento spontaneo e il padre separato dovrà essere pronto a sottoporsi ad un sostegno psicologico che lo aiuti a ricostruire il rapporto perduto con figli.
Cosa fare in concreto. Come si è visto due sono le strade percorribili per il padre separato rifiutato dai figli.
Senz’altro è consigliabile un percorso che aiuti a riallacciare i rapporti perduti al di fuori delle aule del tribunale, ma se ciò non è possibile il padre non si deve scoraggiare e, anzi, deve trovare la forza di agire giudizialmente: i figli una volta che saranno cresciuti gliene saranno grati.
Mantenere un buon rapporto con i genitori, soprattutto in un’età delicata, è d’altronde importante per la costruzione della persona.
Il padre separato dovrà però affrontare dei costi non indifferenti tra avvocati e consulenti medici e dovrà essere pronto a seguire un percorso non facilissimo, ma che potrà riportare un sereno ed equilibrato rapporto di frequentazione con i bambini al di fuori, comunque, di ogni forma di imposizione verso quest’ultimi.
Valentina Finotti La Legge per tutti 16 giugno 2018
www.laleggepertutti.it/214725_che-fare-se-i-bambini-non-vogliono-frequentare-il-padre-separato
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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI
Indirizzo di saluto del Presidente a Papa Francesco
Il Santo padre il 16 giugno 2018 ha ricevuto la Delegazione del Forum delle Associazioni Familiari, in occasione del 25° Anniversario di fondazione dello stesso.
Papa Francesco, dopo aver ascoltato l’indirizzo di saluto rivoltogli dal Presidente Gigi De Palo, gli ha consegnato il discorso che aveva preparato, ed ha iniziato a parlare a braccio
www.forumfamiglie.org/2018/06/16/discorsi-udienza-papa-francesco-del-16-giugno-2018
Gigi De Palo. «Famiglia sia priorità, serve un vero piano fiscale»
Gigi De Palo (Forum): l’Italia muore, non serve melina serve concretezza. Gli occhi fermi sugli ultimi dati Istat. «L’Italia muore e la politica da troppo tempo continua a fare melina. Mai una decisione vera. Solo promesse e analisi, solo inutili polemiche…». Gigi De Palo torna subito su questi ultimi numeri. «Un nuovo bollettino di guerra. L’ennesimo record negativo. 15 mila bambini nati in meno rispetto al 2016: mai così male dall’Unità d’Italia». E ora? «Ora chiediamo con forza e con preoccupazione una risposta immediata di questo governo. Chiediamo un’azione politica forte, netta. Per rilanciare le nascite. E, parallelamente, per restituire fiducia alle famiglie».
Sfidiamo il presidente del Forum con una domanda volutamente scontata: è il momento del Patto per la Natalità?
De Palo annuisce: «È il momento di unire tutta la politica alla società civile, alle imprese, alle banche, ai media. È ora di fare squadra per far fronte a una emergenza che, mese dopo mese, diventa sempre più drammatica. Ma bisogna fare in fretta, anzi bisogna fare subito. Subito una riforma fiscale seria che metta le famiglie al centro. Subito un “piano Marshall” per la natalità».
Sia onesto ci crede?
Vedo ancora in giro troppi tifosi. Da una parte e dall’altra. Vedo una campagna elettorale che sembra non finire mai. Ma oggi il Paese ha bisogno di concretezza perché mentre si litiga le famiglie non arrivano alla fine del mese. Siamo sull’orlo del baratro. Le donne sono costrette a nascondere il pancione e a scegliere tra un lavoro e un figlio. I giovani emigrano per necessità e non per opportunità. Ci penso tutte le sere: un padre di famiglia ha la fretta di chi non vuole rassegnarsi a vedere il proprio figlio su Skype.
Insisto: ci crede? Crede che dal governo Conte possa arrivare la scossa?
Un nuovo governo, indipendentemente se lo hai votato o meno, porta con sé le attese e le speranze di un cambiamento. C’è un Paese stanco e c’è una classe politica chiamata a dimostrare di essere diversa da chi l’ha preceduta. Ho appena incontrato il ministro Fontana.
Da una prima chiacchierata mi sembra che anche lui abbia molto chiaro che la natalità è una priorità assoluta. E anche a lui ho detto chiaramente che le famiglie non vogliono polemiche, ma concretezza. Mi sembra che a parole tutto il mondo politico abbia chiare le priorità. A parole maggioranza e opposizione concordano nel cercare una soluzione all’inverno demografico, ma poi nei fatti viene sempre prima qualcos’altro. Una volta le banche, un’altra le imprese… Ma questa politica ha capito che se non ci sono le famiglie non hanno senso le banche? Ha capito che senza famiglie che consumano alle imprese non serve produrre?
Che cosa vuole dire piano Marshall per le famiglie?
Un grande piano di investimenti che si lega a un grande progetto fiscale. Bisogna immaginare un Paese unito capace di correre verso lo stesso obiettivo. Penso a un grande evento con le forze migliori della società: imprese e mondo politico, media e banche, sindacati e società civile. Tutti insieme per cercare una soluzione a questa emorragia che sembra inarrestabile.
In concreto?
Rilanciamo il #pattoxnatalità insistendo su una riforma fiscale seria. Basta bonus e mancette. Le famiglie non vogliono aiuti, vogliono giustizia. Siamo quella sussidiarietà che viene umiliata ogni giorno perché lo Stato invece di creare un rapporto di complicità, ci percepisce come concorrenti. Ma noi non siamo il problema, siamo la soluzione del problema.
Arturo Celletti Avvenire 14 giugno 2018
www.avvenire.it/economia/pagine/famiglia-sia-priorit-serve-un-vero-piano-fiscale
Infanzia: Ciccarelli (Forum famiglie), “crescere un figlio in Italia può essere causa di povertà”
“Oggi crescere un figlio in Italia ha costi talmente elevati da diventare spesso causa di povertà per le famiglie”.
È il commento della vicepresidente del Forum famiglie, Emma Ciccarelli, alla relazione annuale dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, presentata oggi in Senato e alla quale la stessa Ciccarelli ha preso parte in rappresentanza del Forum.
“Oggi nel nostro Paese ci sono 21mila bambini ancora in attesa di affido – sottolinea Ciccarelli, dichiarandosi in piena sintonia con le criticità evidenziate nella relazione -. Sono numeri alti. Le famiglie italiane si sono sempre dimostrate aperte e generose su questi temi: restituendo maggiore equità fiscale e servizi all’infanzia potremo restituire un futuro a tanti ragazzi”. “In queste circostanze – aggiunge -, il Patto per la natalità e l’applicazione concreta del Fattore famiglia a livello fiscale diventano misure urgenti e improcrastinabili”.
Agenzia SIR 13 giugno 2018
https://agensir.it/quotidiano/2018/6/13/infanzia-ciccarelli-forum-famiglie-crescere-un-figlio-in-italia-puo-essere-causa-di-poverta
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Al Forum delle famiglie. Il Papa: la famiglia è solo quella tra uomo e donna.
Il Papa ha ricevuto stamani in udienza, in Aula Clementina, i delegati del Forum delle Famiglie. Nel discorso, interamente a braccio, ai delegati del Forum delle Famiglie, Francesco ha parlato anche di aborto selettivo, di fedeltà coniugale e del dibattito sull’Amoris Lætitia.
«Fa dolore dirlo: oggi si parla di famiglie diversificate, di diversi tipi di famiglia. Sì è vero: famiglia è una parola analoga, si dice anche “la famiglia delle stelle”, “la famiglia degli animali”. Ma la famiglia immagine di Dio è una sola, quella tra uomo e donna. Può darsi che non siano credenti ma se si amano e uniscono in matrimonio sono a immagine e somiglianza di Dio. Per questo il matrimonio è un sacramento grande». Lo ha detto papa Francesco, parlando a braccio, rivolgendosi alla delegazione del Forum delle Associazioni Familiari ricevuta stamani in udienza in occasione dei 25 anni dalla fondazione.
Dopo avere ascoltato il saluto di Gigi De Palo, presidente del Forum delle Famiglie, il Papa ha lasciato il testo scritto («mi sembra un po’ freddo», ha detto) per rivolgersi al suo uditorio in maniera colloquiale. E così facendo ha toccato molti temi discussi: dall’aborto selettivo all’infedeltà, alle critiche che sono state fatte all’esortazione apostolica Amoris Lætitia. Non ha dunque parlato espressamente di “Fattore Famiglia” e dell’importanza che un Paese investa sulla famiglia, temi che erano presenti nel testo scritto, che è stato consegnato e dato per letto.
Amoris Lætitia non è una casistica del «si può o non si può». Invitando le coppie a leggersi la sua esortazione apostolica sulla gioia dell’amore citata poco prima da De Palo («Leggete – ha suggerito il Papa – il quarto capitolo, è il nocciolo dell’Amoris Lætitia, parla della spiritualità di ogni giorno»), Francesco ha fatto riferimento al dibattito sorto attorno ad essa. «Alcuni hanno ridotto l’Amoris Lætitia – ha detto – ad una sterile casistica “si può-non si può”: non hanno capito nulla». Nell’esortazione apostolica «non si nascondono i problemi» e per questo i fidanzati debbono essere aiutati nella preparazione del matrimonio. «La famiglia è un’avventura bella e oggi, lo dico con dolore – ha aggiunto il Papa -, vediamo che tante volte si pensa ad incominciare una famiglia, a fare un matrimonio, come fosse una lotteria. “Andiamo, se va, va, se non va cancelliamo la cosa e cominciamo un’altra volta”». Francesco ha stigmatizzato questa «superficialità» nei confronti del «dono più grande che Dio ha dato all’umanità: la famiglia».
L’elogio della fedeltà e della pazienza. Un altro tema delicato sul quale il Papa è voluto intervenire, davanti ai coniugi, è la quello della fedeltà. «Una cosa che nella vita matrimoniale aiuta tanto – ha detto – è la pazienza, sapere aspettare. Ci sono nella vita situazioni di crisi forti, brutte, dove anche arrivano tempi di infedeltà». Francesco ha lodato «la pazienza dell’amore che aspetta. Tante donne, ma anche l’uomo talvolta lo fa, nel silenzio hanno aspettato, guardando da un’altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà». Questa – ha sottolineato Francesco – è «la santità che perdona tutto perché ama».
