UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUCIPEM n. 672 – 22 ottobre 2017
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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01 ABORTO VOLONTARIO Obiezione e Ru486 i veri obiettivi dell’assalto alla 194\1978.
02 ADDEBITO Anche in una coppia sposata è possibile il reato sessuale.
03 Anni prima di chiedere la separazione con addebito.
03 ADOZIONE Adozione minori: come funziona.
05 ASSEGNO MANTENIMENTO Il mantenimento dell’ex coniuge va in dichiarazione dei redditi?
06 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI Fino quando bisogna mantenere un figlio?
07 ASSEGNO DIVORZILE Il divario dei redditi tra i coniugi non conta più, addio assegno-
08 Se l’ex coniuge lavora non è escluso in via assoluta l’assegno.
09 Anche le casalinghe perdono il mantenimento.
10 Adeguare le linee della Cassazione a particolarità del caso concreto.
11 Il Tribunale di Udine si discosta dalla Cassazione.
11 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – N. 38, 18 ottobre 2017.
12 COGNOME La Cassazione sul minore che decide sul proprio cognome-
12 CONSULENTI COPPIA E FAMIGLIA Master in Consulenza familiare
13 CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Roma 1. Iniziative in corso del Centro la famiglia.
15 DALLA NAVATA XXIX domenica del tempo ordinario – Anno A – 22 ottobre 2017
15Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose.
17 ETS (già onlus) NON PROFIT Riforma del terzo settore: “Tante domande, poche risposte.
17 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI Convegni per la vita.
18 FRANCESCO VESCOVO DI ROMAAutocritica del Magistero e riforma della Chiesa.
19 HUMANÆ VITÆ 50anni dopo l’HV di Paolo VI: Chiesa, amore, vita, come si cambia?
22 MINORI FUORI FAMIGLIA Presenta la 2° raccolta dati degli ospiti delle comunità.
23 PARLAMENTO Camera dei Deputati, 2 Commissione Giustizia. Assegno divorzile.
23 PROCREAZIONE RESPONSABILE A rischio salute e diritti riproduttivi delle donne.
24 SESSUOLOGIA Cosa rischia un minorenne per i rapporti sessuali col coetaneo?
25 VIOLENZA Reato sessuale se la moglie non vuole avere rapporti.
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ABORTO VOLONTARIO
Obiezione e Ru486 i veri obiettivi dell’assalto alla 194
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un vero e proprio assalto alla 194\1978– della quale nel 2018 cadono i 40 anni dall’approvazione – imbastito da chi l’aveva fortemente voluta e rivendicata come segno di libertà delle donne. Un assalto costruito intorno a due favole: la prima, quella dell’aborto facile con la pillola abortiva Ru486, di cui si chiede una promozione massiccia anche fuori dagli ospedali, somministrata in consultori e ambulatori e con aborti casalinghi, che avvengono “a domicilio”; la seconda, quella che vorrebbe cancellare l’obiezione di coscienza dei medici, perché a obiettare sarebbero in troppi.
Due favole, dicevamo, perché i fatti sono noti e dicono altro: l’aborto con la Ru486 è più doloroso e rischioso di quello effettuato con le altre procedure. Basti pensare alla mortalità, dieci volte maggiore nel metodo farmacologico rispetto a quello chirurgico. In Italia dei tre decessi segnalati finora, in 40 anni di applicazione della legge, due sono avvenuti successivamente ad aborti farmacologici. Con la Ru486 l’aborto è gestito in piena consapevolezza dalla donna, che deve controllare l’emorragia indotta con la pillola per decidere se chiedere o no l’intervento di un dottore.
Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, i dati nelle relazioni al Parlamento parlano chiaro: gli aborti si sono più che dimezzati (dai 235mila del 1982 agli 88mila del 2015) mentre i medici non obiettori sono rimasti quasi costanti. Il numero di aborti effettuati per settimana dai non obiettori è bassissimo: 1,6 la media nazionale, e i dati forniti dalle regioni, a livello di singola Asl, mostrano pochissimi scostamenti significativi. Se problemi gestionali ci sono, quindi, non dipendono dal numero degli obiettori, ma da un’organizzazione sanitaria inadeguata.
Riguardo alla RU486, va ricordato che ogni Regione si è comportata diversamente, come accade spesso per la sanità. Dal ricovero ordinario al day hospital, dalla centralizzazione in pochi ospedali alla distribuzione diffusa, le diverse amministrazioni hanno scelto liberamente come utilizzare il prodotto abortivo, a prescindere dalle indicazioni ministeriali (che non sono vincolanti), purché sempre in àmbito ospedaliero, come previsto dalla 194. Per l’obiezione di coscienza, appurato che il problema non è la numerosità degli obiettori, va ricordato che la legge prevede che le Regioni possano mettere in mobilità il personale – obiettori e non – se la loro distribuzione sul territorio non è adeguata.
E allora, perché chi ha voluto la 194 adesso la vuole cambiare? Gli obiettivi sono diversi: anzitutto aprire al mercato, ai grandi provider privati. Non è un caso che il primo dei due ricorsi in Consiglio d’Europa contro gli obiettori di coscienza è stato di «Planned Parenthood», la potentissima ONG internazionale nelle cui cliniche affiliate l’aborto è uno dei “servizi” più diffusi e remunerativi. È la famosa ONG cui vengono tolti i fondi dai presidenti Usa repubblicani – Bush e Trump, per esempio –, puntualmente restituiti quando sono eletti i democratici – è il caso di Clinton e Obama. E se il privato non riuscisse a entrare in Italia – come è stato finora, perché l’Europa non li ha ascoltati – allora, a prescindere dai numeri delle richieste, tutti gli ospedali dovrebbero comunque avere personale non obiettore, comprese quindi anche le strutture cattoliche (secondo obiettivo).
Con la pillola abortiva lo scopo è far scomparire l’aborto dall’orizzonte, trasformandolo da problema sociale, che riguarda tutti noi, ad atto medico, squisitamente privato, che riguarda solo chi lo fa (terzo obiettivo). Togliendo di fatto l’obiezione di coscienza e confinando l’aborto fra il bagno e il tinello di casa si riuscirebbe a chiudere ogni discussione, a sopire ogni polemica, a spegnere, finalmente, l’aspetto drammatico e problematico dell’aborto. La soppressione della vita umana nel grembo materno: che non se ne parli più!
Assuntina Morresi avvenire 19 ottobre 2017
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/obiezione-ru486
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ADDEBITO
Anche in una coppia sposata è possibile il reato sessuale
Se la moglie non vuole avere rapporti con il marito e lui invece la obbliga.
Corte di Cassazione, terza Sezione Penale, sentenza n. 48335, 20 ottobre 2017
È vero: tra gli obblighi di assistenza morale previsti dal codice civile a carico dei due coniugi vi è anche quello di avere rapporti sessuali. Chi vi si sottrae senza una valida ragione può essere responsabile della separazione: ottiene cioè il cosiddetto «addebito» che comporta la perdita del mantenimento. Tuttavia, questo non consente a uno dei due coniugi di obbligare l’altro. La costrizione fisica, infatti, integra il reato di violenza sessuale. Non conta il fatto che la coppia sia sposata e che uno dei due stia commettendo un illecito nel sottrarsi al fare l’amore. È quanto chiarisce la Cassazione con una recente sentenza Secondo la Corte è quindi possibile la violenza sessuale del marito sulla moglie.
Sulle modalità con cui si può attuare la violenza del marito a carico della moglie le strade sono infinite. Non c’è solo la coercizione o la violenza fisica, ma anche l’approfittarsi dell’altro mentre dorme (ad esempio toccando le zone erogene) o minacciandolo che, in caso di mancata accondiscendenza, ne subirà le conseguenze. Insomma, il rapporto sessuale deve essere libero, senza cioè coercizioni di carattere fisico o psicologico. A integrare il reato risulta sufficiente qualsiasi costrizione sul piano psico-fisico, mentre non rileva che fra le parti esista un rapporto di coppia, all’interno del matrimonio o di fatto. Anche la minaccia o l’intimidazione, quindi, possono risultare idonee a integrare gli estremi del delitto. La manifestazione del dissenso può anche intervenire durante il rapporto.
Non solo. A rientrare nel concetto di «violenza sessuale» non è solo la consumazione integrale del rapporto, ma anche i toccamenti, i baci sulla bocca o sul collo, la mano nelle zone erogene (le gambe, il seno, i glutei). Naturalmente, per aversi violenza sessuale il principale presupposto deve essere il dissenso del partner, dissenso che può essere espresso anche in forma tacita, tramite comportamenti. Così la moglie che si sottrae puntualmente ai rapporti col marito, manifesta il proprio dissenso con i gesti. Non c’è bisogno di atti scritti o di una comunicazione formale. Il «non volere» si può desumere dal contesto, dalla rottura del legame tra i coniugi, dal clima di lite e tensione, dalla lontananza, da una situazione di sostanziale allontanamento tale da essere considerata l’anticamera della separazione.
Nella sentenza in commento, i giudici supremi chiariscono hanno ritenuto giusta la condanna per violenza sessuale nei confronti del marito che si approfitta del fatto che la moglie dorme per toccarla nelle parti intime, visto che la donna da tempo non vuole più avere rapporti. Il reato scatta per il fatto che l’uomo mette le mani mezzo alle gambe della donna: la condotta investe senz’altro una zona erogena della partner.
file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/allegato_27922_1(1).pdf
Redazione La legge per tutti 22 ottobre 2017
www.laleggepertutti.it/179998_possibile-la-violenza-sessuale-del-marito-sulla-moglie
Anni prima di chiedere la separazione con addebito
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, sentenza. 12541, 17 giugno 2017.
È irrilevante il fatto che la moglie abbia aspettato parecchi anni prima di chiedere la separazione con addebito. Esiste un termine massimo entro cui rivolgersi al giudice per chiedere la separazione con addebito nel caso in cui il coniuge sia stato, negli anni, violento, aggressivo e traditore? L’aver sopportato a lungo le angherie del marito (o della moglie) solo per tenere in piedi il matrimonio impedisce di poter adire il giudice in un successivo momento e a distanza di molto tempo? Su questi punti è scesa più volte la Cassazione a chiarire che non c’è “un termine di prescrizione” per far valere la rottura della convivenza e addebitarla alle colpe del coniuge.
Secondo una recente sentenza, infatti, quando c’è la prova che il matrimonio è cessato per via della condotta altrui ed alle spalle della coppia c’è un trascorso di violenze, tradimenti e prevaricazioni, non conta che a far traboccare il vaso sia stato un fatto in sé insignificante o la semplice presa di coscienza di “non riuscire a perdonare e a dimenticare il passato”.
I tempi di reazione della moglie agli illeciti del marito non contano se è proprio il comportamento di quest’ultimo ad aver reso intollerabile la convivenza. Quindi, anche se si decide di intraprendere, con notevole ritardo, la causa di separazione e la richiesta di «addebito», basta dimostrare che la ragione di ciò sono le vessazioni subìte. Il fatto di aver perdonato, in un primo momento, non rileva. Ben è possibile rendersi conto, a distanza di molto tempo, di non aver “superato” la crisi e di essere incapace di perdonare le altrui colpe. È anche comprensibile il gesto di chi temporeggia a lungo nell’intento di salvare matrimonio. Per i giudici l’aver provato, in tutti modi, a tenere insieme la propria famiglia, tollerando i comportamenti del coniuge, non può certo costituire una sanzione. Pertanto, se a un certo punto, ci si rende conto di «non poter più sopportare aggressioni, fisiche e morali, e infedeltà da parte del marito» ben è possibile agire.
L’unica difesa per il coniuge colpevole è dimostrare che, nel frattempo, sono intervenute altre fratture a lacerare il legame. Si pensi al caso della moglie che, avendo scoperto il tradimento del marito, lo tradisca a sua volta: questo fatto potrebbe aver innescato una serie di ulteriori comportamenti tali da poter essere questi stessi identificati come la causa della rottura e non già la prima infedeltà.
Redazione La legge per tutti 12 ottobre 2017 Ordinanza
www.laleggepertutti.it/178630_fin-quando-si-puo-chiedere-la-separazione-con-addebito
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ADOZIONE
Adozione minori: come funziona
Non c’è scelta più bella al mondo di amare. Soprattutto quando l’amore che si ha dentro lo si veicola a chi è più debole di noi. È il caso dell’adozione, quella decisione consapevole e definitiva che porta chi ha dentro sé un forte senso di genitorialità a voler dare una famiglia ai bambini che non ce l’hanno. Perché tutti i bambini hanno diritto a genitori che li amino e li aiutino a crescere e diventare gli adulti di domani. Non esiste spazio per leggerezze e superficialità in questa scelta, perché in gioco ci sono vite umane. È bene quindi riflettere sulla propria volontà e sulla propria visione del futuro, perché a nascere da questa avventura, che potrà sembrare inizialmente colma di burocrazia, sarà una vera e propria famiglia. Non è proprio immediato e semplice l’iter che porta a diventare genitori tramite adozione, ma non è neanche impossibile. Vediamo la procedura da seguire per adottare un minore.
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Adozione minori: i requisiti e in quali casi avviene. Quando un minorenne viene dichiarato in stato di abbandono, gli viene riconosciuto il diritto di essere accolto da nuovi genitori, capaci di dargli amore e cure, e di poter costituire assieme a lui una vera e propria famiglia. È la legge italiana a dirlo [Legge n. 184 del 4 maggio 1983], consentendo però l’adozione solo alle coppie sposate (anche se la tendenza va verso l’apertura anche alle cosiddette coppie di fatto) che siano in possesso di specifici requisiti: Devono essere sposate da almeno 3 anni (o aver convissuto per almeno 3 anni prima del matrimonio, tutti da dimostrare però). Tra aspiranti genitori e figlio adottivo deve esserci una differenza di età non inferiore ai 18 anni e neanche superiore ai 45 anni (le porte dell’adozione non si chiudono però se uno solo dei due coniugi supera i 45 anni, entro un limite di 10 anni. In pratica o moglie o marito possono permettersi di avere fino a 55 anni). Si deve essere in grado di dimostrare che non si è separati e che si hanno tutti i mezzi, non solo morali ma anche economici, per poter sostenere e mantenere il bambino. Ci sono poi diversi tipi di adozione, sulla base dei quali si può fare domanda e si può intraprendere tutto l’iter che porterà a diventare genitori: l’adozione legittimante, quella particolare e, forse la più nota, l’adozione internazionale.
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Adozione legittimante. La procedura classica che si segue quando una coppia vuole adottare un bambino è proprio questa e prevede che il minore adottato diventi a tutti gli effetti figlio legittimo dei due genitori, prendendone il cognome, trasmettendolo ai futuri eredi e interrompendo qualsiasi legame di parentela con la famiglia precedente.
