newsUCIPEM n. 617 – 2 ottobre 2016

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Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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AFFIDO ESCLUSIVO Padre immaturo? Il figlio va con la madre.
AMORIS LAETITIA Perché oggi manchiamo della profezia dei canonisti?
ASSEGNO DI MANTENIMENTO Iscrizione a Università dei figli non legittima a chiederne aumento.
Mantenimento dei figli maggiorenni dopo la separazione.
ASSEGNO DIVORZILE Con la nuova convivenza assegno dell’ex perso per sempre.
BIOETICA Bimbo nato con Dna di 3 genitori, tecnica con rischi ignoti.
CASA CONIUGALE Divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi.
Addio casa per la ex che ha diritto al solo mantenimento.
CENTRO ITALIANO DI SESSUOLOGIA Ciclo di Seminari formativi. Terzo seminario Intorno al genere.
SessuologiaNewsOnline settembre 2016.
CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF Newsletter n. 16/2016, 21 settembre 2016.
CHIESA CATTOLICA Ruolo delle donne nella Chiesa: concluso simposio a Roma.
La lunga marcia dei gay credenti, con Bergoglio fuori da catacombe.
Il vizio più difficile da estirpare. Enzo Bianchi.
CHIESE EVANGELICHE Pastori sposati.
CONSULTORI FAMILIARI Torino. Punto familia. Accompagnare la coppia alla nascita figlio.
CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Faenza. Corso di autoconsapevolezza e Corsi di metodi naturali.
Roma 1 via della Pigna 13. Incontro introduttivo MPA.
Villanova di Guidonia Montecelio. Spazio Ragazzi.
CONVIVENZE DI FATTO Convivenza more uxorio e la giurisprudenza sulla famiglia di fatto.
Commento di Enzo Bianchi, priore a Bose (BI).
DIVORZIO Divorzio? Meglio la relazione sabbatica.
FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI Il Forum nazionale segnala: Associazione Aiuto Famiglie.
FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Ai vescovi argentini: vera carità pastorale.
GESTAZIONE PER ALTRI Utero in affitto: 50 lesbiche ne chiedono l’abolizione.
MEDIAZIONE FAMILIARE Dal conflitto all’accordo, come funziona il percorso.
PARLAMENTO Senato-Com. Giustizia Disposizioni sul cognome dei figli.
SINODO DEI VESCOVI Diario del Sinodo, di Franco Ferrari: una svolta in famiglia.
UCIPEM XXIV Congresso: relazione dell’avv. Rosalisa Sartorel (Belluno).
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AFFIDO ESCLUSIVO
Padre immaturo? Il figlio va con la madre.
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 18559, 22 settembre 2016
Per la Cassazione, l’affido esclusivo alla mamma risponde all’interesse preminente del minore in considerazione della scarsa maturità genitoriale dell’uomo. Perde il figlio il padre immaturo che viene affidato esclusivamente alla madre. A sancirlo è la Cassazione, accogliendo il ricorso di una donna che chiedeva l’affido esclusivo del figlio data la grande immaturità dell’ex marito e le aggressioni subite dallo stesso.
Per gli Ermellini, va ribaltato il verdetto della corte d’appello di Potenza che, a sua volta discostandosi dalla decisione del giudice di primo grado, aveva negato la richiesta della donna.
Da piazza Cavour arriva un monito importante e una tirata d’orecchie per i giudici di merito: è vero che l’affido condiviso costituisce la modalità prioritaria, ma lo stesso cade nel momento in cui sia contrario all’interesse del figlio. E non è dato comprendere le perplessità dei giudici di secondo grado considerati i dati emersi “attestanti la scarsa maturità genitoriale dell’uomo nell’affrontare quelle maggiori responsabilità che l’affido condiviso comporta e la sua inidoneità educativa”.
In particolare, ricorda la S.C., si rivela “sostanzialmente travisato l’interesse superiore del minore cui, come noto, occorre dare preminenza, la cui portata, dev’essere intesa come non limitata all’intuibile o comprensibile desiderio del bambino di mantenere la bigenitorialità, ma in funzione del soddisfacimento delle sue oggettive, fondamentali e imprescindibili esigenze di cura, mantenimento, educazione, istruzione, assistenza morale, e della sua sana ed equilibrata crescita psicologica, morale e materiale”.