Un catecumenato per il matrimonio. Il Pontefice ha raccontato questo episodio: «Una volta una donna, a Buenos Aires, mi ha detto: “Voi preti siete furbi: studiate otto anni per diventare preti, e poi se dopo qualche anno la cosa non va, una bella lettera a Roma e ti danno il permesso e tu puoi sposarti. Invece a noi, che ci danno un sacramento per tutta la vita, ci accontentate con tre o quattro conferenze di preparazione, e questo non è giusto”». «Ci vogliono conferenze di preparazione – ha commentato Francesco a proposito della preparazione al matrimonio – ma servono uomini e donne amiche che aiutano i giovani a maturare nel cammino». E ha suggerito: «Oggi c’è bisogno di un catecumenato per il matrimonio, come c’è un catecumenato per il battesimo». La preparazione al matrimonio è importante «anche per la successiva educazione dei figli. Non è facile educarli, sono più svelti di noi nel mondo virtuale, sanno più di noi» ha osservato il Papa. «Educare al sacrificio della vita familiare non è facile!», ha esclamato infine comprendendo entrambi i momenti: la formazione al matrimonio e l’educazione che gli sposi daranno ai figli.
L’aborto selettivo, pratica nazista. Francesco ha affrontato anche il tema dell’aborto selettivo. «Ho sentito dire che è di moda – ha detto -, o almeno è abituale che quando nei primi mesi di gravidanza si fanno gli studi per vedere se il bambino non sta bene o viene con qualcosa, la prima offerta è: “lo mandiamo via”». «L’omicidio dei bambini: per risolvere la vita tranquilla si fa fuori un innocente». «Da ragazzo – ha aggiunto Francesco – la maestra che faceva storia ci diceva della rupe, per buttarli giù, per salvaguardare la purezza dei bambini. Una atrocità, ma noi facciamo lo stesso». «Perché – si è chiesto ancora il Papa ad alta voce – non si vedono nani per la strada? Perché il protocollo di tanti medici dice: viene male, mandiamolo via». «Il secolo scorso – ha scandito il Pontefice – tutto il mondo si è scandalizzato per quello che facevano i nazisti. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi».
Il discorso scritto: la famiglia al centro del progetto divino. La famiglia, si legge nel discorso che era stato preparato, «sta al centro del progetto di Dio». «Essendo culla della vita e primo luogo dell’accoglienza e dell’amore, essa ha un ruolo essenziale nella vocazione dell’uomo». Purtroppo nella nostra società, spesso tentata e guidata «da logiche individualistiche ed egoistiche» non di rado si «smarrisce il senso e la bellezza dei legami stabili, dell’impegno verso le persone, della cura senza condizioni, dell’assunzione di responsabilità a favore dell’altro, della gratuità e del dono di sé. Per tale motivo – prosegue il Papa – si fatica a comprendere il valore della famiglia e si finisce per concepirla secondo quelle stesse logiche che privilegiano l’individuo invece che le relazioni e il bene comune».
… e i figli massimo investimento per un Paese. «È un autentico paradosso – denuncia il discorso di Francesco – che la nascita dei figli, che costituisce il più grande investimento per un Paese e la prima condizione della sua prosperità futura, rappresenti spesso per le famiglie una causa di povertà, a motivo dello scarso sostegno che ricevono o dell’inefficienza di tanti servizi». «La sensibilità che portate avanti riguardo alla famiglia – prosegue il discorso rivolto presidente Gigi De Palo e agli altri delegati – non è da etichettare come confessionale per poterla accusare, a torto, di parzialità. Essa si basa invece sulla dignità della persona umana e perciò può essere riconosciuta e condivisa da tutti, come avviene quando, anche in contesti istituzionali, ci si riferisce al “Fattore Famiglia” quale elemento di valutazione politica e operativa, moltiplicatore di ricchezza umana, economica e sociale».
A.M.B. Avvenire 16 giugno 2018
www.avvenire.it/papa/pagine/papa-francesco-forum-famiglie-la-famiglia-e-uomo-donna
Discorso del Santo Padre a braccio
Discorso del Santo Padre consegnato
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2018/june/documents/papa-francesco_20180616_forum-associazioni-familiari.html
La svolta profetica di papa Francesco
Nel n. 705 di newsUCIPEM a pag. 18 riportavamo l’intento di Andrea Grillo
f) Un progetto, in conclusione. Alla luce di queste considerazioni, ho pensato che sia opportuno dedicare una serie di post alla presentazione di alcune di queste “visioni sintetiche” di Francesco, che rendono assai complesso un bilancio unitario del suo pontificato. In esse cercherò di mettere alla prova i criteri di giudizio che il bel Convegno di Porto Alegre ha saputo suggerirmi. I testi che vorrei presentare sono i seguenti:
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Ghislain Lafont, Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, Bologna, EDB, 2017;
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Massimo Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Milano, Jaca Book, 2017;
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Massimo Faggioli, Cattolicesimo, nazionalismo, cosmopolitismo. Chiesa società e politica dal Vaticano II a papa Francesco, Roma, Armando, 2018.
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Peter Huenermann, Uomini secondo Cristo oggi. L’antropologia di papa Francesco, Città del Vaticano, LEV, 2017.
Dedicherò a ciascuno di essi un post, nei prossimi giorni
La svolta profetica di papa Francesco
Virtù storico-filosofiche e vizi sistematici di una biografia intellettuale (M. Borghesi) (/2)
Romano Guardini, in un saggio giovanile dedicato al “metodo sistematico” in liturgia, ha fatto una affermazione che risulta preziosa per leggere il lungo saggio di M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale (Milano, Jaca Book, 2017): “la storia ci dice che cosa è stato; la sistematica che cosa deve essere”. Nell’ambito delle prospettive che si sono aperte, grazie al Convegno IHU, sulla “Svolta profetica di papa Francesco” – di cui ho parlato nel precedente post di questa serie – ho ritenuto di presentare una serie di volumi, che intendo leggere nella prospettiva dischiusa dal Convegno brasiliano. Dirò di più: se non fossi stato a Porto Alegre, se non avessi sentito parlare teologi e storici di mezzo mondo sul tema, non mi sarei accorto di quanto è importante una comprensione profonda, articolata ed equilibrata del pensiero di Francesco e della sua esigenza di profezia. Proprio perché l’ho vista valorizzata, limitata o negata, sento l’esigenza di comprenderla meglio.
Aggiungo che il volume di Borghesi, dal quale comincio la mia presentazione – e cui seguiranno i volumi di Lafont, Faggioli e Huenermann – è apparso, proprio nel Convegno IHU particolarmente importante, perché è stato pubblicato l’anno scorso in italiano, ma ha già una traduzione portoghese e ne avrà presto una inglese. Nella presentazione che se ne è stata fatta al Convegno brasiliano, appariva chiaro l’intento di chiedere al libro la delicatissima funzione di “presentare” e “accompagnare” Francesco negli USA, che sperimentano ecclesialmente una grande difficoltà nel recepirne serenamente e pienamente il magistero. La biografia di Borghesi dovrebbe, dunque, “rassicurare” e “garantire” il magistero di Francesco.
Ho trovato piuttosto curiosa questa motivazione: ne capisco la esigenza, ma ne comprendo anche i grandi rischi. Per questo motivo ho voluto leggere con attenzione il testo di Borghesi e qui ne presento una recensione non completa, ma per punti salienti.
L’impianto, lo scopo e la struttura. La struttura del volume consta di 7 capitoli, nei quali si vogliono recuperare, in ordine cronologico, tutte le “fonti” del pensiero di Bergoglio: Fessard e Guardini, Methol Ferré e De Certeau, De Lubac e Von Balthasar. Lo scavo nelle fonti, soprattutto argentine, che è spesso di prima mano e quindi assai prezioso, mette in luce influenze e relazioni importanti, anche se, talora, lavora su “fonti di fonti” in modo non del tutto lineare. Così, pur lavorando in rapporto con molti “teologi”, il libro di Borghesi non si presenta come un progetto di lettura teologica, ma come un disegno storico e filosofico del profilo di J.M. Bergoglio. Per questo l’approccio dell’autore, come vedremo, corre il rischio di proiettare sull’oggetto il proprio metodo: ossia di proporre “il pensiero di Bergoglio…(che) viene a costituirsi come una sinfonia degli opposti. Una filosofia che si colloca nell’alveo del cattolicesimo, inteso come coincidentia oppositorum” (23). Borghesi, insomma, tende a trattare il “pensiero di Bergoglio” come una filosofia, e ne sposta il centro in un approccio mistico e sociale, che non pare interessato alla riforma della Chiesa. Questo mi sembra il limite sistematico di un approccio storicamente così fecondo. E’ evidente che Borghesi è interessato a “salvare” il cattolicesimo di Francesco e Francesco in quanto “cattolico”. Ma pretende di farlo in una presunta “equidistanza” tra conservatori e progressisti, con una genericità che non riesce ad essere davvero fedele a Francesco. Riconosce con valore che siamo di fronte al fatto che il “pensiero mistico è un pensiero aperto, che non chiude gli spiragli” (26), ma tende a dimenticare e a rimuovere che questa “mistica” deve nutrire non solo il pensiero, ma anche la struttura ecclesiale, le forme del matrimonio, la formazione dei presbiteri, la vocazione dei battezzati, la relazione col mondo. Su questo Borghesi diventa spesso vago e generico. Vediamo perché.
I limiti sistematici di una indagine storico-filosofica. Posso ora più chiaramente individuare la tensione tra “ricostruzione storica di un pensiero”, e presentazione sistematica del pensiero stesso. Qui a mio avviso emergono i tre limiti che condizionano più pesantemente il volume, e che ora voglio presentare in modo sintetico:
a) L’approccio filosofico-antropologico, che è del tutto opportuno e realmente fecondo, appare anche inevitabilmente unilaterale: non considerando lo spessore teologico, ecclesiologico, istituzionale delle questioni, Borghesi perde in profondità e tende ad una genericità di giudizio, che impedisce una comprensione reale delle questioni in gioco. Si consideri ad esempio l’intento espresso all’inizio del volume con queste parole: l’autore vuole “superare il luogo comune della opposizione di Francesco a Benedetto XVI, patrocinato dai conservatori. In realtà siamo di fronte a una diversità di stili e di accenti, non di contenuti” (21). Per esprimere questo giudizio, proprio in questa forma, Borghesi deve sospendere del tutto una domanda “sistematica” su Francesco e su Benedetto. Se ci limitiamo ad una indagine puramente filosofica e antropologica, possiamo forse anche concordare con Borghesi. Ma se entriamo nella articolazione sistematica dei contenuti teologici, senza limitarci alle formule del catechismo, allora dobbiamo necessariamente osservare che le differenze maggiori sono proprio sul piano del contenuto. Non per arrivare alla “contrapposizione conservatrice”, ma per comprendere la “discontinuità riformatrice”, che in Borghesi evapora totalmente. La discontinuità non è “cedimento alle logiche antitetiche”, ma esperienza obiettiva, da elaborare.
