NewsUCIPEM n. 634 – 29 gennaio 2017

NewsUCIPEM n. 634 – 29 gennaio 2017

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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02 ABORTO VOLONTARIO Il padre può opporsi alla decisione della madre di abortire?

02 ADOZIONI INTERNAZIONALIPubblico=statale=buono: una equivalenza impropria e superata.

03 AFFIDO ESCLUSIVO Conflittualità tra i genitori.

03 35AMORIS LÆTITIA Una bussola nella babele di Amoris lætitia.

La radice della insofferenza verso Amoris lætitia.

A proposito di «Amoris lætitia»: aria buona dove non è scontata

06 ANONIMATO DEL PARTO Parto anonimo: possibile la ricerca della madre.

Lecito cercare la madre ai figli non riconosciuti.

07 CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF Newsletter n. 3/2017, 25 gennaio 2017.

09 CHIESA CATTOLICA Un magistero capace di autocritica: dallo “stand by” al “play”.

11 CITTADINANZA Acquisita se la separazione è di fatto.

11 CONSULTORI FAMILIARI Don Edoardo Algeri eletto nuovo presidente della CFC.

12 CONSULTORI FAMILIARI UCIPEMFrosinone. Seminario “Emozioniamo il conflitto”.

Parma. Un adolescente tra noi: mamma e papà si separano.

12 CONVIVENZE Cosa conviene fare?

14 DALLA NAVATAIV Domenica del Tempo ordinario – Anno A – 29 gennaio 2017.

Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose (BI).

16 DIVORZIO CEDU: il divorzio? Non è un diritto

16 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI Famiglia, freno tirato sui decreti attuativi.

Banche, imprenditoria, società: la famiglia non è il malato è la cura.

17 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA L’ermeneutica della persona in Papa Francesco

20 GESTAZIONE PER ALTRI Allontanamento conforme a CEDU

21 OBIEZIONE DI COSCIENZA Obiezione e responsabilità penale del medico.

Obiezione e IVG: la prevalenza di un’interpretazione restrittiva.

24 ONLUS -NON PROFITDa quest’anno cambiano le regole del 5 per mille!

25 PASTORALE La Chiesa e i gay: «Così accogliamo chi chiede aiuto»

26 SEPARAZIONE 1 coppia su 5 in Italia separata in casa, per non finire sul lastrico

27 SINODO DEI VESCOVI I giovani, la fede e il discernimento vocazionale.

27 TRIBUNALI ECCLESIASTICI Coccopalmerio un anno dalla pubblicazione di Mitis iudex

29 UNIONI CIVILIIl D.Lgs su norme di diritto internazionale per le unioni civili.

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ABORTO VOLONTARIO

Il padre può opporsi alla decisione della madre di abortire?

La legge 194\1978 individua nella donna l’unica titolare del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza. Domanda: “Il padre può opporsi al diritto della madre di abortire?”

Risposta: “La scelta ultima di abortire resta, nel nostro ordinamento, una prerogativa della donna, senza che ad essa il padre del concepito possa opporsi. L’articolo 5 della legge numero 194/1978, infatti, prevede (ai commi 1 e 2) la presenza dell’uomo nel consultorio, nella struttura sanitaria o presso il medico di fiducia ai quali si rivolge la madre, solo nel caso in cui quest’ultima vi acconsenta.

{Si dovrebbe prevedere che di norma il padre sia presente, anche per responsabilizzarlo, eccetto i casi, da documentare, della opposizione della madre. Tutto ricade sempre sulla donna. Ndr} Quindi, pur riconoscendo l’importanza del padre del concepito nel percorso che porta una donna alla scelta di interrompere la gravidanza, tale norma non permette allo stesso di ostacolare un simile percorso e lascia l’ultima parola alla madre.

In passato non è mancato chi ha tentato di far valere l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5 nella parte in cui attribuisce alla donna il diritto di decidere in via esclusiva circa la prosecuzione o l’interruzione di una gravidanza, ma con la sentenza (Corte di cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 11094, 5 novembre 1998) la Corte, interessata della questione, ha ritenuto che essa, oltre che irrilevante nel caso di specie, è infondata.

Ancora nel 2006 l’impossibilità per un uomo di opporsi alla decisione della donna di abortire è balzata agli onori della cronaca a seguito di una decisione del Tribunale di Monza che ha respinto la richiesta di un uomo di essere risarcito dalla moglie per aver questa abortito senza coinvolgerlo. Nel caso di specie, infatti, non si è potuto far altro che guardare a quanto stabilito dalla legge 194\1978: la donna è l’unica titolare del diritto di abortire ed essa, nel rispetto dei limiti di legge, è libera di autodeterminarsi senza che possa essere attribuito un peso in senso contrario all’opposizione o al diritto alla paternità del padre del concepito”.

News StudioCataldi.it 26 Gennaio 2017

www.studiocataldi.it/articoli/24833-il-padre-puo-opporsi-alla-decisione-della-madre-di-abortire.asp

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Pubblico=statale=buono: una rigida equivalenza impropria e superata

Pensavamo fosse scontato, ma pare necessario ritornare sul tema. Ancora una volta, forse tentati dalla cronaca o sollecitati dall’occasione, qualcuno si è cimentato nel riproporre e riabilitare una visione, pensavamo rottamata, di “pubblico” come riferibile a servizi esclusivamente assicurati o erogati dallo Stato (o dagli altri enti che costituiscono la nostra Repubblica) e quindi automaticamente – magicamente – in grado di essere efficienti, trasparenti, capaci, accessibili.

Così per il sistema delle adozioni internazionali si ritiene che la sola struttura statale o regionale sia qualificabile come “pubblica” mentre gli Enti, non a gestione statale, i cosiddetti “privati”, finiscono per essere frettolosamente tutti liquidati come incapaci, animati da subdoli interessi, dediti al solo profitto economico, lestofanti, ladri, truffaldini.

Assomiglia, per certi versi, alla tribolata storia del Sistema Nazionale di Istruzione italiano (L. 62/2000) che, con buona pace del lungimirante ministro L. Berlinguer, fatica ancora oggi ad essere capito e rispettato: un sistema pubblico che si dovrebbe comprendere alla luce del principio di sussidiarietà e sul fondamentale riconoscimento della parità dei diversi soggetti che concorrono ad assicurare un servizio di eccellenza e accessibile, nel rispetto della libertà di tutti.

Certo deve essere superata l’obsoleta, poiché smentita dalla storia, visione che contrappone statale a privato ed etichetta quest’ultimo, spesso strumentalmente, come incapace, spesso in conflitto di interesse, quasi sinonimo di malavitoso.

Infatti sono chiari sia il profilo del Sistema d’istruzione, sia quello del sistema sanitario: spesso le scuole paritarie e gli ospedali non statali convenzionati (i.e. Humanitas, IEO, HSR, per restare solo nel milanese…), erogano un pubblico servizio in modo eccellente, con alta professionalità e competenza; le inadempienze, gli sprechi e le criticità sono purtroppo distribuite ovunque e gli enti a gestione statale, è triste doverlo ricordare, spesso primeggiano in tal senso e sono protagonisti da non imitare.

Anche per il Sistema italiano delle Adozioni internazionali, il legislatore ha inteso positivamente intraprendere questa buona strada, individuando negli Enti autorizzati quei soggetti titolati (attrezzati, preparati e competenti), ad erogare un pubblico servizio agli aspiranti genitori adottivi, ai minori in stato di adottabilità e alle famiglie adottive nell’articolato iter adottivo che vede coinvolti anche i Servizi territoriali ed i Tribunali per i minorenni, oltre che le Autorità dei Paesi di origine dei minori e l’Autorità centrale italiana (CAI).

Individuare nei soli Enti Autorizzati – quelli impropriamente chiamati “non pubblici” poiché non a gestione statale o regionale – la causa dell’attuale disastrosa situazione delle adozioni internazionali in Italia e sollecitare una radicale riforma solo degli Enti stessi, suggerendo come modello una sola tipologia di Ente (a gestione regionale o statale), è operazione ideologica e certo da stigmatizzare.

Certo chi truffa, sbaglia o agisce illegalmente o senza rispettare le norme deve essere denunciato e indagato, ma onestà intellettuale suggerirebbe di porre anche in critica evidenza, proponendo sostenibili soluzioni e coerenti opzioni, le drammatiche condizioni in cui versa, ben oltre le pubbliche menzogne e le insinuazioni di comodo, la “sicuramente statale e governativa” Commissione per le Adozioni Internazionali (trasformata da organo collegiale a dispotico impero individuale), per non parlare delle “fatiche”, delle inadempienze nonché delle creative soluzioni cui sono sottoposti molti dei Servizi territoriali e dei Tribunali per i minorenni.

Il sistema italiano per le Adozioni Internazionali è stato concepito con un profilo ancora assolutamente valido e da custodire, non da demonizzare e smontare: certo può e deve essere migliorato, ma occorre che tutti i soggetti coinvolti (enti autorizzati, servizi territoriali, tribunali e CAI) oltre ad essere verificati e controllati, nessuno escluso (come ogni altro pubblico servizio), siano posti nelle condizioni di poter svolgere le proprie attività con eccellenza, trasparenza, accessibilità, professionalità, avendo a cuore l’esclusivo interesse dei bambini in stato di abbandono da un lato e delle famiglie disponibili ad accoglierli dall’altro.

Ogni organismo istituzionale o ente chiamato ad assicurare un pubblico servizio non può essere oggetto di sequestro politico o gestito in modo “creativo” e certo non tramite attività illecite (andrebbe senza titubanze perseguito): per le stupende famiglie delle adozioni internazionali le nostre attuali istituzioni non sembrano essere particolarmente sensibili (forse preferiscono un banale “tanto peggio, tanto meglio”) e anche certa stampa pare sicuramente miope se non “addomesticata”.

Gianmario Fogliazza (Centro Studi di Ai.Bi.) 27 gennaio 2017

www.aibi.it/ita/adozione-internazionale-pubblicostatalebuono-una-rigida-equivalenza-impropria-e-superata

{Il discorso vale anche per i consultori familiari delle AA.SS.LL. e quelli di organizzazioni private. Ndr}

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AFFIDO ESCLUSIVO

Conflittualità tra i genitori.

Anche dopo il divorzio e anche la sua figlia ha 12 anni può essere confermato il limite alla responsabilità dei genitori e l’affidamento al servizio sociale del Comune, con collocamento presso la madre, se la conflittualità tra i genitori resta immutata nel tempo.

Suprema Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 27258, 28 dicembre 2016.

https://renatodisa.com/2017/01/27/corte-di-cassazione-sezione-vi-civile-ordinanza-28-dicembre-2016-n-27258

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AMORIS LÆTITIA

Una bussola nella babele di Amoris lætitia

Un “Vademecum” come questo proprio ci voleva, per indicare la strada nella babele delle opposte interpretazioni di “Amoris laetitia” e soprattutto del suo controverso capitolo ottavo, quello sulla comunione ai divorziati risposati: J. Granados, St. Kampowski, J.J. Pérez-Soba, Una bussola nella babele di Amoris lætitia. Accompagnare, discernere, integrare. Vademecum per una nuova pastorale familiare”, Cantagalli, Siena, 2016, pp. 176, euro 13.

Chiaro, argomentato, autorevole, questo “Vademecum” è stato pensato e scritto proprio in quell’istituto pontificio che Giovanni Paolo II ha voluto creare a sostegno della pastorale della famiglia, con sede centrale a Roma nella Pontificia Università Lateranense, con sedi periferiche in tutto il mondo e con primo suo animatore e preside Carlo Caffarra, poi arcivescovo di Bologna e cardinale.

Ne sono autori tre docenti di questo istituto: gli spagnoli José Granados e Juan-José Pérez-Soba, teologi, e il tedesco Stephan Kampowski, filosofo.

La versione italiana del libro, edita da Cantagalli, è uscita in questi giorni. E così la spagnola. Quella tedesca, pubblicata da Christiana. Così Livio Melina, preside fino a pochi mesi fa del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, ha presentato i contenuti di questo “Vademecum” sulla rivista “Tempi”: “Amoris lætitia“. Una interpretazione legittima, coerente, feconda.

Viene riprodotta la parte centrale della sua presentazione, quella che va al cuore della controversia.

(…) Sandro Magister Settimo cielo 24 gennaio 2017

Nemmeno sant’Ignazio qui ammetteva eccezioni. Livio Melina

L’integrazione in una comunione piena di quelle persone che vivono segnate da un amore smarrito (AL 291) non può in nessun modo essere confusa con una mera inclusione sociale. Se si confonde la dinamica ecclesiale, di cui parla “Amoris lætitia ” che la intende come partecipazione al mistero di comunione, con una logica sociologica, allora si tenderà a concepire ogni ostacolo all’inclusione come un’ingiusta discriminazione che vìola diritti fondamentali e si cercherà la soluzione non nel richiamo e nell’aiuto alla conversione, ma nel cambiamento delle norme ingiuste.

L’integrazione dovrà mirare ad una rigenerazione delle persone, perché, come nel caso dei divorziati entrati in nuove unioni, si ristabilisca una condotta di vita in armonia col vincolo indissolubile del matrimonio validamente celebrato. Per questo non si dovrà mai parlare di «situazioni irreversibili».

Contro l’idea individualistica e spiritualistica di una “chiesa invisibile” in cui tutto è risolto nel foro insindacabile della coscienza privata, gli autori richiamano i criteri oggettivi di appartenenza al Corpo di Cristo: la confessione pubblica della stessa fede, la comunione visibile con la Chiesa, la condotta di vita in armonia con i sacramenti.

In tal senso ciò che nei divorziati entrati in una seconda unione si oppone alla piena integrazione, anche eucaristica, non è tanto il “fallimento” del matrimonio validamente celebrato, quanto la seconda unione stabilita in contraddizione col vincolo sacramentale indissolubile. […] Proprio per questo il proposito serio di uscire dalla situazione obiettivamente contraddittoria con il vincolo coniugale validamente contratto è condizione necessaria per la validità dell’assoluzione sacramentale.

Il foro sacramentale infatti non può essere la semplice legittimazione della coscienza individuale, magari erronea, ma aiuto alla conversione per una autentica integrazione al Corpo visibile della Chiesa, secondo le esigenze di coerenza tra proclamazione della fede e condotta di vita.

In tal senso vengono anche proposte delle spiegazioni delle note 336 e 351, rispettivamente dei nn. 300 e 305 di AL, che ne mostrano la continuità col magistero precedente della Chiesa, in particolare di “Familiaris consortio” 84 e di “Sacramentum Caritatis” 29. È questa la novità che il documento di papa Francesco porta alla pastorale ecclesiale: la misericordia non è semplice compassione emotiva, né può confondersi con una tolleranza complice del male, ma è offerta – sempre gratuitamente e generosamente proposta alla libertà – di una possibilità di ritorno a Dio, che ha la natura di un itinerario sacramentale ed ecclesiale.

Quanto al discernimento, esso non può avere come oggetto né lo stato di grazia delle persone, su cui la Chiesa sa di dover lasciare il giudizio solo a Dio (cfr. Concilio di Trento, DH 1534), né può vertere sulla possibilità di osservare i comandamenti di Dio, per i quali sempre è donata la grazia sufficiente a chi la chiede (Concilio di Trento, DH 1536). Il giudizio della Chiesa di non ammettere all’eucaristia i divorziati risposati civilmente o conviventi non equivale al giudizio che essi vivano in peccato mortale: è piuttosto un giudizio sul loro stato di vita, che è in contraddizione oggettiva con il mistero dell’unione fedele tra Cristo e la sua Chiesa.

Contro ogni individualismo e spiritualismo, la tradizione magisteriale della Chiesa ha proclamato la realtà pubblica e sacramentale del matrimonio e dell’eucaristia: per accedervi il non aver coscienza di peccati mortali è condizione soggettiva necessaria, ma non sufficiente.

Gli autori ricordano opportunamente come sant’Ignazio di Loyola, maestro del discernimento degli spiriti, affermasse che su due cose non poteva esserci discernimento: sulla possibilità di compiere atti cattivi, già condannati da comandamenti di Dio, o sulla fedeltà ad una scelta di vita già effettuata e suggellata da un sacramento o da una promessa pubblica. E il comandamento di «non commettere adulterio» non è mai stato considerato dalla Chiesa un consiglio, ma un precetto di Dio che non ammette eccezioni.

L’oggetto del discernimento può dunque riguardare tre fattori della vita.

  1. In primo luogo il proprio desiderio rispetto all’eucaristia: desidero veramente la comunione con Cristo, da cui è inseparabile l’impegno di una vita conforme al suo insegnamento, o piuttosto desidero qualcos’altro? L’eucaristia infatti non è mai per nessuno un diritto ed essendo un sacramento della Chiesa non è una mera questione privata “tra me e Gesù”.

  2. In secondo luogo, oggetto del discernimento è il vincolo matrimoniale, che dev’essere anch’esso oggetto di una dichiarazione giuridica pubblica, riguardando un atto sacramentale di unione tra due persone.

  3. Infine e soprattutto il discernimento auspicato da “Amoris lætitia” deve riguardare i passi concreti per un cammino di ritorno ad una forma di vita conforme al Vangelo: la riconciliazione è possibile?

Difendendo il vincolo la Chiesa non solo è fedele alla parola di Gesù, ma anche è paladina dei più deboli e indifesi. La verifica può riguardare anche l’obbligo di lasciare l’unione non coniugale, cui ci si è impegnati, e se sussistano le «ragioni gravi» per eventualmente restarvi. Infine il discernimento può riguardare i modi per giungere a vivere l’astinenza e per riprendersi dopo eventuali cadute.

L’obiettivo del discernimento non è perciò quello di aggirare le leggi con eccezioni, ma di trovare i modi di un cammino di conversione realistico, con l’aiuto della grazia di Dio.

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/01/24/una-bussola-nella-babele-di-amoris-laetitia

La radice della insofferenza verso Amoris lætitia.