Sintomatica, peraltro, “dell’inadeguata valutazione dell’interesse del figlio delle parti appare, in aggiunta allo scarso rilievo attribuito ai profili del mantenimento e della irregolarità e non assiduità delle frequentazioni paterne, soprattutto l’assenza di specifica considerazione della tipologia e gravità della conflittualità esistente tra le parti e dei reati commessi dall’uomo” in danno della ex moglie, “inevitabilmente invece destinati a riflettersi negativamente anche su sentimenti ed equilibri affettivi, personali e familiari e sui rapporti interpersonali e, dunque, dotati di rilevante influenza sullo stabilimento del regime di affidamento più consono, anche in prospettiva al figlio della coppia”.
Nessun dubbio dunque sull’accoglimento del ricorso della madre. Parola al giudice del rinvio.
Marina Crisafi newsStudioCataldi.it 29 settembre 2016 sentenza
www.studiocataldi.it/articoli/23498-padre-immaturo-il-figlio-va-con-la-madre.asp
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AMORIS LAETITIA
“AL” e il dibattito aperto sul diritto canonico. Perché oggi manchiamo della profezia dei canonisti?
Fin dall’inizio del dibattito Sinodale sulla famiglia, agli inizi del 2014, era chiaro che uno dei nodi su cui si sarebbe appuntata l’attenzione e la elaborazione ecclesiale era la “legge canonica sul matrimonio” e la sua adeguatezza per l’annuncio del Vangelo nella società aperta. E tutti gli osservatori hanno potuto costatare come, negli interventi in aula durante il duplice Sinodo, soprattutto ai canonisti sarebbe stata necessario un supplemento d’anima e un colpo d’ala, uno scatto di reni e un gesto atletico, per introdurre nuove distinzioni e riformulare antiche verità. Ciò che invece abbiamo visto, almeno nell’aula sinodale, è stato molto diverso: quasi tutti coloro che hanno preso la parola in re canonica, hanno spesso brillato per indistinzione, per rigidità, per rozzezza e per sordità. Corazzandosi con la legge vigente, negavano la possibilità di ogni riformulazione, di ogni revisione, di ogni riforma. Apparivano spesso vigilanti solo secondo il mondo, non secondo il vangelo. Temevano il futuro come l’irrompere del male, non attendevano più l’irruzione del bene “come un ladro”.
Nel dibattito scientifico, tuttavia, non mancano contributi di valore, che escono dall’angolo della autoreferenzialità codiciale, e configurano prospettive significative di riforma. Vorrei considerare tre voci “laiche”, che emergono dal dibattito attuale, e che meritano una attenta riflessione. Sono laiche non solo perché elaborate da uomini laici, ma perché scaturiscono da ambienti accademici statali e non ecclesiali.
I punti nevralgici della tradizione. Il prof. Consorti, intervenendo con un commento sul post precedente, focalizza una serie di questioni che non siamo abituati ad ascoltare dalla voce dei canonisti. Ecco le sue parole, con alcune sottolineature in corsivo da parte mia: “Immagino che una lettura attuale dell’istituto del matrimonio nella realtà ecclesiale non possa prescindere da una ricostruzione storica che parta dal dato evangelico e segua un itinerario quasi bimillenario. Questa lunga storia ha prodotto tornanti non facili da sintetizzare, che tuttavia necessitano di una sintesi attuale. Faccio qualche esempio: “il matrimonio è un sacramento”, ma i sacramenti per essere tali devono avere un fondamento evangelico: c’è? Inoltre la sacramentalità dipende dalla fede e dalla retta intenzione: tutti i matrimoni sono quindi magicamente sacramento? Il diritto canonico attuale guarda al matrimonio nella sola fase genetica (matrimonio atto) e ne valuta la validità osservando il solo momento della manifestazione del consenso (che è considerato l’essenza del contratto): che spazio resta al matrimonio inteso come rapporto? Mi pare ci sia tanto materiale per pensare a come debba essere impostata la questione oggi, toccando punti nevralgici che non devono essere semplicisticamente guardati attraverso le lenti della tradizione. La tradizione serve se aiuta la comunicazione del Vangelo, altrimenti si deve lasciare. Potrebbe essere utile anche rileggere Mt. 19, 3-12, che è generalmente considerato il fondamento evangelico della indissolubilità del matrimonio cristiano, in quanto indirettamente rivolto a negare la liceità del ripudio (che non è esattamente il divorzio consensuale). I farisei mettono alla prova Gesù per vedere se seguiva l’insegnamento giuridico più restrittivo (il ripudio della sola donna dalla parte dell’uomo è lecito solo nel caso in cui essa commetta adulterio) o quello più largo (il ripudio della sola danno da parte dell’uomo è lecito in più casi: quest’ultima ipotesi – diciamo liberale – era proposta dalla scuola rabbinica cui Gesù probabilmente era più vicino). Gesù Cristo evita il trabocchetto giuridico e cambia discorso (lo fa anche nel caso del giudizio dell’adultera). Propone a questi farisei di non confrontarsi sul dato giuridico per vedere chi ha torto e chi ha ragione, ma di cercare il disegno di Dio. Che non tutti possono capire. Mi sembra che la questione sia oggi ancora questa: cercare il disegno di Dio senza restare impantanati nelle logiche delle scuole giuridiche”.