b) In linea con questo primo limite, un secondo, che ne è conseguenza, diventa altrettanto importante: per Francesco il Concilio Vaticano II è stato l’orizzonte di formazione e di comprensione della esperienza ecclesiale, religiosa e ministeriale. Nel volume di Borghesi il tema è affidato ad alcune riflessioni di grande pregio proposte da Methol Ferré, che riguardano però – come ovvio, dato l’autore – una comprensione “teoretica” e “filosofica” del Vaticano II, soprattutto in rapporto al protestantesimo e all’illuminismo. Le conseguenze di questa “rilettura della Chiesa in rapporto alla modernità”, sono però spostate, in modo filosoficamente interessante, ma teologicamente molto arbitrario, sulle dipendenze di M. Ferré rispetto al filosofo italiano A. Del Noce. E questa mossa conduce, nella pagine successive, ad una rilettura del Vaticano II in termini di “risorgimento cattolico” che inevitabilmente conduce, non senza forzature piuttosto rilevanti, ad una esaltazione di papa Ratzinger per la quale, citando sempre citando Methol Ferré, “con Ratzinger si può dispiegare una nuova modernità cattolica, come sviluppo di quella modernità che ha avuto nel Concilio Vaticano II la sua manifestazione più totalizzante” (191).
c) Da ultimo, e quasi a sintesi di questi primi due aspetti – ossia della lettura “non teologica” e della considerazione “non ecclesiologica” del Vaticano II – deriva un terzo limite, per certi versi ancora più grave. Intendo dire la dipendenza che Borghesi dimostra in molte pagine, da una “apologetica ciellina” – ossia da una considerazione esagerata della influenza di Comunione e Liberazione su Francesco e sulla storia del post-concilio – che raggiunge culmini di esplicitazione quasi imbarazzanti. Vorrei limitarmi a citare due passi, che si trovano nel capitolo ultimo, quello dedicato a “Cristianesimo e mondo contemporaneo”. Nella prima parte del capitolo, in cui si discute su Amoris Lætitia, la lettura riduttiva, che viene proposta del testo, per salvarlo dalle accuse dei conservatori, poggia su una lettura non teologica, ma istituzionale e diplomatica, offerta da Rocco Buttiglione (256ss). In altra occasione, accanto alla positiva valutazione del testo di Buttiglione, avevo già osservato che difendere Francesco “solo perché e in quanto” ripete Giovanni Paolo II, senza uscire da quella impostazione, è una strategia minimalista che non consente di comprendere il “gesto profetico” di Francesco, che rilegge in modo originale il rapporto tra dottrina, morale, diritto e pastorale, superando un modello ottocentesco europeo. Ma questo è solo un piccolo segnale. Nello stesso capitolo, infatti, alcune pagine più avanti, leggiamo una “difesa di Bergoglio” che mi pare molto prossima ad una sfigurazione. Si inizia ricordando che Bergoglio aveva letto libri e scritto prefazioni a volumi di L. Giussani. Bene. Poi si aggiunge, già calcando la mano, che “nel suo dialogo con don Giussani Bergoglio mette a fuoco una serie di categorie che torneranno costantemente nel suo insegnamento” (278) avvalorando una sorta di parallelismo tra Giussani e Von Balthasar (sic!). Ma la “quadratura del cerchio” viene costruita da Borghesi in due pagine successive, che sono rivelatrici di un metodo di indagine con un controllo sistematico troppo fragile, che diventa facilmente preda di una lettura ideologica e distorta, scientificamente ed ecclesialmente non accettabile. Cito per intero il brano, di cui propongo poi una adeguata interpretazione:
“Nell’arco di tempo che va dalla fine degli anni 90 ai primi del 2000 Bergoglio mette a fuoco le categorie che ritroveremo al centro del documento finale…di Aparecida, nel 2007. L’idea di fondo è data da una formula che Bergoglio trova esemplarmente descritta nel Deus caritas est di Benedetto XVI: ‘ All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte, e con ciò la direzione decisiva’. E’ la formula riportata nella Introduzione del documento conclusivo di Aparecida. Ha un sapore decisamente ‘giussaniano’.” (280).
La pretesa di trovare un “punto di continuità fondamentale” tra Francesco e Benedetto in una frase che deriverebbe da Luigi Giussani è una affermazione che dimostra molto chiaramente tanto le intenzioni apologetiche della biografia, quanto la fragilità degli argomenti teologici e scientifici che le sostengono. Come si fa a non riconoscere che quella frase, in quel contesto, deriva a Benedetto, e poi a Francesco, da una lunga e complessa tradizione, di riflessione teologica e di argomentazione sistematica, rispetto a cui L. Giussani, se considerato con oggettività teologica, deve essere riconosciuto come semplicemente esterno, se non estraneo? Voler a tutti i costi ricondurre Francesco a Benedetto, ed entrambi a Giussani, costituisce un modo per fraintendere gravemente due papi e per alimentare genealogie del tutto congetturali, al solo scopo di “calmare gli animi”, di “rassicurare i dubbiosi” e di avvalorare una lettura talmente continuista da fraintendere la “rivoluzione culturale” e il “cambio di paradigma” richiesto da Francesco.
Un Francesco imborghesito e pastorizzato: profilo o caricatura? Alla fine, sia pur con un interessante recupero di dati biografici e teorici, che resteranno come un obiettivo guadagno per la ricerca successiva, il lettore non può non restare un poco deluso dall’impianto sistematico dell’opera di Borghesi, che tenta di avvalorare un continuismo tra papi e una subordinazione del teologico all’antropologico che non coincide con la realtà effettuale di papa Francesco. E’ una “ipotesi su Francesco” che non regge ad un esame rigoroso per due motivi:
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E’ un Francesco “imborghesito” – mi si conceda il gioco di parole – non solo perché sottoposto ad una rilettura di Borghesi troppo unilaterale, ma perché depurato da ogni istanza critica a livello teologico ed ecclesiologico. Viene reso del tutto compatibile con quella autoreferenzialità ecclesiale che Francesco stesso vuole invece superare e rimuovere, mediante la riforma della Chiesa.
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E’ un Francesco “pastorizzato”, il cui profilo di pastore, riferito solo ad un profilo mistico e spirituale, viene privato della istanza profetica, istituzionale, riformatrice, critica. Con un Francesco così pastorizzato non si fa alcun formaggio! Si può solo bere un latte certo gustoso, ma con la sicurezza di “non ammalarsi”, restando cattolici e ministri esattamente come prima!
Alla fine, il profilo intellettuale elaborato nel testo, pur con tutta la sua ricchezza di dati, rischia di apparire, almeno parzialmente, come una caricatura. Non vorrei che, per salvaguardare l’ordine pubblico ecclesiale e rinunciando alla profezia, noi fossimo costretti a ragionare non su persone reali, ma su versioni di comodo o su riduzioni al passato. Guardini sapeva bene che il racconto dei dati del passato è condizione per sane sintesi sistematiche; ma sapeva anche che una visione sistematica adeguata è a sua volta condizione per “vedere i dati” nella loro pienezza e complessità. L’impressione è che Massimo Borghesi, nel suo lodevole impegno di ricostruzione storica e filosofica, ma condizionato da una sistematica teologica troppo unilaterale e troppo fragile, abbia trovato solo quei dati che erano funzionali alla propria teoria. E che questo abbia compromesso, purtroppo, la profilatura dell’uomo, del prete, del gesuita, dell’Arcivescovo e del papa Jorge Mario Bergoglio. La cui profezia e la cui originalità, purtroppo, sembra restare, in larga parte, fuori da questa biografia.
Come se non Blog di Andrea Grillo 13 giugno 2018
www.cittadellaeditrice.com/munera/la-svolta-profetica-di-papa-francesco-virtu-storico-filosofiche-e-vizi-sistematici-di-una-biografia-intellettuale-m-borghesi-2/
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GARANTE PER L’INFANZIA
Relazione 2017: le dieci criticità per l’infanzia e l’adolescenza
www.garanteinfanzia.org/news/relazione-parlamento-2017-autorita-garante-infanzia
L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, ha presentato a Palazzo Madama la relazione annuale al Parlamento. Segnalate dieci criticità: dall’emergenza educativa alla crescita delle povertà minorili, dalla prevenzione e contrasto alle violenze fino ai livelli essenziali delle prestazioni. Tra le proposte: affrontare l’emergenza educativa e introdurre la mediazione come materia scolastica; attivare una regia contro le povertà minorili che crescono; prevenire e contrastare le violenze sui minorenni; aiutare i figli di genitori separati; introdurre in Italia un ordinamento penitenziario minorile.
In oltre 200 pagine, sono riassunte le iniziative svolte sul piano nazionale e internazionale dell’Autorità a tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nella convinzione che, come ha sottolineato Albano, “i diritti o sono di tutti o non sono di nessuno”.
Diversi i fronti sui quali la garante ha svolto nell’ultimo anno un ascolto “istituzionale” con un impegno che l’ha vista visitare 28 strutture di prima e seconda accoglienza per minori stranieri non accompagnati e i ragazzi ristretti in istituti penali minorili. Oltre 8.000 sono stati i bambini e i ragazzi coinvolti nei progetti promossi dall’Autorità garante nell’anno scolastico 2017/2018, attraverso la partecipazione di circa 80 scuole di tutto il territorio nazionale. E poi 20 giornate di formazione in 5 corsi per aspiranti tutori volontari di minori stranieri non accompagnati (realizzati in Abruzzo, Toscana e Sardegna tra ottobre e dicembre), oltre a convegni, giornate di studio, riunioni e tavoli tecnici. Si è trattato – ha spiegato Albano – di un’attività volta ad “intercettare le richieste e i bisogni di bambini e ragazzi, tradurli in diritti e individuare le modalità per renderli esigibili, portando le istanze delle persone di minore età davanti alle istituzioni”. “L’obiettivo – ha proseguito – è realizzare il principio di uguaglianza di tutti i bambini e ragazzi presenti a qualsiasi titolo in Italia e l’ascolto istituzionale rappresenta la modalità attraverso la quale questi diritti possono essere garantiti”.
Dieci criticità, dieci proposte. Come detto, sono diversi i settori su cui l’Autorità garante ha concentrato la propria attenzione.
Ad iniziare dai minori stranieri non accompagnati che, oggi, per il 42% sono in Sicilia. “Questo, in radice, mina e rischia di comportare il fallimento dell’intero sistema di accoglienza”, ha ammonito Albano. Da qui la proposta di “distribuire uniformemente sul territorio i minori stranieri non accompagnati”.
Inoltre vanno sostenuti gli oltre 4mila cittadini che hanno risposto all’appello lanciato dall’Autorità di garanzia e che si sono dichiarati disponibili a diventare tutori volontari, cioè “una guida, un punto di riferimento per ragazzi e bambini che hanno attraversato il mare e il deserto, sono soli in Italia e devono essere guidati ad affrontare la normalità in un Paese complesso come il nostro”.
Un’altra questione riguarda l’emergenza educativa. “Riteniamo che la mediazione – ha osservato la Garante – sia veramente l’arte per gestire la conflittualità, per sviluppare la cultura del rispetto nei confronti dell’altro, per eliminare alla radice ogni forma di aggressività”.