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Adozione particolare. Quando non è possibile ricorrere all’adozione legittimante e quando alcuni minori non sono dichiarati adottabili, entra in gioco l’adozione particolare, quella che apre i cancelli alle persone legate al minore da vincolo di parentela o da un affidamento precedente che si è prolungato per molto tempo; a un coniuge quando il bambino è già figlio adottivo di uno dei coniugi, quando il minore ha un handicap oppure orfano di entrambi i genitori; quando non si può procedere al periodo di affidamento preadottivo.In questi casi, l’adozione viene prevista anche per le persone single. In breve, chiunque non sia sposato e sia single, ha la possibilità di adottare solo ed esclusivamente attraverso una adozione speciale, ma non può seguire il normale iter di adozione legittimante.
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Adozione internazionale. È quella che viene in mente di solito quando si pensa alle adozioni. La dispendiosa e a volte estenuante avventura che porta genitori italiani ad accogliere nel proprio nucleo bambini di altri paesi. Questa tipologia di adozioni si rifà principalmente al diritto internazionale, seguendo norme e direttive della Convenzione per la tutela dei minori firmata a L’Aja nel 1993. È una tipologia di adozione che richiede dei passi in più rispetto all’adozione nazionale perché la coppia, superati gli scogli previsti per chi vuole adottare un bimbo italiano, si deve anche rivolgere ad un ente autorizzato per adozioni internazionali, partecipare a diversi incontri, recarsi all’estero, scontrarsi anche con i pareri delle autorità del paese straniero in cui è nato il bambino, e rientrare in Italia con il bimbo per un periodo di prova. Per non parlare dei costi: mentre l’adozione nazionale non prevede costi, quella internazionale può rivelarsi davvero un salasso.
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Adozione: la procedura. Decidere di adottare un bambino è solo il primo passo di una lunga trafila, che richiede molta pazienza e la capacità di non arrendersi mai. Ecco in concreto cosa si deve affrontare a livello burocratico per diventare genitori.
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Dichiarazione di idoneità. Il primo obiettivo da raggiungere è ottenere l’idoneità all’adozione. E lo si fa presentando domanda alla cancelleria del Tribunale per minori della città in cui si è residenti. Assieme alla domanda poi si deve inviare tutta una serie di documenti, tra cui: certificato di nascita dei richiedenti, stato di famiglia, dichiarazione di assenso all’adozione, certificato di buona salute rilasciato dal proprio medico curante, dichiarazioni dei redditi e buste paga, il certificato di casellario giudiziale degli aspiranti genitori (cioè un certificato che attesti la presenza di condanne definitive e di alcuni provvedimenti civile e amministrativa), atto o dichiarazione che attesti il fatto che la coppia non è separata.
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Indagini dei servizi socio-territoriali. Superato il primo scoglio di invio domanda, inizia un momento molto temuto da qualsiasi aspirante genitore adottivo. Una volta ricevuta tutta la documentazione, il giudice minorile che valuti positivamente la domanda ha 15 giorni di tempo per inviare tutto ai servizi socio-territoriali competenti per avviare le dovute indagini. È molto importante che gli incaricati dei servizi sociali della città di residenza conoscano la coppia, ne valutino la motivazione e la capacità di prendersi effettivamente cura del minore, anche economicamente. E hanno 120 giorni di tempo per farlo (quattro mesi), entro i quali dovranno redigere un rapporto da inviare al Tribunale. Lo stesso Tribunale che poi, entro due mesi dalla ricezione del rapporto, convocherà i genitori e deciderà se rilasciare l’idoneità all’adozione o dichiarare l’inidoneità, cioè respingere la domanda della coppia.
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l’Affidamento preadottivo. La coppia è idonea all’adozione. Bene, ora comincia l’avventura. Il Tribunale, tramite un’ordinanza del giudice minorile dà il via all’affidamento preadottivo del bambino ritenuto più idoneo che durerà un anno. Ovviamente non è una tappa immediata, spesso richiede molto tempo di attesta e tanta perseveranza. Durante questi 12 mesi di ‘prova’ si andrà incontro a una costante attività di controllo e vigilanza da parte del tribunale per garantire che tutto fili liscio, che chi si candida a diventare genitore abbia tutte le carte in regola per farlo (oltre a quelle burocratiche anche quelle pratiche e concrete) e che il bambino trascorra serenamente questo momento di passaggio fondamentale.
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Dichiarazione di adozione. Eccoci giunti al rush finale di un percorso davvero lungo. Trascorso un anno e ascoltati sia i coniugi sia il bambino, tutto si sedimenta e il Tribunale emette la sua sentenza, che può essere a favore dell’adozione o no. La decisione viene trasmessa al pubblico ministero, al tutore e alla coppia stessa. Sentenza che può essere, al pari di tutte le altre, impugnata davanti alla Corte d’appello prima e alla Cassazione poi. In pratica, si può fare ricorso. Difficile ovviamente impugnare una sentenza che concede ai genitori l’adozione definitiva del bambino. In questo caso si può dire che tutto è andato a buon fine e che ora un bimbo in più potrà godere del proprio diritto ad avere una famiglia che lo ami e se ne prenda cura.
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Chi non può adottare minori. La legge italiana è molto chiara in questo senso. Non possono aspirare a diventare genitori adottivi, almeno secondo la normale procedura:
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Le coppie omosessuali: perlomeno secondo la legge, anche se l’evoluzione del diritto e le sentenze della Corte di cassazione ormai vanno sempre più in direzione di un riconoscimento positivo in questo senso. Come dire, la società a volte è sempre più avanti della politica.
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I single: anche in questo caso la legge esclude dall’iter adottivo per le persone single, a meno che non si parli di adozione in casi particolari.
Chiara Arro la legge per tutti 16 ottobre 2017
www.laleggepertutti.it/179016_adozione-minori-come-funziona
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Il mantenimento dell’ex coniuge va in dichiarazione dei redditi?
Corte di Cassazione, sez. Tributaria, ordinanza n. 23805, 11 ottobre 2017.
Che succede se l’ex coniuge non indica nella dichiarazione dei redditi le somme percepite con l’assegno dell’ex marito? Chi si è separato o è divorziato e percepisce un assegno di mantenimento dall’ex coniuge deve dichiarare tali importi mensili all’interno della annuale dichiarazione dei redditi. Se non lo fa può subire un accertamento fiscale con tutte le sanzioni che ne conseguono. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza che ricorda qual è il trattamento fiscale delle somme conseguenti all’assegno mensile erogato a seguito di separazione o divorzio. Ma procediamo con ordine e vediamo se e quando il mantenimento dell’ex coniuge va in dichiarazione dei redditi.
Trattamento fiscale per il coniuge che percepisce il mantenimento. Ci sono alcuni principi da tenere in considerazione quando si intrecciano le parole «mantenimento» e «fisco». Per quanto riguarda il coniuge che percepisce il mantenimento:
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È tenuto a indicare nella dichiarazione dei redditi le somme ottenute per il proprio mantenimento mensile. Esse infatti si considerano come reddito (e vanno indicate nella dichiarazione sotto la voce «Redditi diversi»). Dunque l’assegno di mantenimento all’ex coniuge viene tassato.
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Non va indicato in dichiarazione dei redditi – e pertanto non viene tassato – il mantenimento ottenuto dall’ex coniuge con un assegno versato in un’unica soluzione e non periodicamente (cosiddetto «una tantum»);
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Non bisogna invece indicare nella dichiarazione dei redditi le somme percepite a titolo di assegno di mantenimento per i figli. Dunque l’assegno per i figli non fa reddito e non viene tassato;
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Il coniuge che ottiene il mantenimento ed è disoccupato ha diritto a una detrazione fiscale sulle somme ottenute dall’ex coniuge pari a quella che avrebbe ottenuto se avesse percepito un reddito di lavoro dipendente; se invece ha un contratto di lavoro, può scegliere se ottenere la detrazione sullo stipendio o sul mantenimento.
L’importo corrispondente all’assegno di mantenimento è tassato anche se non viene percepito, ma viene compensato con un debito (della ex moglie) nei confronti del marito.
Trattamento fiscale per il coniuge che versa il mantenimento. Per quanto riguarda il coniuge che paga il mantenimento all’ex, valgono i seguenti principi:
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Ha diritto a portare in deduzione dalla dichiarazione dei redditi le somme che versa a titolo di mantenimento per la moglie;
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Non può portare in deduzione dalla dichiarazione dei redditi le somme versate con un assegno una tantum all’ex coniuge;
Non può portare in deduzione le somme corrisposte a titolo di mantenimento dei figli [Inps, circolare n. 95/E/2000].
Gli assegni periodici spettanti al coniuge separato del lavoratore dipendente possono essere trattenuti dal datore decurtandoli dallo stipendio del lavoratore. In questo caso il datore deve effettuare la ritenuta anche sull’assegno spettante al coniuge.
Che succede se l’ex coniuge non indica nella dichiarazione dei redditi le somme percepite con l’assegno dell’ex marito? L’unico modo che ha per difendersi è dimostrare che dette somme servono per i figli e non per lei; solo nel primo caso, infatti, non c’è obbligo di dichiarazione dei redditi.
Redazione La legge per tutti 16 ottobre 2017
www.laleggepertutti.it/179182_il-mantenimento-dellex-coniuge-va-in-dichiarazione-dei-redditi
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ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI
Fino quando bisogna mantenere un figlio?
L’obbligo di mantenimento non viene meno quando il figlio compie 18 anni e neanche quando ha un lavoro precario o non in linea con la formazione. I genitori sono obbligati a mantenere i figli fino a quando questi non sono in grado di provvedere da soli alle proprie esigenze, il che coincide con l’inizio di un lavoro stabile e duraturo. Quindi, anche se maggiorenne, il figlio disoccupato o precario ha diritto a ottenere dai genitori l’assistenza economica.
L’obbligo del mantenimento dei figli non viene meno neanche se questi decidono di andare a vivere da soli una volta divenuti maggiorenni (non potendolo fare quando invece hanno meno di 18 anni, a meno che non vi sia il consenso dei genitori). In tal caso i genitori, nei limiti delle loro capacità economiche, dovranno garantire ai figli andati via di casa lo stesso tenore di vita che avevano quando ancora vivevano sotto lo stesso tetto con il padre e la madre.
Se i genitori si separano le cose non cambiano. Ma in tal caso la misura del mantenimento viene determinata dal giudice della separazione o del divorzio. In particolare, il tribunale fissa un contributo fisso mensile (cosiddetto assegno di mantenimento) a carico del coniuge che non vive con i figli, da versare in favore dell’altro. Tale contributo serve a coprire le spese fisse e ordinarie (scuola, acquisto di cibo, vestiario, ecc.). In più il giudice stabilisce che le spese straordinarie (ad esempio quelle mediche o per gite scolastiche) devono essere divise tra i genitori in misura percentuale (di solito al 50% ciascuno).
L’obbligo dei genitori di mantenere i figli è previsto dalla Costituzione [Art. 30 Cost.] e sussiste per il solo fatto di averli generati, per cui vale sia per i figli delle coppie non sposate che per quelle unite da matrimonio. Non di meno l’obbligo grava anche nei confronti dei genitori adottivi.
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Chi ha diritto ad essere mantenuto? I genitori sono obbligati a mantenere i figli:
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Minorenni;
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Maggiorenni non economicamente autosufficienti entro i limiti di cui a breve parleremo;
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Maggiorenni affetti da handicap grave.
2. Una volta divenuto maggiorenne il figlio va mantenuto? L’obbligo di mantenere i figli riguarda sempre i figli minori e quelli affetti da handicap grave. In linea di massima, il mantenimento non viene meno, in automatico, con il compimento dei 18 anni, ma solo quando il figlio acquista una propria autonomia economica. Pertanto bisogna comunque provvedere ad assistere i figli maggiorenni disoccupati o privi di un’occupazione stabile, ossia tutti coloro che, non per loro colpa, sono economicamente non autosufficienti. Ne consegue che il giovane indolente che non conclude gli studi per pigrizia o che, pur avendo acquisito una formazione scolastica, non si dà da fare per cercare occasioni di lavoro, non può più ottenere il mantenimento anche se disoccupato.
3. Fino a quando bisogna mantenere il figlio maggiorenne? L’obbligo di mantenere i figli viene meno quando questi iniziano un’attività lavorativa che permette loro di raggiungere l’indipendenza economica oppure quando i genitori provano che il mancato svolgimento di un’attività lavorativa dipende da inerzia, rifiuto o abbandono ingiustificato del lavoro stesso da parte dei figli.
Il genitore con cui vivono i figli maggiorenni non autosufficienti è legittimato a chiedere all’altro genitore (separato o divorziato) il pagamento dell’assegno di mantenimento stabilito in favore della prole.
4. Il figlio che lavora deve essere mantenuto? Come appena detto, non esiste un limite di età prestabilito oltre il quale il genitore non è più tenuto a provvedere al mantenimento dei figli. Di regola i genitori:
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Sono tenuti a mantenere i figli fino a quando iniziano a svolgere un’attività lavorativa e il lavoro permette loro di raggiungere l’indipendenza economica;
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Possono liberarsi dall’obbligo di mantenere i figli se provano che il mancato svolgimento di un’attività lavorativa dipende da inerzia, rifiuto o abbandono ingiustificato del lavoro.
Ad esempio è dovuto l’assegno a favore del figlio maggiorenne studente universitario fuori sede ed è legittimo aumentare il contributo se questi incrementa le proprie esigenze economiche, vivendo e studiando in una città diversa da quella di residenza [Cass. Sent. n. 400/2010].
Ciò che conta per la perdita del diritto al mantenimento è che il figlio goda di un reddito adeguato rispetto alla professionalità acquisita: la circostanza che il posto non sia fisso resta irrilevante quando è una «caratteristica strutturale» del settore in cui opera il lavoratore (ad esempio insegnante supplente che sta facendo punteggio per ottenere la cattedra) [Trib. Matera decreto. n. 1023/17].
L’indipendenza economica, ormai, deve ritenersi raggiunta con un ingresso serio nel mercato del lavoro, anche se l’occupazione non risulta stabile dal punto di vista giuridico. E la precarietà può essere presa in considerazione per il mantenimento dell’assegno soltanto quando è indice di un inserimento inadeguato del giovane rispetto alle normali condizioni del settore di riferimento.
Secondo la giurisprudenza, non sempre la presenza di un guadagno fa perdere il diritto al mantenimento. Ciò avviene ad esempio quando il figlio:
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Pur avendo uno stipendio, sta completando la propria formazione;
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Ha un lavoro precario e a tempo determinato: in tal caso non si può considerare raggiunta l’indipendenza economica proprio perché richiede una prospettiva concreta di continuità;
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Lavora come apprendista, dal momento che il rapporto di apprendistato si distingue anche sotto il profilo retributivo dagli ordinari rapporti di lavoro subordinato;
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Svolge un lavoro non qualificato rispetto al titolo di studio conseguito (come nel caso di ragazzo quasi trentenne con una laurea in legge che accetti un posto in un call center per mantenersi nella pratica);
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Consegue una borsa di studio correlata ad un dottorato di ricerca.