Una teologia intollerante e sorprendentemente semplificatrice.

Tutto è cominciato per caso. L’altra sera, alla fine di una conferenza a Fossò, un amico, mentre parto per tornare a casa, mi guarda e mi dice, mostrandomi un libro: “lo conosci?”. Do una occhiata rapida e vedo l’autore, Luigi Sartori! “No, questo libro non lo conosco”. Lui me lo allunga e dice: “Un regalo, a 10 anni dalla morte di Don Luigi”. “Il Dio di tutti” è un bel volumetto, con una intervista e alcuni saggi degli anni 80 e 90, del grande teologo italiano Luigi Sartori. E’ stato uno dei fari della mia formazione. Lo avevo conosciuto a Pescara, nel 1987, poi era stato mio professore a Padova, nel biennio 1988-1990. E poi lo avevo seguito per tanti anni, a Torreglia, a Trento, a Urbino, anche nel tempo della malattia, visitandolo al Seminario di Padova, nella sua stanza piena di libri, dove lui spuntava sorridente e scattante, tra pile e pile di volumi.

Questo nuovo incontro, dopo 10 anni dalla morte, mi ha commosso. E ho ritrovato, sulla sua pagina, tutta intera la sua forza, la sua lucidità, la sua verve. Ma poi, in una nota, ho trovato la traccia di un dibattito che avevo dimenticato. La storia della protesta dei teologi italiani, contro la involuzione del magistero, alla fine degli anni 80. E qui sono rimasto colpito da una sorprendente coincidenza.

In un articolo sul “Regno” del 1989, firmato dal grande moralista Bernhard Haering, si denunciava con forza il sorgere di una “teologia intollerante”, che veniva ricondotta, almeno in Italia, alla figura del giovane Carlo Caffarra. La sorpresa per me è stata grande. Nelle righe di Haering trovavo descritte, già 28 anni fa, le medesime dinamiche di oggi, ma capovolte e – provvidenzialmente – sovvertite.

Allora Caffarra poteva determinare “la posizione del magistero” in materia familiare e sessuale, con un massimalismo e una intransigenza del tutto unilaterali. Oggi Caffarra non ha cambiato posizione, ma si trova scavalcato da un Magistero serio, solerte, appassionato e fedele alla grande tradizione della Chiesa, alla sua meravigliosa complicatezza e alla sua sorprendente ricchezza. Il Magistero sa cambiare, Caffarra no.

Vorrei citare solo alcune delle parole di Haering di allora. Egli inizia dall’ “impressionante terremoto provocato nella Chiesa da un monsignore”. Questo monsignore è Carlo Caffarra, la cui “teologia è intollerante e sorprendentemente semplificatrice”. Periculum latet in generalibus. E l’impostazione “teoretica” di Caffarra introduce un massimalismo strutturale nella analisi etica e impedisce qualsiasi forma di “convenienza”, di “epikeia”, di “discernimento”. Con una intelligenza dell’etico puramente formale e fredda, egli risolve drasticamente – disumanamente – tutte le questioni di etica sessuale e matrimoniale.

Questa era la diagnosi lucidissima con cui Haering chiedeva una mediazione papale ed episcopale, che ponesse un freno a questo piano inclinato. Abbiamo aspettato quasi 30 anni. Il vero punto di arresto di questo disastro massimalistico – che tanto ha influenzato soprattutto il lavoro dell’Istituto Giovanni Paolo II – è rappresentato da “Amoris lætitia”, che permette di superare una morale fredda da scrivania e recuperare il calore di una lettura pastorale della tradizione morale cristiana.

Come si dice solennemente al n.312 di AL: “Questo ci fornisce un quadro e un clima che ci impedisce di sviluppare una morale fredda da scrivania nel trattare i temi più delicati e ci colloca piuttosto nel contesto di un discernimento pastorale carico di amore misericordioso, che si dispone sempre a comprendere, a perdonare, ad accompagnare, a sperare, e soprattutto a integrare.”

Caffarra, ai suoi tempi, ha rappresentato una rottura, grave e pesante, rispetto a questa antica tradizione teologica e morale. Una rottura e una forzatura di cui porteremo ancora a lungo i segni e le cicatrici. Grazie ad Amoris lætitia possiamo ritrovare una continuità con la grande tradizione cattolica, nella quale riconosciamo finalmente un magistero che non vuol essere la difesa arcigna e violenta di una “ontologia metafisica”, ma un autorevole e prudente “servizio alla fede dell’uomo e della donna”. I dubbi espressi da mons. Caffarra contro AL sono in realtà la fine di un mondo. Forse la fine di un incubo. Sicuramente la fine di un delirio.

Quel che è certo è che Bernhard Haering e Luigi Sartori – allora vittime delle proscrizioni curiali – ora sorridono dall’alto, magna cum laetitia.

Andrea Grillo blog Come se non 25 gennaio 2017

www.cittadellaeditrice.com/munera/una-teologia-intollerante-e-sorprendentemente-semplificatrice-la-radice-della-insofferenza-verso-amoris-laetitia

 

A proposito di «Amoris lætitia»: aria buona dove non è scontata

Ieri sul “Foglio” (p. 2): «È vero, la dottrina non basta, ma anche il bergoglismo serve a poco». Di solito lì l’aria è diversa. Non ti piace quel «bergoglismo» – solita “aria” – ma nel testo Luca Diotallevi riesce a scrivere cose da quelle parti scomode.

www.ilfoglio.it/chiesa/2017/01/26/news/e-vero-la-dottrina-non-basta-ma-anche-il-bergoglismo-serve-a-poco-116978

Per esempio che «la verità cristiana non è una serie di formule cristallizzate, ma una vita che si snoda nel tempo, anche con apparenti contraddizioni». E cita sant’Agostino: «Dio può chiedere oggi cose che ieri vietava». Dura, per chi pensa che verità e concetto siano sola realtà, mentre questa è anche vita che scorre diversa nell’unica luce di una Parola (P maiuscola!) che nel tempo può essere via via più o meno compresa e praticata. E così è «Beato chi ascolta la Parola di Dio, e la mette in pratica!» (Lc. 11, 28). Leggi e ricordi papa Giovanni e il suo Gaudet Mater Ecclesia alla sorgente del Vaticano II (11/10/1962): non cambia la Parola. Siamo noi che la comprendiamo meglio. E Diotallevi – merito suo – arriva a presentare la chiave per superare l’apparente contraddizione: «L’orizzonte è quello del discernimento, non quello delle deduzioni». Perfetto!

Ci pensi chi afferma che papa Francesco «non è chiaro», avanzando dubbi dovuti solo al rifiuto del discernimento. Proprio questo è, chiarissimamente, il portato principale di Amoris lætitia! L’importante è leggere tutto, e bene, senza fermarsi e far finta che non ci sia altro che qualcosa che non suona la musica cui per tanto tempo qualcuno è stato abituato. “Discernimento” ignaziano? Sì, ma anche “paolino” e originale – unico nella Parola – per le condizioni di accesso all’Eucarestia: «Ogni uomo esamini – dokimazéto: imperativo proprio del verbo “discernere” – se stesso e così veda di mangiare quel pane e bere quel calice!» (I Cor. 11, 28). Aria buona.

Gianni Gennari Avvenire 28 gennaio 2017

www.avvenire.it/rubriche/pagine/a-proposito-di-amoris-laetitia-aria-buona-dove-non-e-scontata

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ANONIMATO DEL PARTO

Parto anonimo: possibile la ricerca della madre.

Corte di Cassazione – Sezioni unite civili, Sentenza n. 1946, 25 gennaio 2017

In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in séguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Sentenzanews.ilcaso.it/libreriaFile/cass%201946-2017.pdf

Il Caso.it – News 19 del 26 gennaio 2017

http://news.ilcaso.it/news_2369?https://news.ilcaso.it/?utm_source=newsletter&utm_campaign=solo%20news&utm_medium=email

 

Lecito cercare la madre ai figli non riconosciuti.

Sentenza della Cassazione sul riconoscimento biologico delle origini. La legge, approvata alla Camera il 18 giugno 2015, è ferma in commissione Giustizia del Senato

Conoscere le proprie origini, scoprire il volto della propria madre e, possibilmente, del padre, fare luce nel buio della memoria per rimettere a posto i tasselli dell’identità personale, è un diritto che va riconosciuto ad ogni persona. In particolare a quei figli maggiorenni non riconosciuti alla nascita e la cui madre ha preferito mantenere l’anonimato. Ieri la Cassazione ha pronunciato sul tema la parola definitiva. Dopo aver compiuto 25 anni, il figlio che intende ritrovare la madre per verificare se, dopo tanto tempo la donna intenda tornare sulle proprie decisioni e cancellare il veto legittimamente posto alla nascita, può rivolgersi al competente Tribunale dei minorenni e veder accolta la propria richiesta.

Una sentenza a Sezioni unite – vista «la particolare rilevanza della questione» – che ancora una volta scavalca il Parlamento e indirizza il legislatore. La legge sul riconoscimento biologico delle origini, dopo una lungo confronto tra posizioni culturali apparentemente inconciliabili – contrarie in particolare alcune associazioni di famiglie adottive – è stata approvata dalla Camera il 18 giugno 2015. Ma, anche per quel primo passaggio parlamentare, era stata necessaria una spinta della magistratura. Nel novembre 2013 era stata infatti la Consulta a dichiarare incostituzionale l’articolo 28, comma 7, della legge 184, quella che garantisce il parto in anonimato. E la Consulta, a sua volta, aveva ripreso un pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2012, che aveva sollecitato l’Italia a rivedere i diritti di tutela delle cosiddette “madri segrete”.

Oggi la legge italiana – che prevede comunque “procedure di interpello” con modalità impronte alla riservatezza e al rispetto della volontà della madre a cui spetta in ogni caso l’ultima parola – è impantanata in commissione Giustizia del Senato e, per quanto già calendarizzata, non riesce a decollare. La relatrice, Monica Cirinnà, ha promesso tempi celeri per la discussione e per l’approvazione. Ora, la sentenza della Cassazione, traccia una strada definitiva. I supremi giudici sono intervenuti «nel perdurante silenzio del legislatore», su una sentenza della Corte d’appello di Milano che aveva negato la possibilità di interpellare una madre. In attesa dell’approvazione definitiva della legge, nonostante la norma votata alla Camera non si prestasse ad equivoci, i tribunali italiani erano divisi. In particolare – come si legge nella sentenza depositata – del tutto contrari alla possibilità di verificare la volontà delle madri, i giudici minorili di Milano, Catania, Brescia, Salerno e Bari. Favorevoli invece Trieste, Trento, Torino, Firenze, Roma, Napoli, Venezia, Bologna, Taranto, oltre alla Corte d’appello di Catania. Anzi, tutti questi tribunali hanno già avviato procedure di verifica che hanno permesso ad alcune decine di persone di ritrovare e riabbracciare la propria madre e, in alcuni casi, entrambi i genitori.

«Ma si tratta di casi sporadici – fa notare Anna Arecchia, presidente dell’Associazione per il riconoscimento delle origini – perché l’incertezza della legge e le diverse posizioni dei tribunali, scoraggiavano la maggior parte di chi era intenzionato a ricomporre i cocci della propria storia».

Dal dopoguerra a oggi le persone non riconosciute alla nascita sono circa 400mila di cui, secondo le stime del Comitato, almeno il 10 % potenzialmente interessato a ricostruire il proprio passato. D’ora in poi sarà possibile.

Luciano Moia Avvenire 25 gennaio 2017

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/lecito-cercare-la-madre-ai-figli-non-riconosciuti

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CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF

Newsletter n. 3/2017, 25 gennaio 2017.

Il volto familiare della povertà in Italia. Dai dati ISTAT al segnale di allarme del card. Bagnasco. Da diversi anni i dati ISTAT evidenziano il crescere della povertà in Italia, e soprattutto sottolineano che, oltre ad una rinnovata emergenza povertà nel Sud, le famiglie più esposte all’impoverimento sono le famiglie numerose, con tre o più figli, soprattutto se ci sono tre figli minori. La presenza di anziani nel nucleo sembra invece proteggere dalla povertà economica. Ecco qualche numero, sinteticamente riportato dal Presidente dell’ISTAT. Stefano Alleva, in una audizione al Senato, il 9 novembre 2016, di fronte alla 11.a commissione Lavoro e affari sociali, che sta discutendo le proposte di legge di “Contrasto alla povertà e riordino delle prestazioni sociali”. www.istat.it/it/archivio/povert%C3%A0

“Nel 2015, 1 milione 582 mila famiglie residenti in Italia (circa il 6% del totale) sono stimate in condizione di povertà assoluta attraverso l’indagine sulle spese per consumi: si tratta di 4 milioni e 598 mila individui, il 7,6% dell’intera popolazione. […] Il fenomeno appare più diffuso nel Mezzogiorno, dove si stima essere in condizioni di povertà il 9,1% delle famiglie residenti nell’area (circa 744 mila famiglie). In queste famiglie vivono oltre 2 milioni di individui poveri: più del 45% del totale dei poveri assoluti in Italia. In Italia, livelli elevati di povertà assoluta si osservano anche per le famiglie con cinque o più componenti (17,2%), tra le coppie con tre o più figli (13,3%), e per le famiglie con membri aggregati (13,6%); l’incidenza sale a oltre il 18% se in famiglia ci sono almeno tre figli minori mentre scende sensibilmente nelle famiglie di e con anziani: la stima è del 3,4% tra le famiglie con almeno due anziani”.

Si conferma una oggettivasituazione di “squilibrio generazionale“, dove le giovani generazioni (famiglie con figli minori) patiscono una condizione di oggettiva vulnerabilità economica, che rende difficile progettare progetti di vita personale, lavorativa e familiare. Servono con urgenza politiche sociali “family friendly”, a misura di famiglia, per contrastare la crisi di futuro del Paese. Acquistano pertanto un peso particolare, in questa situazione, le parole di ieri del Card. Bagnasco, che in una insolitamente breve Prolusione al Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana ha comunque voluto ribadire, tra le priorità di questo momento storico, che“[…] stentiamo a capire come mai tutti i provvedimenti a favore della famiglia – che potrebbero non solo alleviare le sofferenze, ma anche aiutare il Paese a ripartire – facciano così tanta fatica a essere realmente presi in carico e portati a effettivo compimento. […] Per questo sembra necessario prestare la massima attenzione alla legge delega di introduzione del Reddito d’Inclusione (REI) e alla predisposizione del Piano nazionale contro la povertà. La crisi economica continua a pesare in maniera significativa sulla nostra gente, specialmente sui giovani e sul Meridione“. Testo ufficiale

www.chiesacattolica.it/pls/cci_new_v3/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=87417&rifi=guest&rifp=guest

Rapporto BES 2016. Il Benessere Equo e Sostenibile in Italia.Giunto ormai alla sua quarta edizione, il Rapporto Bes offre un quadro integrato dei principali fenomeni economici, sociali e ambientali che hanno caratterizzato l’evoluzione recente del nostro Paese attraverso l’analisi di un ampio set di indicatori, suddivisi in 12 domini. In particolare in questa edizione del Rapporto sono stati elaborati 9 indicatori compositi: 1.Salute 2.Istruzione e formazione 3.Occupazione 4.Qualità del lavoro 5.Reddito 6.Condizioni economiche minime 7.Relazioni sociali 8.Soddisfazione per la vita 9.Ambiente. www.istat.it/it/archivio/194029

Premio Valeria Solesin al talento femminile. Il Comune di Milano insieme ad un gruppo di aziende e privati ha indetto il “Premio Valeria Solesin” (presentato il 4 ottobre 2016) dal titolo “Il talento femminile come fattore determinante per lo sviluppo dell’economia, dell’etica e della meritocrazia nel nostro Paese”. Il concorso, ispirato agli studi condotti da Valeria, si rivolge agli studenti che con la propria tesi di ricerca mettono a fuoco sia i fattori che ostacolano la maggiore presenza femminile nel mercato del lavoro in Italia, sia le buone pratiche di conciliazione introdotte dalle aziende e dalle istituzioni. Potranno concorrere al Premio Valeria Solesin le tesi discusse entro il 31 luglio 2017, e non prima del 1 gennaio 2015, per il conseguimento di una laurea magistrale in Economia, Sociologia, Scienze Politiche e Giurisprudenza.

Le domande di partecipazione corredate della relativa documentazione dovranno essere inviate via email all’indirizzo premiosolesin@forumdellameritocrazia.it. Le candidature sono aperte dal 15 settembre 2016 e potranno essere presentate fino al 31 luglio 2017

http://secondowelfare.it/privati/investimenti-nel-sociale/donne-lavoro-e-conciliazione-milano-lancia-un-concorso-dedicato-a-valeria-solesin.html

Policies for families: is there a best practice. Sintetico testo (diffuso nel dicembre 2016) di uno dei documenti finali del progetto europeo “Families&Societies”, con una interessante analisi comparativa dei modelli nazionali di politica familiare e sociale in Europa. Interessanti (anche se non tutte condivisibili) anche le indicazioni finali sugli ulteriori provvedimenti necessari.

www.population-europe.eu/sites/default/files/policy_brief_final.pdf

Arrivi dalle case editrici. I volumi sono consultabili presso il Centro Documentazione del Cisf.

Paola Binetti, Maternità surrogata, un figlio a tutti i costi, Edizioni Magi, Roma, 2016, pp. 172, €. 15,00.