“Per combattere e prevenire il bullismo e il cyberbullismo – ha proseguito – ho proposto che venga introdotta la mediazione come materia scolastica obbligatoria. L’ora di mediazione e di ascolto nelle scuole come strumento per impedire in radice ogni forma di violenza”.
A tal proposito, Albano ha evidenziato che non bisogna “dimenticare mai le tante vittime innocenti di atti di aggressione compiuti attraverso la rete e gli autori delle condotte aggressive”. “Anch’essi – ha osservato – sono nella maggior parte dei casi persone di minore età e devono essere destinatari di interventi di educazione e responsabilizzazione, non solo di interventi di carattere repressivo”.
C’è poi bisogno di “attivare una regia contro le povertà minorili che crescono”. Secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istat, la povertà assoluta è passata in un anno dal 18,3% al 26,8% proprio tra queste famiglie, coinvolgendo quasi 138mila famiglie e più di 814mila persone. Essa aumenta anche tra i minori, passando da 10,9% a 12,5%: “Si tratta di un milione e 292mila under 18, un numero enorme”, ha rilevato la Garante.
Tra le 10 proposte anche quella di “un sistema autoalimentato di rilevazione dei dati in grado di fornire una fotografia completa di tutte le forme di violenza ai danni dell’infanzia e dell’adolescenza”. Per “prevenire e contrastare le violenze sui minorenni”, secondo Albano, “solo la conoscenza del fenomeno sotto l’aspetto quantitativo e qualitativo consentirà interventi mirati di prevenzione e contrasto nonché più efficaci azioni di assistenza e sostegno dei minorenni maltrattati”.
Albano si è detta “consapevole del fatto che quando si parla di violenza ai danni dell’infanzia tanto è il sommerso”. “Per far emergere il sommerso – ha proseguito – occorre un’attività di sensibilizzazione che deve coinvolgere anche i bambini”.
“Tra le lacune perduranti nel sistema di protezione dell’infanzia c’è anche la mancata individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali dei minorenni”, ha ricordato poi la Garante, lanciando un appello: “Concentriamoci quantomeno sulla fascia 0-6 anni, quella in cui è più facile azzerare le differenze. Pensiamo ad asilo nido gratuiti in tutto il territorio nazionale”.
I diritti vanno garantiti anche ai 21mila e 35 tra bambini e ragazzi che vivono fuori famiglia di origine, nelle strutture di accoglienza in tutto il territorio nazionale. Per loro sono state elaborate “le prime linee guida – ha notato Albano – per garantire la continuità negli studi a chi non ha avuto la fortuna di vivere una continuità nella vita familiare”.
Agevolano l’iscrizione in corso d’anno, la scelta delle classi e i trasferimenti di alunni e alunne in affido familiare o in comunità.
Altre criticità riguardano i figli di genitori separati, per i quali l’Autorità sostiene i “gruppi di parola”, un mezzo “per aiutare i bambini e i ragazzi che stanno vivendo la difficile fase di transizione rappresentata dalla separazione dei genitori a condividere il vissuto” perché così “possono parlare, condividere pensieri ed emozioni”. Realizzati con il supporto e la collaborazione dell’Università Cattolica e dell’Istituto Toniolo, “stanno funzionando e – la richiesta della Garante – chiediamo diventino una misura strutturale da inserire nel Piano nazionale infanzia e nel Piano nazionale famiglia”.
Nella relazione è evidenziata anche la necessità di “mettere al centro il bambino e il ragazzo” nei casi di affido familiare, dando “continuità al suo mondo di affetti perché la vita affettiva è unica, a maggior ragione per i bambini”.
Non manca poi una denuncia per quanto riguarda la situazione degli adolescenti con problemi di salute mentale: “Mancano i posti letto nei reparti di neuropsichiatria infantile; è emersa l’assenza di diagnosi tempestive e prese in carico precoci, e il bisogno di continuità tra terapie residenziali e territoriali, tra minore e maggiore età”.
E “c’è da colmare una lacuna, quella dell’introduzione di un ordinamento penitenziario minorile”
Agenzia SIR 13 giugno 2018
https://agensir.it/italia/2018/06/13/autorita-garante-ecco-le-dieci-criticita-per-linfanzia-e-ladolescenza ▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
GENITORE COLLOCATARIO
Dopo la separazione la madre può trasferirsi con i figli?
In caso di separazione capita spesso che il genitore collocatario dei figli voglia trasferirsi, cambiare residenza. Tale libertà incontra dei limiti: infatti, il trasferimento dei minori ricade nell’ambito di quelle decisioni che i genitori devono assumere di comune accordo nell’interesse dei figli.
Il problema è stato sottoposto all’attenzione dei Giudici di Piazza Cavour che hanno precisato che “dovere primario di un buon genitore affidatario e/o collocatario è quello di non allontanare il figlio dall’altra figura genitoriale: quali che siano state le ragioni del fallimento del matrimonio, ogni genitore responsabile, consapevole dell’insostituibile importanza della presenza dell’altro genitore nella vita del figlio, deve saper mettere da parte le rivendicazioni e conservarne l’immagine positiva agli occhi e nel cuore del minore, garantendo il più possibile le frequentazioni del coniuge con la prole minorenne. L’attitudine del genitore ad essere un buon educatore ed a perseguire primariamente il corretto sviluppo psicologico del figlio si misura alla luce della sua capacità di realizzare un siffatto risultato non a parole, ma in termini concreti”.
Da tale pronuncia si evince, ancora una volta, come è interesse primario del Legislatore quello di garantire al minore una crescita sana ed equilibrata, mantenendo rapporti concreti con entrambe le figure genitoriali nel rispetto del principio di bigenitorialità.
Ne consegue che il genitore collocatario che, arbitrariamente, senza il consenso dell’altro, si trasferisca con i figli, compie un atto illegittimo e questo sia nell’ipotesi di affido condiviso, sia nell’ipotesi di affido esclusivo.
Che deve fare il genitore non affidatario che non approva il trasferimento? Deve rivolgersi al Giudice depositando un ricorso al fine di ottenere l’autorizzazione alla “rilocazione” del minore tramite la modifica delle condizioni della separazione o del divorzio. L’altro genitore può fare opposizione.
Il Giudice sarà, così, chiamato, ancora una volta, ad assumere la decisione nel preminente interesse del minore. Per fare ciò il Giudice dovrà sentire entrambi i genitori al fine di prendere la decisione più favorevole. Se l’ascolto dei genitori non è sufficiente, il Giudice potrà nominare un esperto il quale dovrà sentire il minore per, poi, redigere una relazione nella quale indicare la soluzione che a suo parere reputa più corretta.
Il genitore che si trasferisce con i figli senza autorizzazione che cosa rischia? Sotto il profilo civile, un siffatto comportamento costituisce grave inadempimento dei provvedimenti adottati in sede di separazione o divorzio per quanto riguarda il diritto di visita dei minori con l’altro genitore. In questa ipotesi il giudice potrà decidere di:
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Modificare i provvedimenti in vigore, potendo anche decidere di affidare i figli al genitore ingiustamente allontanato e, nei casi più gravi, dichiarare la decadenza dalla responsabilità genitoriale;
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Ammonire il genitore inadempiente;
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Disporre a carico del genitore inadempiente, un risarcimento sia nei confronti del genitore leso, che della prole;
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Sanzionare il genitore con un’ammenda.
Il trasferimento arbitrario può essere punito penalmente. Le norme puniscono chiunque e, quindi, anche uno dei genitori, sottrae un minore al genitore esercente la responsabilità su quest’ultimo:
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Portandolo via con sé in modo da allontanarlo dal domicilio stabilito,
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Anche, trattenendolo presso di sé.
Insomma, viene punita la condotta con la quale si ostacola all’altro genitore di svolgere il proprio ruolo e cioè quello di assistenza, di cura, di educazione e di vicinanza affettiva dei figli.
Che cosa dispone l’ultimo comma dell’art. 337 sexies c.c.? All’ultimo comma l’art. 337 sexies c.c. quanto al cambio di residenza o domicilio stabilisce che ” In presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all’altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio. La mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto”.
Da una attenta lettura del summenzionato comma si evince che il Legislatore ha posto a carico di ciascun genitore l’obbligo di comunicare all’altro l’avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio entro il termine perentorio di trenta giorni. La mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno.
Si ritiene che tale disposizione faccia riferimento ai cambi di residenza o di domicilio che si verificano nell’ambito dello stesso Comune o, in ogni caso, a distanze tali da non precludere all’altro genitore di partecipare attivamente alla vita dei figli.
Nel caso in cui il genitore collocatario non si attenga a quanto disposto e in modo arbitrario provveda ad un trasferimento, l’altro, come in precedenza detto, dovrà rivolgersi al Giudice.
Consiglio: il genitore collocatario, nell’interesse primario del minore e nel rispetto del principio di bigenitorialità, prima di effettuare un cambio di residenza o domicilio è giusto ne dia comunicazione all’altro genitore al fine di consentirgli di esercitare il suo ruolo genitoriale senza chiedere l’intervento del Giudice.
Avv. Luisa Camboni Newsletter Giuridica Studio Cataldi 16 giugno 2018
www.studiocataldi.it/articoli/30820-dopo-la-separazione-la-madre-puo-trasferirsi-con-i-figli.asp
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GRAVIDANZA
All’assunzione devo dichiarare che sono incinta?
Che succede se la candidata a un posto di lavoro nasconde lo stato di gravidanza per farsi assumere e poi l’azienda lo viene a scoprire? Può essere licenziata?
Dopo aver cercato a lungo un posto di lavoro e inviato il tuo curriculum a destra e manca, alla fine è arrivata la prima offerta seria. Ti ha chiamato un’azienda della tua città per un colloquio, ma già al telefono ti hanno fatto intuire l’intenzione di procedere all’assunzione. Non stai più nella pelle e già intravedi la fine dei tuoi problemi economici se non fosse per un piccolo – ma lieto – dettaglio: sei incinta. E questa situazione, a tuo avviso, potrebbe farti perdere la chance tanto agognata. Conosci bene, infatti, qual è l’atteggiamento delle aziende nei confronti delle lavoratrici madri, viste come un peso economico e non una risorsa. Non è tanto il divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza fino a un anno di vita del bambino, quanto il fatto che ti spettino cinque mesi di congedo obbligatorio retribuito. E poi c’è il pregiudizio che una donna che è mamma non può essere una buona lavoratrice. Così, visto che ancora la pancia non si vede, mediti di non dire nulla della gravidanza per farti assumere. Un giorno però l’azienda scoprirà la tua menzogna, visto che sei già al terzo mese. Per questo ti chiedi: all’assunzione devo dichiarare che sono incinta?