Il diritto canonico come mezzo e non come fine. Un altro canonista, Stefano Sodaro, anch’egli laico, intervenendo con un altro commento nel medesimo post, mette in luce con chiarezza le potenzialità che il diritto canonico potrebbe svolgere. Anche in questo caso sottolineo in corsivo alcuni aspetti del suo testo:
“La riflessione […] e il commento del Prof. Consorti dicono di una complessità dell’Umano, per ciò stesso sacramento quando posto davanti all’annuncio evangelico, che un po’ paradossalmente la configurazione dogmatica dei sette sacramenti ha finito per bloccare e fossilizzare, come se tutto il simbolico potesse precipitare nel giuridico e la teologia tutta nel codice di diritto canonico che, da strumento pastorale, è divenuto ormai fine cui la stessa pastorale deve tendere. Eppure almeno due profili, a mio modestissimo avviso, testimoniano pervicacemente di tale complessità all’interno stesso dell’ordinamento canonico. Uno è relativo l’impossibilità, normativamente stabilita, che le sentenze ecclesiastiche sullo stato delle persone, ivi compreso dunque quello matrimoniale, raggiungano la compiutezza formale ed irreformabile del giudicato. E l’altro è relativo alla pacifica presenza, benché secondo i canoni orientali – tuttavia pur sempre cattolici -, che uomini sposati ricevano il sacramento dell’Ordine anche nel grado presbiterale, con ciò attuando una mirabile, ma per noi latini assai sconcertante, doppia presenza di legami esistenziali che insistono su ogni dimensione della vita. Preti uxorati orientali, “sposi” – ricorrendo al linguaggio di certa inflazionata retorica un po’ troppo emozionale – di una comunità concreta non meno che di una moglie concreta. Il diritto della Chiesa vive una profonda contraddizione, i suoi esperti dovrebbero gioirne invece che esserne scandalizzati, poiché, alla scuola della storia, si potrebbe pur dire che anche “dogma crescit cum credente.” È normativa solo la prospettiva escatologica, in cui, delle tre virtù teologali, solo l’amore resta”.