Questo agile libretto presenta diversi pregi, che raramente si ritrovano insieme nello stesso lavoro. In primo luogo è un intervento estremamente aggiornato, quasi un “instant book”, che fa il punto sul dibattito culturale, giuridico e legislativo a livello nazionale ed europeo fin quasi ai giorni nostri. Questo grazie al fatto che l’Autrice, Paola Binetti, è tuttora nel nostro Parlamento, ma soprattutto grazie al fatto che da molti anni segue con grande puntualità e passione tutte le vicende connesse ad un tema estremamente controverso dal punto di vista etico. In secondo luogo il testo è preciso, tecnicamente documentato, molto attento e rigoroso rispetto al linguaggio, che oggi è spesso utilizzato come un grimaldello per mistificare alcuni comportamenti, soprattutto davanti alla pubblica opinione (vedi le attente pagine che distinguono tra “utero in affitto” e “gestazione per altri” -stesso fatto, ben diverse le formule per definirlo). In terzo luogo si tratta di un volume che, pur essendo decisamente e chiaramente “schierato”, senza ambiguità (contro la pratica di utero in affitto, conviene evidenziarlo), non cede mai a pregiudizi negativi, e tende a riconoscere le possibili “ragioni” e motivazioni dei comportamenti di tutti, anche di quelli ritenuti non condivisibili, come il comprensibile desiderio di genitorialità, che però diventa la possibilità, per una coppia di ricchi, eterosessuali od omosessuali che siano, di affittare per nove mesi il corpo di una donna per “farsi produrre” un figlio, dietro regolare contratto. Meno di 200 pagine, ma davvero utili, per farsi un’idea precisa su un problema così complesso e controverso, che supera le distinzioni pregiudiziali tra destra e sinistra, progressisti e conservatori, laici e credenti. Ne è conferma il richiamo alla campagna stopsurrogacynow, promossa da importanti personalità laiche a livello internazionale, anche del mondo femminista (vedi anche, in Italia, l’appello Lesbiche contro la GPA: Nessun regolamento sul corpo delle donne, il cui testo è riportato per interno nel volume di Paola Binetti). http://download.repubblica.it/pdf/2016/cronaca/no-regolamenti.pdf

E ne è conferma anche la stimolante presentazione di Livia Turco, che pur non tacendo i moltissimi argomenti su cui non si è trovata in accordo con Paola Binetti, tuttavia riconosce che su certi temi (come questo) è possibile e doveroso costruire spazi di pensiero comune e punti di accordo, fino ad arrivare, se possibile, anche a condividere strumenti legislativi nuovi. Francesco Belletti – Cisf

 

Save the date.

Nord. La voce dei bambini in terapia familiare,seminario condotto da Anna Mascellani, promosso da CTA (Centro di Terapia dell’Adolescenza), Milano, 18 febbraio 2017.

www.centrocta.it/newsletter/volantino_Seminario_Mascellani.pdf

Come te stesso. Conoscenza di sé e crescita personale, percorso formativo promosso da Centro Promozione Famiglia – Consultorio Familiare, Bordighera (IM), dal 26 gennaio al 15 giugno 2017.

www.consultoriofamigliareventimigliasanremo.it

Centro Splendore e ambiguità del sesso.E’ possibile educare? Seminario di studio e conferenza pubblica, Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su matrimonio e famiglia, Roma, 13-17 febbraio 2017.

Amoris laetitia. Nuovi orizzonti per la pastorale familiare e la vita consacrata, USMI nazionale (Unione Superiore Maggiori Italia), Roma, 11-12 febbraio 2017.

www.istitutogp2.it/public/VP-2017-Depliant%20Splendore%20e%20ambiguita%20(2017.01.09)%20ESECUTIVO.pdf

Sud Quando allontanare un bambino dalla sua famiglia?Seminario di aggiornamento per assistenti sociali sulla Valutazione degli interventi di accoglienza di bambini e madri con figli, promosso e realizzato da Progetto Famiglia Onlus, Taranto, 16 febbraio 2017, Bari, 4 aprile 2017.

http://cismai.it/event/quando-allontanare-un-bambino-dalla-sua-famiglia-aspetti-metodologici-deontologici-e-disciplinari-della-valutazione-iniziale-degli-interventi-di-accoglienza-di-bambini-e-madri-con-figli-un-seminari-2/

Il buio sconfitto. Cinque relazioni speciali tra eros e amicizia spirituale, presentazione del libro di Attilio Danese e Giulia Paola Di Nicola. Introduce e modera Adriana Piatti; intervengono Vincenzo Di Marco e Claudia Ettorre. «Salotto Culturale 2017» promosso dal Centro Studi «Vincenzo Filippone-Thaulero», Roseto degli Abruzzi, 2 marzo 2017.

https://centrostudifilipponethaulero.wordpress.com/

Estero Creating a Social and Fair Europe for all Young People, quattro giorni di incontri tra giovani ed esperti di politiche giovanili dei diversi Paesi europei, promosso da JUGEND für Europa, l’Agenzia nazionale tedesca per il progetto europeo Erasmus+, Dusseldorf, 27-30 March 2017. www.djht-europe.de/en

Testo completo http://newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/gennaio2017/1022/index.html

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CHIESA CATTOLICA

Un magistero capace di autocritica: dallo “stand by” al “play”

Fin dall’inizio era chiaro: di fronte alla ripresa della grande svolta conciliare, che papa Francesco ha portato nello stile di pensiero e di pratica ecclesiale, e di cui la Chiesa aveva il giusto “presentimento”, ci sarebbe stata una non piccola resistenza, soprattutto da parte di chi si era illuso di poter far dimenticare il Concilio, di normalizzare la curia, di assolutizzare il massimalismo morale e il giuridismo canonistico.

Per questo ho letto con molto interesse e con sintonia ciò che ha scritto alcuni giorni fa Luca Diotallevi, sul “Foglio”. Con ragione sosteneva che anche oggi serve un pensiero all’altezza, servono decisioni strategiche, serve un responsabile esercizio della autorità; non serve la retorica di chi parla di “uscita” e spranga porte e finestre; non serve la piaggeria bergoglista, tanto consensuale quanto vuota.

www.ilfoglio.it/chiesa/2017/01/26/news/e-vero-la-dottrina-non-basta-ma-anche-il-bergoglismo-serve-a-poco-116978

Francesco e il Concilio. Perciò credo sia importante valorizzare un punto fondamentale del pontificato di Francesco: ossia la ripresa di un continuità strutturale con il processo di “ressourcement” e di “aggiornamento” introdotto nello stile ecclesiale da parte dei grandi documenti del Concilio Vaticano II.

Qui dobbiamo essere molto chiari, senza lasciarci distrarre dal fumo di sbarramento o dalla miopia di analisi. Quando si è collocato su questa via apertamente e inequivocabilmente conciliare, Francesco ha dovuto – inevitabilmente – prendere le distanze da toni, temi e accenti che il magistero aveva assunto non solo “prima del Concilio”, ma anche “dopo il Concilio”. In effetti, a partire dalla metà degli anni ‘80, fino al primo decennio del nuovo secolo, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, abbiamo potuto assistere al prevalere – non uniforme, ma assai pesante – di una forte discontinuità con il Vaticano II: di fronte a questi sviluppi di più di 30 anni di “recezione mancata” del concilio, la ripresa voluta da Francesco appare inevitabilmente come una improvvisa accelerazione.

Vaticano II: dallo “stand by” al “play”. Ma si tratta di un effetto ottico: dopo un così lungo periodo in cui il film del Concilio era stato ridotto a “slow motion” o addittura a “stand by”, quando Francesco ha schiacciato il “play” e le immagini sono tornate a scorrere con naturalezza, molti hanno esclamato “ci sembrava di sognare”! La realtà ecclesiale era talora tanto diversa, che il Concilio sembrava essere diventato un ”sogno”.

Il punto su cui vorrei soffermarmi è allora questo: tale “differenza di passo” – che è solo continuità fedele al passo degli anni 60/70 – con quali criteri è stata letta? Si osservano soprattutto due reazioni: quelle impostate al pensiero “pre-anti- conciliare” – che parlano apertamente e senza alcun ritegno di modernismo, relativismo, protestantizzazione – e quelle “preter-conciliari”, che ragionano come se il Concilio non ci fosse stato e utilizzano criteri di discernimento vecchi, rozzi o errati addirittura.

Ma è interessante che il papa stesso, insieme alla stragrande maggioranza della Chiesa che cammina con lui, sa bene che questo passaggio era e sarà inevitabile.

Amoris lætitia riprende Gaudium et Spes. La cosa è stata espressa nel modo più chiaro in alcuni numeri di Amoris lætitia, il cui valore va al di là della semplice “pastorale familiare” e riguarda in generale l’impostazione di tutta la pastorale e dello stesso rapporto tra Chiesa e mondo. Potremmo quasi dire che in questi numeri iniziali e finali della Esortazione il magistero episcopale e papale riprende la lezione di GS e la rilancia per il presente e per il futuro, oltre e contro tutti i tentativi di dimenticarla, di rimuoverla e di anestetizzarla.

Proviamo a farne una piccola rassegna sintetica:

  1. Il Magistero non può e non deve dire tutto e per questo ha bisogno di “altre autorità” (AL 2-3). Questa è la radice sistematica del “discernimento”, che implica la coscienza e la responsabilità di “molti”.

  2. Occorre esercitare una serena autocritica rispetto ad errori gravi, che hanno compromesso la capacità di comunicare il Vangelo. Non si tratta semplicemente di denunciare i “mali del secolo”, ma di mostrare onestamente i limiti della parola ecclesiale:

  • Evitare la esclusiva della denuncia retorica dei mali attuali

  • Non ricorrere soltanto alla imposizione delle norme per autorità

  • Talora il modo di presentare le convinzioni e di trattare le persone è stato controproducente

  • Una idealizzazione eccessiva di un concetto di matrimonio troppo astratto

  • Una insistenza esagerata ed esclusiva su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare la apertura alla grazia;

  • La sostituzione delle coscienze, prima che la loro formazione (AL 35-37)

  1. Lo stile con cui la teologia propone se stessa deve cambiare: non abbiamo bisogno di teologie fredde da scrivania, ma di teologie partecipate, ferite, quasi incidentate. (AL 311-312).

  2. E’ meschino pretendere di giudicare una persona soltanto sulla base di una legge oggettiva. (Al 304)

Per tutte queste ragioni non era evitabile una reazione stizzita da parte di chi continua a pretendere che il Magistero resti vincolato sine die ai suoi errori di tiepidezza e di rimozione post-conciliare. Come se quello che abbiamo detto e scritto ufficialmente dal 1980 al 2010 dovesse restare per sempre vincolante, nei secoli dei secoli.

Continuità col Concilio, dopo la rimozione. A questo non si oppongono gli slogan, né soltanto i “gesti”: sono i testi del Vaticano II che oggi tornano a vivere e ad operare, dopo un congelamento dovuto a paura e a opportunismo. Questa primavera, tuttavia, ha bisogno anche di testi e di pensieri all’altezza. Quelli che lo Spirito ha già saputo suscitare nei pastori e quelli che attende anche dai teologi, che possono pensare in grande la eredità conciliare in tutte le sue gamme e sfumature.

Il clima creato da Francesco dispiace solo a chi ha paura della nostra tradizione migliore, e vuole restare abbarbicato soltanto agli scheletri del passato. Chi vuole la continuità con il Vaticano II, trova oggi ampie praterie di pratica e di pensiero, aperte e disponibili. Chi vuole una ermeneutica della rottura rispetto al Concilio, si arrocca nel silenzio o si fascia nella cappa magna, ironizza in modo cinico o confida nello scorrere del tempo. Come se il tempo potesse dar ragione a chi lo nega! Come se lunghi decenni di “teologia d’autorità” con pochissimo spazio per la ragione vera – in alcuni campi strategici come la morale e la liturgia – non fossero destinati a produrre tanti soldatini obbedienti e anche qualche mostro! Che ora dobbiamo tenere a bada, e anche consolare, sia come soldati che come mostri. Dando il gusto della libertà ai primi e il senso della misura ai secondi.

Tuttavia, nonostante tutto ciò, il ritorno autorevole del Concilio Vaticano II esige una recezione esattamente come 50 anni fa. Quello che sembrava perduto non è perso affatto. Ma partecipare di questo dono rinnovato non è cosa poco esigente: richiede una disponibilità alla conversione e una capacità di preghiera, un’arte dell’ascolto e una forza nella parola che metteranno tutti a dura prova. Anche questo nostro tempo di grazia è pur sempre un torchio: perché l’oliva produca olio – e non solo morchia – occorre lavoro e pazienza, audacia e preghiera. Come sempre.

Andrea Grillo blog Come se non 29 gennaio 2017

www.cittadellaeditrice.com/munera/un-magistero-capace-di-autocritica-dallo-stand-by-al-play

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CITTADINANZA

Matrimonio di una straniera con un cittadino italiano: cittadinanza acquisita se la separazione è di fatto Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 969,17 gennaio 2017.

La Corteha respinto il ricorso del Ministero dell’interno che contestava l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte di una straniera che l’aveva ottenuta a seguito del matrimonio con un italiano. La Corte di appello aveva ritenuto sussistenti le condizioni previste dall’articolo 5 della legge n. 91/1992, alla luce delle modifiche introdotte con la legge n. 94/1999: poiché nei sei mesi successivi al matrimonio non era intervenuto annullamento, separazione o divorzio, la cittadinanza si doveva considerare acquisita. Un ragionamento condiviso dalla Cassazione secondo la quale ha rilievo, in base al dato normativo, la separazione personale e non quella di fatto. Ed invero, la Suprema Corte richiama l’attenzione sulla circostanza che, quando il legislatore ha voluto considerare anche la separazione di fatto, ha provveduto in questo senso. Ad esempio, la legge n. 184/1983 prevede che i coniugi che intendono procedere all’adozione non si trovino in regime di separazione personale neppure di fatto. Quest’ulteriore criterio non è stato inserito per l’acquisizione della cittadinanza e, quindi, va presa in esame unicamente la separazione legale.

Sentenzawww.marinacastellaneta.it/blog/wp-content/uploads/2017/01/969.pdf

Marina Castellaneta 27 gennaio 2017

www.marinacastellaneta.it/blog/matrimonio-di-una-straniera-con-un-cittadino-italiano-cittadinanza-acquisita-se-la-separazione-e-di-fatto.html

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CONSULTORI FAMILIARI

Don Edoardo Algeri eletto nuovo presidente della CFC

Don Edoardo Algeri, 54 anni, responsabile dell’Ufficio di pastorale familiare della diocesi di Bergamo, è il nuovo presidente della Confederazione italiana dei consultori familiari di ispirazione cristiana.

La Confederazione è nata nel 1978 e da allora si è organizzata e sviluppata in quasi tutte le regioni italiane e conta oggi oltre 200 consultori federati in 19 Regioni. Sono stati presidenti l’on. Ines Boffardi, il prof. Angelo Serra SJ, il dr. Giovanni Maria Solinas, e infine il prof. Domenico Simeone, docente di pedagogia alla Cattolica, per due mandati triennali.

L’elezione del nuovo presidente è avvenuta il 21 gennaio 2017 nel corso dell’assemblea dell’organismo che ha provveduto anche alla scelta delle altre cariche. Livia Cadei è stata eletta presidente della commissione scientifica; Raffaele Cananzi della commissione giuridica e Antonio Adorno della commissione organizzativa.

Don Algeri ha alle spalle un’intesa attività nell’ambito dei consultori familiari. Oltre ad essere lui stesso psicologo, è stato presidente dei centri Felceaf (la rete dei consultori della Lombardia) e, nell’ambito della stessa Confederazione italiana, ha ricoperto fino a sabato l’incarico di consulente ecclesiastico. Il Consiglio permanente della Cei, riunito in questi giorni a Roma, ha nominato come suo successore don Mario Camborata.

«I nostri Consultori si prendono cura soprattutto del servizio alla famiglia, si fanno compagni della vita quotidiana delle famiglie – spiega il neoeletto presidente – e sono al suo fianco nei momenti della prova e delle transizioni nelle diverse stagioni della vita». Di grande rilievo le questioni che il nuovo presidente sarà chiamato ad affrontare.

Durante l’assemblea sono stati decisi i punti del programma da realizzare nel prossimo triennio:

  • Al primo posto ci sarà l’intensificazione delle relazioni della Cfc con le Federazioni regionali e i Consultori familiari

  • La ricezione delle linee innovative del nuovo statuto Cfc a livello nazionale presso gli statuti delle federazioni regionali;

  • La definizione di nuove forme di collaborazione tra consultori familiari e tribunali ecclesiastici, al fine di facilitare la istruzione di cause e procedure per la richiesta di riconoscimento della nullità del matrimonio sacramentale,

  • Il potenziamento delle iniziative formative promosse dalla Cfc: corso per direttori e coordinatori di consultori familiari, corso base di primo livello per la formazione dei consulenti familiari e dei collaboratori presso i consultori familiari di ispirazione cristiana;

  • La cura del collegamento con Enti ed organismi istituzionali

  • Lo sviluppo del piano della comunicazione.

  • Le collaborazioni con le federazioni regionali per lo studio e lo sviluppo di procedure in ordine all’ottenimento dell’accreditamento/contratto delle attività dei consultori a livello di Regioni italiane;

Oggi solo la Regione Lombardia dispone di una legge per l’accreditamento pubblico delle attività consultoriali. La procedura venne promossa e realizzata grazie agli sforzi di Goffredo Grassani, presidente della Confederazione fino al 2011, scomparso tre anni fa. Un’apertura che ha permesso la crescita dei consultori – in Lombardia ci sono una cinquantina di centri – sia sotto il profilo della qualità professionale sia sotto quello dell’offerta alle famiglie, con una capacità di accoglienza anche interconfessionale.

27 gennaio 2017 www.cfc-italia.it/cfc

{Una proposta: proporre d’intesa con UCIPEM l’aggiornamento delle Leggi n. 405\1974 relativa ai consultori familiari e la n. 194\1978 concernente l’IVG. Ndr}

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Frosinone. Seminario “Emozioniamo il conflitto”.

Il consultorio Anatolè (il sorgere del sole) opera dal 2007. Dal 2015 interviene anche per le Adozioni Internazionali attraverso una convenzione con l’Ente autorizzato “Lo Scoiattolo ONLUS” di Terni.

L’équipe è costituita da Consulenti familiari; Psichiatra; Psicologo-psicoterapeuta; Assistente sociale, il pedagogista. Mediatore familiare; Avvocato; Ginecologo, Bioeticista e Ostetrica.