In generale, nelle trattative di qualsiasi contratto, ivi compreso quello di lavoro, le parti non devono nascondere nulla di cui sono a conoscenza che potrebbe influire sulla volontà dell’altra parte. È il cosiddetto dovere di buona fede la cui violazione può portare anche all’annullamento del contratto. Nell’ambiente di lavoro però ci sono delle deroghe. Ad esempio, se il lavoratore menziona sul proprio curriculum di aver lavorato presso un’altra azienda non deve spiegare per quale ragione se n’è andato e può anche tacere il fatto che sia stato licenziato per giusta causa.
Cosa succede invece per la lavoratrice incinta? La questione è stata decisa diverse volte dalla Cassazione, a dimostrazione che, non di rado, le lavoratrici hanno nascosto alle aziende il loro stato di gravidanza al momento dell’assunzione e che queste “non l’hanno presa bene” una volta scoperta la verità.
Secondo la giurisprudenza, al momento dell’assunzione la lavoratrice non è tenuta a comunicare al datore di lavoro il proprio stato di gravidanza, nemmeno se questa è a termine e il congedo di maternità copre una parte rilevante della durata del contratto [Cass. Sent. n. 9864/2002].
Non vi è alcuna norma che imponga alla lavoratrice gestante di far conoscere al datore di lavoro il proprio stato di gravidanza prima dell’assunzione, né un siffatto obbligo può ricavarsi, quando la lavoratrice viene assunta con contratto a tempo determinato, dai canoni generali di correttezza e buona fede previsti dal codice civile o da altro generale principio del nostro ordinamento. Diversamente lo stato di gravidanza e puerperio si tradurrebbe in un ostacolo all’assunzione al lavoro della donna e finirebbe così per minare in modo rilevante la tutela apprestata dalla legge a favore delle lavoratrici madri.
Né il datore di lavoro può eseguire degli accertamenti preventivi sulle candidate al posto di lavoro per verificare se queste sono incinta o meno. Sarebbero delle illegittime intrusioni nella sfera privata cui la dipendente potrebbe sottrarsi in qualsiasi momento.
Sempre la Cassazione ha affermato che l’accertamento compiuto dal datore di lavoro relativamente all’eventuale stato di gravidanza costituisce violazione di legge [Cass. Sent. n. 1133/1999; art. 41, co. 3 lett. b), D.Lgs. 81/2008].
Dunque, se il datore di lavoro dovesse assumere una donna incinta e poi dovesse scoprire che questa gli ha nascosto la gravidanza non può licenziarla e l’eventuale atto di recesso dal contratto di lavoro sarebbe illegittimo e discriminatorio [Cass. Sent. n. 2244/2006].
La lavoratrice in gravidanza ha diritto ad essere assunta anche se le mansioni a cui deve essere adibita le sono vietate per non pregiudicare il suo stato di salute. In tal caso il datore di lavoro è obbligato a sostituire le mansioni previste all’inizio con altre diverse [Cass. Sent. n. 4064/1991].
Che succede infine se il datore di lavoro dovesse venire a sapere dello stato di gravidanza per via traverse e per questo rifiutarsi all’ultimo di assumere la lavoratrice? Anche in questo caso per l’azienda le cose si mettono male. La promessa di un posto di lavoro che abbia ingenerato la legittima aspettativa nella lavoratrice consente a quest’ultima di chiedere un risarcimento del danno; ma ciò sempre a condizione che l’offerta di lavoro fosse stata fatta in modo serio e tale da generare la convinzione in una certa assunzione.
[4] «La validità dell’assunzione di una lavoratrice in stato di gravidanza, la quale ha diritto di accedere al lavoro in condizioni di eguaglianza con gli altri lavoratori, non è esclusa per il fatto che l’assunzione (fuori del periodo d’interdizione obbligatoria ex art. 4 legge n. 1204 del 1971) sia prevista per l’esecuzione di lavori pericolosi, la cui assegnazione durante il periodo di gestazione è vietata dall’art. 3, comma 1, legge cit., atteso che l’impiego della donna gestante è problema che riguarda la successiva fase dell’esecuzione del contratto e tenuto conto che le mansioni di assunzione, se interdette per legge, debbono essere sostituite con mansioni diverse, salva la prova (a carico del datore di lavoro) dell’impossibilità (da accertarsi dall’Ispettorato del lavoro ai sensi dell’art. 5 della stessa legge) di detta sostituzione, con la conseguenza, in tal caso, dell’allargamento del periodo d’interdizione obbligatoria.
Redazione La legge per tutti 6 giugno 2018
www.laleggepertutti.it/212201_allassunzione-devo-dichiarare-che-sono-incinta
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HUMANÆ VITÆ
Gronchi in prefazione libro Moia, “esistono diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina”
“A cominciare dalle reazioni degli episcopati”, l’enciclica Humanæ Vitæ di Paolo VI “fu accolta in modo differenziato: in Europa e negli Stati Uniti negativamente, per il timore della crescita eccessiva della popolazione; in America Latina favorevolmente, a causa della paura della sterilizzazione programmata”. Lo scrive Maurizio Gronchi, consultore della Congregazione per la dottrina della fede e della Segreteria del Sinodo, nella prefazione al libro di Luciano Moia “Il metodo per amare. Un’inchiesta”, sottotitolo “L’ Humanæ Vitæ cinquant’anni dopo”. Gronchi ricorda che durante l’incontro con le famiglie nelle Filippine Papa Francesco ha affermato che Paolo VI“ conosceva le difficoltà che c’erano in ogni famiglia”, per questo fu “molto misericordioso verso i casi particolari e chiese ai confessori che fossero molto misericordiosi e comprensivi con i casi particolari. Però lui guardò anche oltre: guardò i popoli della Terra e vide questa minaccia della distruzione della famiglia per la mancanza dei figli”. “Le considerazioni di Papa Francesco hanno una straordinaria attualità – osserva Gronchi –. Da una parte, nella vecchia Europa la natalità è decisamente in crisi” e “la generatività necessita di essere riscoperta”; dall’altra, “nel segreto del confessionale i fedeli con alle spalle un matrimonio fallito si presentano di nuovo, con la speranza di essere accolti e accompagnati”. E questo “specialmente dopo l’esortazione Amoris lætitia” nella quale, se pure con linguaggio diverso, “la fecondità e la responsabilità genitoriale sono ancora al centro della pastorale familiare”. Per Gronchi, “continuità e novità, distinzione senza separazione e unione senza confusione sono i criteri decisivi che fin dai primi secoli hanno orientato lo sviluppo armonico della tradizione della fede e della morale cristiana”. Naturalmente, “nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano”, conclude citando il n 3 di Amoris lætitia.
Agenzia SIR 12 giugno 2018
Humanæ Vitæ. Luciani, i vescovi del Triveneto e il «sì» alla pillola
Non era mai stato divulgato il dossier scritto dal futuro Giovanni Paolo I, e condiviso dalla Conferenza episcopale regionale, prima dell’uscita dell’enciclica di Paolo VI.
«Non consta, è dubbio. Nel dubbio, non si può accusare di peccato chi usa la pillola». La firma è quella di un’intera conferenza episcopale regionale e la mano è quella di un vescovo futuro Papa per un dossier finora riservato consegnato a Paolo VI alla vigilia dell’Humanæ Vitæ e che ha avuto origine da questa dichiarazione: «Noi non possiamo assolutamente disinteressarcene. Se c’è anche una sola possibilità su mille, dobbiamo trovarla questa possibilità e vedere, se per caso, con l’aiuto dello Spirito Santo scopriamo qualcosa che finora ci è sfuggito… Vi assicuro che i vescovi sarebbero contentissimi».
È la primavera del 1965 quando l’allora vescovo di Vittorio Veneto Albino Luciani si rivolge in questi termini ai suoi preti in merito a uno dei nodi problematici cui vengono investite le conferenze episcopali in quello scorcio di anni che culmineranno con l’enciclica montanina: il controllo delle nascite. Nodo che papa Paolo VI aveva deciso di sciogliere, come è noto, sottraendolo al dibattito dei padri del Vaticano II. Ed è proprio il futuro Giovanni Paolo I a venire interessato a questo dossier nel momento in cui la Conferenza episcopale del Triveneto, sollecitata dalla Santa Sede al pari delle altre assemblee vescovili regionali, gliene affida l’elaborazione. Fu poi lo stesso Luciani a riferire pubblicamente che il cardinale Giovanni Urbani, patriarca di Venezia, lo aveva incaricato di redigere un documento a nome dei vescovi del Nordest.
È questo il dossier puntuale e di spessore che nella primavera del 1968 perviene sul tavolo di Paolo VI e che in un’udienza con il patriarca Urbani il Papa valuta molto positivamente, tanto che Urbani, di ritorno da Roma, volle deviare fino a Vittorio Veneto per riferire personalmente il positivo commento di Montini al vescovo Luciani. Le note dattiloscritte di questo documento presentato dalla Conferenza episcopale del Triveneto e del quale Luciani fu estensore, sono state rinvenute tra le carte dell’allora vescovo di Vittorio Veneto nel corso della ricerca avviata dalla causa di canonizzazione ed ora contenute nella biografia ex documentis di Giovanni Paolo I, prossima alle stampe.
Le note furono presentate da Luciani nei giorni 23-24 agosto del 1967 mentre partecipava all’incontro dell’episcopato lombardo-veneto a San Fidenzio (Verona) in preparazione al Sinodo dei vescovi. «Il problema delle nascite – introduce Luciani – sentito anche nelle nostre diocesi ed un po’ oscurato dalle opinioni contrastanti che, dopo il Concilio, sono circolate sulla stampa di ogni genere, domanderebbe, se possibile, una risposta prossima. A parere di alcuni vescovi tale risposta può essere moderatamente “liberale”. Senza portare pregiudizio alla legge di Dio».
La posizione possibilista di Luciani era nota ed è stata da più parti attestata. Egli avvertiva i drammi degli sposi: ne aveva parlato anche con i familiari e diversi coniugi, si era documentato a fondo, aveva consultato teologi e medici. Sulla linea della Gaudium et spes, aveva redatto scritti in cui auspicava uno sviluppo della dottrina. L’8 aprile 1968 intervenne ancora davanti ai medici cattolici, esponendo lo stato degli studi teologici sulla regolazione delle nascite. Le problematiche morali e scientifiche legate al controllo delle nascite avevano infatti interessato Albino Luciani che le studiò con particolare attenzione cercando una strada in cui l’applicazione della dottrina cattolica potesse tenere in considerazione anche il dramma di coscienza di molte coppie credenti, tormentate dalla discrasia tra la fedeltà alle indicazioni magisteriali e le effettive difficoltà della vita di coppia. Si deve quindi distinguere – da una parte – la riflessione e le preoccupazioni di un pastore che è anche teologo dogmatico in ricerca, vicino con grande sensibilità pastorale alle difficoltà di tante coppie cristiane e quindi favorevole ad un maggior approfondimento della dottrina cattolica sulla questione e – dall’altra parte – considerare il vescovo fedele a una dottrina che era rimasta sostanzialmente e costantemente salda nella disapprovazione delle pratiche contraccettive.