La lettura canonistica del matrimonio e i suoi limiti da superare. Come terzo canonista laico, vorrei considerare uno dei più noti storici del diritto canonico, Carlo Fantappié, 2015) affronta in 8 saggi la questione del rapporto tra teologia e diritto con alcune conclusioni (431- 439) che meritano di essere riportate, sebbene in grande sintesi, con i corsivi dello stesso autore: “Dal medioevo al Vaticano II il funzionamento del sistema matrimoniale canonico si è venuto formando sulla base della combinazione di una struttura sostanziale con una struttura formale. Alla formazione della prima si può dire che hanno contribuito tre schemi concettuali che, benché maturati in epoche diverse, al termine del processo definitorio, si sono saldati in un’unica costruzione teorica: lo schema dei tria bona di origine agostiniana, dominante fino al XI secolo; lo schema della natura consensuale e delle proprietà essenziali, elaborato nei due secoli successivi; lo schema dei fini per lungo tempo gerarchicamente ordinati, dal Vaticano II unificati e parificati.” (431) “La composizione di questi differenti aspetti costitutivi in una costruzione. Tra il XIII e il XX secolo teologi e canonisti hanno dato a questo edificio complesso del matrimonio la forma di una struttura logica fondata sulla definizione reale e sulle quattro cause della filosofia aristotelico-tomista.” (432). “Da questi elementi si evince che la struttura sostanziale e formale del matrimonio sono tributarie di una concezione del mondo sostanzialista e statica. Dentro questo modello il soggetto non è concepito in modo autonomo, non esiste se non come agente formale che compie operazioni preordinate dalla struttura ontologica dell’essere, la sua libertà di azione non è effettiva ma dipende dalle regole predeterminate dallo schema strutturale in cui è rigidamente inquadrato. Gli atti compiuti da questo agente sono atti categoriali e perciò privi di storia: non c’è un prima e un dopo che possa modificare il significato dell’azione. Ci si muove in un universo ontologico fuori del mondo della vita.” (434)
Un bilancio e una sollecitazione verso i canonisti chierici. Come appare con chiarezza da questa sequenza di citazioni, il lavoro cui i canonisti sono attesi è di grande rilievo e diventerà essenziale e decisivo per recepire pienamente il testo di AL e le sue ampie conseguenze pastorali. Tra le quali dovremo considerare il “gap” che si creerà tra identità pastorale e identità giuridica dei soggetti, in attesa di una piena regolarizzazione che potrà avvenire soltanto quando il diritto canonico sostanziale (e non solo quello procedurale) avrà trovato nuovi equilibri e nuove categorie. Ma questo implica che tutti i canonisti (chierici e laici) si rendano disponibili a riflettere non solo de lege condita, ma anche de lege condenda. Il servizio ecclesiale richiesto ai tecnici del diritto ecclesiale esclude la chiusura delle corporazioni. Con le parole che aprono lo studio citato di C. Fantappié possiamo comprendere che cosa esiga questo approccio critico: “…richiede che si ponga attenzione alle domande teoriche e alle esigenze sostanziali cui hanno voluto rispondere i diversi modelli di matrimonio, anziché alle risposte date da una corporazione di studiosi che, evitando di affrontare le aporie, i passaggi scoperti e i punti critici del sistema matrimoniale, è intenta a ribadirne la continuità e la coerenza” (399). Dar voce e forma a queste difficoltà e proporre per esse soluzioni e rimedi convincenti è quanto sono chiamati a fare i canonisti realmente disponibili a fornire alla Chiesa il loro necessario contributo, che per antica tradizione non è solo accurato esercizio di una tecnica giuridica, ma anche preziosa concretizzazione di una profezia ecclesiale. Purtroppo, oggi manchiamo quasi del tutto della profezia dei canonisti.
Andrea Grillo “Come se non” – 27 settembre 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
L’iscrizione all’Università dei figli non legittima il coniuge a chiederne l’aumento.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 439, 14 gennaio 2016
Separazione. Le spese universitarie dei figli non aumentano l’assegno di mantenimento
Servizio newsletter Sugamele.it. 2 ottobre 2016
Ordinanza www.divorzista.org/sentenza.php?id=12669

Mantenimento dei figli maggiorenni dopo la separazione
I genitori separati o divorziati devono versare un assegno per il figlio maggiorenne finché il ragazzo non sarà autosufficiente. Ma se non vuole lavorare. Maggiorenne ma ancora da mantenere. I genitori separati spesso si trovano nella condizione di dover garantire un presente ad un figlio che ha già compiuto i 18 anni. La questione, dunque, non riguarda soltanto i minorenni.
Sul fronte legale, il mantenimento dei figli maggiorenni è sancito dalla Costituzione [artt. 30, 147 e successivi] in questi termini: entrambi i genitori hanno l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo, non prevedendo alcuna cessazione per via del raggiungimento della maggiore età. Il mantenimento dei figli maggiorenni, dunque, deve continuare anche se i genitori sono separati. A questo proposito, la legge dice anche che il giudice, valutate le circostanze, «può disporre in favore dei figli maggiorenni che non hanno un’autonomia dal punto di vista economico il pagamento di un assegno periodico» [Art. 155-quinquies, legge 54/2006]. Fino a quando? Finché le circostanze lo renderanno necessario, ma non per tutta la vita [Sent. Trib. Novara n. 238/2011).]. Prima o poi, insomma, anche il ragazzo si deve dare una mossa.