Nel 2010 costituisce il CISPeF, Centro Italiano Studi Professione e Formazione. La sua Scuola per Consulenti ha già tagliato il traguardo dei 100 diplomati consulenti di coppia e familiari. www.cispef.it

Il CISPeF è presenta il 1° Seminario Intensivo “Emozioniamo il conflitto. Io spettatore del conflitto, Io attore del conflitto: le mie emozioni” a Vitorchiano (Viterbo) 18-19 febbraio 2017

I conflitti fanno inevitabilmente parte delle relazioni umane, emozioni ci permette di controllare i nostri atteggiamenti e di conseguenza capire meglio gli altri. Ciò implica la capacità di riconoscere i propri bisogni e desideri, quali persone o situazioni generano in noi le diverse emozioni e come esse si manifestano, per imparare a riconoscerle e gestirle.

Il Seminario si svolgerà nella modalità pratica-esperienziale per favorire l’apprendimento diretto. Attraverso laboratori e giochi stimolo si sperimenterà la gestione del conflitto e i suoi risvolti emozionali.

E’ è rivolto ai Consulenti Coniugali e Familiari e a tutti gli allievi che hanno completato il percorso triennale della Scuola per Consulenti Coniugali e Familiari, Tirocinanti AICCeF e a chiunque interessato per un approfondimento personale. Conducono Francesca Frangipane e Alessandra Testani, Consulenti Coniugali e Familiari, Socie AICCeF

Per informazioni e prenotazioni contattare E-mail: segreteriadidattica@cispef.it

www.consultorioanatole.it

Parma. “Un adolescente tra noi” e “Quando mamma e papà si separano”

Per il ciclo “Un adolescente tra noi”, il 2° incontro si terrà il 7 febbraio 2017: “Le prime relazioni degli adolescenti. I Genitori raccontano” a cura della dr Erika Vitrano, psicologa e della prof. Margherita Campanini.

Per il ciclo “Quando mamma e papà si separano” sono in programma

  • 25 gennaio: Le verità degli adulti e le verità che servono ai figli;

  • 08 febbraio 2017: L’importanza della continuità educativa per i figli;

  • 22 gennaio: I rapporti con l’altro genitore a la famiglia di origine.

www.famigliapiu.it

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CONVIVENZE

Cosa conviene fare?

Tre sono le modalità per realizzare una convivenza e una famiglia di fatto sotto lo stesso tetto: la convivenza di fatto, la registrazione all’anagrafe e il contratto di convivenza.

Con la legge n. 76/2016 [c.d. Cirinnà], anche le coppie che convivono hanno ottenuto un formale riconoscimento. Non che prima non lo avessero, ma erano solo dei diritti riconosciuti, qua e là, nelle aule dei tribunali, ma privi di una regolamentazione organica. Proprio l’assenza di una legge dedicata alle coppie di conviventi faceva sì che queste dovessero puntualmente andare dal giudice per ottenere gli stessi diritti conferiti alle coppie sposate; il ragionamento si poggiava sul principio di uguaglianza sostanziale previsto dalla Costituzione e sul riconoscimento della «famiglia» come relazione sostanziale, a prescindere dal vincolo del matrimonio.

Con le nuove modifiche, la convivenza può realizzarsi in tre diverse forme:

  • Una semplice convivenza di fatto: la coppia si limita a convivere sotto lo stesso tetto in modo stabile e continuativo;

  • Una convivenza registrata: la coppia in tal caso si limita a presentare una dichiarazione di convivenza all’anagrafe;

  • Una convivenza regolata da un contratto di convivenza.

La convivenza semplice o di fatto. Se la coppia non intende formalizzare la convivenza, né registrarla al Comune, si parla di «convivenza semplice» e si rimane nella stessa condizione anteriore alla Legge Cirinnà. Pochi i diritti che, peraltro, richiedono quasi sempre l’intervento del giudice e una causa, visto che l’amministrazione è poco propensa a riconoscere qualcosa che non è formalizzata quantomeno con una registrazione all’anagrafe. Una delle conseguenze della convivenza semplice è che essa determina la perdita dell’assegno di mantenimento se uno dei due partner è stato in precedenza sposato e riceve tale misura di sostegno economico dall’ex coniuge. Di recente, poi, la Corte Costituzionale ha riconosciuto anche ai conviventi di fatto il diritto ai permessi previsti dalla legge 104.

La convivenza registrata. Secondo la definizione della legge Cirinnà «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile». In questo caso la coppia si reca in Comune e “registra” la convivenza, affinché risulti in un normale certificato di «stato di famiglia», al pari delle coppie sposate. In questo modo i conviventi acquistano determinati diritti come:

  • La partecipazione all’impresa familiare,

  • L’obbligo di pagare gli alimenti in caso di fine del rapporto di convivenza;

  • Il diritto a ottenere il risarcimento del danno nel caso in cui qualcuno causi la morte del partner (si pensi a un incidente stradale);

  • In caso di morte del convivente proprietario della casa, il partner superstite può continuare ad abitare sotto lo stesso tetto per almeno due anni (che diventano tre, se vi coabitano anche suoi figli minori o disabili), «o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni». Quindi se la convivenza è durata più di 5 anni (ad esempio 20 anni), il diritto di abitazione resta comunque di massimo 5 anni. Questo diritto viene meno se il superstite cessa di vivere stabilmente nell’immobile, si sposa, costituisce un’unione civile o avvia una nuova convivenza.

Se la coppia si separa, non è dovuto l’assegno di mantenimento, ma solo gli alimenti che sono una misura necessaria alla sola sopravvivenza (spese alimentari) nel caso in cui il partener versi in condizioni economiche estremamente disagiate.

Se però ci sono figli, e sempre che gli ex partner non si mettano d’accordo, il giudice può disporre l’assegnazione della casa familiare (cioè il diritto di continuare ad abitarvi) al genitore ritenuto idoneo a vivere con i minori. E ciò anche se l’immobile è di proprietà esclusiva dell’altro genitore. Resta fermo il dovere per l’altro genitore di mantenere i figli e versare loro l’assegno mensile.

Non è previsto l’addebito per il caso di violazione del dovere di fedeltà: in buona sostanza il convivente che tradisce, non subisce alcuna conseguenza.

Contratti di convivenza. Si tratta della forma di tutela massima dei conviventi. In tal caso, la coppia, oltre a registrarsi al comune, regola in un documento i rapporti patrimoniali e personali tra i partner, nonché tutti i rispettivi diritti e doveri, anche quelli che la convivenza registrata non garantirebbe loro. Le parti sono libere di stabilire ciò che preferiscono all’interno del contratto di convivenza, ivi compreso il pagamento di un mantenimento in caso di separazione o la divisione della casa; o ancora la restituzione dei soldi pagati per la ristrutturazione dell’abitazione, ecc.

Il contratto di convivenza dunque è una sorta di contenitore che deve essere riempito dai partner. Esso può riportare l’indicazione della residenza, le modalità di contribuzione alla vita in comune, il regime patrimoniale della comunione dei beni, che nel matrimonio e nell’unione civile è ipso iure, e che può essere modificato in qualsiasi momento.

Cos’è un contratto di convivenza? Si tratta di un atto pubblico (redatto dal notaio) o di una scrittura privata autenticata (da un notaio o da un avvocato). Notaio e avvocato attestano la conformità del contratto di convivenza alle norme imperative e all’ordine pubblico. Chi è ancora sposato e non ha divorziato dal precedente coniuge non può firmare un contratto di convivenza con un’altra persona.

Il professionista che autentica e riceve l’atto deve – entro 10 giorni – trasmetterne copia del contratto al Comune di residenza dei conviventi, per l’iscrizione all’anagrafe.

Se però il contratto di convivenza regola anche diritti sulla casa o altri immobili, nonché su auto, moto o quote societarie deve essere per forza fatto davanti a un notaio, non essendo più competente l’avvocato. Difatti tale atto andrà trascritto nei pubblici registri e, in materia, è competente solo il notaio.

Non esiste un modello standard del contratto di convivenza e ciascuna coppia può scriverlo come preferisce e inserirvi ciò che più fa al caso proprio. Inoltre il contratto può essere modificato in qualsiasi momento.

Eredità e successione. Tra i componenti di una convivenza di fatto, registrata o meno, non nasce alcun diritto all’eredità: né alla quota di legittima, né alla chiamata ereditaria (qualora non vi sia testamento). Invece, nel caso delle unioni civili (quelle tra persone dello stesso sesso), posta la totale equiparazione alle coppie sposate, spettano i diritti successori. L’unica garanzia è il diritto di abitazione della casa di cui abbiamo parlato poc’anzi. Neanche il contratto di convivenza può supplire a questa circostanza, visto che è vietato per legge impegnarsi in anticipo a fare testamento in favore di una determinata persona. L’unico modo per il convivente di poter accampare diritti sull’eredità del partner è sperare che questi lo inserisca nel proprio testamento, limitatamente alla quota disponibile (ossia quella che non deve andare ai legittimari).

I legittimari sono: coniugi o componenti di un’unione civile, discendenti e – in loro mancanza – ascendenti; questi, come noto, non possono esser privati della loro “quota di riserva” (neanche se c’è la volontà del defunto).

Redazione LPT 26 gennaio 2017

www.laleggepertutti.it/148277_convivenza-cosa-conviene-fare

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DALLA NAVATA

IV Domenica del Tempo ordinario – Anno A – 29 gennaio 2017

Sofonia 02, 03. Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore.

Salmo 146, 06. Il Signore rimane fedele per sempre.

1 Corinzi ..01, 27 Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti.

Matteo 05, 12. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

 

Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose (BI).

Beati!

Il vangelo secondo Matteo, dopo aver testimoniato l’inizio della predicazione di Gesù in Galilea (cf. Mt 4,17) e aver annotato che molti si sentono attratti da lui nella speranza di essere guariti da diversi mali e dunque cominciano a seguirlo (cf. Mt 4,23-25), ci presenta Gesù che agisce come Mosè, quale maestro e liberatore di chi è alienato, in schiavitù. Si tratta del primo dei cinque discorsi di Gesù che Matteo riferisce nella sua opera (cf. Mt 5-7; 10; 13; 18; 24-25).

Siamo di fronte a una scena grande e solenne: seguito dalle folle, Gesù sale sulla montagna e, postosi là a sedere in posizione di maestro, dona il suo insegnamento attraverso un lungo discorso, che è Vangelo, cioè buona notizia per i poveri e gli umili, quei credenti non orgogliosamente autosufficienti i quali non confidano in se stessi ma nel Signore, cercando la sua giustizia e attendendo la salvezza da lui solo. Costoro sono il resto di Israele, secondo lo sguardo di Dio rivelato dai profeti (si veda la prima lettura: Sof 2,3; 3,12-13).

Gesù apre il discorso con alcune acclamazioni ripetute: “Beati!” (makárioi in greco, ’ashré in ebraico). Come tradurre questo grido? Felici? In cammino, secondo la scelta di André Chouraqui? Certo, l’aggettivo “beato” non esclude contraddizioni, fatiche e sofferenze, anzi è indirizzato proprio a chi vive una situazione di bisogno: povertà, pianto, persecuzione…, a chi a caro prezzo rinuncia alla violenza e all’aggressività, rinuncia alla vendetta, alla menzogna e all’ipocrisia del cuore. Beati! Per otto volte risuona questo grido di Gesù, che raggiunge gli ascoltatori chiedendo loro di leggere la propria situazione, di discernere con chi si collocano nel mondo e dunque di convertirsi, di cambiare modo di pensare e di comportarsi. Purtroppo lo dimentichiamo, ma le beatitudini hanno inscritta in sé la necessità urgente della conversione e, attraverso di essa, di conseguire la promessa che fa da cornice alle acclamazioni: “perché di essi è il regno dei cieli”.

Sì, il regno dei cieli è loro perché, se sono o diventano poveri, piangenti, miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia, già ora nella vita sulla terra permettono a Dio di regnare su di loro, dunque il regno di Dio per loro è venuto, è la loro “porzione” (cf. Sal 16,5). Questa realtà sarà evidente nel mondo che verrà, ma la forza di Dio e la speranza del credente trasfigurano già il presente. Che cos’è il regno di Dio? Possiamo dire con semplicità che è l’amore di Dio che vince il male e la morte, e questa azione avviene già ora nei credenti che vivono la logica del Regno. Ma attenzione: il discorso della montagna aperto dalle beatitudini non è una carta o un codice, ma vuole essere un orientamento indicativo per una comunità che fa di Gesù Cristo il solo interprete della Legge di Dio e il solo giudice del comportamento umano. Perciò è un discorso che fa uso di iperboli, che può sembrare paradossale, che è in continuità con la Legge data a Mosè e nel contempo la trascende: nulla della Legge è contraddetto o svuotato (cf. Mt 5,18), ma tutto è sottomesso all’interpretazione fornitane da Gesù, l’interprete definitivo.

Cerchiamo dunque di ascoltare con semplicità le beatitudini, leggendole e rileggendole più volte, nella fede che la parola di Dio contenuta in esse può raggiungere senza commenti il nostro cuore e concederci non una conoscenza intellettuale, ma una sovraconoscenza (epígnosis), nell’adesione a Gesù, nella speranza che solo lui può innestare in noi, nella carità che è il suo Spirito santo effuso nei nostri cuori (cf. Rm 5,5). In questo senso, procediamo con una parafrasi delle beatitudini, per non svuotarle o, peggio ancora, fraintenderne il significato.

“Beati i poveri nello spirito”. Felicitazioni a quelli che sono poveri anche nello spirito (tô pneúmati), nel cuore, quelli che sono poveri materialmente ma leggono la loro condizione come un grido rivolto a Dio, che attende da lui esaudimento. Costoro, che sono curvati (anawim) dagli umani, davanti a Dio si sentono in attesa; hanno fede in Gesù, volto definitivo di Dio, colui che “da ricco che era, si è fatto povero per noi” (cf. 2Cor 8,9), che si è svuotato (cf. Fil 2,7) e dunque può accogliere i poveri nella sua comunione. Potremmo dire che questa prima beatitudine riassume tutte le altre.

“Beati quelli che piangono”, che sotto il peso del duro mestiere di vivere sono afflitti, feriti fino a doversi lamentare o, semplicemente, a piangere. Ci sono uomini e donne per i quali la vita difficilmente appare come un dono che li rallegra e che noi non sappiamo o non vogliamo consolare. Felicitazioni perché è certo che “saranno consolati” da Dio stesso (passivo divino) e già ora attraverso lo Spirito santo possono dare un senso alla loro sofferenza e non disperare. Secondo il profeta Isaia, anche consolare gli afflitti fa parte della missione del Messia (cf. Is 61,2), ma non si dimentichi che piangente è stato anche Gesù, nella sua vita (cf. Lc 19,41) e nella sua passione (cf. Eb 5,7).

“Beati i miti”. Ecco un commento alla prima acclamazione (per questo alcuni manoscritti la collocano al secondo posto). Infatti nel Sal 37,11 l’originale ebraico parla di “poveri”, termine reso con “miti” dalla versione greca dei LXX. Il regno di Dio non forse come sinonimo “la terra promessa” da ereditare? Ascoltando questo grido di Gesù, inoltre, si ricordano le parole con cui egli incarna tale beatitudine: “Io sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29), come il Servo del Signore profetizzato da Isaia, profeta non violento, uomo che non si impone (cf. Mt 12,15-21; Is 42,1-4).

“Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia”, che nel cuore hanno il desiderio che si compia non la propria giustizia ma quella di Dio, la giustizia che Dio vuole e fa, rendendo giusto il credente umile. È una giustizia che salva e che opera come nel Messia, reso da Dio “giusto e salvato” (nosha‘: Zc 9,9; cf. Mt 21,5). Non si può restringere questa beatitudine ai soli cristiani: molte persone che non hanno conosciuto Cristo hanno questa fame e per essa lottano, spendono la vita, restando “giusti”, coerenti con la loro passione. Chi può contestare questa felicitazione di Gesù? Chi può restringerla? Beati, perché Dio li sazierà con la giustizia definitiva del Regno, perché ci sarà il giudizio finale del Figlio dell’uomo e chi avrà avuto questa fame e agito di conseguenza sarà proclamato benedetto e invitato nel Regno (cf. Mt 25,34).

Beati i misericordiosi”, quelli che praticano questo atteggiamento, carico di tenerezza e di perdono verso gli altri: tutti sono debitori verso gli altri, tutti hanno qualcosa che deve essere perdonato. E allora Gesù annuncia: felicitazioni a chi fa misericordia, perché Dio farà misericordia a lui (cf. Mt 6,14-15; 7,2; 18,35; Gc 2,13). Misericordia è cuore per i miseri, è perdono per chi ha peccato, è cura per chi si trova nel bisogno e nella sofferenza. Proprio su questa beatitudine saremo giudicati alla fine dei tempi: chi avrà omesso di fare misericordia all’affamato, all’assetato, allo straniero, all’ignudo, al malato, al prigioniero, non troverà misericordia (cf. Mt 25,41-45).

“Beati i puri di cuore”, quelli che hanno il cuore, fonte del loro sentire e operare, integro, indiviso, conforme a quello di Gesù. A Dio si chiede di avere un cuore unificato (cf. Sal 86,11), di togliere il cuore di pietra e donare un cuore di carne (cf. Ez 11,19; 36,26), in modo da non avere un cuore doppio (cf. Sal 12,3). Se c’è questa trasparenza, questa integrità, allora si ha il dono di vedere Dio nella fede e di vederlo nel Regno faccia a faccia.

“Beati gli operatori di pace”, quelli che lavorano per la riconciliazione, per la comunione tra i fratelli e le sorelle, tra tutti gli esseri umani; quelli che fanno cadere i muri, non erigono barriere, costruiscono ponti, rinnovano con convinzione il dialogo, si esercitano nella comunicazione mite e sincera. Costoro sono chiamati figli di Dio perché questa è la prima azione di Dio verso l’umanità: radunarla nella pace, riconciliarla.