La nota dattiloscritta ora pubblicata racchiude asserzioni che permettono di inquadrarne nitidamente il pensiero e presentano significative riflessioni, frutto della sua prolungata ricerca scientifica, teologica e pastorale. Anzitutto Luciani spiega che il «moderatamente liberale» vale in campo circoscritto e definitivo: «Cioè: non si considera qui il campo, in cui è già intervenuto il magistero (onanismo, limitazione delle nascite a mezzo strumenti e a mezzo sostanze chimiche, che aggrediscono, per esempio, l’ovulo fecondato o isteriliscono gli spermatozoi o inibiscono l’annidamento dell’ovulo fecondato alla parete dell’utero). Si considera qui il caso della sola pillola a base di “progestinico”». A queste precisazioni fa quindi seguire il seguente ragionamento: «Alcuni pensano che l’uso del progestinico sia “contra naturam”, appoggiandosi al Discorso del 12 settembre 1958 di Pio XII agli ematologi, nel quale il Papa dichiara lecito l’uso della pillola solo per applicazione del principio della causa che ha un doppio effetto. Pio XII, cioè, considera il blocco dell’ovulazione come un effetto cattivo da permettersi solo se viene posto, contemporaneo, un effetto buono. Il discorso citato fa difficoltà. Sarà però lecito osservare che Pio XII ha parlato della pillola come medicina e “rimedio alle reazioni esagerate dell’utero e dell’organismo”, non della pillola in quanto imitazione del “progesterone”; non s’è proposto di esaminare se sia lecito imitare la natura, ripetendo e prolungando effetti naturali. Egli suppone bensì che l’ovulazione impedita sia un male, ma non studia di proposito la nostra questione. Oggi gli studi scientifici hanno rivelato meglio la natura e i compiti del progesterone; si può – pare – studiare il problema sotto un punto di vista nuovo e dire almeno che c’è il dubium juris. Un’indicazione viene dalla famosa nota 14 al n. 51 della Gaudium et spes, dove, tra i citati atti del magistero, che hanno condannato strade proibite in materia di regolazione delle nascite, si cerca invano il Discorso del 12 settembre 1958. Eppure non era mancato in Commissione (ndr pro studio populationis, familiae et natalitatis), chi aveva chiesto quella citazione a gran voce». Considerate queste motivazioni Luciani si sofferma sulle leggi naturali: «Qualcuno dice: la natura ha stabilito che la donna ogni mese abbia l’ovulazione. Sì, ma la stessa natura sospende l’ovulazione durante la gestazione e l’allattamento e dopo la menopausa. Bisogna poi badare a non prendere “natura” in senso troppo stretto. La natura vuole, per esempio, che noi siamo più pesanti dell’aria: ciononostante facciamo bene a viaggiare via aerea imitando il principio naturale per cui volano gli uccelli!». Giunge dunque così a queste conclusioni: «Il magistero può certo interpretare autenticamente le leggi naturali. Ma con molta prudenza, quando ha in mano dati certi. Nel nostro caso i dati sembrano tali che o si dica: È lecito, o almeno si dica: Non consta, è dubbio. Nel dubbio, non si può accusare di peccato chi usa la pillola».
Queste in sostanza le considerazioni sottoscritte dai vescovi che pervennero a Paolo VI nella primavera del 1968. Il 25 luglio di quell’anno viene divulgata l’Humanæ Vitæ. Delle preoccupazioni palesate nel documento il testo papale recepiva soltanto l’invito a continuare l’approfondimento scientifico per «dare una base sufficientemente sicura ad una regolazione delle nascite, fondata sull’osservanza dei ritmi naturali». Il 29 luglio, quattro giorni dopo la promulgazione, Luciani indirizzò ai suoi diocesani la lettera intitolata Appena letta l’enciclica, nella quale confessava che nel suo intimo si augurava «che le gravissime difficoltà esistenti potessero venire superate», si dichiarò consapevole delle amarezze che il dettato pontificio poteva suscitare, ma indicava l’adesione ai pronunciamenti di Paolo VI e prontamente ne applicò le direttive pastorali in un’adesione piena che gli permetteva di dire: «Pensiero del Papa e mio». Un’adesione certamente diversa rispetto a quella di altri ambienti ecclesiali, che al religiosum obsequium preferirono l’obsequiosum silentium o l’aperta contestazione, tanto che in seguito Paolo VI gli affidò sull’argomento anche l’incarico di preparare alcuni articoli per L’Osservatore Romano.
Tornando poi ancora sui temi dell’enciclica in Pensieri sulla famiglia, opuscolo largamente distribuito su iniziativa della Conferenza episcopale triveneta, in un quadro in cui la legge della gradualità diventa un’efficace metafora e il gioco di anticipo nei confronti di eventuali censori rigoristi è affidato alla citazione di san Francesco di Sales, Luciani rispondeva significativamente ad alcune domande sulla condotta dei coniugi in merito alla questione e sul discernimento da parte dei confessori: «Altro è il giusto “senso della colpa” ed altro l’angoscioso, disturbante “complesso di colpevolezza” – affermava – il primo è frutto di coscienza delicata, il secondo proviene da coscienza non bene illuminata e ignora che il Vangelo è messaggio di cose liete anche per i peccatori, se disposti a ritentare, sia pur con l’ennesimo sforzo, una vita sinceramente cristiana». Quindi afferma: «Come giudicherà Dio? Si può pensare che Dio, tutto vedendo e considerando, non abbia sospeso la sua amicizia con queste anime. Il contesto di una vita continuamente cristiana, autorizza, infatti, a sperare con qualche fondatezza che la volontà di quegli sposi non si sia distaccata da Dio e che la loro colpa possa essere non grave, anche se non sia dato di saperlo con certezza e di poterlo proclamare caso per caso. Questa mia risposta… non mi varrà – spero – l’accusa di voler collocare dei cuscini sotto i gomiti dei peccatori! È l’accusa che, su questo argomento, Bossuet ha già mosso a Francesco di Sales, che desiderava soltanto illuminare nelle loro gravi difficoltà i laici seriamente impegnati al bene».
È questo sguardo che caratterizzerà l’approccio del futuro Papa verso ogni questione morale. Un atteggiamento rigoroso e chiaro sul piano dottrinale che tiene costantemente presenti la delicatezza delle singole situazioni alla luce del messaggio evangelico, il valore della coscienza come tale e in ultimo il ministero apostolico stesso che proprio dalla magnanimità di Dio ha la sua propria misura.
Stefania Falasca Avvenire 13 giugno 2018
www.avvenire.it/chiesa/pagine/luciani-i-vescovi-del-triveneto-e-il-si-alla-pillola
Luciani e l’Humanæ Vitæ. Primato della coscienza
Un documento di cui era nota l’esistenza e l’orientamento possibilista verso l’evoluzione della dottrina sulla regolazione delle nascite. Si ignoravano invece i contenuti. Nell’articolo di Stefania Falasca si dà conto dei passaggi principali di quella complessa riflessione al termine della quale il futuro Papa giunge a dire: «Il magistero può certo interpretare autenticamente le leggi naturali. Ma, con molta prudenza, quando ha in mano dati certi. Nel nostro caso i dati sembrano tali che o si dica: È lecito, o almeno si dica: non consta, è dubbio. Nel dubbio, non si può accusare di peccato chi usa la pillola». Il dossier sulla contraccezione è ora inserito nel volume ex documentis che, come spiegato ieri in un altro articolo, dal vescovo di Belluno-Feltre, Renato Maragoni, «raccoglie lo studio completo e scientifico della documentazione d’archivio e delle testimonianze processuali». Scritto da Stefania Falasca, Davide Fiocco e Mauro Velati, “Albino Luciani Giovanni Paolo I” (Tipi Edizioni – Tipografia Piave), è un testo di oltre mille pagine con la prefazione del cardinale Beniamino Stella, postulatore della causa.
L’approccio alla questione del controllo delle nascite del successore di Paolo VI, Albino Luciani, dieci anni dopo Humanæ Vitæ, appare quanto mai significativo anche oggi. Anzitutto per lo spessore della ricerca nell’approfondimento della dottrina e il metodo conseguito nello studio delle questioni morali. Ma anche per la non formale pronta «adesione all’insegnamento del Papa che parla con speciali carismi nel nome di Dio», l’indomani della pubblicazione dell’enciclica.
Del resto l’allora vescovo di Vittorio Veneto aveva ampiamente dimostrato «la necessità di lavorare insieme, mantenendo però il proprio ruolo ministeriale nella Chiesa, dove non sono applicabili i criteri della democrazia parlamentare» e chiarendo che se «la Chiesa ha bisogno di obbedienza», quella che il Concilio definiva «responsabile e volontaria», è perché seppure è lecito discutere, l’assenso al magistero è «sempre dovuto». Una volta dunque che il Pontefice si era espresso, da pastore autentico si era conformato al Papa aiutando i fedeli a fare altrettanto. «E se il peccato facesse ancora presa su di loro, non si scoraggino, ma ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita nel sacramento della penitenza», ribadì il vescovo con le stesse parole del Papa, per poi precisare di «volerle sottolineate in maniera particolare dai sacerdoti, ai quali il Papa raccomanda ‘la pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato l’esempio nel trattare con gli uomini.».
Questo sguardo evangelico e dunque misericordioso che caratterizza l’approccio del vescovo Luciani verso ogni questione morale è il medesimo che si ritrova anche alla vigilia dell’elezione alla cattedra di Pietro, in merito alla prima bambina venuta al mondo a seguito di una fecondazione in vitro. Il futuro Giovanni Paolo I, in un’intervista telefonica che concesse alla rivista Prospettive nel mondo nell’estate del 1978 e che venne pubblicata postuma, argomentava e sviluppava a riguardo quattro punti significativi, «in attesa di quanto l’autentico magistero avrebbe dichiarato».
Egli condivideva «solo in parte l’entusiasmo di chi plaude al progresso della scienza e della tecnica»: cosa sarebbe accaduto – chiedeva – quando quella tecnica «si fosse trovata davanti a figli malformati? Lo scienziato non farà la figura dell’’apprendista stregone’ che scatena forze poderose senza poi poterle arginare e dominare? E inoltre, davanti al rischio di un mercato dei figli, la famiglia e la società non sarebbero state in gran regresso più che in progresso?».