5. Come si determina l’ammontare dell’assegno di mantenimento del figlio? L’assegno deve essere quantificato considerando le esigenze del minore in rapporto al tenore di vita goduto durante la convivenza con entrambi i genitori e tenendo conto in concreto di quello che essi sono in grado di dare in ragione della loro situazione economica. In particolare il giudice, nel quantificare l’ammontare di tale assegno, deve tenere conto dei seguenti parametri:
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Le attuali esigenze del figlio;
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Il tenore di vita goduto dal figlio durante la convivenza con entrambi i genitori;
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I tempi di permanenza presso ciascun genitore;
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Le risorse economiche di entrambi i genitori;
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La valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
Nel determinare l’importo dell’assegno di mantenimento il giudice deve valutare anche la complessiva consistenza dei patrimoni dei genitori.
Redazione La legge per tutti 16 ottobre 2017
www.laleggepertutti.it/179157_fino-quando-bisogna-mantenere-un-figlio
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ASSEGNO DIVORZILE
Il divario dei redditi tra i coniugi non conta più, addio assegno
Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 23602, 9 ottobre 2017.
La Cassazione conferma i principi della sentenza n. 11504, 10 maggio 2017, va abbandonato il tenore di vita per il riconoscimento dell’assegno divorzile
www.altalex.com/documents/massimario/2012/05/03/divorzio-assegno-di-mantenimento-nuovi-parametri-autoresponsabilita-economica-solidarieta-competenza
La Corte di Cassazione continua a fare applicazione del principio stabilito dalla sentenza 11504/2017 con cui la giurisprudenza di legittimità ha sancito l’abbandono del riferimento al “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” come parametro per il riconoscimento dell’assegno divorzile. Nella recente ordinanza ha infatti accolto il ricorso di un uomo a carico del quale la Corte d’Appello aveva posto l’obbligo di versamento all’ex coniuge di un assegno divorzile di 200 euro mensili.
La Corte territoriale aveva giustificato il riconoscimento dell’assegno nei confronti dell’ex moglie in quanto costei, benché svolgesse un’attività lavorativa dipendente e le fosse stata assegnata la casa coniugale, non aveva redditi adeguati a conservare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, tenuto conto del divario tra le retribuzioni delle parti e la necessità di riequilibrare le situazioni economiche degli ex coniugi.
Nel ricorso in Cassazione, l’onerato evidenzia che la funzione dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (come sostituito dall’art. 10 della legge n. 74/1987), è assistenziale e la sua ex era in possesso di mezzi e redditi che le avrebbero consentito di vivere un’esistenza autonoma e dignitosa essendo stata anche assunta a tempo indeterminato. Un motivo fondato per gli Ermellini, i quali rammentano che l’orientamento applicato dalla Corte di merito circa la verifica delle condizioni legali per attribuire l’assegno divorzile, è stato recentemente superato dalla giurisprudenza di legittimità.
Divorzio: niente assegno per il divario reddituale tra i coniugi rispetto alla costanza di matrimonio. Secondo tale rinnovata interpretazione, richiesto l’assegno divorzile, il giudice del divorzio deve svolgere un giudizio distinto in due fasi: nella prima, quella dell’an debeatur, deve verificare se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (ossia la mancanza di mezzi adeguati o, comunque, l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive).
Ciò non avviene, tuttavia, con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex desunta da una serie di principali “indici” ossia: il possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri “lato sensu” imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente); la capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo); la stabile disponibilità di una casa di abitazione.
L’onere probatorio della non indipendenza o autosufficienza economica, precisa la sentenza, incombe sul richiedente medesimo, in base alle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove da lui offerte, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge.
Le condizioni reddituali dell’altro coniuge possono avere rilievo solo riguardo la seconda ed eventuale fase della quantificazione dell’assegno, a cui si accede solo se la prima si sia positivamente conclusa per chi richiede l’assegno: nella fase del “quantum debeatur“, infatti, emergono tutti gli elementi indicati dalla norma («condizioni dei coniugi», «ragioni della decisione», «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune», «reddito di entrambi») che il giudice valuterà anche in rapporto alla durata del matrimonio al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno divorzile.
Per il riconoscimento dell’assegno divorzile non è dunque sufficiente, come nel caso di specie, che il giudice fondi l’accoglimento della domanda sulla base del mero divario tra le retribuzioni e sull’inadeguatezza dello stipendio percepito dalla donna se raffrontato alla situazione economica in costanza di matrimonio. In virtù di tali principi, il ricorso va accolto con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione.
Lucia Izzo Newsletter Giuridica Studio Cataldi 16 ottobre 2017 0rdinanza
www.studiocataldi.it/articoli/27776-divorzio-il-divario-dei-redditi-tra-i-coniugi-non-conta-piu-addio-assegno.asp
Se l’ex coniuge lavora non è escluso in via assoluta l’assegno divorzile
Corte d’Appello di Genova, sentenza n. 106, 12 ottobre 2017
Avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Genova dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio fra le parti, statuendo su affidamento della figlia e condizioni economiche, l’ex marito ha proposto appello limitatamente all’assegno divorzile previsto a suo carico in favore dell’ex moglie.
La Corte d’appello di Genova, nell’incertezza circa i criteri determinati dalla sentenza Cass. 10 maggio 2017, n. 11504) per la determinazione del diritto all’assegno di divorzio e sull’effettivo significato del parametro dell’“autosufficienza economica” ritiene di dover dare un’applicazione prudente del nuovo indirizzo giurisprudenziale.
Deve considerarsi, innanzitutto, che il criterio del “medesimo tenore di vita in costanza di matrimonio” non può più essere mantenuto poiché ormai, nella maggioranza dei casi, il divorzio, aumentando le spese, impoverisce i coniugi e, pertanto, il tentativo di mantenere il tenore di vita precedente per uno dei due fa «precipitare l’altro ad un tenore di vita molto inferiore a quello prima goduto». Se pare poi giusto punire le «rendite parassitarie», costituite dalle ipotesi in cui il coniuge economicamente più debole dopo pochi anni di matrimonio decide di rompere il vincolo e vivere di rendita alle spalle dell’altro, la Corte non ritiene lecito assumere i medesimi comportamenti punitivi anche nei confronti del coniuge che invece è rimasto sposato per diversi anni continuando a lavorare per incrementare le risorse economiche familiari.
«Non è detto quindi che in caso di divorzio l’ex coniuge che lavori non abbia in via assoluta diritto ad un assegno divorzile, ma occorre valutare la necessità di un’eventuale integrazione del suo reddito alla luce dei concreti oneri che lo stesso debba sostenere tenendo conto del suo lavoro, del suo patrimonio, della sua salute e della sua collocazione nella società».
Nel caso di specie, quindi, ricostruita la situazione patrimoniale e professionale dell’ex moglie, in relazione anche agli obblighi connessi alla figlia, la Corte d’appello conferma l’obbligo in capo all’appellante di corrispondere un assegno divorzile in favore della donna.
Redazione Scientifica Il familiarista 19 ottobre 2017
Anche le casalinghe perdono il mantenimento
Autoresponsabilità economica per la donna giovane e sana che per una vita ha fatto la casalinga ed ora è disoccupata: niente mantenimento perché può trovarsi un nuovo lavoro. Non è tanto l’avere un lavoro, quanto la giovane età a far perdere all’ex moglie l’assegno di divorzio. E una donna a 40 anni è ancora giovane ed in grado di trovare un’occupazione, anche se per tutta la vita ha badato alla casa e ai figli. L’età dei ragazzi, ormai adolescenti, le garantisce anche più tempo libero da dedicare alla carriera.
Sono questi i principi espressi dal tribunale di Roma con una recente sentenza [sent. n. 16448/2017]. Secondo quindi i giudici della capitale, anche le casalinghe perdono il mantenimento se hanno un’età consona per trovare un impiego.
Dopo la sterzata della Cassazione sui criteri di assegnazione del mantenimento all’ex coniuge dopo il divorzio [sent. n. 11504/2017, 10 maggio 2017], assume oggi principale aspetto la meritevolezza di chi richiede l’assegno. Meritevolezza che non è solo l’assenza di un reddito con cui mantenersi, ma anche l’impossibilità oggettiva di procurarselo. Tale impossibilità deve essere dimostrata dal coniuge che richiede l’importo mensile. In altri termini, solo la donna che, oltre a non essere autosufficiente economicamente, non può nemmeno trovare un lavoro per “sopraggiunti limiti di età” o per precarie condizioni di salute ha diritto a ottenere il contributo dall’ex marito. E siccome la Cassazione [Sent. n. 9945/20], pochi mesi fa, ha ritenuto che la casalinga cinquantenne non è più in grado di trovare un’occupazione per aver completamente perso ogni rapporto con il mondo del lavoro, ne viene che la quarantenne, invece, è ancora “abile”.
Segno anche dei tempi: aumenta l’età pensionabile, si allunga la carriera. Con la conseguenza che un uomo o una donna che rientra ancora nei 40 anni ha tutta la vita davanti a sé. In sintesi il principio ora sposato dalla giurisprudenza è il seguente: la donna giovane e sana, anche se disoccupata, non ha diritto al mantenimento.
Anche la Corte di Appello di Salerno ha portato avanti questa tesi, chiarendo che una condizione di disoccupazione non comporta in automatico il diritto dell’ex coniuge a percepire il mantenimento, atteso che bisogna prima ancora valutare se questi è in grado di lavorare ([Sent. n. 29/2017]. Fa eco il tribunale di Avellino [sent. n. 1227/21.06.2017] secondo cui anche la moglie disoccupata, per aver passato una vita a fare la casalinga, può perdere il diritto al mantenimento se non dà prova che l’assenza di un’occupazione non dipende da propria inerzia o colpa.
Veniamo infine alla Cassazione che, con una sentenza [n. 23805/11 ottobre 2017] ha indirettamente confermato i predetti principi sancendo che, se il divorzio arriva dopo 35 anni di matrimonio, quando la signora ha 71 anni e non lavora, il marito facoltoso deve pagare un assegno compatibile con le sue capacità economiche (1.700 euro), questo anche se la ex possiede beni per un ammontare di 100 mila euro.
Redazione La Legge per tutti 19 ottobre 2017
www.laleggepertutti.it/179731_anche-le-casalinghe-perdono-il-mantenimento
Necessario adeguare le linee guida della Cassazione alle particolarità del caso concreto
Parte resistente, a seguito di sentenza non definitiva sullo scioglimento del vincolo matrimoniale, ha chiesto al Tribunale di Roma di attribuirle un consistente assegno divorzile, in ragione del notevole divario reddituale tra lei e l’ex marito. Il Tribunale di Roma ritiene che i pur condivisibili principi statuiti dalla recente sentenza della Cassazione (Cass. 10 maggio 2017, n. 11504) con la quale si è rimesso in discussione il criterio della conservazione del tenore di vita matrimoniale per la determinazione del diritto all’assegno divorzile, debbano essere integrati con ulteriori considerazioni che rappresentano un effettivo adattamento dell’istituto dell’assegno divorzile alle peculiarità delle diverse realtà familiari.
Nel caso in esame, dalla ricostruzione della storia della coppia e delle condizioni economiche reali della resistente, risulta innegabile che la moglie si sia adoperata per mettere a frutto le competenze professionali acquisite in passato ma abbia comunque «scontato in qualche modo gli anni in cui, per seguire le esigenze di carriera del marito, si era trovata nella necessità di lasciare il proprio posto di lavoro».
Non si tratta, quindi, sottolinea il Collegio, di intervenire in funzione equilibratrice di una condizione personale disallineata né di ricondurre il tenore di vita dell’ex moglie agli standard cui era abituata in precedenza, ma si tratta di evitare che la resistente, a causa del contributo effettivamente fornito al menage coniugale, si trovi oggi nella difficoltà di mantenere, ad esempio, una soluzione abitativa adeguata al proprio livello professionale e sociale.
Pertanto, il Tribunale di Roma riconosce in favore della richiedente il diritto di percepire un assegno divorzile posto a carico dell’ex marito, ritenendo tale soluzione adeguata ad assicurare in concreto il giusto assetto post matrimoniale, nel rispetto delle linee guida tracciate dal Giudice di legittimità.
Redazione Scientifica Il familiarista 20 ottobre 2017
Il Tribunale di Udine si discosta dalla Cassazione
Tribunale di Udine, prima Sezione civile, sentenza 1° giugno 2017.
Discostandosi dal recente orientamento statuito dalla Cassazione con sentenza n. 11504/2017, il Tribunale di Udine ha riconosciuto il diritto a percepire l’assegno divorzile in capo all’ex moglie convenuta tenendo conto del tenore di vita goduto in corso di matrimonio e degli ulteriori elementi indicati dall’art. 5 l. n. 898/1970.
Il criterio astratto del tenore di vita è bilanciato dagli elementi indicati nell’art. 5. Il Collegio ha ritenuto preferibile seguire l’orientamento definito maggioritario (da ultimo, Cass. 29 settembre 2016) secondo cui l’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in una prima fase in cui il Giudice verifica l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’adeguatezza o meno dei mezzi del richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio e in una seconda fase in cui procede alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, compiuta tenendo conto degli elementi indicati nell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970.
Il criterio “astratto” del tenore di vita, in questo modo, non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile, venendo contemperato da tutti gli altri criteri quali la condizione dei coniugi, la durata del matrimonio e l’apporto dato da ciascuno alla conduzione familiare che agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma che viene così considerata in concreto.
È necessaria una lettura logico-sistematica dell’art. 5 l. n. 898/1970. Secondo il Tribunale, al contrario, l’orientamento seguito di recente dalla Cassazione (10 maggio 2017, n. 11504) identifica quale parametro dell’adeguatezza dei redditi del coniuge richiedente l’assegno divorzile il “raggiungimento dell’indipendenza economica” «senza ancorarlo ad alcun parametro effettivo, rendendo quindi del tutto astratto e non calcolabile in concreto questo metro di giudizio».
In particolare, secondo il Collegio, non è condivisibile la teoria in base alla quale sarebbe compito della giurisprudenza colmare la lacuna lasciata dal legislatore in merito alla definizione di “mezzi adeguati” in quanto una lettura logico-sistematica dell’art. 5 l. n. 898/1970 (in particolare comma 5 e 9) consente di pervenire alla conclusione che il legislatore abbia inteso parametrare l’assegno divorzile a tutti i criteri indicati nella norma e, quindi, anche al tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio o a quello che era ragionevole aspettarsi in futuro. Pertanto, la distinzione tra adeguatezza dei mezzi e criteri che attengono alla misura dell’assegno, ad avviso del Tribunale, «non appare appagante dovendo, invece, il testo normativo essere letto in maniera congiunta nel senso che l’adeguatezza dei mezzi deve essere valutata insieme ai criteri premessi dal legislatore onde pervenire ad un’equa ponderazione di quello che è lo scioglimento di un precedente legame solidaristico, con effetti ex nunc e non ex tunc» come sembrerebbe, al contrario, concludere la sentenza della Cassazione n. 11504/2017.