Infine, “beati i perseguitati per la giustizia”, beatitudine sviluppata con una parola rivolta direttamente ai discepoli: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno”. Felicitazioni alle vittime dell’ingiustizia, dell’oppressione e della tirannia, perché hanno saputo fare resistenza e dunque affermare la giustizia di Dio contro l’ingiustizia di questo mondo. I discepoli devono saperlo: in un mondo ingiusto, il giusto è di imbarazzo, quindi è osteggiato e, se necessario, anche ucciso (cf. Sap 2,1-20). Come è accaduto ai profeti, come è accaduto a Giovanni il Battista, com’è accaduto a Gesù, così accade a chi segue la loro via. Ma, paradossalmente, felicitazioni, perché hanno piena comunione con Gesù in tutto, anche nelle sofferenze!

E così san Basilio può commentare: “Ogni nostra lotta per vivere le beatitudini è stata iniziata da Gesù Cristo stesso, che ce ne ha dato l’esempio”. Sì, è lui il primo a cui sono indirizzate le beatitudini.

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/11178-beati

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DIVORZIO

CEDU: il divorzio? Non è un diritto.

La Convenzione sotto questo punto di vista tutela solo il diritto a sposarsi e quello al rispetto della vita privata e familiare. Tra i principi sanciti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo manca, sia direttamente che indirettamente, un diritto al divorzio e chi lo rivendica non deve rivolgersi a Strasburgo.

Il 10 gennaio 2017 la Cedu ha infatti depositato la tanto attesa decisione (allegata) sul ricorso numero 1955/2010 noto come Babiarz contro Polonia, decretando che non è contraria alla Convenzione la previsione interna polacca che permette di non concedere il divorzio nel caso in cui uno dei coniugi si opponga ad esso.

Non importa che tale opposizione impedisca all’altro di risposarsi, perché nella Cedu, in materia, si ritrovano solo il diritto a sposarsi tutelato nell’articolo 12 e il diritto al rispetto della vita privata e familiare tutelato nell’articolo 8. Del divorzio, invece, nessuna traccia.

Insomma: se c’è stato il divorzio, va garantito il diritto a risposarsi, ma se il divorzio è negato non è un problema della Corte europea.

Sebbene la premessa dei giudici sia stata quella di dover interpretare la convenzione tenendo conto della realtà odierna, il risultato raggiunto all’esito della lunga motivazione contenuta nella sentenza dello scorso 10 gennaio 2017 non è esattamente quella che ci si aspettava leggendo l’incipit.

Per la Corte europea, agli Stati resta insomma un margine di apprezzamento esteso circa l’adozione della legislazione sul divorzio e non è la Cedu a negare loro di adottare misure volte a proteggere il matrimonio.

Oltretutto, non può dirsi che in Polonia vi sia un’impossibilità assoluta di ottenere il divorzio, dato che questo è più correttamente assoggettato a dei limiti ma comunque possibile.

La chiamata in causa della Corte di Strasburgo è arrivata su input di un cittadino polacco che, dopo aver presentato domanda di divorzio prima senza colpa e poi con addebito, aveva incontrato l’opposizione della moglie e si era visto così negato il diritto a risposarsi con la nuova compagna, con la quale peraltro già conviveva.

La Cedu si è spaccata ma ha deciso: gli articoli 8 e 12 non sono violati.

Cedu testo sentenza Babiarz contro Polonia www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_24779_1.pdf

Vedi anche: La guida legale sul divorzio www.studiocataldi.it/guide_legali/divorzio

Valeria Zeppilli Newsletter Giuridica studio Cataldi 23 gennaio 2017

www.studiocataldi.it/articoli/24779-cedu-il-divorzio-non-e-un-diritto.asp

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Famiglia, freno tirato sui decreti attuativi.

Il Forum: ora un patto con banche e imprese. De Palo: «È la cura per far ripartire il Paese». Troppi i ritardi sugli aiuti, alcuni mai partiti. La crisi morde i ceti medio-bassi eppure la politica rallenta su tutti i provvedimenti che potrebbero alleviare le sofferenze. Sembra paradossale, ma è così. Basta scorrere i titoli. La “Carta famiglia” è ormai un dimenticato oggetto misterioso, per il rinnovo del Sostegno all’inclusione attiva (Sia) si attende un decreto ministeriale, il bonus famiglie numerose e il voucher per i baby-sitter procedono con le ormai “strutturali” lentezze. Non va meglio per le misure varate con la legge di Bilancio 2017: con il cambio di governo sono rimasti al palo i tre diversi decreti attuativi con i quali dovrebbero diventare realtà il bonus “mamma domani” da 800 euro, il sostegno universale al nido da mille euro e la nascita del Fondo di sostegno alla natalità. Ad essere ottimisti, il “pacchetto-famiglia” eredità del governo Renzi dovrebbe entrare realmente in vigore solo a marzo.

L’attuazione dei provvedimenti, insomma, resta un problema del sistema-Paese. Ma pesa il triplo se quei provvedimenti riguardano le fasce deboli. Senza decreto, infatti, è aria fritta il sostegno da 800 euro annui varato per chi avrà un bebè nel 2017, richiedibile sin dal settimo mese di gravidanza. Senza decreto, pure i mille euro per l’iscrizione al nido valido per qualsiasi fascia di reddito restano nelle casse del Tesoro. E senza decreto restano bloccati anche i 14 milioni del fondo rotativo che dovrebbe favorire l’accesso al credito delle famiglie con figli per affrontare spese particolari legate all’”allargamento” del nido domestico.

Allo stesso tempo, non va dimenticato che l’attuale impasse delle misure anti-povertà ha effetto diretto sulle famiglie numerose, che sono quelle che ballano sulla linea dell’indigenza. E qui il nodo dell’attuazione a tempi da lumaca si coniuga ai problemi politici.

C’è infatti all’esame del Senato, per la seconda lettura, la legge-delega per introdurre il Reddito d’inclusione (Rei). I tempi dell’iter parlamentare sono ancora lunghi, e allora il ministro delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, ha promesso nel giro di qualche settimana il varo di un decreto ministeriale che proroghi, rinnovi e ampli i beneficiari del Sia, un “reddito-ponte” sperimentato tra mille affanni e ritardi sul finire dell’anno scorso (senza che tra l’altro siano state spese tutte le risorse stanziate). Al fatto che le politiche familiari siano insufficienti, insomma, si affianca una lentezza attuativa che disarma. E tanto si è già detto sul clamoroso ritardo del “vecchio” bonus per le famiglie numerose, entrato in vigore ben venti mesi dopo essere stato introdotto nella legge di Stabilità 2015. A completare il quadro, le risorse che finiscono senza esaudire tutte le richieste, i ritardi burocratici nei pagamenti, la scarsa promozione degli interventi fatta ad opera degli enti statali e locali.

Ci sarebbe da alzare bandiera bianca. Il Forum delle associazioni familiari però non è di questo avviso. E anzi prova a rilanciare, a tenere viva l’attenzione. Di ieri mattina l’ultima proposta messa sul tavolo della politica: un patto tra banche e famiglie per estendere il microcredito. «Vogliamo che la famiglia sia considerata come un soggetto che investe, che produce valore. È un valore l’acquisto di una macchina più grande o di un apparecchio per i denti. Si concedano tassi migliori, pari a quelli delle aziende, perché il beneficio per la collettività è uguale».

Un’idea intorno alla quale si sono confrontati Vincenzo Bassi dell’Unione giuristi cattolici, il direttore generale di Compagnia delle opere, Dionigi Gianola, il presidente di Fondazione per il Sud, Carlo Borgomeo, il direttore generale di Federcasse, Sergio Gatti, il leader di “Make a change”, Andrea Rapaccini.

Da Gatti, in particolare, è venuta un’ampia apertura a nome del credito cooperativo, che sul tema è già attivo: va studiata, dice, «una possibile forma di microcredito tagliato su misura per le esigenze delle famiglie, tenendo conto delle stagioni che la caratterizzano: la nascita del nucleo, il consolidamento, la vita nascente, le garanzie dell’età adulta…». Per ogni stagione una piccola somma che potrebbe aiutare non solo la famiglia ma, come spiega il Forum, l’intero sistema-Paese.

Marco Iasevoli Avvenire 21 gennaio 2017

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/famiglia-freno-tirato-decreti-attuativi

 

Convegno. Banche, imprenditoria, società civile tutti d’accordo: la famiglia non è il malato è la cura

Si è svolto oggi a Roma l’incontro tra associazionismo familiare, banche ed imprese organizzato dal Forum delle famiglie. La scommessa del Forum, condivisa da tutti i partecipanti (Vincenzo Bassi, Giuristi cattolici, Carlo Borgomeo presidente Fondazione per il Sud, Sergio Gatti direttore generale Federcasse, Dionigi Gianola direttore generale Compagnia delle Opere, Andrea Rapaccini presidente Make a change per il business sociale) è chiara: la famiglia non svolge solo una funzione sociale ma anche economica e produttiva come tutte le imprese. E’ tuttavia necessario che questa funzione sia riconosciuta a tutti i livelli.

Questo implica un’inversione degli atteggiamenti dell’intera società per iniziare un dialogo nuovo tra famiglia e istituzioni pubbliche e private, banche e imprese incluse. Tutti i presenti hanno evidenziato la necessità di questo percorso. Il microcredito bancario deve essere aperto con maggior decisione alle famiglie e va destinato più agli investimenti che al consumo.

Le banche, attraverso il microcredito – ma non solo – devono impegnarsi a sostenere il ruolo generativo della famiglia, la formazione dei figli, i casi di astensione dal lavoro e le iniziative di promozione sociale. Le aziende devono investire sul welfare familiare che, come le esperienze illustrate dimostrano, rendono le aziende stesse più forti ed i dipendenti più motivati. Una Corporate family responsibility che misura le aziende anche nella loro capacità di riconoscere il ruolo della famiglia, non solo quella che ha avviato l’attività imprenditoriale (in Italia l’86% delle aziende è di natura familiare) ma anche e soprattutto quella dei dipendenti.

Lo Stato deve imparare ad andare oltre il metodo dei bonus che, cifre alla mano, non incentiva i consumi tradendo gli scopi per i quali viene tenacemente riproposto ad ogni Finanziaria. «Tutti devono fare la propria parte» ha concluso il presidente del Forum, Gigi De Palo. «Ma anche le famiglie devono uscire da una posizione di difesa e di sconsolata rassegnazione. Devono acquisire un ruolo propositivo nel trasferire al sistema pubblico la sapienza, maturata di generazione in generazione, per una gestione economica intelligente.

«Ma quello che tutti – società, imprenditoria, politica e per prime le stesse famiglie – devono capire è che la famiglia non è il malato ma la cura»

Comunicato stampa 21 gennaio 2017

www.forumfamiglie.org/comunicati.php?filtro=ultimi_30_giorni&comunicato=846

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

L’ermeneutica della persona in Papa Francesco

Colpiscono la profondità, la trasparenza e la mitezza con le quali il cardinale Francesco Coccopalmerio, “Ministro” vaticano della Giustizia, legge ed analizza dall’interno il capitolo ottavo dell’esortazione apostolica Amoris lætitia, quello che sin dal titolo, «Accompagnare, discernere e integrare la fragilità» ‒ e dedicato alle situazioni “cosiddette” irregolari di tante relazioni matrimoniali e di coppia ‒ ha sollevato opposizioni e dure critiche sia all’interno della Chiesa sia fuori, che vanno crescendo e diffondendosi anche sui mass media.

Proprio per l’acutezza dell’ermeneutica e per la trasparenza dell’analisi filologica utilizzate dal cardinale Coccopalmerio ‒ capace di far dialogare in profondità i passaggi più rilevanti dell’esortazione con i testi di riferimento del Vaticano II e della Familiaris consortio di Giovanni Paolo II da una parte, e con la grande tradizione dall’altra, in primis con i fondamenti delineati da Tommaso d’Aquino ‒ ne consigliamo l’attenta lettura ai tanti che ne hanno frainteso il senso e il significato. Chiunque abbia una visione disinteressata e pura di cuore, potrà comprendere, leggendo queste pagine del cardinale Coccopalmerio, come la magistrale Esortazione di papa Francesco costituisca una chiara, coraggiosa e geniale riaffermazione della purezza della dottrina cattolica in tema di matrimonio e di famiglia (dottrina com’è noto delineatasi nel corso del secondo millennio cristiano), considerata come parola vivente che tramanda il fuoco della tradizione, e in quanto tale capace di confrontarsi e di illuminare le sfide del tempo presente, illuminando aspetti nuovi dell’ infinita ricchezza contenuta nel Vangelo. «Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi ‒ scrive papa Francesco nell’esortazione (n. 3), e ribadisce con forza il Cardinale ‒ ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano». Perla e chiave di lettura dall’Esortazione rimane ‒ osserva il cardinale Coccopalmerio ‒ la considerazione secondo la quale la norma generale non può rendere ragione di tutte le circostanze particolari di vita di una persona, ma che ‒ prosegue citando san Tommaso ‒ «più si scende nel particolare, tanto più aumenta l’indeterminazione» (Amoris lætitia, 304). La stessa Commissione Teologica Internazionale aveva affermato che «La legge naturale non può essere presentata come un insieme costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione» (Amoris lætitia, 305). In termini più laici potremmo dire che la legge non mette mai al riparo dai rischi della realtà, e che per questo bisogna dilatare l’orizzonte dalla giustizia, dal giudizio, alla misericordia, in cui consiste la pienezza della stessa giustizia. È questo quello che emerge, con trasparenza, dalla riflessione del Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi. Come si fa, allora, a parlare di “confusione” dottrinale da parte di papa Francesco? Certo, il cammino pastorale, teologico e spirituale, intrapreso da Bergoglio è un cammino d’altura, che esige da parte di tutti, e in primis dai Pastori, una radicale conversione pastorale, che è anche conversione spirituale e culturale. E questo non è sempre facile.

Raffaele Luise Anche il Papa rema 28 luglio 2016

www.eancheilpaparema.it/2016/07/il-cap-viii-di-amoris-laetitia-per-una-lettura-guidata-card-coccopalmerio.

Capitolo VIII Di Amoris lætitia. Per una lettura guidata.

Il Capitolo ottavo della Esortazione Apostolica Postsinodale Amoris lætitia è intitolato in modo significativo: “Accompagnare, discernere e integrare la fragilità”.

Credo risulti utile offrire in questa sede non una riflessione teoretica a partire dai testi dell’Esortazione, bensì una lettura dei testi stessi, che ci consenta, da una parte, di svolgere una riflessione teoretica sui vari punti del documento e, dall’altra, di conoscere in forma diretta e perciò di gustare in originale i testi del documento stesso.

La lettura dei testi sarà, dunque, una lettura guidata, che, tuttavia, seguirà non l’ordine numerico dei paragrafi del Capitolo ottavo, bensì il susseguirsi degli argomenti che abbiamo sotto specificato. Compresi, però, i singoli testi nella logica degli argomenti, sarà forse più facile rileggerli poi e comprenderli secondo l’ordine numerico.

Ciò premesso, mi pare utile distinguere e presentare sei argomenti:

  1. L’esposizione della dottrina della Chiesa relativamente a matrimonio e famiglia;

  2. L’atteggiamento pastorale della Chiesa verso quelle persone che si trovano in situazioni non regolari;

  3. Le condizioni soggettive o condizioni di coscienza delle diverse persone nelle diverse situazioni non regolari e il connesso problema della ammissione ai sacramenti della Penitenza e della Eucaristia;

  4. La relazione tra dottrina, norma generale e persone singole in situazioni particolari;

  5. La integrazione, cioè la partecipazione alla vita della Chiesa e anche alla ministerialità della Chiesa da parte delle persone che si trovano in situazioni non regolari;

  6. L’ermeneutica della persona in Papa Francesco.

Leggi tutto l’articolowww.eancheilpaparema.it/tag/ermeneutica-della-persona

6. L’ermeneutica della persona in Papa Francesco

A me pare che ancora una volta si affermi l’ermeneutica della persona propria di Papa Francesco. Questa volta nell’aspetto della non esclusione di nessuno. E ciò perché la persona, quindi ogni persona e in ogni condizione si trovi, è un valore in sé, nonostante possa avere elementi di negatività morale. Il Pontefice ribadisce la non esclusione in molte occasioni e in molte forme.

Cosa significa ermeneutica della persona? Ermeneutica – come sappiamo – significa strumento di conoscenza e, perciò, modo di pensare, di valutare la realtà, di interpretare il mondo. Questa ermeneutica, in Papa Francesco, è la persona.

In altre parole, Papa Francesco valuta la realtà attraverso la persona o, ancora, mette innanzi la persona e così valuta la realtà. Quello che conta è la persona, il resto viene di logica conseguenza.

E la persona è un valore in sé, a prescindere per tale motivo dalle sue peculiarità strutturali o dalla sua condizione morale.

Una persona può essere bella o non bella, intelligente o non intelligente, istruita o ignorante, giovane o anziana, queste peculiarità strutturali non hanno rilevanza: ogni persona, infatti, è un valore in sé, quindi è importante, quindi è amabile.

Una persona può essere buona o non buona, anche questo non conta, e soprattutto questo non conta: ogni persona, anche non buona, è un valore in sé, quindi è importante, quindi è amabile.

Da qui discende un principio che è elemento fondamentale nella vita di Papa Francesco: la sua contrarietà a ogni forma di emarginazione delle persone. Lo ripete continuamente. Nessuna emarginazione per nessuna persona.

Il riferimento a Gesù è spontaneo, specie a due parabole, che sono nel Vangelo di Luca: la parabola del pastore che va in cerca della centesima pecora che si è smarrita (nessuna emarginazione per questa poveretta) (cf. Luca 15, 1-7) e la parabola del figlio che ritorna a casa (nessuna emarginazione per questo poveretto) (cf. Luca 15, 11-32).