Luciani quindi sollevava perplessità, ma non si fermava lì; proseguiva ricordando che Dio, «che vuole e ama la vita degli uomini», volgeva «i più cordiali auguri alla bambina» ed affermava: «Quanto ai suoi ‘genitori’ non ho alcun diritto di condannarli: soggettivamente se hanno operato con retta intenzione e in buona fede, essi possono avere perfino un gran merito davanti a Dio per quanto hanno deciso e chiesto ai medici di eseguire». Il futuro Pontefice esaminava così la questione della liceità morale dell’accaduto in linea con il magistero di Pio XII (se l’atto medico facilita o continua l’atto coniugale, è lecito; se lo sostituisce o lo esclude, no) ma a chi negava si dovessero porre problemi morali alla scienza, scriveva in conclusione: «La morale non si occupa delle conquiste della scienza, si occupa delle azioni umane, mediante le quali le persone possono usare sia in bene sia in male delle conquiste scientifiche.
Quanto alla coscienza individuale, siamo d’accordo: essa va seguita sempre, sia che comandi, sia che proibisca; l’individuo deve, però, sforzarsi di avere una coscienza ben formata. La coscienza, infatti, non ha il compito di creare la legge. Ha altri due compiti: di informarsi prima cosa dica la legge di Dio; di giudicare poi se c’è sintonia tra questa legge e una nostra determinata azione. In altre parole: la coscienza deve comandare all’uomo, non ubbidire all’uomo». Come si vede è un atteggiamento che, ancora una volta, sul piano dottrinale è affatto che superficiale e leggero: ma che allo stesso tempo tiene in grande considerazione la delicatezza delle situazioni, il valore della coscienza come tale e l’oggettività di una esistenza che, per quanto venuta al mondo in modo moralmente problematico, a rigore di magistero, non sfuggiva all’amore di Dio al quale non può che conformarsi il ministero apostolico.
Stefania Falasca Avvenire 14 giugno 2018
www.avvenire.it/chiesa/pagine/luciani-e-lhumanae-vitae-il-primato-della-coscienza
Humanæ vitæ, incontro cattolici-laici
Sul nostro mensile familiare, domenica in edicola, i firmatari del “Documento” su generazione e fecondità sottoscritto da esperti di diverso orientamento nel 50esimo dell’enciclica di Paolo VI
È passata alla storia come “la profezia” di Paolo VI. Ora però, proprio sulla base di Humanæ vitæ, l’ultima enciclica di Papa Montini che ha visto la luce 50 anni fa (25 luglio 1968), si sta realizzando anche un “mezzo miracolo”. Non potrebbe essere definito diversamente il “Documento comune” sottoscritto da un gruppo nutrito di cattolici e di laici, che si interroga su generazione e moralità, nel tentativo di ridefinire la genitorialità responsabile alla luce delle nuove tecniche riproduttive. Gli esperti hanno preso in esame il nesso fecondità-sessualità, in uno snodo complesso che se da un lato non si stanca di mettere in luce la bellezza e la verità dei metodi naturali di regolazione delle nascite, dall’altro non rinuncia a proporre ipotesi rinnovate anche sulla base di considerazioni pastorali che nascono dalla rivoluzione evangelica di Amoris lætitia.
Ne dà notizia il numero di giugno di Noi famiglia & vita – il mensile familiare di Avvenire domani in edicola – che riporta anche il primo elenco dei firmatari. C’è un esponente della cultura laica come il filosofo Maurizio Mori, ma c’è anche il cardinale Elio Sgreccia, padre della bioetica italiana, che proprio nei giorni scorsi ha compiuto 90 anni. E poi ci sono il presidente del giuristi cattolici Francesco D’Agostino e il direttore del Dipartimento di Filosofia e scienze dell’educazione dell’Università di Torino, Renato Grimaldi. E poi la preside del Camillianum, Palma Sgreccia, il bioeticista padre Maurizio Faggioni, il moralista don Mauro Cozzoli, il teologo domenicano Giuseppe Marco Salvati, la sociologa Paola Ronfani, il vicepreside del Camillianum padre José Michel Favi, il filosofo Piergiorgio Donatelli, il sociologo Roberto Scalon, la genetista Manuela Simoni, il camilliano padre Antonio Puca, docente emerito di bioetica, il direttore di Politeia Emilio D’Orazio. Il fatto che, proprio su un argomento così divisivo come Humanæ vitæ, sia stato avviato un dialogo a tutto campo sui temi dell’amore e della fecondità tra laici e cattolici non può che essere salutato con favore.
Il “Documento di sintesi” scaturito dal convegno del 24 e 25 maggio scorso al Camillianum è nato dalla convinzione che pluralismo e democrazia siano conciliabili con la verità «in cui si radicano i valori del dialogo e del rispetto, la fiducia nella ragione e il riconoscimento della complessità». Le parole di Palma Sgreccia sintetizzano bene lo spirito del convegno che per due giorni ha messo a confronto filosofi, bioeticisti e teologi. Di grande rilievo i contributi presentati. Oltre agli esperti già nominati, sono interventi don Gilfredo Marengo, don Andrea Manto, Luca Savarino, il rabbino Riccardo di Segni, il filosofo Eugenio Lecaldano, la bioeticista Caterina Botti, la giurista Irene Pellizzone, il bioeticista Demetrio Neri. E non finisce qui, perché dall’Incontro nascerà un master di primo livello su “Bioetica, pluralismo e consulenza etica” organizzato da Camillianum e Università di Torino.
Il Documento di sintesi su Humanæ vitæ. Per la prima volta nella storia dell’umanità le persone della nostra epoca sono in grado di controllare la fertilità umana. Le questioni specifiche richiedono ancora la messa a punto di dettagli, ma le conoscenze e le capacità tecniche acquisite sono tali da far dire che nel campo della generazione umana si è aperta una nuova fase senza precedenti: sino a qualche decennio fa la generazione (nascita) di un nuovo essere umano era unicamente frutto dell’unione fisica tra uomo e donna e soggiaceva ai meccanismi del processo biologico visto o come qualcosa di autonomo e casuale, o con un rimando alla metafisica o, per i credenti, con una connessione alla volontà divina. Ora che anche il processo della generazione umana è stato fortemente secolarizzato, la acquisita capacità di controllo della generazione è una realtà assodata e non più eludibile, pertanto si affacciano con forza i problemi etici circa la fruibilità delle nuove tecniche riproduttive e circa il loro impatto sulla genitorialità. In questa nuova situazione storica ci si deve chiedere se le nuove tecniche siano moralmente lecite oppure no, e se lo sono entro quali limiti esse possano essere recepite, e quali prospettive esse aprano per la genitorialità responsabile.
A prescindere dagli aspetti su cui c’è disaccordo, i seguenti paiono essere punti fermi condivisi:
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La nascita di ogni nuova persona è un fatto moralmente e socialmente molto rilevante.
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In quanto consente la generazione di nuove persone, la fertilità umana è un bene, a prescindere dal fatto che tale capacità venga poi effettivamente esercitata.
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Eventuali interventi tecnici sulla fertilità umana non riguardano solo il corpo, ma la dimensione relazionale della persona, e forse anche la sua dimensione identitaria profonda.
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Il processo generativo deve essere responsabile, rispettoso di tutte le relazioni in gioco.
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La generazione di un nuovo nato è ben più che una mera dinamica biologica, ma è un atto che ha un rilievo antropologico di primaria importanza e coinvolge una decisione etica significativa.
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È importante aver chiari i criteri della capacità genitoriale: accogliere e custodire il figlio, riconoscerlo nella sua autonomia, promuoverne lo sviluppo integrale, qualità che sono l’opposto del possesso e dell’indifferenza.
Mentre c’è convergenza sull’invito di Humanæ vitæ alla genitorialità responsabile, c’è dissenso sul controllo della generazione soprattutto se attuato attraverso la tecnica. La lezione antropologica di Humanæ vitæ, che riafferma il nesso inscindibile tra sessualità e generazione, apre alcune questioni di fondo:
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Se la vita di una persona abbia sempre valore a prescindere dalla sua capacità di autorealizzazione oppure no.
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Se il nesso tra sessualità e fecondità sia tale da escludere la liceità morale del controllo della natalità e ammettere solo la regolazione naturale.
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Se la natura biologica in ambito riproduttivo segni i limiti antropologici della persona o se invece l’operare tecnico possa spostarne i confini in base all’autodeterminazione riproduttiva.
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Se sia lecito l’uso commerciale del corpo.
Senza pretesa di essere esaustivo, questo Documento di sintesi vuole mappare alcuni dei temi oggi in discussione al fine di favorire la convergenza ove possibile, e chiarire alcuni degli aspetti ancora aperti. Affinché tale chiarimento sia facilitato è rilevante comprendere l’apporto del Magistero della Chiesa elaborato fino ad oggi e delle altre posizioni culturali ed è altrettanto auspicabile mantenere aperto questo dialogo che noi sottoscritti auspichiamo.
“Io punito perché fedele a Paolo VI”. Il nuovo numero di “Noi” dà spazio, sempre sul tema di Humanæ vitæ, anche a un’intervista con Gianni Gennari, da oltre trent’anni collaboratore del nostro quotidiano ma, mezzo secolo fa, giovane teologo moralista che spiegava la “non infallibilità” dell’enciclica di Paolo VI. Era stato lo stesso pontefice a chiederlo ma per quella scelta Gennari non ebbe più il permesso di insegnare
Ecco qualche passaggio dell’intervista
Perché Paolo VI decise di non ascoltare il parere della Commissione e ascoltò invece di chi gli consigliava di non staccarsi dalla tradizione?
La risposta è semplice: delicatezza e prudenza di Paolo VI, che conosceva bene le resistenze della Curia, e che negli anni precedenti aveva visto anche le nubi dei contrasti tra gli innovatori che si ispiravano al Concilio e le resistenze delle scuole (per esempio la Lateranense contro la Gregoriana per i problemi della esegesi, fatto che aveva preoccupato persino papa Giovanni). Perché dunque Paolo VI accolse il suggerimento di minoranza? Perché evidentemente prese visione delle due relazioni, una di maggioranza che auspicava una via nuova e una di minoranza che dichiarava immutabile l’insegnamento precedente, risalendo alla Casti Connubii di Pio XI. Accadde però che queste due relazioni a sorpresa furono rese pubbliche senza un permesso esplicito, e la cosa fu vista anche come un tentativo di forzare la mano del Papa stesso, ma soprattutto pesò molto il fatto che un gruppo ristretto di cardinali di Curia, tra i quali Ottaviani e probabilmente Ciappi e Bacci, con altri che erano sempre stati diffidenti nei suoi confronti, gli espressero di persona e con durezza la loro catastrofica convinzione: toccare questo punto di dottrina e di disciplina voleva dire rovesciare del tutto la credibilità del Magistero papale e della tradizione cattolica. E lui, delicato e rispettoso come sempre, decise per l’Humanæ vitæ, ma ancora con una percezione umilmente chiara, quella che si manifestò al momento della pubblicazione sia nella voce di monsignor Lambruschini sia in alcune situazioni successive nelle quali egli stesso si espresse con apertura nuova, almeno di sentimento.
Come andò la vicenda di monsignor Lambruschini?