Un principio di autoresponsabilità economica nel giudizio sull’an e di solidarietà economica nel giudizio sul quantum non solo, secondo il Collegio, non trova riscontro normativo ma «stride anche sul piano logico-sistematico», non potendo tali opposti principi operare disgiuntamente in una prima fase e congiuntamente nella seconda «dato che un assegno che in astratto dovrebbe venir corrisposto, in alcuni casi si riduce a zero proprio per la presenza degli altri parametri che il Giudice deve considerare».
News Associazione Nazionale Avvocati Italiani 17 ottobre 2017 Sentenza
www.associazionenazionaleavvocatiitaliani.it/wp-content/uploads/2017/10/sent.-1-giugno-1.pdf
www.dirittoegiustizia.it/news/9/0000085083/Assegno_di_divorzio_il_Tribunale_di_Udine_si_discosta_dalla_Cassazione.html
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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA
Newsletter CISF – N. 38, 18 ottobre 2017
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Non è possibile assistere gli invalidi con 500 euro al mese (un commento di Pietro Boffi, Cisf). “Come si affronta oggi in Italia il problema della disabilità grave, dal punto di vista delle risorse impegnate? Quale futuro ci attende, nel caso dovessimo trovarci, presto o tardi, nelle condizioni che il recente caso di Loris Bertocco ha posto drammaticamente e dolorosamente all’attenzione di tutti?”
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Una ricerca a Malta sull’uso/abuso di internet tra i preadolescenti. Di estremo interesse la recentissima indagine svolta a Malta (novembre 2016-gennaio 2017) sull’uso di Internet da parte di 869 ragazzi tra i 13 e i 16 anni, in 18 scuole a gestione sia statale che privata, intervistati con il PIESA (Problematic Internet Entertainment Use Scale for Adolescents) un questionario strutturato già testato in Gran Bretagna e Spagna. Emergono quattro tipologie: utilizzatori occasionali (occasional users, 13.9%), utilizzatori abituali (habitual users, 65.5%), utilizzatori a rischio (at risk users, 15.4%) e utilizzatori problematici (problematic users, 5.2%). The National Centre for Freedom from Addictions. (2017). The prevalence of Problematic Internet Use in Malta among young persons aged 13–16 years: A quantitative research study. Malta, San Anton Palace: The President’s Foundation for the Wellbeing of Society [Leggi il Report -in inglese -138 pagine]
file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/PIEUSA_Report(1).pdf
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Pinocchio e i suoi personaggi sono in cerca d’autori! La Fondazione Nazionale Carlo Collodi da anni collabora con il MIUR, attraverso varie attività. In particolare quest’anno propone alle scuole un innovativo progetto educational, chiedendo ad autori grandi e piccoli di scrivere nuove avventure di Pinocchio, ambientandole all’interno del Parco Monumentale di Pinocchio a Collodi (in provincia di Pistoia). www.pinocchio.it/fondazionecollodi
[Testo del Bando] file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/newscisf3817_allegato1.pdf
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Allo start up il primo “network nazionale dei comuni amici della famiglia”. Giovedì 5 ottobre 2017 la Giunta della Provincia autonoma di Trento ha sottoscritto l’accordo che istituisce il primo “Network nazionale dei Comuni amici della famiglia”. La regia del Network sarà in mano a tre attori principali: l’Agenzia per la famiglia della Provincia autonoma di Trento, il comune di Alghero e l’Associazione Nazionale Famiglie Numerose. Obiettivo dell’accordo sarà, in una prima fase, sensibilizzare le amministrazioni comunali nazionali alle politiche di benessere familiare e, parallelamente, avvicinare le stesse all’acquisizione della certificazione “Comune amico della famiglia”, tramite l’adesione al Network. Sono ad oggi una ventina i Comuni italiani ad aver espresso interesse ad ottenere la certificazione.
Comunicato stampa
www.ufficiostampa.provincia.tn.it/Comunicati/Allo-start-up-il-primo-Network-nazionale-dei-Comuni-amici-della-famiglia
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Dalle Case editrici
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Vallardi, Il papà debuttante. Il libro che risponde alle domande di oggi
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Fandango Libri, Bellissime. Baby miss giovani modelli e aspiranti lolite
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Carocci, Bambini e ragazzi ad alto potenziale. Una guida per educatori e famiglie
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Fea Maurizio, Le abitudini da cui piace dipendere. Algoritmi, azzardo, mercato, web, FrancoAngeli, Milano, 2017, pp. 110, € 16,00. Cosa sono le abitudini e come si formano? «Dal creare bisogni a formare abitudini, questo è il passo strategico fondamentale, che grazie allo sviluppo tecnologico, è stato reso possibile applicare su vasta scala e con elevata intensità». Infatti gli italiani controllano il cellulare 150 volte al giorno (ogni 6 minuti), stanno su Internet 4 ore e mezza e di queste ne passano oltre 2 sui social network. Perché? In due parole, per la paura di non esserci. Le abitudini quindi vanno padroneggiate, ma spesso falliamo nei nostri sforzi verso il cambiamento […]
file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/newscisf3817_allegatolibri.pdf
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Save the date
Nord Identità adolescenti – Alla ricerca di sé nella società complessa, XII convegno nazionale AGIPPsA (Associazione dei Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza) Milano, 20-21 Ottobre 2017.
www.agippsa.it/gruppi-agippsa/130-xii-convegno-agippsa-identita-adolescenti-alla-ricerca-di-se-nella-societa-complessa
Adozione e scuola riflessioni e approfondimenti operativi alla luce delle linee guida, promosso da Caritas Ambrosiana – Tavolo Territoriale sull’Adozione, Milano, 24 ottobre 2017.
Centro Accogliere Cristo nella famiglia. Giornata di studio sulla spiritualità familiare e coniugale, Istituto Superiore di Scienze religiose all’Apollinare, PUSC (Pontificia Università Santa Croce), Roma, 11 novembre 2017. www.pusc.it/article/11-novembre-2017-giornata-di-studi-accogliere-cristo-nella-famiglia
Sud Genitori e figli: affettività e sessualità, Come educare l’affettività e la sessualità dei figli non ancora adolescenti nell’epoca della sessualizzazione globale, Corso per genitori, in collaborazione con Oasi di Cana, Palermo, 4 novembre 2017.
newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/attachments/newscisf3817_allegato2.jpg
Estero 5th International Workshop on the Socio-Economics of Ageing (Quinto Workshop internazionale sugli aspetti socio-economici dell’invecchiamento), promosso da ISEG, Lisbon School of Economics and Management, Lisbona, 27 ottobre 2017 www.iwsea.pt/program
Iscrizione alle newsletter http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Con tutti i link http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/ottobre2017/5051/index.html
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COGNOME
La Cassazione sul minore che decide sul proprio cognome
Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 17139, 11 luglio 2017.
La Corte di Cassazione, ha confermato la decisione della Corte territoriale sul diniego di aggiunta del cognome paterno per un minore di dodici anni che si era opposto in tal senso.
News Associazione Nazionale Avvocati Italiani 17 ottobre 2017 Ordinanza
. www.associazionenazionaleavvocatiitaliani.it/wp-content/uploads/2017/10/sent.-17139.pdf
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CONSULENTI DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA
Master in Consulenza familiare
Il Master promuove competenze relazionali e progettuali che possono mettere in grado gli operatori del settore (educatori, pedagogisti, psicologi, assistenti sociali, avvocati, medici, consulenti etici e canonici) di lavorare con e per le problematiche legate alla famiglia.
Scopo del Master è quello di attivare efficaci relazioni di aiuto e di sostegno alla persona, alla coppia e alla famiglia nella prospettiva del lavoro d’équipe, con particolare attenzione alla promozione del benessere relazionale, allo sviluppo delle competenze della famiglia e al sostegno alla genitorialità, nel quadro di fondamentali riferimenti antropologici, pedagogici, sociopsicologici, giuridici, teologici ed etici.
Il Master, della durata di due anni accademici, pari a 60 CFU e 1500 ore complessive, si articola in 9 weekend di lezioni nell’a.a.2017-2018 e in 10 week-end nell’a.a. 2018-2019.
Le lezioni si terranno, con cadenza mensile, di venerdì pomeriggio (5 ore) e tutta la giornata di sabato (10 ore) a Roma.
Il Master inizia a novembre 2017 e termina a giugno 2019. I partecipanti sono tenuti a frequentare almeno l’80% del totale delle lezioni. Il calendario degli stage verrà stabilito in accordo con la Confederazione Italiana dei Consultori Familiari d’Ispirazione Cristiana.
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Direzione: Prof. Livio Melina, Prof. Domenico Simeone.
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Consiglio direttivo: Prof.ssa Donatella Bramanti Prof.ssa Maria Luisa Di Pietro Prof.ssa Oana Gotia Prof. José Noriega, Prof. Luigi Pati, Prof. Juan José Pérez-Soba, Prof. Camillo Regalia
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Coordinatore didattico: Prof.ssa Oana Gotia
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Sede del Master Pontificio Istituto Giovanni Paolo II Piazza San Giovanni in Laterano, 4 -00120 Città del Vaticano
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Email: master@istitutogp2.it
Modulo 1: Consulenza familiare. Organizzazione dei Consultori • La consulenza familiare e i suoi strumenti
Modulo 2: Consulenza pedagogica. • Pedagogia della famiglia • Il sostegno educativo alla famiglia • Strategie di ricerca e pratiche di formazione con le famiglie • La consulenza educativa • Famiglia, prima scuola dell’amore
Modulo 3: Consulenza psicologica. • Psicologia dei legami familiari • Il colloquio nelle relazioni di aiuto e di cura con la coppia e con la famiglia • Lavorare con le famiglie in una prospettiva psicosociale • Esercitazioni
Modulo 4: Psicologia delle relazioni familiari. • Risorse e criticità nella famiglia lungo il ciclo della vita • Sostenere la genitorialità • La gestione del conflitto • Esercitazioni
Modulo 5: Sociologia delle relazioni familiari e buone pratiche family friendly, • Sociologia della famiglia • Famiglia e welfare: buone pratiche dei servizi innovativi • Promuovere reti con e per le famiglie • Esercitazioni
Modulo 6: Consulenza giuridica. • Filosofia del Diritto di famiglia • Modelli di famiglia? La famiglia, oltre l’ideologia • Il matrimonio nel Codice Civile • Questioni canoniche matrimoniali
Modulo 7: Formazione antropologica. • Agire e pienezza umana • L’eccellenza dell’amore • Teologia dei rapporti familiari • L’uomo-donna: unidualità, complementarietà e reciprocità • Il sacramento del matrimonio • Educare alla scuola della Parola di Dio
Modulo 8: Consulenza ostetrico-ginecologica. • I fondamenti della bioetica: persona, dignità, vita • La consulenza ostetrico-ginecologica • Paternità e maternità • RNF come pedagogia dell’amore • Amore e fecondità • Sessuologia
Laboratori: • Il colloquio nella relazione di consulenza • Lavoro in équipe
file:///D:/Documenti/Dropbox/Gianchi%20UCIPEM%20news/Master_Consulenza_Familiare-Depliant_(2017.06.08)(2).pdf
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Roma 1. Iniziative in corso del Centro la famiglia
Crescita Interiore e Relazioni Efficaci 2017-2018
Tutta la ricerca psicologica, e più recentemente anche le neuroscienze, ci dicono che gli esseri umani, per essere “pienamente umani”, devono crescere e maturare in una rete di relazioni positive. Queste relazioni positive ci plasmano e modellano il nostro modo di entrare in rapporto con gli altri. Altre volte invece, il tessuto relazionale in cui siamo stati immersi fa sì che filtriamo quello che succede attraverso una specie di “lenti deformanti”, attraverso cui interpretiamo le situazioni, ingrandendo alcuni aspetti, o rimpicciolendone altri.
Il corso che proponiamo è dedicato a tutti coloro che desiderano fare un lavoro su sé stessi in un contesto di gruppo, al fine di portare avanti un processo di crescita e maturazione senza necessariamente volersi dedicare alle relazioni di aiuto
Il corso che proponiamo è un percorso teorico pratico per aiutare i partecipanti a divenire consapevoli del proprio modo di entrare in relazione, aprirsi alla possibilità del cambiamento, e imparare a portare avanti modalità relazionali più sicure ed efficaci.
Ogni incontro prevede un breve momento pedagogico e delle esperienze pratiche (fantasie guidate, dinamiche di gruppo e momenti creativi) attraverso cui i partecipanti saranno accompagnati a far contatto con sé stessi, e ad accrescere la propria consapevolezza di sé. Attraverso il gruppo, sperimenteranno nel qui e ora, quel clima di ascolto e accettazione incondizionata che permette lo sviluppo di relazioni efficaci e apre la via del cambiamento personale.
Il Corso è aperto a tutti ma non è pensato e strutturato per gli adolescenti; la partecipazione al Corso è indicata per persone adulte, di età compresa tra 23 e 60 anni.
Gli incontri del Corso, condotti dalla dr Edda Angelucci, saranno effettuati, dalle 16.30 alle 19.30, nelle seguenti date: ve 17 novembre, 15 dicembre 2017, 19 gennaio, 9- 23 febbraio, 16 marzo, 7 (minimaratona) e 27 aprile, 18 maggio, 8 e 22 giugno 2018.
Iscrizioni entro il 10 novembre 2017 (minimo 15 iscritti)
www.centrolafamiglia.org/corso-crescita-interiore-relazioni-efficaci
Dedicato a noiCome crescere insieme con empatia. Per-corso di crescita spirituale e consulenziale dedicato alle coppie. Il principale obiettivo del Corso è quello di facilitare e sostenere l’unità della coppia in modo da agevolarla a maturare nell’amore e a superare gli eventuali momenti difficili.
E’ un percorso prima di tutto di crescita spirituale attraverso percorsi pratici, orientamenti pedagogici e riflessioni sul fondamento dell’unità della coppia. Il percorso di accompagnamento è rivolto a coppie che desiderano approfondire il senso del proprio percorso di coppia e a crescere insieme nel rapporto reciproco.
Il percorso che proponiamo vuole portare alla conoscenza profonda di sé e dell’altro su cui basare il buon andamento del rapporto di coppia suscitando o ravvivando la voglia di stare insieme: il tempo che si desidera trascorrere con l’altro per comunicare, giocare, amare, divertirsi, crescere, ma anche per affrontare insieme i problemi della quotidianità. Un tempo di vita che è la misura di un rapporto di coppia riuscito e che funziona bene, in cui entrambi i partner possono affermare di essere veramente felici.