L’amore di Gesù e del Padre, che è uguale a quello del pastore e a quello del Padre delle due parabole, è tale che Gesù e il Padre ritengono così importanti le singole persone che – notiamolo bene – non solo le beneficano, ma soprattutto ne hanno bisogno, non possono stare senza alcuna di loro, per cui si sentono rivivere quando ritrovano la smarrita o quando il figlio ritorna.

Così – mi pare – è l’animo, è lo stile di Papa Francesco, è – in altre parole e per ritornare al discorso iniziale – la sua ermeneutica della persona.

Certo è che, praticando questo amore, Papa Francesco va incontro ai noti rischi del pastore della pecora perduta e del Padre del figlio che ritorna. Il pastore può ferirsi, il padre può subire, cosa anche dolorosa forse più di una ferita, la contestazione del figlio maggiore, il quale non riesce a capire perché il Padre accolga con amore il figlio peccatore.

Fuori dell’immagine, peraltro vivissima, anche Papa Francesco ha esperito ed esperisce ferite e incomprensioni per la sua ermeneutica della persona. In altre parole, se il pastore cerca la pecora smarrita, cioè la persona del peccatore, se il padre riaccoglie il figlio, cioè la persona che ha peccato, se il Papa accoglie il peccatore, se il Papa non emargina chi sbaglia, non va questo atteggiamento a scapito della integrità della dottrina? Deve prevalere la purezza della dottrina o l’amore e l’accoglienza del peccatore? Accogliendo il peccatore, giustifico il comportamento e sconfesso la dottrina?

Certamente no, come ci pare di aver dimostrato in casi particolari nelle pagine precedenti. Però notiamo che il Papa stesso si fa interprete e si fa carico della particolare sensibilità o della aliquale ansia di alcuni pastori e lo fa con queste parole già citate nelle pagine precedenti: “Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo a nessuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di spaccarsi il fango della strada” (Evangelii gaudium, 45)” (n. 308).

Ecco riespressa l’ermeneutica della persona. La quale ermeneutica non resta in Papa Francesco qualcosa di solo teorico, ma si traduce in sentimenti, che sono di compassione e di tenerezza. Il Papa torna spesso su questo tema della tenerezza specie nei confronti di chi soffre.

Non voglio ora usare parole mie. Uso quelle di Francesco nell’ Angelus domenicale, del 15 febbraio 2015, una vera, piccola perla. Ascoltiamo: “In queste domeniche l’evangelista Marco ci sta raccontando l’azione di Gesù contro ogni specie di male, a benefìcio dei sofferenti nel corpo e nello spirito: indemoniati, ammalati, peccatori. Nel Vangelo di oggi (cfr Mc 1,40-45). Gesù reagisce con un atteggiamento profondo del suo animo: la compassione. E ‘compassione’ è una parola molto profonda: compassione significa patire-con-l’altro”.

Il cuore di Cristo manifesta la compassione paterna di Dio per quell’uomo, avvicinandosi a lui e toccandolo. E questo particolare è molto importante. Gesù “tese la mano, lo toccò e subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato” (v. 41). A noi, oggi, il Vangelo della guarigione del lebbroso dice che, se vogliamo essere veri discepoli di Gesù, siamo chiamati a diventare, uniti a Lui, strumenti del suo amore misericordioso, superando ogni tipo di emarginazione.

Cardinale Francesco Coccopalmerio, “Ministro” vaticano della Giustizia,

www.eancheilpaparema.it/2016/07/il-cap-viii-di-amoris-laetitia-per-una-lettura-guidata-card-coccopalmerio

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GESTAZIONE PER ALTRI

Allontanamento conforme a CEDU

Corte europea con sentenza del 24 gennaio 2017, ricorso n. 25358/2012.

L’allontanamento dai genitori, da parte delle autorità italiane, di un bambino nato mediante ricorso alla maternità surrogata all’estero, è conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

A chiarirlo la Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo, respingendo le ragioni di una coppia italiana che chiedeva il riconoscimento del legame genitoriale con il figlio – e si opponeva all’allontanamento dello stesso – avuto mediante ricorso alla c.d. tecnica dell’utero in affitto.

La coppia, in particolare, dopo aver provato inutilmente ad avere un figlio, anche mediante pratiche adottive, aveva infine deciso di ricorrere alla maternità surrogata in Russia (dove la pratica è ammessa). Rientrati in Italia, tuttavia, i coniugi non erano riusciti ad ottenere la trascrizione dell’atto di nascita del bimbo all’ufficio di stato civile (ivi essendo la maternità surrogata vietata ex Legge n. 40/2004). Oltretutto era stato altresì avviato un procedimento penale a carico della predetta coppia, per alterazione di stato civile, sicché il bambino era stato allontanato. Da qui il ricorso a Strasburgo, dapprima accolto in primo grado, ma respinto presso la Grande Camera.

Non sussiste diritto alla vita familiare. Quest’ultima, in particolar modo, ha posto al centro della questione non tanto la trascrizione dell’atto di nascita, quanto piuttosto l’allontanamento del minore, con cui i genitori sostenevano di aver stretto legami, avendovi convissuto per 6 mesi.

Ma, stante l’assenza di legami biologici, l’incertezza del vincolo sotto il profilo giuridico ed il breve lasso di tempo trascorso con il bambino, la Corte ha ritenuto non sussistere, nel caso de quo, un diritto alla vita familiare da tutelare. Conseguentemente, nel disporre l’allontanamento dei minore, le autorità italiane non hanno commesso alcuna violazione della Cedu.

Nessun danno irreparabile. Allontanamento ammesso L’allontanamento, contemplato dalla legge italiana in detti casi, è sì un’ingerenza – conclude la Corte europea – ma senza dubbio giustificata laddove sia stato preventivamente accertato che il bambino non avrebbe sofferto danni irreparabili.

Inoltre, il permanere del bambino con i coniugi ricorrenti, sarebbe stata una sorta di implicita legalizzazione di una pratica (quella della maternità surrogata) di fatto vietata dall’ordinamento italiano.

Sentenza

www.dirittifondamentali.it/unicas_df/attachments/article/963/CEDU%20sent.%2024%20gennaio,%20ric.%20n.%2025358-12.pdf

Eleonora Mattioli Edotto 25 gennaio 2017

www.edotto.com/articolo/maternita-surrogata-si-allontanamento?newsletter_id=5888878efdb95003702c4bc3&utm_campaign=PostDelPomeriggio-25%2f01%2f2017&utm_medium=email&utm_source=newsletter&utm_content=maternita-surrogata-si-allontanamento&guid=c3f93286-c02d-47bb-aaa2-be5aeb2266f4

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OBIEZIONE DI COSCIENZA

Responsabilità medica: obiezione di coscienza e responsabilità penale del medico

La legislazione e la giurisprudenza in materia di obiezione di coscienza. Con la legge 194 del 1978, “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, è stato legittimato ed ha preso forma normativa, il fenomeno dell’aborto, prassi questa che, sino all’entrata in vigore di detta legge, veniva compiuta clandestinamente e che il più delle volte portava a conseguenze dannose se non alla morte della donna.

La ratio di tale corpo normativo, composto da 22 articoli, consiste nella maggior tutela possibile alla salute della gestante, nonché la facoltà di autodeterminazione della donna alla quale spetta il potere di interrompere o non interrompere la gravidanza; inoltre secondo quanto è disposto dall’articolo 14, il medico che esegue l’interruzione di gravidanza deve rendere edotta la donna non solo sulla regolazione delle nascite, ma deve anche renderla partecipe dei procedimenti abortivi, procedimenti questi che devono essere eseguiti nel rispetto della dignità della donna.

Una particolare attenzione deve essere soffermata sull’articolo 9 del citato corpo normativo, ove si legge che il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui all’articolo 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza; si tratta dei c.d. “obiettori di coscienza”. A far luce su tale disposizione è stata la Suprema Corte sesta Sezione penale, con sentenza 14974 del 2 aprile 2013, con la quale la sesta sezione ha condannato ai sensi dell’articolo 328, Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione, ad un anno di reclusione il sanitario che si era rifiutato di prestare cure mediche alla paziente sottoposta ad interruzione di gravidanza mediante somministrazione farmacologica.

I giudici di piazza Cavour hanno ravvisato l’elemento oggettivo del citato articolo nel rifiuto del sanitario a visitare la donna, dopo l’intervento interruttivo, a seguito di richieste avanzate dall’ostetrica nonché dal primario e dal direttore sanitario, omettendo quindi un atto che, per ragioni di sanità, il sanitario in questione, la guardia medica, avrebbe dovuto porre in essere senza ritardo; il rifiuto è stato tradotto come un indebito, non trovando alcuna giustificazione in leggi ovvero in normativa amministrativa, mentre l’atto da compiere possiede il carattere dell’urgenza, in quanto il suo differimento avrebbe procurato delle conseguenze dannose alla salute nonché alla vita della donna.

Dalla lettura del III comma dell’articolo 9 citato si evince che l’obiezione non si riferisce all’assistenza antecedente e successiva dell’intervento e pertanto l’obiettore non può esimersi ad effettuare quelle cure (precedenti e postume) che assicurino la tutela della salute e della vita della donna. Da ciò si comprende che gli Ermellini di Piazza Cavour hanno sottolineato, alla luce della Legge 194/1978, che l’obiezione solleva il medico unicamente dal compimento delle procedure e delle attività necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, diritto che peraltro trova il suo limite nella tutela della salute della donna, tanto è vero che il comma 5 dell’articolo 9 della citata legge esclude ogni operatività dell’obiezione di coscienza nei casi in cui l’intervento del medico obiettore, sia indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. Nella fattispecie sulla quale si è pronunciata la Suprema Corte, il sanitario era stato chiamato ad intervenire nella fase, quale secondamento, ossia non nella fase in cui si è verificata l’interruzione della gravidanza, bensì nella fase successiva, per la cui inadempienza la vita della donna avrebbe corso rischio se non fosse intervenuto d’urgenza il primario.

Alla luce di quanto esposto è lecito affermare che il diritto di obiezione esonera il medico nell’esercitare le attività mediche che si traducono nel diretto intervento di interruzione della gravidanza, non riferendosi pertanto a quelle precedenti ovvero successive per le quali ne è responsabile.

Il diritto di obiezione, secondo quanto disposto dall’articolo 9 della Legge 194/1978, deve essere esercitato con preventiva dichiarazione, la quale deve essere comunicata al medico provinciale e nel caso in cui gli obbiettori siano dipendenti dell’ospedale ovvero dipendenti della casa di cura detta dichiarazione deve essere conosciuta anche al direttore sanitario delle rispettive strutture.

I termini entro i quali esercitare tale diritto sono: entro un mese dall’entrata in vigore della Legge 194/1978; entro un mese del conseguimento dell’abilitazione; entro un mese dall’assunzione presso enti ove si pratica l’interruzione di gravidanza, ovvero entro il medesimo termine da quando la struttura nella quale si esercita abbia stretto una convenzione con enti previdenziali che svolgano l’attività di interruzione di gravidanza. L’obiezione può essere revocata ovvero essere prestata fuori del termine indicato; in quest’ultimo caso l’efficacia della dichiarazione decorre trascorso un mese dalla presentazione al medico provinciale.

L’obiezione di coscienza deve intendersi revocata, con effetto immediato, laddove l’obiettore pone in essere quelle attività di interruzione di gravidanza che non rientrino nel diritto alla salute ed alla vita della donna; contrariamente laddove un obiettore intervenga, procurando un aborto, per salvare la vita alla donna, ovvero per tutelarla, la sua dichiarazione non perde efficacia, rimanendo lo stesso sanitario obiettore di coscienza, in quanto ha agito per la salvezza della vita della donna.

Francesca Servadei – Redazione Newsletter Studio Cataldi 23 gennaio 2017

www.studiocataldi.it/articoli/24743-obiezione-di-coscienza-e-responsabilita-penale-del-medico.asp

 

Obiezione di coscienza e IVG: la prevalenza di un’interpretazione restrittiva.

Sommario: 1. La disciplina costituzionale del fenomeno religioso alla prova dell’obiezione di coscienza e l’obbligo della negoziazione. 2. L’obiezione di coscienza fra interpretazione estensiva “in uscita” (Cass. Sez. penale n. 14979 del 2013). 3. Interpretazione restrittiva “in entrata” (Tar Puglia, n. 3477 del 2010). 4. orientamento trasversale (ordinanza Trib. Spoleto, n. 60 del 2012). Ovvero, quali limiti all’obiezione del giudice? 5. Prime considerazioni conclusive.

(…)

pag. 6. 2. L’obiezione di coscienza fra interpretazione estensiva “in uscita”

(Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, Sentenza n. 14979, 2 aprile 2013)

http://neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=9309

Ridefinire i caratteri dell’obiezione, con particolare riferimento all’IVG, significa determinare la casistica degli adempimenti legittimamente rifiutabili dai sanitari. È l’operazione ermeneutica effettuata dalla Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 14979 del 2013, laddove individua il discrimine nella definizione, appunto, di “attività tipica legittimamente rifiutabile”: il ricorrente, nel caso di specie, rivendicava la sua condotta omissiva nell’ambito del “compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza”, in cui secondo la sua prospettazione, sarebbe ricompreso anche il diritto all’obiezione di coscienza, riguardante tanto la fase d’intervento in senso stretto, tanto l’assistenza conseguente, c.d. secondamento.

Il suo rifiuto a prestare le necessarie cure ad un a paziente già sottoposta a IVG era motivato dal dissenso a prendere parte al complesso processo abortista della donna, a dire della ricorrente, ancora in corso. In ipotesi di tal fatta, in effetti, l’obiezione di coscienza, riconosciuta da un legislatore consapevole del fatto che la legge abortista possa in astratto superare i limiti di tollerabilità avvertiti da una parte non ignorabile della società, configura in concreto una sorta di resistenza avverso una sostanziale violazione di valori.

L’appello alla coscienza produce, così, quella “uniformazione culturale”, che non coincide necessariamente con quella della religione, ma che ne rappresenta, invero, proprio la sua crisi e mette in dubbio l’effettiva persistenza della sua rilevanza sociale

(…) Normativamente, in effetti, la corretta individuazione dell’ambito di operatività soggettivo e oggettivo dell’obiezione di coscienza all’aborto nasce da un’oggettiva difficoltà di coordinare il comma primo dell’art. 9, che consente di non prendere parte “alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza”, e il successivo comma terzo, che limita l’obiezione al “compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza”, escludendo invece “l’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”. (Parte della dottrina ha ritenuto che il requisito delle attività “specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione volontaria della gravidanza” di cui al comma 3 non si applichi alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 richiamate dal comma 1, ma solamente all’intervento abortivo in senso stretto: tutte le attività previste dagli artt. 5 e 7, pertanto, sarebbero rifiutabili in nome dell’obiezione di coscienza, indipendentemente dal loro essere o meno “specificamente e necessariamente dirette all’interruzione della gravidanza”)

Ad un’attenta lettura coordinata delle disposizioni contenute nella legge n. 194, tuttavia, si rileva che la stessa distingue nettamente tra intervento sanitario in senso stretto e attività connesse, giacché definendo l’esonero non esteso alla “attività antecedente e conseguente all’intervento” si riferisce all’intervento sanitario interruttivo della gravidanza. L’esonero riguarda, quindi, com’è stato pacificamente osservato in dottrina e confermato dalla giurisprudenza, tutti quegli “atti preparatori all’intervento: per esempio, preanestesia, anestesia, analisi del sangue per stabilire la possibilità dell’intervento, ecc.”, ma non anche la cura e l’assistenza che segue l’intervento.

Tanto è vero che gli ormai risalenti (ai primi tempi di applicazione della legge) precedenti giurisprudenziali sul tema hanno riguardato fattispecie similari a quella in commento, in cui le condotte dei sanitari hanno esorbitato dalla legittima sfera di applicazione dell’obiezione di coscienza. (Nota 14. (…) Nello stabilire se la prestazione rifiutata fosse o meno “specificamente e necessariamente” diretta a determinare l’interruzione della gravidanza ai sensi dell’art. 9, 3 comma, il pretore, sostenuta la necessità di un’interpretazione restrittiva dei limiti oggettivi dell’obiezione di coscienza, ritenne che il requisito in esame comportasse che non potesse essere rifiutata nessuna attività, il cui compimento lasciasse ancora spazio ad una desistenza dalla volontà di effettuare l’intervento abortivo; con la conseguente opzione interpretativa di considerare rifiutabili soltanto quelle attività “legate in maniera indissolubile, in senso spaziale, cronologico e tecnico, all’intervento abortivo”, quali “le attività immediatamente precedenti l’anestesia, l’anestesia vera e propria e l’intervento abortivo”. (Pret. Penne 6.12.1983, in Giur. It., 1984, II, p. 314.).

È evidente, quindi, che se per la consolidata giurisprudenza sul tema, la ratio legis debba configurarsi nel rispetto delle opzioni morali di un consociato che svolge un’attività eticamente sensibile, è, altresì, doveroso che l’atto in sé, antecedente o susseguente all’intervento interruttivo in senso stretto, sia dotato di una intrinseca attitudine, sia astratta, che causale, a violare un personale precetto morale o religioso. In tale prospettiva, sarebbe illegittimo ipotizzare un’interpretazione che distingua, da un lato, gli interventi pro life, oggetto di attività dei medici obiettori, dall’altro, in contrapposizione, interventi diretti all’aborto, riservati alla categoria professionale dei non obiettori; tale prospettazione sarebbe, ulteriormente, discriminatoria e lesiva della dignità e della professionalità dei medici non obiettori, in quanto consentirebbe implicitamente, ma infondatamente, per assunto che essi siano inclini ad assecondare il proposito abortivo e a incentivare il ricorso all’IVG. (…)

pag. 8. 3. Interpretazione restrittiva “in entrata” (Tar Puglia, n. 3477, 14 settembre 2010).

www.regione.puglia.it/web/files/sanita/Sentenza_3477_2010_TAR_Puglia_Consultori_Obiettori.pdf

L’indirizzo giurisprudenziale più prudente nei confronti dell’obiezione di coscienza all’IVG tende a contenere e frenare, più che a sviluppare, le indicazioni favorevoli al riconoscimento delle esigenze della coscienza contenute nel sistema legislativo. Sembrerebbe che i giudici pugliesi abbiano aderito a questo orientamento (Corte Costituzionale, sentenza n. 27 del 1975), giurcost.org/decisioni/index.html

quando, allineandosi ad autorevoli (seppur risalenti) orientamenti dottrinali, hanno ritenuto determinanti, per la delimitazione oggettiva dell’obiezione, la formulazione del terzo comma dell’art. 9, ovvero la precisazione per cui l’esonero fosse limitato solo alle procedure e al le attività univocamente dirette all’aborto in senso stretto.