Che cosa si intende per mantenimento del figlio maggiorenne? Legalmente, si intende soddisfare tutte le sue necessità: mangiare, vestire, avere un tetto sopra la testa ed un’istruzione garantita ma anche qualche soldo per lo svago o per le vacanze. L’auspicio dei genitori è che le faccia una volta l’anno e senza andare dall’altra parte del mondo.
Mantenimento dei figli maggiorenni dopo la separazione. Il mantenimento dei figli maggiorenni dopo una separazione o un divorzio ha una serie di variabili. Secondo il legislatore, è necessario fare riferimento al tenore di vita che ha avuto il ragazzo quando viveva con i due genitori, il tempo che trascorrerà con ciascuno di loro, le risorse economiche del padre e della madre e le esigenze attuali del ragazzo [Art. 155 cod. civ.]. Esigenze che, secondo la Cassazione, cambiano con il tempo e rendono necessario un adeguamento dell’assegno [Sent. Cass. 8927/2012]. Tale adeguamento, che va a stabilire, poi, l’ammontare dell’assegno, deve tenere conto della differenza di reddito dei coniugi separati o divorziati e a quello che il ragazzo guadagna. A mano a mano che il figlio diventa più autonomo da un punto di vista economico, l’assegno sarà meno oneroso per i genitori [Sent. Cass. 22255/2007]. In altre parole, il giudice che sentenzia la separazione o il divorzio dei coniugi prende anche dei provvedimenti «nell’interesse morale e materiale della prole», anche se formata da figli maggiorenni, stabilendo la misura in cui ciascun genitore deve provvedere al mantenimento del figlio a seconda dei criteri che abbiamo citato prima. Reddito permettendo, pagano entrambi: il genitore che vive con il figlio può pretendere legalmente dall’altro l’assegno di mantenimento, qualora si rifiutasse a versarlo. Questa richiesta di legittimazione può essere fatta anche dal figlio maggiorenne.
Mantenimento dei figli maggiorenni: fino a quando? La somma destinata dai genitori al mantenimento del figlio maggiorenne dopo la separazione o il divorzio può cambiare nel corso degli anni o può anche essere azzerata. É possibile per un genitore chiedere all’altro di aumentare il suo assegno perché le esigenze del figlio maggiorenne lo richiedono ed il coniuge che deve garantire il mantenimento ha avuto un incremento del reddito [Sent. Cass. civ. sez. I, n. 920/2014].
Ad ogni modo, il mantenimento dei figli maggiorenni dopo la separazione o il divorzio è obbligatorio finché i ragazzi non saranno economicamente autonomi, anche se uno dei due genitori, o entrambi, hanno una nuova relazione con un’altra persona. O anche se, al posto di trovare un lavoro, i figli decidono di continuare gli studi. C’è da ricordare che un ragazzo maggiorenne non è obbligato a trovare per forza un impiego per mantenersi, ma può decidere di concludere le scuole superiori, di iscriversi all’università, di frequentare un master per costruirsi un futuro. Ovvio che la regola di andare sistematicamente fuori corso perché “tanto papà e mamma mi mantengono” non vale. In tal caso, se i risultati scolastici o universitari sono palesemente inconcludenti, il genitore è legittimato ad aspettarlo fuori dalla facoltà per accompagnarlo all’ufficio dell’impiego più vicino.
Più che di “tempi”, dunque, si parla di “circostanze” che possono portare alla cessazione del mantenimento dei figli maggiorenni. Quella determinante, come detto, è l’autosufficienza dei ragazzi. Tanto per cominciare, la loro attività lavorativa deve essere stabile e conforme alle sue capacità. Un impiego precario o saltuario, dunque, non può determinare la fine del mantenimento che, semmai, sarà ridotto. E nemmeno il puntuale e cadenzato regalo del nonno.