Il Corso intende facilitare o riavviare un processo di reciproca e profonda conoscenza, che se da un lato è un ottimo rimedio per non correre il rischio di ritrovarsi a vivere un rapporto di coppia come estranei, dall’altro può servire quale miglior antidoto per prevenire i mali causati dalla routine, dalla noia, dall’apatia, fondamentale anche per promuovere una buona comunicazione interpersonale all’insegna del rispetto reciproco, della fiducia, della felicità e del benessere della coppia.
Gli incontri del Corso, condotti da p. Alfredo Feretti e da Veronica Rossi, si terranno dalle 17.00 alle 20.00, nei giorni 10 novembre 2017, 15 dicembre, 12 gennaio 2018, 2 febbraio, 23 marzo, 13 aprile, 11 maggio
www.centrolafamiglia.org/dedicato-crescere-insieme-empatia
Ospitalità e accoglienza, Amici del Giogo: Per-corso per coppie di sposi e famiglie
Il principale obiettivo del nostro percorso è quello di sostenere l’unità della coppia in modo da aiutare i coniugi a maturare nell’amore ed a superare gli eventuali momenti difficili. E’ un cammino prima di tutto di accompagnamento attraverso percorsi pratici, orientamenti pedagogici e riflessioni sul fondamento della nostra unità. E’ un accompagnamento che non ha maestri e discepoli ma tutti ascoltatori della forza dell’Amore che lo Spirito Santo versa nei cuori di ognuno. Essendo la famiglia un prezioso poliedro alle molte sfaccettature, è necessario entrare attraverso alcuni di questi volti per “prenderci cura dell’amore”, per prenderci cura delle gioie dell’amore.
Il percorso di accompagnamento è rivolto a coppie che desiderano approfondire il senso del proprio percorso di coppia e che, a loro volta, vogliono aiutare altri nel superamento di momenti di crisi o che necessitano un particolare discernimento. Il legame tra le varie coppie, le loro relazioni buone, trasparenti sono il “buon terreno” sul quale si sviluppa la crescita di ciascuno.
Il filo conduttore dei nostri incontri è l’ospitalità. Essa è la caratteristica tipica di ogni civiltà ed è ciò che contraddistingue una comunità umana. La famiglia è il luogo privilegiato dove si coltiva e si pratica l’ospitalità. Gesù è stato ospite: accolto e accogliente. E anche oggi ci accoglie e ci fa casa. I primi cristiani la consideravano una caratteristica tipica del loro vivere in novità.
Gli incontri saranno condotti da p. Alfredo Feretti (OMI) e preparati sempre da alcune famiglie saranno arricchiti dalla testimonianza viva di amici che hanno fatto dell’ospitalità una caratteristica di identità.
Si terranno nella sala del giogo in via dei Prefetti, 34 dalle ore 10.00 alle ore 13.00.
5 novembre, 17 dicembre 2017, 21 gennaio, 18 febbraio, 18 marzo, 15 aprile, 20 maggio, 17 giugno 2018
Achor-Porta di Speranza. Una personalità libera di amare. A qualcuno di noi è capitato di sperimentare quanto è difficile gestire la nostra libertà di amare dopo una separazione e quanto è importante svincolarsi da manipolazioni per ritrovare l’autenticità, la trasparenza e la tenerezza. I poli della nostra personalità: forza, debolezza, amore e imposizione chiedono di essere arricchiti rispettivamente di stima, umiltà, sollecitudine e coraggio, accettando il rischio dell’imperfezione nell’unità profonda tra il nostro Io interiore e quello esteriore. Questo percorso ci vuole aiutare ad acquisire queste virtù, dimensioni dell’anima ma non solo con uno sforzo personale o sotto la guida e l’aiuto di un altro, ma con la grazia che viene dall’incontro rinnovato con Dio Amore. Si tratta di una proposta di accoglienza e di accompagnamento per coloro che, segnati dall’amore ferito e smarrito, ricercano speranza. Un percorso di accoglienza e accompagnamento, fatto di pazienza e delicatezza, per sostenere uomini e donne che cercano forza e fiducia per “credere nell’amore e nella misericordia di Dio” perché nessuno è condannato per sempre. Il percorso prevede un lavoro in gruppo e la possibilità di un cammino personale.
– 19 novembre, 17 dicembre 2017, 21 gennaio, 18 febbraio, 18 marzo, 15 aprile, 20 maggio, 17 giugno 2018
www.centrolafamiglia.org/achor-porta-speranza-2017-2018/
Ludopatia. Percorso di formazione e sensibilizzazione dei propri operatori e di alcuni Centri di consulenza familiare collegati; […]sportello di ascolto gestito da operatori specificamente formati sul problema della dipendenza dal gioco d’azzardo […] specifici eventi formativi, per meglio conoscere e prevenire il fenomeno nonché fornire indicazioni di come meglio operare per la presa in carico del giocatore e dei suoi familiari. […]. www.centrolafamiglia.org/gioco-dazzardo-patologico-gap
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DALLA NAVATA
XXIX domenica del tempo ordinario – Anno A – 22 ottobre 2017
Isaia 45, 06 Perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri.
Salmo 96, 05 dèi dei popoli sono un nulla, il Signore invece ha fatto i cieli.
Tessalonicési 01, 05 Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.
Matteo 22, 18. Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?»
Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose.
“Restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”
Negli ultimi giorni prima di essere catturato e subire la morte vergognosa di croce, a Gerusalemme Gesù si è scontrato con quelli che sarebbero stati i suoi accusatori durante il processo. Alcune di queste controversie sono testimoniate dal vangelo secondo Matteo, in dipendenza da Marco: la controversia con i farisei e gli erodiani circa il tributo a Cesare (cf. Mt 22,15-22), la controversia con i sadducei sulla resurrezione dei morti (cf. Mt 22,23-33), le controversie con i farisei sul comandamento più grande e sulla signoria del Messia rispetto a David (cf. Mt 22,34-46), e infine un attacco preciso di Gesù nei confronti di questi suoi avversari, che si estende su un intero capitolo (cf. Mt 23).
Oggi la liturgia ci propone il racconto della prima controversia, quella sul pagamento del tributo a Cesare. Non si dimentichi però che Gesù si era già trovato in precedenza di fronte a un problema analogo. Al capitolo 17 (vv. 24-27) – testo purtroppo tralasciato dal lezionario domenicale nonostante sia presente solo in Matteo – si narra che a Cafarnao si avvicinano a Pietro gli esattori della tassa per il tempio e gli chiedono: “Il vostro maestro non paga la tassa?”. Pietro risponde: “Sì!”, perché Gesù non si sottraeva ai precetti della Torah che comandavano questo tributo (cf. Es 30,11-16). Poi, all’entrare in casa, Gesù interroga Pietro: “Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi?”. E Pietro risponde: “Dai sudditi, non dai familiari”. Allora Gesù replica: “Di conseguenza, i figli sono esenti. Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te”.
È un testo importante, perché ci rivela innanzitutto che Gesù, essendo il Figlio, ed essendo i discepoli suoi fratelli, quindi anch’essi figli di Dio, non devono pagare tributi a intermediari tra Dio e loro; testimonia inoltre che Gesù non vuole mai scandalizzare, mettere inciampi, dunque compie ciò che non è male e che può essere fatto guardando al bene dell’altro. Questo racconto ci testimonia in ogni caso l’obbedienza alla Legge da parte di Gesù: egli non è un ribelle, non è un contestatore della Legge, e solo quando questa viene pervertita dagli esseri umani, sconfessando così l’intenzione del Legislatore, il Signore, e rendendo l’umanità schiava dei precetti, allora può essere fatta cadere e non obbedita. Insomma, anche qui valgono le parole di Gesù: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!” (Mc 2,27).
Gesù paga i tributi, come Pietro aveva detto a quegli esattori. Ma qui farisei ed erodiani vogliono far cadere Gesù in un tranello, complottando contro di lui. D’altronde i partigiani di Erode, il re della Giudea posto al potere dei romani, dunque collaborazionisti con l’impero, chiedevano che i giudei pagassero le tasse a Cesare, a differenza dei farisei che su tale questione avevano un atteggiamento variegato al loro interno. Alcuni erano intransigenti e, se anche non partecipavano alla lotta armata degli zeloti, pensavano che almeno non si dovessero versare tributi all’autorità occupante e idolatrica. Altri, invece, ammettevano come male minore il sistema erariale imposto. In questo caso, seppur partendo da posizioni antitetiche, capi dei farisei ed erodiani trovano un accordo contro Gesù e inviano dei farisei anonimi a interrogarlo.
Costoro tessono un elogio di Gesù: riconoscono la sua capacità di dire la verità in ogni situazione, la sua coerenza tra ciò che dice e ciò che fa, il suo non avere uno sguardo partigiano o pauroso, il suo parlare senza tenere conto dell’aspetto di alcuno. Ma ecco, dopo questa captatio benevolentiæ, il tentativo di farlo cadere: “Maestro, è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. Se Gesù rispondesse negativamente, allora mostrerebbe di essere un contestatore dell’imperatore, un nemico di Roma; se, al contrario, rispondesse affermativamente, potrebbe essere collocato tra i collaborazionisti dell’impero, odiati dalla gente semplice. Ma Gesù, anziché rispondere direttamente, spiazza i suoi interlocutori: prima svela la loro malizia e ipocrisia, chiedendo per quale motivo vogliono tentarlo, poi chiede loro di mostrargli una moneta e li interroga sull’effigie stampata su di essa e sull’iscrizione. Costoro rispondono ovviamente che l’immagine e l’iscrizione sono di Cesare, allora Gesù pronuncia la famosa parola: “Restituite (verbo apodídomi) dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”.
Frase lapidaria, che ha solcato i secoli e che viene spesso invocata quando sorgono tensioni tra ciò che si deve a Dio e gli obblighi verso i poteri di questo mondo. In verità, questa parola di Gesù va innanzitutto compresa in profondità e letta in primo luogo nella situazione concreta di Gesù stesso, non applicata in modo letterale all’oggi. Come non ricordare, invece, l’abuso che i cristiani hanno fatto di questo detto? È su questa parola di Gesù che è stata elaborata in occidente la “teoria delle due spade”, secondo la quale la chiesa, che detiene il potere di Dio, pur rispettando Cesare esercita una giurisdizione superiore sui poteri di questo mondo, i quali devono esserle sottomessi: è la teocrazia medievale, secondo cui la chiesa detiene il potere assoluto e il re un potere subalterno. Quanto all’oriente, si ricordi la posizione simmetrica e contraria, il cosiddetto cesaropapismo, che considera l’imperatore, il basileús, come vescovo dei vescovi e capo supremo della chiesa sulla terra.
Ora, il detto di Gesù non allude affatto a queste o simili posizioni, e quando in epoca moderna la separazione tra chiesa e stato è diventata effettiva nella società, o per imposizione dello stato o per negoziazione (i concordati), in verità il problema non è stato risolto: il potere mondano a volte vuole confinare la chiesa nello spazio del privato; altre volte la chiesa vuole diffondere la religione civile che conviene allo stato, ricevendo in cambio da esso protezione e favori. La celebre parola di Gesù va dunque sempre ricompresa a partire da alcune semplici verità. Dicendo: “Restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, Gesù si tiene lontano da una politicizzazione di Dio così come da una sacralizzazione del potere politico. Cesare non è né Dio né divino, come invece indicava l’iscrizione sulla moneta: “Tiberio Cesare figlio del divino Augusto, Augusto”; nello stesso tempo, Dio non può prendere il posto di Cesare attraverso l’istituzione religiosa. Saremmo di fronte a due forme di idolatria che sconfessano l’autentica signoria di Dio, offendendola o pervertendola. Cesare non può pretendere per sé l’adorazione, non può pretendere di legiferare contro le convinzioni del cristiano, che in questo caso ha il dovere di obbedire a Dio piuttosto che al potere politico (cf. At 5,29), ma ha un compito ben preciso: ordinare la società, affinché possa vivere nella logica della libertà e del bene comune. Potremmo dire che i doveri verso Dio sono annunciati a tutti, ovunque e sempre, ma ciò che si deve a Cesare, le tasse e i tributi, vanno assolutamente pagati. Ogni cristiano, così come ogni figlio di Israele, è in alleanza con il Signore e porta sulla propria mano l’iscrizione: “Io appartengo al Signore” (cf. Is 44,5), e tuttavia vive nella polis, riconoscendo l’autorità politica e obbedendo a essa in ciò che non contraddice la volontà e la signoria di Dio. La moneta porta impressa l’effigie di Cesare, ma l’uomo porta impressa l’immagine di Dio (cf. Gen 1,27), dunque a Dio deve “restituire” se stesso interamente e obbedire a lui; a Cesare deve invece restituire quanto gli appartiene, non il proprio cuore!
Certamente con questa parola Gesù non voleva risolvere i nostri litigi e le nostre lotte politiche, perché ciò spetta alla nostra responsabilità che nasce da un discernimento che dobbiamo operare da noi stessi, come egli stesso ha avvertito: “Perché non giudicate, non discernete da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc 12,57). Gesù non è stato e non ha voluto essere un Messia politico; e se ha confessato di essere Re, ha subito aggiunto di esserlo non come i re di questo mondo (cf. Gv 18,36). Non è stato dunque un Cesare contro Cesare, ma ha rispettato e ha chiesto di rispettare l’autorità stabilita e di onorare i suoi diritti, in quanto autorità umana necessaria, sempre sottomessa alla complessità della realtà sociale e politica di un’epoca precisa. Per questo Paolo domanderà ai cristiani di sottomettersi alle autorità civili (cf. Rm 13,1-7; Tt 3,1), e analogamente farà anche l’apostolo Pietro: “Agite da uomini liberi,… quali servi di Dio. Onorate tutti, amati i vostri fratelli, temete Dio, rispettate il re” (1Pt 2,16-17). Queste direttive apostoliche – non lo si dimentichi – vengono date in un’epoca di persecuzione dei cristiani da parte dell’impero romano.
Il cristiano deve pertanto essere un cittadino leale e capace di onorare il suo dovere verso lo Stato, ma sarà servo di Dio, mai servo degli uomini o di poteri umani; e soprattutto, si sentirà chiamato a una cittadinanza (políteuma) nel regno di Dio, nei cieli (cf. Fil 3,20). Il cristiano sarà fedele alla terra, senza esenzioni né evasioni dalla storia, senza invocare spiritualizzazioni o fughe “angeliche”, ma opererà nel mondo secondo la volontà del Signore, cercando il bene comune, la libertà, la giustizia, la riconciliazione, la pace.
Restituire a Dio ciò che è di Dio significa rendergli un’umanità che non porta solo la sua immagine indelebile ma che si è fatta a lui rassomigliante: questo restituirgli l’umanità rassomigliante è il cammino dell’umanizzazione!