È il caso del ricorso di alcuni medici ginecologi esclusi a priori dalla procedura di selezione per i consultori familiari per carenza di uno dei requisiti richiesti (non essere, appunto, obiettori di coscienza) e della decisione dei giudici pugliesi di ritenere illegittima la scelta dell’amministrazione che li avesse esclusi aprioristicamente, in violazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza, nonché lesiva del principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), dei principi posti a fondamento dell’obiezione di coscienza (artt. 19 e 21 Cost.) e contrastante, altresì, con l’art. 4 Cost. relativo al diritto al lavoro. Sostiene la magistratura amministrativa pugliese che il sanitario obiettore, inserito nella struttura consultoriale, è obbligato allo svolgimento di tutte le mansioni, istruttorie e consultive, previste dalla legge, a prescindere dalle sue personali convinzioni ideologiche e religiose, manifestate o no con la dichiarazione di obiezione di coscienza ex art. 9 L. n. 194 del 1978, la quale non influisce sul regolare svolgimento delle attività consultoriali. Non vi sarebbe, in sostanza, quel nesso di causalità necessaria tra l’attività svolta nei consultori e l’evento abortivo, idonea a provocare un contrasto tra coscienza individuale e doveri professionali del sanitario.

A ben vedere, in effetti, tale impostazione risulta sorretta dalla rigorosa ricostruzione dei compiti spettanti, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 194\1978, ai Consultori familiari: in queste strutture, in realtà, si esplica solo attività di assistenza psicologica e di informazione/consulenza della gestante (cfr. artt. 2 e 5, legge n. 194 del 1978), ovvero si svolgono funzioni medico-diagnostiche (id est: accertamenti e visite mediche di cui all’art. 5, legge n. 194 del 1978) che esulano dall’iter abortivo in senso stretto, per le quali non opera l’esonero ex art. 9 e, quindi, attività e funzioni che qualsiasi medico (obiettore e non) è in grado di svolgere ed è, altresì, tenuto a espletare senza che possa invocare l’esonero di cui alla disposizione citata. Peraltro, soggiunge l’adito G.A., l’esonero di cui all’art. 9 per gli obiettori riguarda esclusivamente le procedure e le attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, non già l’assistenza antecedente e conseguente all’intervento (cfr. in particolare il comma 3 dell’art. 9).

Ancora una volta, quindi, nella delimitazione dei confini dell’obiezione all’aborto interviene la definizione di “attività tipica”, come discrimine al fine di determinare la casistica degli adempimenti legittimamente rifiutabili da parte dei sanitari.

I ricorrenti, nel caso di specie, rivendicavano il loro impiego nella “attività tipica del Consultorio”, che secondo la loro prospettazione sarebbe stata “mirata in primis a dissuadere la donna dall’iter abortivo”. Si tratta, com’è noto, di una proposta di riforma legislativa avanzata da alcune parti e tendente ad escludere dall’esonero la fase istruttoria che si svolge presso il consultorio, in modo da consentire agli obiettori di partecipare ad un’attività che, siccome ritenuta sostanzialmente dissuasiva, appare loro confacente; parimenti, si riserverebbe ai medici non obiettori solo l’attività strettamente amministrativa, consistente, cioè, nel mero rilascio del certificato (in caso d’urgenza che blocca i 7 giorni d’attesa) o del documento previsti dall’art. 5. In disparte ogni considerazione in merito alla dubbia opportunità di una riforma dai contenuti probabilmente dequalificanti per taluni professionisti, basti in questa sede osservare che si tratta appunto di un’idea di riforma, la cui effettiva attuabilità non può essere fatta valere in via giurisprudenziale, occorrendo una iniziativa legislativa. La natura meramente amministrativa di questa procedura è stata, del resto, chiarita anche dalla Corte Costituzionale nella già citata sentenza del 1987: www.giurcost.org/decisioni/1987/0196s-87.html

si tratta di una “procedura di riscontro, nel concreto, dei parametri previsti dal legislatore per potersi procedere all’interruzione gravidica (art. 4 della Legge: stato di salute, condizioni economiche, o sociali o familiari, circostanze del concepimento, ovvero previsioni di anomalie nel concepito)”.

A quest’attività di accertamento si accompagna, specialmente in ipotesi di particolari situazioni economiche, sociali e familiari della donna, l’attività di informazione sulle possibili soluzioni e sull’aiuto offerto dal sistema di sicurezza sociale per rimuove re le cause che la porterebbero alla gravidanza.

Si tratta di una complessa attività che non ha affatto come scopo, né principale né secondario, la dissuasione dalla gravidanza, di cui i medici obiettori sarebbero “la figura professionale più indicata”.

L’”approccio dissuasivo”, di cui essi parlano, esula dalla procedura di cui all’art. 5, che ha lo scopo (non di dissuadere ma) di porre la donna nelle condizioni migliori per effettuare, dopo uno spatium deliberandi di sette giorni, una scelta consapevole e responsabile (di qui l’informativa sugli interventi di sostegno offerti dal pubblico).

In particolare, poi, la ratio del colloquio non consiste nel “tutelare in primis il nascituro ed in secondo luogo la scelta della madre”. Anche su questo punto la giurisprudenza costituzionale è stata chiarificatrice nell’affermare che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita, ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare”. (Corte Costituzionale, sent. n. 27 del 1975) www.giurcost.org/decisioni/1975/0027s-75.html

È la tutela della salute della donna la priorità della legge, come, peraltro si desume dal fatto che solamente alla donna è rimesso il potere di decidere l’IVG, senza autorizzazione del medico. Questi, al termine del colloquio, rilascia solo il certificato attestante l’urgenza o la copia, firmata anche dalla donna, del documento che prende atto di tale richiesta. Lo scenario della pronuncia pugliese si arricchisce di alcuni elementi di carattere procedurale, utili a individuare la situazione giuridica dei ricorrenti medici obiettori, laddove solleva interessanti analogie con la materia dell’evidenza pubblica e, in particolare, con le procedure di affidamento di servizi pubblici. Tutto l’iter motivazionale appare improntato sulla scia della pregressa giurisprudenza tanto del Consiglio di Stato (Sez. V., 2 agosto 2010, n. 5069), quanto della Corte di Giustizia Ce, decisioni del 12 febbraio 2004. (…).

Simona Attollino (dottore di ricerca- Istituzioni e Politiche comparate – Università di Bari “Aldo Moro”

Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica, n. 33/2013 28 ottobre 2013

http://www.statoechiese.it/images/stories/2013.10/attollino.master_obiezione.doc.pdf

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ONLUS -NON PROFIT

Da quest’anno cambiano le regole del 5 per mille!

Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 luglio 2016 (GU 9 agosto 2016 n.185)

Fermo restando che continuano, tra le altre, ad avere diritto ad iscriversi alle liste del 5 per mille le Onlus, le ODV iscritte al Registro Regionale (L. 266/1991) e le APS iscritte al registro regionale (L.383/2000); per il 2017 le associazioni che si erano già iscritte, nel corso del 2016, alle liste del 5 per mille non devono ripresentare la domanda.

Entro il 31 marzo di ogni anno (compreso il 2017) verrà pubblicato un elenco sul sito dell’Agenzia delle Entrate nel quale compaiono gli enti che, avendo presentato la domanda l’anno precedente, sono di diritto iscritti alle liste del 5 per mille (verificare!)

Una associazione che ha presentato la domanda d’iscrizione (in modo completo e senza errori) alle liste del 5 per mille nel corso del 2016 non dovrà ripresentare la stessa gli anni successivi così come, dall’anno prossimo, non dovranno più ripresentare la domanda le associazioni che, quest’anno, per la prima volta si iscriveranno agli elenchi del 5 per mille.

In caso di variazione del rappresentante legale dell’associazione, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà trasmessa nel 2016 perde efficacia e, dunque, c’è l’obbligo per il nuovo rappresentante legale di trasmettere entro il 20 maggio una nuova dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà con le seguenti indicazioni: data della sua nomina; data di iscrizione dell’ente alla ripartizione del contributo (per il 2017 si fa riferimento all’iscrizione telematica del 2016).

Viene invece confermata la necessità di rendicontare il contributo ricevuto entro un anno dalla ricezione, che dovrà essere usato per il perseguimento delle attività istituzionali. Nel caso in cui la somma ricevuta sia inferiore a 20mila euro la rendicontazione dovrà semplicemente essere conservata in sede per 10 anni; se invece fosse uguale superiore a tale importo dovrà essere trasmessa al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che (a differenza di quanto previsto fino ad ora) provvederà a pubblicarla sul proprio sito web www.anpas.org/Allegati/5permille/2016_DPCM_semplificazione_e_trasparenza_5x1000.pdf

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PASTORALE

La Chiesa e i gay: «Così accogliamo chi chiede aiuto»

Parte dalla diocesi di Torino la nuova pastorale. Il responsabile, don Carrega: «Insieme per riflettere».

Omosessuali e credenti. Chi liquida la questione alzando le spalle con il solito e un po’ banale: «E allora? Che problema c’è?», ignora la complessità della questione. La persona omosessuale, profondamente convinta che sia proprio questo l’orientamento conforme al suo sentire – e non si tratta di un approdo scontato vista l’amplissima gamma di sfaccettature che segna la realtà omosessuale – vive solitamente un rapporto con la fede segnato da almeno tre disagi: emarginazione, conflittualità e, non di rado, rabbia. L’emarginazione nasce dal timore di accostarsi alla comunità ecclesiale. Dall’incertezza sull’opportunità di esprimere la propria condizione.

Nella Chiesa le sensibilità, com’è noto, sono molte diverse e non ovunque si trovano sacerdoti e operatori pastorali disposti a mettere da parte pregiudizi e convinzioni sedimentate in una certa tradizione, per accostarsi in modo sereno alla realtà di persone che spesso portano nel cuore un vissuto difficile e complesso, offrendo loro un aiuto segnato da rispetto e dignità. È la ragione per cui papa Francesco ha dedicato al tema un paragrafo dell’Esortazione postsinodale Amoris lætitia – lo ricordiamo in questa pagina – e la pastorale familiare ha avviato già da alcuni mesi una ricognizione sulle proposte pastorali in atto. «Un’attenzione – spiega don Paolo Gentili, direttore nazionale dell’Ufficio Cei – che ha trovato nell’ottobre scorso, nel nostro convegno nazionale, un momento importante di riflessione, con l’obiettivo di valorizzare esperienze diocesane, ma non solo».

In quell’occasione era stato tra l’altro ribadito che una pastorale di frontiera non potesse caratterizzarsi se non con un volto amico, accogliente, non giudicante. Per questo l’approccio scelto da don Gianluca Carrega, responsabile dell’arcidiocesi di Torino per la pastorale delle persone omosessuali, in occasione del primo week-end di riflessione dedicato nei giorni scorsi a questi credenti, è stato di tipo umano e psicologico. «C’erano già stati nei mesi scorsi alcuni cicli pomeridiani. Adesso – racconta – ci è sembrato il momento di inaugurare questa nuova formula. Due giorni insieme a riflettere e a pregare». Si sono presentati in una trentina, non solo provenienti dall’arcidiocesi di Torino, a sottolineare un bisogno di cui spesso non si tiene conto.

«Non nego – riprende don Carrega – che un buon numero di persone si siano presentate anche solo per la curiosità di verificare quale fosse la nostra proposta». L’annuncio dell’incontro era stato diffuso in tutta la diocesi attraverso i canali ecclesiali, ma anche attraverso il portale del Progetto Gionata, lo stesso che nella primavera scorsa aveva organizzato il Forum dei cristiani lgbt ad Albano laziale. La prima parte della giornata è stata dedicata alla riflessione personale, con l’intervento della psicologa Arianna Petilli, del gruppo Kairos di Firenze, che si è concentrata appunto sulla difficoltà di vivere la duplice dimensione: omosessualità e fede. «Troppo spesso, anche da parte di persone mature – spiega ancora il sacerdote torinese – si tende a sacrificare l’una a danno dell’altra. Si teme il rifiuto a priori, la paura di non trovare accoglienza».

Nulla di simile a Torino. Di tono sereno e familiare anche il momento con l’arcivescovo Cesare Nosiglia che ha voluto intrattenersi con i partecipanti e ha risposto alle loro domande. Tra le questioni affrontate l’accompagnamento delle famiglie che si confrontano con la scoperta di un figlio omosessuale. Come comportarsi? Cosa dire? Da chi farsi aiutare quando ci sono punti di vista apparentemente inconciliabili? «Nosiglia – riferisce don Carrega – ha spiegato che occorrono sensibilità e delicatezza. Che colpevolizzarsi non serve a nulla. Che non bisogna mai considerare un figlio come perduto. Che nella riflessione, oltre alla preghiera e alla riflessione spirituale, può essere d’aiuto un sopporto psicologico».

E poi c’è lo spinoso, imbarazzante tema della sessualità omosessuale che, inutile negarlo, è l’aspetto più problematico. Quando ci si presenta in coppia, il rischio esclusione aumenta in modo esponenziale. Purtroppo il paradosso è in agguato e in qualche modo ricalca la contraddizione che già segna l’accoglienza in confessionale dei divorziati risposati, coloro perlomeno che ritengono in coscienza di non astenersi totalmente dai rapporti coniugali. L’atto singolo, anche se reiterato, trova più facilmente indulgenza che non la scelta meditata, e magari maturata nella preghiera, di una coppia stabile. «Non voglio entrare in questioni dottrinali – conclude il sacerdote torinese – ma non si può negare che esista un valore quando ci si trova di fronte a persone che vivono in modo stabile e dignitoso la loro condizione. La domanda che dobbiamo porci è molto semplice. Vogliamo accogliere chi con sincerità chi si rivolge a noi chiedendo un accompagnamento spirituale anche se vive una situazione sessualmente problematica?». Domanda che, soprattutto per un credente, non avrebbe bisogno di risposte.

Quello che dice l’Amoris lætitia: «Con i padri sinodali ho preso in considerazione la situazione delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, esperienza non facile né per i genitori né per i figli». È quanto si legge in “Amoris lætitia” (250) a proposito del rapporto tra pastorale e omosessualità. «Desideriamo ribadire che ogni persona – prosegue il Papa – indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto…». Nei riguardi delle famiglie «si tratta di invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possono avere gli stessi aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita». Nel paragrafo successivo si respinge poi ogni tipo di equiparazione tra matrimonio e unioni omosessuali.

Lgbt, l’ascolto e l’accompagnamento: Roma, Napoli, Pescara, Matera. Ci sono esperienze radicate e importanti che viaggiano anche ai margini delle diocesi. Come quella proposta dall’Apostolato Courage, nato negli Usa nel 1980 e oggi presente in varie comunità italiane. Oppure quella avviata dai gesuiti con padre Pino Piva, responsabile nazionale degli Esercizi ignaziani e della pastorale di frontiera. Roma e Napoli le due sedi principali. E poi c’è la galassia del Forum dei credenti lgbt – sigla che in ambito ecclesiale fa arricciare il naso a non pochi – che trova la sua vetrina nel Progetto Gionata.

Ma anche in ambito diocesano non mancano le proposte specifiche. Come quella presente a Pescara grazie a don Cristiano Marcucci, responsabile diocesano della pastorale familiare (e presidente del consultorio familiare Ucipem): «Siamo partiti ormai da anni – racconta – con l’aiuto ai genitori che scoprono di avere tendenze omosessuali. Numeri in crescita, come sappiamo, anche a causa della confusione a proposito dell’identità sessuale che coinvolge molti ragazzi». Per questi genitori, accolti sia dall’Ufficio famiglia, sia dal consultorio diocesano, vengono proposti laboratori specifici. «Il discorso è complesso, ma noi non pretendiamo di spiegare cosa fare o non fare, ma solo di accogliere, di aiutare ad elaborare una fatica, poi gli sviluppi sono mille e mille. La premessa è l’accoglienza offerta con amore. E questo fa cambiare le persone».

Anche don Leo Santorsola, teologo e fondatore del movimento “Famiglia e vita” di Matera, segue genitori alle prese con il problema dell’omosessualità dei figli. Le richieste di aiuto arrivano allo sportello di ascolto del Centro Regina Familiæ gestito appunto dal movimento. «La pastorale delle persone con orientamento omosessuale – osserva don Santorsola – deve rientrare nella pastorale della famiglia. Se fino a qualche anno fa il nesso tra pastorale della famiglia e questione omosessuale poteva apparire incomprensibile, oggi alla luce delle rivendicazioni, già accolte in alcune legislazioni nazionali, di un “matrimonio” per persone con inclinazioni omosessuali, non è più così. Questo spiega perché, in vista del Sinodo, il questionario preparatorio – ricorda l’esperto – prevedeva una serie di domande sulle unioni tra persone dello stesso sesso». Tante le questioni per la cui la pastorale familiare non può che sentirsi coinvolta. Cosa fa una famiglia quando prende coscienza che un figlio ha orientamento omosessuale? E quale aiuto le viene offerto dalla comunità cristiana? E come rispondere a chi, anche in ambienti cattolici, vede nel matrimonio la soluzione all’orientamento omosessuale?