Il genitore separato o divorziato potrà smettere di staccare l’assegno di mantenimento del figlio (sempre e comunque con l’autorizzazione di un giudice, altrimenti commette reato) quando potrà provare che il ragazzo è in grado di mantenersi da solo, perché dispone di un lavoro che gli permette di essere autosufficiente. Ma anche quando può provare che il giovanotto ha rifiutato sistematicamente dei lavori che era in grado di fare per continuare a vivere sulle spalle dei genitori. Se tra la fine del mantenimento e la decisione del giudice di sospenderlo il coniuge ha versato altri soldi, può fare richiesta perché gli vengano restituiti.
Se, dopo l’estinzione del mantenimento, il figlio perde il lavoro o la sua autonomia, i genitori separati o divorziati non saranno tenuti a riprendere il loro mantenimento. Tutt’al più si passeranno una mano sulla coscienza e decideranno di dargli una mano. Purché il ragazzo non si riprenda tutto il braccio.
Carlos Arija Garcia Lpt 19 settembre 2016
www.laleggepertutti.it/132834_mantenimento-dei-figli-maggiorenni-dopo-la-separazione
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ASSEGNO DI DIVORZILE
Con la nuova convivenza assegno dell’ex perso per sempre.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 19345, 29 settembre 2016
Chi intraprende una convivenza deve sapere che non ha più diritto all’assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge. E la fine della nuova storia d’amore non consente di recuperarlo. La Corte di cassazione ricorda che l’instaurazione di una nuova famiglia di fatto scioglie per sempre qualunque connessione con il tenore e il modello di vita che caratterizzavano la precedente fase di convivenza matrimoniale.
L’ex coniuge è dunque libero da ogni obbligo di versare l’assegno di mantenimento. Nel caso deciso dalla Cassazione, inutilmente la ricorrente, destinataria dell’assegno, ha fatto presente ai giudici che non poteva più contare sul contributo del convivente perché lui aveva preso un’altra strada e lei non disponeva dei mezzi adeguati per vivere. I giudici di merito, nel pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio, avevano disposto l’affido condiviso del figlio collocandolo presso il padre, esonerato dal mantenimento e anche dall’assegno divorzile in virtù della convivenza more uxorio della donna.
La Suprema corte chiarisce che la perdita del diritto all’assegno è irreversibile, perché «non entra in uno stato di quiescenza ma è definitivamente escluso».
Per la Suprema corte, la formazione di una famiglia di fatto – tutelata dall’articolo 2 della Costituzione, come formazione stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole. E certamente deve rientrare nella consapevolezza il rischio che la love story finisca. Tra gli eventuali rimpianti può rientrare anche l’addio all’assegno di mantenimento: l’ex coniuge è, infatti, libero per sempre da «ogni residua solidarietà post-matrimoniale».
P. Mac. Il sole 24 ore 30 settembre 2016
www.oua.it/cassazione-con-la-nuova-convivenza-assegno-dellex-perso-per-sempre-il-sole-24-ore
Ordinanza www.divorzista.org/sentenza.php?id=12668
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BIOETICA
Bimbo nato con Dna di 3 genitori, tecnica con rischi ignoti
E’ nato in Messico – si chiama Abrahim Hassan, è un maschio, ha cinque mesi, ed è di origini giordane – il primo bambino al mondo che ha il corredo genetico di tre genitori biologici. A dare la notizia è stato il “New Scientist”. Il bimbo è stato concepito grazie a una nuova tecnica che sostituisce una parte del codice genetico della madre con quello di una donatrice, al fine di evitare la trasmissione di gravi malattie ereditarie. Nella fattispecie, la procedura ha sostituito i mitocondri difettosi della cellula uovo della madre, che soffre della sindrome di Leigh, con quelli di un’altra donna sana. I genitori del bambino sono stati sottoposti al trattamento genetico in Messico, dove non ci sono regole in materia. La tecnica è per ora approvata legalmente solo nel Regno Unito. La controversa metodologia pone diversi problemi sia di ordine scientifico, si tratta infatti di una tecnica sperimentale; sia di ordine etico e antropologico come la frantumazione della maternità e del diritto all’identità.