Con la presente controversia si avvicina per Gesù il dramma della passione, ormai imminente, e il processo politico, quando Gesù sarà accusato di “sobillare il popolo e di impedire di pagare i tributi a Cesare” (cf. Lc 23,2). Ormai i nemici di Gesù, che non riescono a farlo cadere con un tranello, sono decisi ad accusarlo falsamente, al fine di eliminarlo per sempre.
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/11885-restituite-a-cesare-cio-che-e-di-cesare-e-a-dio-cio-che-e-di-dio
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ETS (già ONLUS) NON PROFIT
Riforma del terzo settore: “Tante domande, poche risposte (per ora)”
In attesa dei decreti attuativi si stanno svolgendo in tutta Italia convegni molto affollati (e preoccupati) sulla normativa appena varata. Come a Genova, dove l’esperto Mario Moiso invita intanto le associazioni “ad approfondire con calma il nuovo Codice, perché cambieranno molti parametri”
“Quale sarà il futuro delle piccole associazioni di volontariato? Come essere in regola sul fronte delle assicurazioni ai volontari? Conviene essere iscritti al nuovo Registro unico? Cosa deve fare la coppia genitoriale di una casa famiglia? Le associazioni animaliste non sono contemplate, lo saranno in futuro? Come si dovranno impostare le raccolte fondi?”.
Il tono è preoccupato nelle domande delle associazioni intervenute pochi giorni fa al seminario organizzato dal CSV Celivo [CentroServiziVolontariato provincia di Genova] con l’obiettivo di una presentazione generale del Codice del terzo settore. (…)
“Le domande saranno tantissime – preannuncia all’inizio del suo intervento Mario Moiso, commercialista e consulente esperto di Terzo settore – e le risposte poche o forse nulle. In questo momento è necessario che le associazioni si dispongano all’approfondimento settoriale perché la nuova normativa cambia molti parametri. Suggerisco, oltre a leggere con calma il nuovo codice, di prendere in mano il vostro statuto associativo e di valutarlo con attenzione”.
Intenzionalmente tecnico, il seminario affronta e cerca di dare una esaustiva visione di insieme, di tracciare linee guida e percorsi per facilitare la comprensione dei tanti, troppi termini contemplati. Gli esperti conducono il pubblico a familiarizzare con le norme, a recepire le criticità e i passaggi obbligati; spiegano definizioni saltando dalla “cabina di regia” agli “enti filantropici”, saltando da un comma all’altro in quella che appare ai meno disinvolti una ragnatela di decine di articoli.
Il presidente del Celivo Luca Cosso sembra aver previsto il mood delle associazioni a termine pomeriggio. “Questa è una fase di transizione – afferma Cosso in apertura – che vede decaduta la vecchia norma ma non ancora in vigore quella nuova.
Le associazioni non devono avere premura perché ci sarà il tempo tecnico per le necessarie modifiche agli statuti. Occorre attendere i decreti attuativi e le norme che prenderanno forma, su cui parallelamente faremo corsi di formazione”. Un messaggio di rassicurazione confermato anche da Maria Luisa Gallinotti, dirigente della Regione Liguria designata al passaggio al nuovo codice di Terzo settore che dà massima disponibilità ai presenti per fornire indicazioni, risposte e suggerimenti sulle prossime tappe.
Calma e attenzione, quindi, le parole chiave di fine giornata, ma anche ottimismo e invito a “vivere il cambiamento come un’opportunità di apertura”, messaggio ben scandito da Ileana Scarrone, portavoce del Forum Ligure Terzo Settore.
Francesca Sanguineti newsletter n. 17 Centro Servizi Volontariato net 18 ottobre 2017
www.csvnet.it/component/content/article/144-notizie/2664-csv-genova-seminario-sulla-riforma-del-terzo-settore?Itemid=893
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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI
Convegni per la vita
Dal 10 al 12 novembre presso l’Hotel e Centro Congressi Da Vinci a Milano, si svolgerà il XXXVII Convegno dei Centri di aiuto alla vita. Il Convegno Cav sarà anticipato nei giorni 9 e 10 novembre da due altri eventi: il Convegno delle Case di Accoglienza e il Seminario per volontari SOS Vita.
Il programma in file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/pixart-MxVI-flyer-CAV37-exe(3).pdf
www.forumfamiglie.org/2017/10/27/mpv-a-milano-il-37-convegno-cav
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Autocritica del Magistero e riforma della Chiesa
Tra le più grandi novità che papa Francesco ha introdotto nel linguaggio ecclesiale brilla di luce molto intensa la chiara correlazione tra esigenza di riforma ecclesiale e necessità di una franca autocritica magisteriale. Nell’ultimo mese e mezzo una serie di documenti – due lettere motu proprio e un discorso – hanno potentemente rilanciato le esigenze di riforma attraverso una analisi spregiudicata della tradizione recente, senza nascondere i necessari compiti di autocritica. Potremmo dire che un elemento di grande e preziosa originalità del magistero di Francesco è quello di unire al compito critico il compito autocritico. E se la Chiesa si era specializzata da due secoli nella critica del mondo, molto più timida e a volte quasi assente era stato l’esercizio della autocritica della Chiesa, spesso confusa con il cedimento al nemico. Ripercorriamo brevemente questo percorso recente:
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Le premesse: Evangelii Gaudium, Laudato sii e Amoris Lætitia.Tutto comincia dall’inizio del pontificato. Già dalla sera del 13 marzo 2013, ma poi, ufficialmente e solennemente con Evangelii Gaudium, troviamo nel suo primo capitolo una serie di prese di distanza da stili pastorali inadeguati che può essere compresa esplicitamente come una salutare autocritica con cui la Chiesa si ripensa rispetto al proprio stile. Ma altrettanto si legge in Laudato Sii e, ancora più esplicitamente, nel “decalogo di autocritica” (su cui mi sono già soffermato qui) che incontriamo ai nn. 35-37 di Amoris Lætitia. Questo modo di comprendere la funzione del magistero e di mettere in questione abiti acquisiti negli ultimi decenni, appare come una vera profezia ecclesiale. Ma alla luce di questi precedenti, vediamo ora le acquisizioni più recenti di questo stile magisteriale autocritico.
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Il Motu ProprioMagnum Principium e l’autocritica liturgica. Come attestano bene le resistenze esplicite da parte degli stessi organi curiali chiamati ad applicarne le disposizioni, Magnum. “A tale scopo bisogna fedelmente comunicare ad un determinato popolo, tramite la sua propria lingua, ciò che la Chiesa ha inteso comunicare ad un altro per mezzo della lingua latina. Sebbene la fedeltà non sempre possa essere giudicata da parole singole ma debba esserlo nel contesto di tutto l’atto della comunicazione e secondo il proprio genere letterario, tuttavia alcuni termini peculiari vanno considerati anche nel contesto dell’integra fede cattolica, poiché ogni traduzione dei testi liturgici deve essere congruente con la sana dottrina”. La pretesa di una traduzione “letterale” viene superata dalla descrizione, apertis verbis, delle “corrispondenze dinamiche” in cui vale la proporzione: il latino sta ad un popolo, come la lingua vernacola sta ad un altro popolo. I diversi popoli determinano una mediazione complessa e non diretta tra le lingue. Questa autocritica – che in fondo è soltanto il ritorno alla logica del Concilio Vaticano II, che Liturgiam authenticam aveva cercato di annichilire – inaugura una stagione di rinnovato dialogo tra fede e cultura, nel quale nessun sapiente pastore inglese dovrà più ripetere ad un funzionario romano: “come osa lei correggere il mio inglese?” (B. Hume).
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Il Motu Proprio Summa familiae e l’autocritica sulla teologia della famiglia. Anche sul piano della teologia del matrimonio e della famiglia, in conseguenza diretta della elaborazione di Amoris Lætitia e del suo “decalogo di autocritica” era inevitabile che si provvedesse a correggere quel centro di massimalismo teologico che da decenni era rappresentato dall’Istituto Giovanni Paolo II. Il ridimensionamento della pretesa massimalistica della teologia familiare viene prodotto con una puntuale descrizione della “meravigliosa complessità” della famiglia contemporanea, irriducibile alle agghiaccianti semplificazioni a cui ci avevano abituati non pochi professori di quell’Istituto. Se leggiamo il cuore del testo, troviamo molto chiare le parole di autocritica e di nuovo orientamento: “Il cambiamento antropologico-culturale, che influenza oggi tutti gli aspetti della vita e richiede un approccio analitico e diversificato, non ci consente di limitarci a pratiche della pastorale e della missione che riflettono forme e modelli del passato. Dobbiamo essere interpreti consapevoli e appassionati della sapienza della fede in un contesto nel quale gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali, nella loro vita affettiva e familiare. Nel limpido proposito di rimanere fedeli all’insegnamento di Cristo, dobbiamo dunque guardare, con intelletto d’amore e con saggio realismo, alla realtà della famiglia, oggi, in tutta la sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre.
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio_20170908_summa-familiae-cura.html#_ftn5
Per queste ragioni ho ritenuto opportuno dare un nuovo assetto giuridico all’Istituto Giovanni Paolo II, affinché «la lungimirante intuizione di San Giovanni Paolo II, che ha fortemente voluto questa istituzione accademica, oggi [possa] essere ancora meglio riconosciuta e apprezzata nella sua fecondità e attualità». Pertanto, sono venuto alla deliberazione di istituire un Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, ampliandone il campo di interesse, sia in ordine alle nuove dimensioni del compito pastorale e della missione ecclesiale, sia in riferimento agli sviluppi delle scienze umane e della cultura antropologica in un campo così fondamentale per la cultura della vita”. Le forme e i modelli del passato – con un modo di fare teologia autoreferenziale e chiuso, da scrivania o da balcone, mai da strada – debbono essere decisamente superati. Una autocritica lucidissima è la premessa per un nuovo stile, una nuova relazione strutturale non solo con la pratica pastorale, ma anche con la cultura antropologica.
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Il Discorso alla Pontificio Accademia per la vita e l’autocritica sul “prolife”. Una Humanæ Vitæ riletta con gli occhiali di Dignitatis Humanæ: così giudicherei il grande discorso che Papa Francesco ha pronunciato di fronte alla Accademia pontificia, nel quale si può leggere, con una sorpresa non priva di presentimenti: “La fede cristiana ci spinge a riprendere l’iniziativa, respingendo ogni concessione alla nostalgia e al lamento. La Chiesa, del resto, ha una vasta tradizione di menti generose e illuminate, che hanno aperto strade per la scienza e la coscienza nella loro epoca. Il mondo ha bisogno di credenti che, con serietà e letizia, siano creativi e propositivi, umili e coraggiosi, risolutamente determinati a ricomporre la frattura tra le generazioni. Questa frattura interrompe la trasmissione della vita. Della giovinezza si esaltano gli entusiasmanti potenziali: ma chi li guida al compimento dell’età adulta? La condizione adulta è una vita capace di responsabilità e amore, sia verso la generazione futura, sia verso quella passata. La vita dei padri e delle madri in età avanzata si aspetta di essere onorata per quello che ha generosamente dato, non di essere scartata per quello che non ha più.”
E ancora: “Insomma, è una vera e propria rivoluzione culturale quella che sta all’orizzonte della storia di questo tempo. E la Chiesa, per prima, deve fare la sua parte. In tale prospettiva, si tratta anzitutto di riconoscere onestamente i ritardi e le mancanze. Le forme di subordinazione che hanno tristemente segnato la storia delle donne vanno definitivamente abbandonate. Un nuovo inizio dev’essere scritto nell’ethos dei popoli, e questo può farlo una rinnovata cultura dell’identità e della differenza.”
Superare “nostalgia e lamento” – atteggiamenti che avevano superato ormai da decenni la soglia di guardia – e ammettere “ritardi e mancanze” diviene un invito a non giocare in difesa, ma all’attacco, a riprendere la iniziativa, a considerare la vita non solo e non tanto come biologia, ma come storia e come memoria. Al fine di rispettare tanto radicalmente la “vita umana” da non poter mai pretendere di scavalcarne volontaristicamente la “dignità”.
E’ ovvio che queste prese di posizione, urgenti da decenni e finalmente pronunciate e rese operative, non lasciano il tempo che trovano. Anche negli animi di coloro che avevano pensato di poter identificare il cattolicesimo nella sua versione ottocentesca, antimodernista e apologetica, esse suscitano emozione, delusione e rabbia. L’aria fresca che rientra ufficialmente nella Chiesa cattolica è confortante per i più, allarmante per pochi. Ma non basta aprire la finestra e scoprire panorami impensati: ora occorre che le singole comunità assumano questa stessa postura e questa medesima prospettiva. Che attraverso una sana autocritica guadagnino nuove evidenze e altre priorità. Perché il vangelo e la fede possano tornare ad essere gioia contagiosa e forza di vita.
Blog di Andrea Grillo Come se non 18 ottobre 2017
www.cittadellaeditrice.com/munera/autocritica-del-magistero-e-riforma-della-chiesa
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HUMANÆ VITÆ
50 anni dopo. L’Humanæ vitæ di Paolo VI: Chiesa, amore e vita, come si cambia?
Sessualità, generazione e famiglia a 50 anni dall’enciclica di Paolo VI. A livello internazionale si accende lo scontro. Dalla Gregoriana proposta per approfondire e ipotizzare nuovi percorsi.
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La difesa a oltranza dei metodi naturali dev’essere considerato criterio assoluto e intangibile per la regolazione delle nascite?
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È vero che il presunto obbligo non discende né da principi scientifici concordemente accettati né da dichiarazioni magisteriali che hanno il sigillo dell’infallibilità e dell’immutabilità?
Sono domande che tornano con frequenza in questi giorni, in vista di un anniversario atteso e temuto, quello del cinquantenario dell’Humanæ vitæ, l’enciclica che, mentre apre al concetto di paternità e di maternità responsabile, vieta l’uso della contraccezione chimica e indica come unica prassi legittima per la regolazione delle nascite, i metodi naturali. A rendere stimolante, e per certi versi anche problematica, la riflessione avviata sui temi trattati da Humanæ vitæ, concorrono vari fattori. Anniversario a parte (sarà il 25 luglio del 2018), ci sono studi storici in corso in corso che promettono rivelazioni inedite, convegni e percorsi di formazione, dibattiti a livello internazionale sostenuti da università e istituti di ricerca. A conferma che il rapporto tra indicazioni dottrinali, sessualità coniugale e generazione rimane tema fondamentale, che intercetta cultura, pastorale, teologia, medicina, stili di vita. E che quindi coinvolge tutte le famiglie.