Per tutte queste situazioni, ma non solo, don Santorsola sollecita l’impegno «per una formazione degli operatori pastorali. Si deve conoscere il fenomeno omosessuale con tutte le sue implicazioni, superando i tanti pregiudizi che ancora circolano nelle comunità cristiane. Bisogna saper distinguere ciò che è proprio dell’omosessualità e ciò che appartiene all’ideologia gay. Si deve conoscere l’insegnamento della Chiesa che ruota attorno alla distinzione tra orientamento omosessuale e atti omosessuali. Se l’orientamento omosessuale non è colpa ma “disordine oggettivo” che non dipende dal soggetto, gli atti omosessuali sono invece peccati che è nella facoltà delle persone, aiutate, evitare. Ascoltare, accogliere, accompagnare e integrare nella comunità, come vuole il Papa, vale anche per le persone con queste inclinazioni. Ma dobbiamo aiutarli – conclude – a liberarsi dell’ideologia gay con i suoi tanti stereotipi».

Luciano Moia Avvenire 28 gennaio 2017

www.avvenire.it/chiesa/pagine/la-chiesa-e-i-gay-cos-accogliamo-chi-chiede-aiuto

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SEPARAZIONE

Gassani: 1 coppia su 5 in Italia separata in casa, per non finire sul lastrico

I dati dell’Associazione Matrimonialisti Italiani sulle “coppie infelici invisibili”. 1 coppia su 5 in Italia è separata in casa. Per varie ragioni, tra cui il non riuscire ad affrontare i costi del divorzio. Di contro, alcuni simulano la separazione per non pagare le tasse. Si tratta di anomalie “tutte italiane”, come denuncia all’Adnkronos, il presidente dell’Associazione Avvocati Matrimonialisti Gian Ettore Gassani.

In Italia c’è un vero e proprio “esercito di coppie infelici invisibili che sono lo specchio più evidente dei tempi nei quali viviamo. Sono i separati in casa – afferma infatti Gassani – Una situazione così diffusa che il bravissimo regista Joachim Lafosse ha voluto rappresentare nel suo ultimo film ‘Dopo l’amore”’.

E anche se non ci sono numeri esatti, si può stimare che “un quinto delle coppie è, di fatto separata tra le mura domestiche”. I motivi? Sono diversi: “per incapacità di affrontare l’iter della separazione, per non dare un dolore ai figli, per noia, o anche per etichetta” ma soprattutto e innanzitutto “economici”.

Basta pensare che “nel 50% dei casi di separazione o divorzio lo sgretolamento del nucleo familiare produce situazioni di indigenza specie quando devono essere mantenuti i figli minorenni” spiega il presidente dell’Ami. “Relativamente alle fasce economicamente più deboli e a stipendio fisso è facilmente intuibile quanto una famiglia in cui lavora solo l’uomo sia inevitabilmente condannata alla povertà – prosegue – atteso che la separazione comporta necessità di affrontare spese per due abitazioni ed il raddoppio di tutte quelle necessarie per vivere”.

Questo dimostra ampiamente, conclude Gassani, che “anche una scelta libera e consapevole quale il diritto di separarsi o divorziare qui sta diventando un vero e proprio lusso, con la situazione paradossale: in Italia molte coppie optano per la separazione simulata per non pagare le tasse mentre molte altre coppie scelgono di condurre una vita da separati in casa per non finire sul lastrico”.

Redazione Newsletter Studio Cataldi 23 gennaio 2017

www.studiocataldi.it/articoli/24781-gassani-1-coppia-su-5-in-italia-separata-in-casa-per-non-finire-sul-lastrico.asp

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SINODO DEI VESCOVI

I giovani, la fede e il discernimento vocazionale.

E’ pubblicato il documento preparatorio del prossimo Sinodo dei vescovi dedicato a “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.

www.vatican.va/roman_curia/synod/documents/rc_synod_doc_20170113_documento-preparatorio-xv_it.html

E’ accompagnato da una Lettera di papa Francesco ai giovani.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/letters/2017/documents/papa-francesco_20170113_lettera-giovani-doc-sinodo.html

Il documento è stato presentato in una conferenza stampa.

http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2017/01/13/0023/00055.html

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TRIBUNALI ECCLESIASTICI

Intervista al Card. Coccopalmerio ad un anno dalla pubblicazione del ‘Mitis iudex’

I Tribunali interdiocesani italiani sono dei buoni Tribunali, rispondono alle esigenze della riforma e soddisfano in modo semplice e rapido le istanze di giustizia dei fedeli. No all’istituzione di Tribunali diocesani quando non c’è personale adeguatamente preparato in sede locale: sarebbero vuoti simulacri. Il processo canonico è volto a constatare la nullità del matrimonio ove ci sia, non a pronunciarla ad ogni costo ritenendo di venire incontro ad una coppia in crisi e magari evocando una malintesa ‘finalità pastorale’: si tradirebbe la natura profonda del processo matrimoniale che è sempre un giudizio pro rei veritate. La riforma prevede disposizioni volte a favorire non la nullità dei matrimoni, ma la celerità dei processi. Positivo il confronto nel Tavolo di lavoro convocato dalla CEI con il Pontificio consiglio per i testi legislativi, la Segnatura e la Rota. Anche nella riforma della Curia romana il diritto canonico deve conservare un ruolo importante.

Sono questi gli argomenti affrontati dal Card. Francesco Coccopalmerio, Presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi, nell’intervista rilasciata a iuscanonicum.it. Il Cardinale, che è stato anche componente della Commissione pontificia per la riforma del processo canonico matrimoniale, parla sui temi di maggiore attualità, ad un anno dalla pubblicazione del Motu proprio ‘Mitis iudex’ che ha profondamente innovato le procedure canoniche per la dichiarazione della nullità matrimoniale.

Eminenza, oggi è centrale la discussione sulla famiglia. Quale il rapporto tra questo tema affrontato dal Sinodo dei Vescovi, e la riforma del processo matrimoniale canonico voluta da Papa Francesco con il Motu proprio ‘Mitis iudex’?

Il Motu proprio ha una valenza – diciamo – ‘sinodale’. È, infatti, nato dalle istanze sui temi della famiglia emerse al Sinodo dei Vescovi, sia nell’assise straordinaria del 2014 che in quella dell’anno successivo. I Vescovi in modo unanime hanno sentito la necessità di un intervento per fare in modo che i fedeli potessero avvicinarsi con maggiore facilità alle strutture giudiziarie della Chiesa e ricevere una risposta in tempi più rapidi. La riforma del processo matrimoniale operata da Papa Francesco rappresenta una risposta alle istanze espresse dai Vescovi: in questo senso dico che il Motu proprio ha una valenza ‘sinodale’.

Il Papa sottolinea spesso l’esigenza di una Chiesa ‘in uscita’, una maggiore vicinanza ai fedeli, soprattutto verso chi si trova in difficoltà. La prossimità nei confronti delle famiglie in crisi è un’altra indicazione che viene dalla riforma.

Avvicinare i fedeli alle strutture giudiziarie della Chiesa significa portare concretamente queste stesse strutture a un livello di maggiore prossimità. In questo senso, ogni diocesi potrebbe avere un proprio Tribunale per le cause matrimoniali e questo rappresenterebbe senz’altro il maggiore livello di prossimità. Ove tuttavia questo per vari motivi non fosse possibile, è comunque prevista dal Motu proprio anche la struttura dei Tribunali ecclesiastici interdiocesani (che in Italia è peraltro la struttura prevalente), che può ugualmente soddisfare in modo semplice e rapido le esigenze di giustizia dei fedeli. In questo senso, mi sento di affermare che i Tribunali interdiocesani italiani, in quanto sono dei buoni Tribunali, attuano senza dubbio quelle finalità di vicinanza e celerità volute dalla riforma. C’è comunque da sottolineare che se un Vescovo vuole costituire un proprio Tribunale a livello diocesano ha certamente tutta la libertà di farlo, anzi in qualche modo è anche esortato a farlo, ma questo deve essere un vero Tribunale, non un simulacro o una parvenza, come sarebbe nel caso in cui non ci fossero in diocesi personale adeguato e strutture idonee. La libertà del Vescovo di costituire il Tribunale è piena, ma nello stesso tempo è affiancata dal dovere altrettanto grave di strutturare un vero Tribunale, con le professionalità necessarie e con gli strumenti necessari. Per questo è importante che i Vescovi, nel valutare se istituire o meno i propri Tribunali diocesani, prendano in considerazione molto bene tutti i diversi aspetti che una tale scelta implica.

Anche perché il Motu proprio ribadisce la natura giudiziale e non amministrativa del processo matrimoniale, per garantire l’accertamento della verità sul vincolo.

Non va mai dimenticato che la dichiarazione di nullità matrimoniale è un giudizio che deve basarsi sulla realtà, deve cioè esaminare e dichiarare se il matrimonio è nullo oppure no sulla base di quanto risulta dagli atti: non deve e non può in nessun modo essere un giudizio che costituisca esso stesso la nullità del matrimonio o che affermi una nullità ove questa non fosse reale. Non sarebbe corretto che un vescovo o un giudice, per venire incontro ad una coppia in crisi, facesse di tutto per dichiarare la nullità di un matrimonio che invece nullo non è, magari evocando una malintesa ‘finalità pastorale’ che porterebbe invece a tradire la natura profonda del processo matrimoniale che è sempre un giudizio pro rei veritate. La riforma prevede infatti delle disposizioni volte a favorire non la nullità dei matrimoni, ma la celerità dei processi.

Tribunali più vicini ai fedeli, ma anche rapidità delle sentenze: in questo senso la riforma prevede l’abolizione della necessità di doppia conforme e l’istituzione del nuovo processus brevior.

Si tratta di punti importanti del Motu proprio che incidono direttamente sul processo matrimoniale proprio in quella direzione di semplificazione e celerità di cui parlavamo. Sull’abolizione della doppia conforme il Pontificio consiglio non ha dati diretti, bisognerebbe sentire gli operatori dei Tribunali per vedere in concreto gli esiti di questa novità e verificare meglio la situazione. Per quanto riguarda il processus brevior ci sono diversi casi ormai sperimentati. Credo però che su questo la prassi debba ancora assestarsi e operare delle chiarificazioni: sarebbe auspicabile forse anche un nuovo intervento a livello normativo. Gli operatori e i Vicari giudiziali dei Tribunali italiani riuniti al Congresso dell’Associazione canonistica italiana a Udine si sono confrontati in modo approfondito sul punto e magari arriveranno anche al Pontificio consiglio nuove richieste di chiarificazioni in merito. Credo che però sarà soprattutto dalla prassi che emergeranno le indicazioni su come applicare anche questo aspetto importante della riforma.

Come Presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi, insieme al Prefetto della Segnatura apostolica e al Decano della Rota, ha partecipato al Tavolo su questi temi promosso dalla CEI: cosa può dirci di questi lavori?

Abbiamo fatto una prima riunione di questo Tavolo, presieduto dal Segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons. Nunzio Galantino. C’è stata una discussione proficua: abbiamo affrontato alcuni temi legati all’applicazione della riforma del processo matrimoniale e della specifica situazione dei Tribunali ecclesiastici italiani e siamo arrivati a delle conclusioni unitarie. Il lavoro va avanti e immagino arriveranno quindi al Tavolo anche altre questioni. L’aspetto importante che mi sento di sottolineare è la felice intuizione di affrontare in modo unitario e congiunto, per quanto possibile, le questioni, con l’intervento contestuale della CEI, del Pontificio Consiglio per i testi legislativi e della Segnatura: in qualche occasione questo coordinamento era prima mancato.

Una conseguenza della riforma è stata quella di riportare il diritto canonico al centro del dibattito e dell’interesse dei Vescovi.

Senza dubbio l’attuale dibattito sul processo matrimoniale ha portato ad una maggiore attenzione al diritto canonico nella vita della Chiesa e alla riscoperta della sua importanza anche in una prospettiva pastorale. E’ chiaro infatti che non può esistere alcuna contrapposizione tra diritto e pastorale, perché la dimensione giuridica e quella pastorale sono inseparabilmente unite nella Chiesa. Per questo è importante che il diritto canonico sia maggiormente conosciuto e approfondito, non solo dagli specialisti (penso ai sacerdoti impegnati nelle curie e nelle parrocchie, ove i problemi giuridici da affrontare sono complessi), ma anche dai laici, il cui ruolo viene grandemente valorizzato dalla riforma nelle strutture pastorali di aiuto e sostegno alle famiglie in difficoltà: servono persone competenti per accompagnare i fedeli in una prima indagine sul loro matrimonio, per verificare se ci sono le condizioni per avviare una causa di nullità. Anche in questo vedo un segnale di grande vitalità della nostra materia e uno stimolo molto positivo che viene dalla recente riforma.

Il diritto canonico resta importante anche nell’ottica della riforma della Curia romana avviata da Papa Francesco e su cui sta lavorando il Consiglio dei nove cardinali.

Certamente. Quali Dicasteri giuridici nell’ambito della Curia romana, operano anzitutto i tre Tribunali apostolici e poi evidentemente il Pontificio consiglio per i testi legislativi che sono chiamato a dirigere. Il Dicastero ha come suo ruolo specifico quello di promuovere il diritto canonico in vari modi. Innanzitutto nella proposta normativa al Papa. Questa funzione porta a monitorare costantemente la legislazione della Chiesa universale, nei due codici latino e orientale e nelle altre leggi, per verificare la presenza di lacune o obsolescenze, in modo da poter suggerire al legislatore, che è il Papa, l’opportunità di intervenire, emanando norme nuove o intervenendo per riformare norme ormai invecchiate. Riteniamo inoltre molto importante per il nostro Dicastero costituire una rete di contatti, di conoscenze e di dialogo tra le varie realtà che nel mondo si occupano di diritto canonico: il confronto delle diverse esperienze appare molto utile, anche perché ad esempio le buone soluzioni adottate in alcune situazioni possono essere replicate in altri contesti, anche geograficamente molto distanti. Per questo vorremmo costituire e rafforzare i legami e i contatti tra i canonisti nel mondo, anche attraverso il nostro sito internet. 15 novembre 2016

www.iuscanonicum.it/intervista-al-card-coccopalmerio-ad-un-anno-dalla-pubblicazione-del-mitis-iudex

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UNIONI CIVILI

Il decreto legislativo sulle norme di diritto internazionale privato per le unioni civili

Sarà pubblicato a breve sulla Gazzetta ufficiale il decreto legislativo che dà attuazione all’articolo 1, comma 28, lettera b) della legge 20 maggio 2016 n. 76 che delega il governo all’adozione di disposizioni di modifica e riordino delle norme di diritto internazionale privato in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso. Il testo, approvato dal Consiglio dei ministri il 14 gennaio 2017 interviene con l’aggiunta di talune disposizioni alla legge n. 218/1995. In particolare, è inserito l’articolo 32 bis in base al quale il matrimonio celebrato all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso produce gli stessi effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana.

Per quanto riguarda la legge applicabile, il decreto chiarisce che la capacità e le condizioni per costituire l’unione civile sono regolate dalla legge nazionale di ciascuna parte al momento della costituzione dell’unione civile. Nel caso in cui la legge richiamata non ammetta l’unione civile tra persone maggiorenni dello stesso sesso si applica la legge italiana, anche perché “le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 4, della legge 20 maggio 2016, n. 76, sono di applicazione necessaria”. In questa direzione, con una chiara volontà di impedire status claudicanti e superare gli ostacoli alla costituzione di unioni civili, l’articolo 32 ter prevede che se la legge straniera non consente la produzione del nulla osta proprio a causa del mancato riconoscimento delle unioni, esso è sostituito “da un certificato o altro atto comunque idoneo ad attestare la libertà di stato, ovvero da dichiarazione sostitutiva ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. Resta salva la libertà di stato accertata o acquisita per effetto di un giudicato italiano o riconosciuto in Italia”. In materia di forma è confermato quanto previsto nella proposta iniziale ossia che l’unione civile è valida “se è considerata tale dalla legge del luogo di costituzione o dalla legge nazionale di almeno una delle parti o dalla legge dello Stato di comune residenza al momento della costituzione”, con una chiara applicazione del principio del favor valididatis.

Sul regime patrimoniale e sui rapporti personali, l’art. 32 ter n. 4 rinvia alla legge dello Stato in cui l’unione è stata costituita. Tuttavia, le parti possono chiedere al giudice l’applicazione della legge dello stato in cui la vita comune è prevalentemente localizzata. Per i rapporti patrimoniali è disposto che, con forma scritta, siano regolati dalla legge dello Stato di cui almeno una di esse è cittadina o nel quale una di esse risiede. La norma si discosta dall’art. 30 della legge n. 218/95 ma è conforme al regolamento n. 2016/1104 che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate che sarà applicato dal 29 gennaio 2019. Per quanto riguarda lo scioglimento dell’unione civile la disciplina è dettata dalla legge applicabile al divorzio in conformità al regolamento n. 1259/2010/UE del 20 dicembre 2010 relativo ad una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale. Modificato, in ultimo, l’articolo 45 della legge n. 218. Il nuovo testo dispone che le obbligazioni alimentari “nella famiglia sono regolate dalla legge designata dal regolamento 2009/4/CE del Consiglio del 18 dicembre 2008 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari, e successive modificazioni.”.

Marina Castellaneta 27 gennaio 2017

www.marinacastellaneta.it/blog/in-arrivo-in-gazzetta-il-decreto-legislativo-sulle-norme-di-diritto-internazionale-privato-per-le-unioni-civili.html

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Le comunichiamo che i suoi dati personali sono trattati per le finalità connesse alle attività di comunicazione di newsUCIPEM. I trattamenti sono effettuati manualmente e/o attraverso strumenti automatizzati. Il titolare dei trattamenti è Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali Onlus – 20135 Milano-via S. Lattuada, 14. Il responsabile dei trattamenti è il dr Giancarlo Marcone, via Favero 3-10015-Ivrea.newsucipem@gmail.com

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