Monsignor Ferdinando Lambruschini era ordinario di teologia morale, unico, alla Facoltà teologica del Laterano. Uomo di grande cultura e di orientamento piuttosto aperto. Sono stato suo alunno negli anni 1961-1966. Paolo VI volle affidare a lui, preferito a tutti gli altri docenti moralisti delle università pontificie e della Curia, il compito di essere suo portavoce per l’annuncio e la presentazione alla stampa mondiale di Humanæ vitæ. Negli incontri preparatori ebbe sempre la cura di raccomandargli di dichiarare che l’Enciclica nella sua normatività non era garantita dal carisma della cosiddetta infallibilità “in docendo“. E Lambruschini, prudente com’era, obbedì con chiara lealtà. Lo conoscevo abbastanza bene, ricambiato. La pubblicazione fu clamorosa, e fu una tempesta sulla stampa, nelle radio, nelle televisioni di tutto il mondo. Lui fu anche accusato, dall’interno della Curia, di aver tradito l’ordine di Paolo VI. Ma papa Montini da parte sua fece chiaramente intendere che la realtà era proprio quella e infatti, concludendo uno dei primi incontri successivi alla pubblicazione, di fronte alla folla delle udienze, parlò esplicitamente delle reazioni anche negative alla pubblicazione di Humanæ vitæ, aggiungendo a braccio: “Benedico quelli che la avevano accolta, ma benedico anche quelli che avevano espresso la loro critica”.
E Lambruschini?
Evidentemente negli ambienti del Laterano, ancora guidato dalla scuola tradizionalista illustre, e che vedeva Paolo VI con sospetto antico e ostilità rinnovata, la sua fedeltà all’ordine del Papa fu non gradita. Fatto sta che quasi subito, a dicembre 1968, fu “promosso” alla cattedra di arcivescovo di Perugia, e fu sostituito nella prima cattedra da Ermenegildo Lio, moralista di antica, anzi antichissima scuola, che sosteneva e sostenne a lungo, fino alla morte, che la norma della Humanæ vitæ era pienamente infallibile.
Anche la tua vicenda personale è strettamente intrecciata a quella di Lambruschini.
Sì, ero andato, con altri, a visitarlo a Perugia come suo alunno, ma anche come possibile successore in quella cattedra. E lui mi confidò tranquillamente tutte le sequenze di quella vicenda, che lo aveva visto fedele alla richiesta di Paolo VI e poi, proprio per questo, di fatto allontanato dalla cattedra. Era malinconico e deluso.
Come teologo moralista, al di là del fatto che anche Paolo VI aveva richiesto proprio questa formula, perché sei convinto della “non infallibilità” di Humanæ vitæ?
Non sono mai riuscito a farmi convincere che nella morale cattolica e cristiana la differenza tra regolazione della natalità con metodi cosiddetti naturali e con metodi cosiddetti contraccettivi, ovviamente non abortivi, sia una scelta tra bene e male. Credo di poter affermare a questo punto – anche se a chi è convinto del contrario questa mia conclusione apparirà come troppo debole e implicita – che l’opzione fondamentale della vita intera, come coerenza globale al Vangelo, e non solo di quella relativa alla scelta dei metodi di regolazione della fertilità, è il criterio da applicare con equilibrio e rispetto in ogni circostanza. Esemplare, convincente e positiva mi è sempre apparsa la breve parola del carissimo patriarca Atenagora, colui che alla fine del Concilio con altri suggellò la remissione delle reciproche scomuniche, e che parlando della morale familiare, rivolto agli sposi affermava così: «Io sacerdote celebro il vostro matrimonio all’altare del Signore, e vi accompagno verso la vostra vita intera, ma giunto alla soglia del vostro talamo nuziale mi fermo. Lì, infatti, i veri sacerdoti siete Voi!».
Luciano Moia Avvenire 15 giugno 2018
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/humanae-vitae-incontro-cattolici-laici
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ISTAT
Bilancio demografico nazionale
www.istat.it/it/files//2018/06/bilanciodemografico2018.pdf
Prosegue nel 2017 la diminuzione della popolazione residente già riscontrata nei due anni precedenti. Al 31 dicembre risiedono in Italia 60.483.973 persone, di cui più di 5 milioni di cittadinanza straniera, pari all’8,5% dei residenti a livello nazionale (10,7% al Centro-nord, 4,2% nel Mezzogiorno).
Complessivamente nel 2017 la popolazione diminuisce di 105.472 unità rispetto all’anno precedente. Il calo complessivo è determinato dalla flessione della popolazione di cittadinanza italiana (202.884 residenti in meno), mentre la popolazione straniera aumenta di 97.412 unità.
Il movimento naturale della popolazione ha registrato un saldo (nati meno morti) negativo per quasi 200 mila unità. Il saldo naturale è positivo per i cittadini stranieri (quasi 61 mila unità), mentre per i residenti italiani il deficit è molto ampio e pari a 251.537 unità. Continua il calo delle nascite in atto dal 2008. Per il terzo anno consecutivo i nati sono meno di mezzo milione (458.151, -15 mila sul 2016), di cui 68 mila stranieri (14,8% del totale), anch’essi in diminuzione. I decessi sono stati quasi 650 mila, circa 34 mila in più rispetto al 2016, proseguendo il generale trend di crescita rilevato negli anni precedenti dovuto all’invecchiamento della popolazione.
Il movimento migratorio con l’estero fa registrare un saldo positivo di circa 188 mila unità, in lieve aumento rispetto all’anno precedente. Nel 2018 aumentano le iscrizioni dall’estero: poco più di 343 mila (erano 300.823 nel 2016), di cui l’88% riferite a stranieri. Le cancellazioni per l’estero sono stabili, intorno alle 114 mila unità per gli italiani, di nascita e naturalizzati, mentre sono più di 40 mila per gli stranieri, in leggera diminuzione rispetto agli anni precedenti. Le acquisizioni di cittadinanza registrano una battuta d’arresto rispetto al trend crescente degli anni precedenti: nel 2017 i nuovi italiani superano i 146 mila.
In Italia risiedono persone di circa 200 nazionalità: nella metà dei casi si tratta di cittadini europei (oltre 2,6 milioni). La cittadinanza più rappresentata è quella rumena (23,1%) seguita da quella albanese (8,6%).
Si conferma la maggiore attrattività delle regioni del Nord e del Centro, verso le quali si indirizzano i flussi migratori provenienti sia dall’estero sia dall’interno.
Comunicato stampa 13 giugno 2018
www.istat.it/it/archivio/216999
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NONNI
Cosa fare quando i nonni diventano invadenti coi nipoti
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 15238, 12 giugno 2018
Non ha diritto a vedere i nipoti il nonno oppressivo che mette sempre il naso negli affari di famiglia e che pedina i bambini.
I nonni invadenti hanno i giorni contati. O meglio, le “visite”. Secondo la Cassazione, infatti, perde il diritto a incontrare i nipoti l’anziano che li opprime tanto da togliere loro ogni serenità. Difatti né la legge, né la Carta europea dei diritti dell’uomo – sostiene la sentenza di poche ore fa della Suprema Corte prevedono un vero e proprio diritto dei nonni di vedere i bambini; bensì al contrario l’ordinamento stabilisce solo il diritto dei nipoti di vedere i nonni, ma solo se, e nella misura in cui, non ne disturbano la crescita e contribuiscono positivamente al loro sviluppo psico-fisico. Dunque, cosa fare quando i nonni diventano invadenti coi nipoti? Molto semplice: rivolgersi al giudice e chiedere di inibire loro gli incontri coi bambini.
Anche se i luoghi comuni ritraggono sempre il genero o la nuora come la vittima dell’invadenza dei suoceri, in realtà non capita di rado che l’attenzione di questi si concentri anche sui nipoti. E quando ciò diventa patologico, tanto da rendere allo stesso bambino insopportabili gli incontri coi nonni, questi perdono la possibilità di incontrare i nipoti.
Rimedio drastico? Sì, ma solo se strettamente necessario. Il giudice infatti non dovrà tenere in considerazione gli eventuali contrasti tra il padre o la madre dei bambini e i rispettivi genitori: l’unico faro che deve illuminare la scelta del magistrato è l’interesse del minore, ritenuto superiore a qualsiasi altro, all’interno dei rapporti familiari.
Per i nonni, i nipoti saranno anche sangue del loro sangue, ma questo non attribuisce loro un diritto incondizionato a incontrarli o, peggio, controllarli. Il tutto deve avvenire nell’ambito delle direttive dei genitori che, in ultimo, sono i soli soggetti che esercitano la potestà sui piccoli.
Secondo la Cassazione, i nonni che non rispettano la serenità dei nipoti e li opprimono con continue invadenze non hanno diritto a vederli perché, di fatto, possono turbare la loro serenità.
Una legge, la 54 del 2006, riconosce un interesse del minore ad una crescita sana ed equilibrata alla cui realizzazione possono contribuire anche le figure dei congiunti, a meno che non ci siano ragioni che ostano al mantenimento di tale rapporto. Nello stesso tempo il codice civile [2] stabilisce che gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni e, in caso di violazione, possono ricorrere al giudice affinché siano adottati i più idonei provvedimenti «nell’esclusivo interesse del minore». Ed è proprio quest’ultima precisazione a chiarire che il diritto è condizionato alla “buona condotta” dei nonni. I quali, se eccessivamente invadenti e dannosi per la serenità del minore, non possono avanzare alcuna pretesa. Insomma, questo diritto – così come tutti i diritti nei confronti dei minorenni – non è incondizionato: in caso di contestazioni o comportamenti ostativi da parte di uno o entrambi i genitori, il giudice è chiamato a una attenta valutazione avente di mira l’esclusivo interesse del nipote ossia la realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore, nell’ambito del quale possa trovare spazio anche un’attività di partecipazione degli ascendenti, quale espressione del loro coinvolgimento nella sfera relazionale ed affettiva del bambino.
Tale coinvolgimento costituisce il presupposto indispensabile per una fruttuosa cooperazione degli ascendenti all’adempimento degli obblighi educativi e formativi dei genitori. Ma se viene accertata la riluttanza dei nipoti a incontrare il nonno (o la nonna), in conseguenza del comportamento inopportuno, invadente ed inquietante di quest’ultimo, il giudice potrà vietargli di incontrare gli amati piccoli. Non si pongono dubbi, infatti, sull’incapacità dell’ascendente di cogliere il disagio dei minori e di far prevalere il loro bisogno di serenità sulla propria esigenza d’interessarsi alla loro vita quotidiana.
Nel caso di specie, l’anziano era solito appostarsi nei luoghi frequentati dai nipoti e seguirli con l’autovettura. Per questi comportamenti avventati l’uomo ha perso il diritto di vedere i bambini.
Sentenza (…) Redazione La Legge per tutti 12 giugno 2018
www.laleggepertutti.it/213698_cosa-fare-quando-i-nonni-diventano-invadenti-coi-nipoti
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