L’iniziativa culturale di maggior spessore è senza dubbio il corso (iniziato ieri e durerà fino al maggio del prossimo anno) organizzato dalla Facoltà di Scienze sociali e dal Dipartimento di teologia morale della Pontificia Università Gregoriana. «Humanæ vitæ continua ad essere importante perché ha segnato una posizione fondamentale della famiglia nella Chiesa. Riprenderla cinquant’anni dopo – osserva Emilia Palladino, docente di etica familiare nella facoltà di Scienze sociali della Pontificia Università Gregoriana – significa utilizzarla come una sorta di griglia riguardo ai mutamenti che ci sono stati». Palladino, insieme a padre Miguel Yanez, direttore del Dipartimento di teologia morale dello stesso ateneo, è responsabile del corso di formazione “Il cammino della famiglia a cinquant’anni da Humanæ vitæ“. Otto incontri – uno al mese da qui al maggio 2018 – con sedici relatori che si alterneranno in una logica interdisciplinare. «Il panorama della famiglia è completamente cambiato – riprende l’esperta – e così quello della coppia e della generazione dei figli. Quindi nell’ottica della realtà che è superiore all’idea, secondo quanto ci insegna papa Francesco, abbiamo ritenuto di non poter liquidare questo appuntamento come una ricorrenza formale».
La grande domanda sullo sfondo è quella di capire come mettere in sintonia il quadro normativo di Humanæ vitæ con la tensione al rinnovamento alla luce del primato della coscienza che si respira in Amoris lætitia. Solo pochi giorni fa, presentando il nuovo commento teologico pastorale al Catechismo, Francesco ha detto che «la Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti! No. La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare».
Un criterio che sarebbe difficile non applicare a una realtà così mutevole e complessa come i rapporti di coppia. «Il nostro corso non vuole però essere una rilettura critica dell’enciclica ma – precisa Emilia Palladino – un’analisi dei temi affrontati nel documento alla luce dei cambiamenti registrati in questi decenni. Nessuno vuole mettere in discussione Paolo VI, ma sicuramente cogliere dall’enciclica una serie di elementi su cui oggi, più di allora, è giusto riflettere, perché più di allora questi problemi sono presenti nella vita della coppia».
Quindi anche l’Humanæ vitæ andrebbe in qualche modo sviluppata, fatta crescere. «Sì – riprende l’esperta – approfondendo questioni come il genere, le coppie miste, le famiglie ricomposte. La situazione sociale, prima della rivoluzione del ’68, era completamente diversa. Oggi invece è giusto farlo, anche se tematizzarli non significa trovare subito le soluzioni giuste per ogni problema». Lo sguardo multidisciplinare si spiega proprio con la necessità di affrontare questioni complesse e delicate come l’amore, la generazione e la genitorialità responsabile con una serie di competenze più vaste rispetto al solo approccio teologico scelto da Humanæ vitæ. «Non si tratta di negare l’impianto dottrinale che attinge direttamente al deposito della fede ma – conclude Emilia Palladino – di riflettere sulla forma indispensabile per parlare agli uomini e alla donne del nostro tempo. Non vogliamo dare ricette ma mettere in crisi, nel significato più nobile del termine, cioè sollecitare una nuova crescita nella fede».
Metodi naturali: dal divieto alle nuove proposte? Chi pensa che quanto scritto da Paolo VI in Humanæ vitæ sia per le coppie credenti un obbligo da perpetuare “nei secoli dei secoli” ignora non solo la storia della Chiesa, soprattutto quella dell’ultimo secolo, ma anche quanto detto dallo stesso pontefice riguardo all’opportunità di non considerare i contenuti dell’enciclica né infallibili né irreformabili.
Vuol dire che sia arrivato il momento di rottamare Humanæ vitæ? Niente affatto. L’anniversario del mezzo secolo può anzi diventare l’occasione per risanare le divisioni che, proprio sul punto hanno segnato e ancora segnano il mondo cattolico, alla luce di un’operazione di verità e di saggezza. Per riscoprire la verità sul rapporto tra Chiesa e regolazione delle nascite bisogna guardare all’evoluzione del magistero. Tutt’altro che principi cristallizzati in eterno come vorrebbero far credere i più arcigni difensori di una morale fuori dalla realtà, ma riflessioni e indicazioni calati in un naturale dinamismo collegato al cammino dell’uomo incarnato nella storia. Ne ha parlato ieri, durante la prima “lezione” del corso alla Gregoriana, Giuseppe Bonfrate, del dipartimento di teologia dogmatica dello stesso ateneo.
In meno di un secolo l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei metodi naturali di controllo della fertilità è passato dal divieto, alla cauta accettazione, all’indicazione come unico criterio legittimo e infine – ma di questo Bonfrate non ne ha accennato e ci sarà modo di affrontare il tema nei prossimi incontri – al dibattito sulla possibilità di individuare prassi meno complesse ma altrettanto contrassegnate da un alto valore etico. Il divieto è quello espresso da Pio XI nella Casti connubi (31 dicembre 1930). L’unica prospettiva ammessa per l’atto coniugale è quella generativa. Ogni “attentato” dei coniugi per privare l’atto della sua forza e impedire la procreazione va considerato “turpe e disonesto”. Nessuna differenza sulla “qualità dell’attentato” (meccanico, chimico o naturale). Va tutto respinto e condannato.
Passano vent’anni e Pio XII torna sul tema con il celebre “Discorso alle ostetriche italiane” (29 ottobre 1951). Tra gli altri argomenti papa Pacelli affronta quello della contraccezione e apre timidamente, pur con un’ampia casistica di indicazioni contrarie e di distinguo, alla pratica dei “tempi infecondi”. Una svolta che suscitò critiche e accuse di violazioni dottrinali simili a quelle rivolte in questi in questi mesi a papa Francesco. Il Concilio fa un altro passo in avanti. Nella Gaudium et spes si riconosce, che parlando di maternità e paternità responsabili, vale il “retto giudizio dei genitori” che hanno il dovere, accanto a un percorso permanente di formazione della coscienza, di essere informati sui metodi della scienza.
In questo processo evolutivo ecco Humanæ vitæ. Una gestazione lunga e complessa. Un’accoglienza all’insegna della critica e della delusione. Pochi testi del magistero hanno avuto più vita travagliata. Il percorso inizia nel 1963 quando Giovanni XXIII decide di istituire una “Commissione pontificia per lo studio della popolazione, della famiglia e della natalità”. Obiettivo autentico quello di capire come conciliare dottrina morale e regolazione delle nascite. Lo studio prosegue fino al 1966 quando la commissione consegna l’esito dei lavori. Tutto viene secretato in attesa delle decisioni di Paolo VI. Ma, prima di conoscere il parere del Pontefice, nell’aprile 1967, il tema esplode sulla stampa internazionale. Contemporaneamente in Francia su Le Monde, in Gran Bretagna su The Tablet e negli Stati Uniti sul National Catholic Reporter escono i risultati della commissione e si racconta di due pareri contrastanti. Uno favorevole alla “pillola” con 70 voti. E uno contrario con 4 voti tra cui quello del cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto di quello che allora si chiamava Sant’Uffizio.
Questa ricostruzione non è mai stata né confermata né smentita. Si sa però che Paolo VI ha deciso di non fermarsi al parere della commissione. Incarica prima la Congregazione della dottrina della fede (dal giugno 1966 alla fine del 1967), poi la Segreteria di Stato (fino alla metà del 1968) di approfondire il caso e di ascoltare nuovi esperti. Il materiale accumulato, che riempie 18 faldoni, serve a Paolo VI per scrivere Humanæ vitæ.
Ma cosa ha indotto il papa a riaprire il caso. E cosa c’è in quella documentazione conservata negli archivi vaticani? Lo sta scoprendo don Gilfredo Marengo, docente di antropologia teologica al “Giovanni Paolo II” che – come abbiamo anticipato lo scorso 30 agosto 2017 su Avvenire – ha avuto il via libera per consultare la corposa documentazione e, in vista del 50esimo dell’enciclica, divulgare i passaggi finora segreti del lungo itinerario. Una ricerca che, come abbiamo già ricordato non ha l’obiettivo di “rivedere” i contenuti di Humanæ vitæ. Anche se una revisione del documento era già stata messa in conto dallo stesso Paolo VI. L’11 agosto 1968, presentando il documento alla stampa, monsignor Ferdinando Lambruschini, allora ordinario di teologia morale alla Lateranense, dopo pochi mesi nominato arcivescovo di Perugia, spiegò – su diretta richiesta del Papa – che quel testo non doveva essere considerato né infallibile né irreformabile. E lo stesso Paolo VI più volte negli anni successivi, scosso e turbato dalle critiche giunte anche da teologi da lui stimatissimi, come padre Bernard Haering, riconfermò il valore del giudizio di coscienza dei coniugi accompagnati da una saggia guida spirituale.
Non solo. All’Angelus dell’11 agosto 1968, meno di due settimane dopo la pubblicazione dell’enciclica, benedisse anche i dissenzienti: «Un’altra intenzione è nel Nostro cuore in questi giorni. Voi conoscete i commenti alla Nostra ultima Enciclica Humanæ Vitæ 50 anni dopo. Humanæ Vitæ di Paolo VI: Chiesa, amore e vita, come si cambia? Humanæ Vitæ in difesa della trascendenza e della dignità dell’amore, della libertà e della responsabilità degli sposi, e dell’integrità della famiglia: moltissimo commenti sono nobilissimi e favorevoli, altri no: chiediamo al Signore che conforti il Nostro magistero della sua autorità, della sua serenità e della sua bontà. Siano benedetti tutti coloro che lo accolgono, e lo siano pure coloro che lo avversano, affinché la loro coscienza sia illuminata e guidata da rettitudine e dottrinale e morale, vera e superiore: li avremo, se non altro, invitati a riflettere su un tema di così vitale importanza».
Che differenza rispetto ai fustigatori implacabili dei nostri giorni. Perché non domandarsi da dove nascesse questa attenzione per le ragioni degli oppositori? Se davvero fosse stato convinto dell’indiscutibilità delle sue tesi avrebbe mostrato altrettanta disponibilità nell’ ascoltare ragioni contrarie a quelle espresse in Humanæ vitæ?
Oggi la questione, soprattutto a livello internazionale, si condensa in due posizioni ben radicate. Ricordare Humanæ vitæ per sottolinearne le presunte incongruenze e passare oltre? Celebrare il traguardo del mezzo secolo con l’obiettivo di ribadire l’obbligo – peraltro non richiesto, come detto, neppure da Paolo VI – di non spostare neppure una virgola?
Al primo gruppo si iscrivono teologi e studiosi che, su sollecitazione del John Wijngaards Catholic Research di Londra, hanno messo a punto un documento per chiedere la modifica della posizione tradizionale sui cosiddetti “contraccettivi artificiali”. Il testo completo, a cui stanno lavorando esperti di vari orientamenti e specializzazioni, verrà reso noto in prossimità dell’anniversario, ma le argomentazioni di fondo sono note. «Il nostro Rapporto – spiega Luca Badini Confalonieri, direttore scientifico dell’Istituto – mostra, tra le altre cose, come due delle affermazioni chiave di Humanæ vitæ:
1. il significato procreativo è sempre presente in ogni singolo atto sessuale;
2. il metodo della continenza periodica non è da considerarsi un mezzo di contraccezione “artificiale”.
Sono in esplicita contraddizione con l’interpretazione ufficiale della Gaudium et spes contenuta nelle risposte delle cosiddetta “commissiona dottrinale mista” a precisi “modi” – o proposte di modifica – che alcuni padri conciliari avevano richiesto ai paragrafi 48-51 sulla paternità responsabile. Nonostante tali affermazioni fossero state esplicitamente respinte come erronee dalla commissione dottrinale, dopo meno di tre anni riemersero come centrali nell’ Humanæ vitæ contraddice».
www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html
GS §50 I coniugi sappiano di essere cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro propria.
§52 Gli esperti nelle scienze, soprattutto biologiche, mediche, sociali e psicologiche, possono portare un grande contributo al bene del matrimonio e della famiglia e alla pace delle coscienze se, con l’apporto convergente dei loro studi, cercheranno di chiarire sempre più a fondo le diverse condizioni che favoriscono un’ordinata e onesta procreazione umana.
Nel testo – a cui hanno già aderito oltre 200 esperti – anche due analisi dettagliate, una sui motivi per cui i metodi naturali non possano essere la soluzione a livello globale, l’altra sulle conseguenze della proibizione della contraccezione artificiale nei Paesi in via di sviluppo. Di tenore diametralmente opposto il documento diffuso dalla Catholic University of America che s’intitola “L’insegnamento della Chiesa sul dono della sessualità”, in cui si attacca il testo diffuso dal Wijngaards Catholic Research per riaffermare il valore profetico dell’enciclica di Paolo VI e per riconfermare, in dieci punti, l’intangibilità della posizione tradizionale. Insomma, nulla è cambiato, nulla dev’essere cambiato.
Si tratta davvero una posizione coerentemente cristiana? Così spiega Papa Francesco in Amoris lætitia: «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo che sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alle fragilità».
Luciano Moia Avvenire 20 ottobre 2017
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/humanae-vitae-sguardi-sul-futuro
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MINORI FUORI FAMIGLIA
L’Autorità garante per infanzia e adolescenza presenta la 2° raccolta dati degli ospiti delle comunità.
L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza presenta la seconda raccolta dati sperimentale sui minorenni ospiti delle comunità, realizzata in collaborazione con le procure della Repubblica presso i tribunali per minorenni.
file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/La%20Tutela%20dei%20minorenni%20in%20comunita(2).pdf
Sono 21.035, in Italia, i ragazzi che vivono fuori dalla propria famiglia di origine, ospiti delle 3.352 comunità sparse su tutto il territorio nazionale (dati al 31 dicembre 2015). Si tratta in prevalenza di maschi, di età compresa tra i 14 e i 17 anni. E’ quanto emerge, in estrema sintesi, dalla pubblicazione “La tutela dei minorenni in comunità. La seconda raccolta dati sperimentale elaborata con le procure della Repubblica presso i tribunali per i minorenni”, presentata questa mattina nella sede dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza.
La pubblicazione è il risultato dell’attività di monitoraggio ed elaborazione dati sui minori presenti in comunità, che l’Autorità svolge attraverso l’analisi delle informazioni che, per legge, ogni sei mesi le strutture di accoglienza sono tenute a comunicare alle procure minorili. I dati presi in esame si riferiscono a tutte le tipologie di comunità per minorenni, comprese le comunità familiari, le comunità terapeutiche e le strutture che consentono l’accoglienza genitore-bambino. Sono escluse le strutture che rientrano nell’ambito della prima accoglienza dei minorenni di origine straniera e le comunità di pertinenza del Ministero della Giustizia.
I dati raccolti mettono a fuoco, oltre alla dimensione quantitativa, anche le principali caratteristiche qualitative dell’accoglienza in comunità. In particolare: il numero di strutture presenti sul territorio di competenza; il numero di ispezioni effettuate; il numero degli ospiti complessivi; le caratteristiche degli ospiti, riguardo al genere, alla cittadinanza, all’eventuale condizione di minore non accompagnato e all’età; la tipologia di inserimento (giudiziale o consensuale); il numero di casi in cui la permanenza si protrae da oltre 24 mesi; la provenienza del minore al momento dell’inserimento, i casi in cui la permanenza termina a 18 anni e quelli in cui si protrae oltre la maggiore età.