Intervista alla prof.ssa Laura Palazzani, Ordinario di Filosofia del diritto presso l’Università Lumsa di Roma e vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica:
R. – Innanzitutto, è una tecnica in sé positiva, perché l’obiettivo è quello di prevenire una patologia e quindi impedire che il bambino che nasce possa portare in eredità la patologia della madre. Il vero problema è che non è una tecnica al 100% preventiva: è una tecnica sperimentale. Cosa vuol dire sperimentale? Vuol dire che noi non sappiamo, a oggi, quali sono i possibili benefici – cioè prevenzione della patologia – ma quali sono i rischi. Per “rischi” si intendono i danni che questa tecnica può provocare. Quindi, paradossalmente questa tecnica viene impedita per impedire la malattia, in realtà infatti questa tecnica potrebbe aggravare ancora più la condizione patologica del futuro bambino. I rischi sono, allo stato attuale dell’applicazione di questa tecnologia, imprevedibili.
D. – La quota del Dna trasmessa dal donatore è comunque minima, però. Parliamo in ogni caso di una frantumazione della maternità: guardando in prospettiva che cosa comporta questo?
R. – Questo comporta che non si sa quanto questa porzione di trasmissione genetica possa poi modificare l’identità genetica del bambino e comunque ovviamente la madre è una – colei che lo porterà avanti in gestazione e che lo accudirà – però, certo, ci sarà sempre anche un’altra referente genetica, che non è un’altra madre, ma certamente una donatrice. E’ un po’ il problema che è emerso anche con l’eterologa: con la donazione di un gamete esterno, c’è comunque un altro referente esterno che frantuma quell’unitarietà familiare e genitoriale che generalmente c’è nell’ambito della famiglia. Quindi, questo pone un altro problema.
D. – Mettendosi nella prospettiva del diritto del nascituro, ritorna la questione del diritto all’identità, del sapere chi si è e da chi si è stati generati.
R. – Il diritto di conoscere le proprie origini: questa è una questione di cui si sta discutendo molto a proposito dell’eterologa, ma che naturalmente ricade anche in questa dimensione, cioè la possibilità per il bambino che nasce di sapere come è nato, con quale tecnica, con quale modalità, ricostruire le sue origini. Ma questo per una duplice ragione: da un lato una ragione medica, perché è evidente che sapere come si è nati è importante per un medico, per sapere e per conoscere e diagnosticare eventuali patologie. Dall’altra, anche per *una ragione di carattere psicologico-esistenziale, per poter ricostruire la propria identità biografica, cioè la propria identità anche dal punto di vista propriamente esistenziale.
D. – Quindi, il legittimo diritto di una coppia a cercare di generare un figlio non si concilia sempre con il rispetto della vita umana?
R. – Certo, il diritto dovrebbe essere sempre e comunque garanzia della relazionalità, della giustizia, cioè della pari dignità di tutti i soggetti che entrano in gioco in una relazione. In questo caso non solo i genitori, ma anche il bambino che nascerà e quindi i suoi interessi, i suoi diritti devono essere tenuti in considerazione: il diritto a nascere, il diritto a un’integrità fisica, il diritto alla ricostruzione della sua identità, il diritto ad avere due genitori… tutti diritti che evidentemente devono essere bilanciati. Oggi, quando si parla di questa tecnica, si pensa solo al diritto della madre a concepire, perché anche se è malata vuole trovare ad ogni costo la possibilità di concepire. Ed è legittimo, questo desiderio di maternità. D’altro canto, però, è importante bilanciarlo con quelli che sono i diritti di chi verrà a nascere, con questa tecnica.
Marco Guerra Notiziario Radio vaticana 28 settembre 2016
http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
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CASA CONIUGALE
Casa coniugale e divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi.
Corte di Cassazione, seconda Sezione civile, ordinanza n. 17843, 9 settembre 2016
La Corte ha ritenuto che il diritto di abitazione della casa familiare non è un diritto reale ma è previsto dall’articolo 155 del Cc nell’esclusivo interesse dei figli e non nell’interesse del coniuge affidatario. Tale diritto viene meno con l’assegnazione della casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge affidatario dei figli, non avendo più ragione di esistere. Esso, pertanto, non può essere preso in considerazione nel corso del giudizio per lo scioglimento della comunione, al fine di determinare il valore di mercato dell’immobile, sia perché non è riconosciuto nell’interesse del coniuge affidatario dei figli, sia perché ove si effettuasse una decurtazione del valore in considerazione del diritto di abitazione, il coniuge non assegnatario verrebbe ingiustificatamente penalizzato con l’attribuzione di una somma inferiore alla metà del valore venale del bene.