“L’obiettivo della pubblicazione – spiega la Garante Filomena Albano – è approfondire il tema dell’accoglienza dei minorenni che vivono fuori della famiglia di origine. Un lavoro complesso, che abbiamo potuto realizzare grazie alla preziosa collaborazione delle procure minorili, attraverso il quale è possibile tracciare una fotografia del fenomeno sufficientemente ampia e aggiornata. Le peculiari condizioni di vulnerabilità di questi ragazzi rappresentano un serio ‘fattore di rischio’ per lo sviluppo armonico della loro personalità, proprio per questo occorre tenere un occhio vigile, per poter garantire quanto più possibile l’eguaglianza dei diritti e delle opportunità.
Inoltre i bisogni di tutela che ruotano attorno al fenomeno dell’accoglienza nelle comunità non si esauriscono nelle difficoltà che determinano l’ingresso in struttura, ma riguardano anche la fase di uscita dal percorso di accoglienza dei ragazzi che sono divenuti maggiorenni”.
News Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza
www.garanteinfanzia.org/news/l%E2%80%99autorit%C3%A0-garante-l%E2%80%99infanzia-e-l%E2%80%99adolescenza-presenta-la-seconda-raccolta-dati-sperimentale
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PARLAMENTO
Camera dei Deputati, 2 Commissione Giustizia. Assegno divorzile.
C. 4605 Ferranti ed altri, Proposta di legge: “Modifiche all’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in materia di assegno spettante a seguito di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile”.
www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=17&codice=17PDL0054400&back_to=http://www.camera.it/leg17/126?tab=2-e-leg=17-e-idDocumento=4605-e-sede=-e-tipo=
18 ottobre 2017- La Commissione ha deliberato lo svolgimento di un’indagine conoscitiva in merito all’esame della proposta di legge C. 4605 Ferranti, nell’ambito della quale ha avuto luogo l’audizione del Prof. Cesare Massimo Bianca, libero docente di diritto civile, di Mirzia Bianca, professoressa di Istituzioni di diritto privato presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, di Claudio Cecchella, presidente nazionale e di Fiorella d’Arpino, presidente della sezione di Roma dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia. file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/leg.17.bol0895.data20171018.com02(1).pdf
www.camera.it/leg17/210?commissione=02&annomese=&view=
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PROCREAZIONE RESPONSABILE
Nell’epoca della disuguaglianza, a rischio salute e diritti riproduttivi delle donne
La disuguaglianza è spesso intesa solo in termini di reddito e di ricchezza ma in realtà molte altre dimensioni – sociali, politiche, istituzionali – si alimentano a vicenda e precludono ogni speranza di progresso per chi vive ai margini. Due aspetti cruciali sono la disuguaglianza di genere e le disparità nell’accesso alla salute e ai diritti sessuali e riproduttivi, cui è dedicato il Rapporto 2017 sullo stato della popolazione nel mondo del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione.
Più difficoltà una donna incontra in materia di pianificazione familiare meno possibilità avrà di trovare un lavoro e di uscire dalla povertà che a sua volta ostacola l’accesso ai suoi diritti riproduttivi.
È il drammatico circolo vizioso che, in mancanza di misure volte a scardinarlo, preclude ogni speranza di progresso per le donne che vivono ai margini. Una questione di fondamentale urgenza sulla quale richiama l’attenzione della comunità internazionale il Rapporto 2017 sullo stato della popolazione nel mondo di UNFPA (Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione) presentato il 17 ottobre 2017 a Roma (e in contemporanea in altre 100 città del mondo).
«In questo momento, secondo i calcoli di Wealth-X, la ricchezza congiunta dei 2.473 miliardari del mondo supera i 7.700 miliardi di dollari: l’equivalente del prodotto interno lordo, nel 2015, di ben quattro quinti dei paesi del globo», spiega nell’introduzione al Rapporto Babatunde Osotimehin, segretario generale delle Nazioni Unite e direttore esecutivo di UNFPA. «Questo significa che, mentre alcune famiglie privilegiate gestiscono bilanci miliardari, centinaia di milioni di altre famiglie riescono a malapena a sopravvivere con meno di 1,25 dollari al giorno».
Le disparità economiche non sono però che una parte del problema, prosegue Osotimehin: molte altre dimensioni giocano un ruolo, alimentando questo circolo vizioso. «Due aspetti tra i più cruciali sono la disuguaglianza di genere e le disparità nell’accesso alla salute e ai diritti sessuali e riproduttivi: nessuno dei due fattori basta da solo a giustificare l’intera misura della disuguaglianza nel mondo di oggi, ma entrambi ne sono componenti essenziali e richiedono un’azione molto più ampia. La domanda inevasa di pianificazione familiare, per esempio, è in generale maggiore tra le donne appartenenti al 20% delle famiglie più indigenti. Non potendo accedere alla contraccezione, le più povere, soprattutto quelle meno istruite e residenti nelle zone rurali, sono maggiormente a rischio di gravidanza indesiderata, il che può comportare problemi per la salute e ripercussioni economiche lungo tutto l’arco della vita. Non avere il potere di decidere se, quando e a che distanza avere figli – continua il direttore esecutivo di UNFPA – può condizionare e limitare l’istruzione, ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro retribuito e ridurre i potenziali guadagni».
Tanto c’è ancora da lavorare. A mo’ di esempio, basti pensare che il Global Gender Gap Index, l’indice del World Economic Forum che analizza il divario di genere nel mondo, indica che nei 142 paesi coperti dall’indagine del 2016, 68 presentavano divari maggiori rispetto all’anno precedente.
«In molti paesi in via di sviluppo – si legge nel Rapporto, la cui edizione italiana è curata da Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo) – le donne povere, che appartengono cioè al 20 per cento che si colloca più in basso nella scala del reddito, soprattutto quelle che vivono nelle aree rurali, hanno probabilità molto minori di accedere ai contraccettivi e all’assistenza medica durante la gravidanza e il parto, rispetto alle donne urbanizzate e più ricche. Tra le adolescenti, che devono affrontare ulteriori vulnerabilità a causa della giovane età, quelle provenienti da tale 20% di famiglie più povere partoriscono, in percentuale, circa tre volte più spesso delle adolescenti nel 20% di famiglie più ricche. Quelle che risiedono nelle zone rurali partoriscono due volte di più delle loro coetanee che abitano in città».
Le maggiori disuguaglianze in base alla ricchezza nell’evasione della domanda di pianificazione familiare si verificano in Africa centrale e occidentale, seguita dall’Africa orientale e meridionale. «In Africa centrale e occidentale, in 13 nazioni su 20, le donne che fanno parte del 20% di famiglie più ricche hanno il doppio delle probabilità di veder soddisfatte le proprie esigenze di contraccezione rispetto alle donne del 20% più povero».
Tra le donne che non possono accedere alla contraccezione in generale o al metodo contraccettivo prescelto si verifica la maggior percentuale di gravidanze indesiderate. «Si calcola che ogni anno nel mondo in via di sviluppo ci siano 74 milioni di gravidanze indesiderate (Guttmacher Institute e UNFPA, 2014)». «Nei paesi in via di sviluppo ci sono 12,8 milioni di adolescenti con una domanda inevasa di pianificazione familiare (UNFPA, 2016a). Le giovani, soprattutto se non sono sposate o conviventi, devono affrontare più ostacoli delle adulte per ottenere i contraccettivi a causa di leggi e misure restrittive, perché spesso non possono contare sulla riservatezza o perché la società stigmatizza i rapporti sessuali in giovane età. In diverse regioni del mondo in via di sviluppo tante ragazze sono costrette a sposarsi, di solito con uomini molto più vecchi. La differenza di età spesso fa sì che le giovani non abbiano potere decisionale sulla contraccezione. Si calcola che, nel 2015, in 156 paesi, territori e altre aree in via di sviluppo abbiano partorito 14,5 milioni di adolescenti (UNFPA, 2016a)».
Non avere il potere di decidere se e quando avere figli può condizionare e limitare l’intera vita di donne e ragazze. E anche delle loro figlie e dei loro figli. Le ripercussioni economiche infatti non incidono soltanto sulle donne direttamente interessate ma anche sulla loro prole, generando una spirale discendente che coinvolge l’intera comunità di riferimento.
Una strada alternativa – che affronti le disuguaglianze in tutte le loro dimensioni – può generare benefici significativi per la salute, lo sviluppo del capitale umano e lo sradicamento della povertà. Ed è per questo che è urgente intraprenderla il prima possibile.
Ingrid Colanicchia Micromega 19 ottobre 2017
http://temi.repubblica.it/micromega-online/nell%e2%80%99epoca-della-disuguaglianza-a-rischio-salute-e-diritti-riproduttivi-delle-donne
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SESSUOLOGIA
Cosa rischia un minorenne per i rapporti sessuali col coetaneo?
Se sei minorenne vai in galera se hai rapporti sessuali con un coetaneo o vanno in prigione i genitori? Si chiama «età del consenso» e segna il momento in cui il ragazzo o la ragazza possono liberamente decidere di avere rapporti sessuali con chiunque. In Italia l’età del consenso è 14 anni. Quindi a partire da 14 anni si può consumare un rapporto con un coetaneo o con un maggiorenne. La persona, anche molto più grande, che compie un atto sessuale con un giovane o una giovane che ha almeno 14 anni non commette alcun tipo di reato e non può essere processato.
L’unica eccezione è prevista quando il rapporto sessuale viene consumato con il genitore anche adottivo, il tutore o altra persona con cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza; in questo caso l’età del consenso è 16 anni e non più 14. Detto ciò vediamo che rischia il minorenne per rapporti sessuali con un coetaneo.
Come detto, se i due minorenni hanno almeno 14 anni, sono liberi di avere rapporti sessuali e nessuno dei due rischia nulla, né i loro genitori. Le cose non cambiano se, all’esito del rapporto sessuale, la ragazza resta incinta. Visto che l’età del consenso è di 14 anni, i genitori della giovane in gravidanza non possono denunciare il padre del bambino. In ogni caso, per il matrimonio sono necessari i 16 anni e il procedimento di emancipazione.
www.laleggepertutti.it/170970_a-quale-eta-si-possono-avere-rapporti-sessuali
Che succede, però, se almeno uno dei due giovani ha meno di 14 anni? Cosa rischia l’altro se anch’egli ha meno di 14 anni e cosa rischia invece se ne ha di più?
Bisogna distinguere:
-
Se il più giovane ha 13 anni, non c’è reato a condizione che l’altro non abbia più di 16 anni. Quindi è reato quando si consuma un rapporto sessuale tra un ragazzo che ha 13 anni e uno che ne ha 17 o più (in pratica non ci deve essere una differenza di età superiore a tre anni). Invece non è reato se il rapporto sessuale è tra due tredicenni, o tra un tredicenne e un quattordicenne o un quindicenne;
-
Se il più giovane ha meno di 13 anni è sempre reato. A risponderne saranno i genitori per non aver educato correttamente il figlio.
Attenzione: rientra nel concetto di rapporto sessuale anche quello omosessuale; quindi i rapporti con minorenni dello stesso sesso rientrano nei predetti divieti.
Età del giovane |
Età del meno giovane |
Reato? |
14 |
14 o più grande |
No |
14 |
18 o più grande |
No |
13 |
14 |
No |
13 |
15 |
No |
13 |
16 |
No |
13 |
17 |
Si: la forbice d’età è superiore a 3 anni |
12 |
14 o più grande |
Si |
14,15, 16 o 17 |
Da 14 anni in su |
Si se in cambio del rapporto sessuale è promesso denaro o altre utilità |
Redazione La legge per tutti 17 ottobre 2017
www.laleggepertutti.it/179255_cosa-rischia-un-minorenne-per-i-rapporti-sessuali-col-coetaneo
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VIOLENZA
Reato sessuale se la moglie non vuole avere rapporti.
Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 48335, 20 ottobre 2017
Anche in una coppia sposata è possibile il reato sessuale se la moglie non vuole avere rapporti con il marito e lui invece la obbliga. È vero: tra gli obblighi di assistenza morale previsti dal codice civile a carico dei due coniugi vi è anche quello di avere rapporti sessuali. Chi vi si sottrae senza una valida ragione può essere responsabile della separazione: ottiene cioè il cosiddetto «addebito» che comporta la perdita del mantenimento. Tuttavia, questo non consente a uno dei due coniugi di obbligare l’altro. La costrizione fisica, infatti, integra il reato di violenza sessuale. Non conta il fatto che la coppia sia sposata e che uno dei due stia commettendo un illecito nel sottrarsi al fare l’amore. È quanto chiarisce la Cassazione con una recente sentenza. Secondo la Corte è quindi possibile la violenza sessuale del marito sulla moglie.
Sulle modalità con cui si può attuare la violenza del marito a carico della moglie le strade sono infinite. Non c’è solo la coercizione o la violenza fisica, ma anche l’approfittarsi dell’altro mentre dorme (ad esempio toccando le zone erogene) o minacciandolo che, in caso di mancata accondiscendenza, ne subirà le conseguenze. Insomma, il rapporto sessuale deve essere libero, senza cioè coercizioni di carattere fisico o psicologico. A integrare il reato risulta sufficiente qualsiasi costrizione sul piano psico-fisico, mentre non rileva che fra le parti esista un rapporto di coppia, all’interno del matrimonio o di fatto. Anche la minaccia o l’intimidazione, quindi, possono risultare idonee a integrare gli estremi del delitto. La manifestazione del dissenso può anche intervenire durante il rapporto.
Non solo. A rientrare nel concetto di «violenza sessuale» non è solo la consumazione integrale del rapporto, ma anche i toccamenti, i baci sulla bocca o sul collo, la mano nelle zone erogene (le gambe, il seno, i glutei).
Naturalmente, per aversi violenza sessuale il principale presupposto deve essere il dissenso del partner, dissenso che può essere espresso anche in forma tacita, tramite comportamenti. Così la moglie che si sottrae puntualmente ai rapporti col marito, manifesta il proprio dissenso con i gesti. Non c’è bisogno di atti scritti o di una comunicazione formale. Il «non volere» si può desumere dal contesto, dalla rottura del legame tra i coniugi, dal clima di lite e tensione, dalla lontananza, da una situazione di sostanziale allontanamento tale da essere considerata l’anticamera della separazione.
Nella sentenza in commento, i giudici supremi chiariscono hanno ritenuto giusta la condanna per violenza sessuale nei confronti del marito che si approfitta del fatto che la moglie dorme per toccarla nelle parti intime, visto che la donna da tempo non vuole più avere rapporti. Il reato scatta per il fatto che l’uomo mette le mani mezzo alle gambe della donna: la condotta investe senz’altro una zona erogena della partner.
Redazione La legge per tutti 22 ottobre 2017
www.laleggepertutti.it/179998_possibile-la-violenza-sessuale-del-marito-sulla-moglie
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