A conferma di ciò, basta la considerazione che, qualora l’assegnatario in proprietà esclusiva intendesse rivendere l’immobile a terzi, ricaverebbe l’intero prezzo di mercato senza alcuna diminuzione.
Servizio newsletter Sugamele.it. 27 settembre 2016 sentenza
www.divorzista.org/sentenza.php?id=12603

Addio casa per la ex che ha diritto al solo mantenimento.
Tribunale di Padova, sentenza n. 1906/2016
E se tarda ad andarsene dovrà pagare anche l’affitto. Per il Tribunale di Padova la ex moglie che rilascia la casa di proprietà del marito occupata senza averne diritto dovrà pagare un canone di locazione
Deve lasciare immediatamente la casa di proprietà esclusiva dell’ex, il coniuge che ha continuato in mala fede ad occuparlo abusivamente, nonostante la sentenza di separazione non avesse disposto a suo favore l’assegnazione, ma soltanto un assegno di mantenimento.
Lo ha stabilito il Tribunale di Padova nei confronti dell’ex moglie che, insieme alla figlia, aveva continuato ad abitare illegittimamente nella dimora dell’ex marito, nonostante la sua autosufficienza economica e il riconoscimento del solo mantenimento. L’uomo ricorre all’autorità giudiziaria dopo esser stato costretto a vivere dalla madre a causa dell’occupazione abusiva della propria abitazione da parte delle due donne, le quali si erano altresì impossessate del negozio limitrofo ricadente sullo stesso terreno. Pertanto, secondo il Collegio, le due sono tenute a rimborsare ben 31.900 euro all’uomo, in qualità di canone di locazione per il periodo dell’occupazione, valutato dai giudici sia sul prezzo relativo alla locazione della casa che per quello del negozio.
Di contro, l’ex moglie sostiene che le spetterebbe il rimborso di somme spese per migliorare l’immobile: per il Tribunale, tuttavia, le uniche somme che possono essere richieste sono quelle di straordinaria, e non ordinaria, manutenzione. Nulla può essere preteso, inoltre, per le spese supportate in tempo di matrimonio senza una valida documentazione.
Il Collegio evidenzia che il coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese ad eseguire migliorie o ampliamento dell’immobile di proprietà esclusiva dell’altro coniuge e in godimento del nucleo familiare, in quanto compossessore, ha diritto ai rimborsi e all’indennità contemplate dall’art. 1150 c.c. in favore del possessore nella misura prevista dalla legge a seconda che fosse in buona o mala fede, mentre è esclusa l’invocabilità dell’art. 936 c.c. in tema di opere fatte da un terzo con materiali propri, difettando nel compossessore il requisito della terzietà.
In effetti, il citato art. 1150 c.c., ben precisa che il possessore, anche se in mala fede, ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie nonché ad un’indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistenti al tempo della restituzione.
Pertanto, il controcredito riconosciuto alla donna per il rifacimento del tetto, che va inquadrato nella manutenzione straordinarie, è pari a 25.300 euro: oltre alla casa, in conclusione, il ricorrente otterrà 6.600 euro, mentre i lavori non documentati dall’ex non potranno ottenere la concessione di alcun rimborso.
Lucia Izzo Newsletter Giuridica studio Cataldi 18 settembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/23400-addio-casa-per-l-ex-che-ha-diritto-al-solo-mantenimento-e-che-dovra-pagare-anche-l-affitto.asp
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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA
Newsletter CISF N. 17/2016, 28 settembre 2016
Questa Newsletter esce anticipata rispetto alla consueta cadenza quindicinale, in quanto contiene alcuni appuntamenti ravvicinati, nelle settimane di ottobre, che vale la pena di segnalare. Esce quindi in versione “ridotta”
La globalizzazione dell’eterologa: solo un business. Che non ci piace
Chi solleva allarmi sul business della provetta è trattato come un oscurantista – “roba da cattolici”: ma è evidente che non si tratta di donazione, ma di “vendita mascherata” (leggi tutto sul sito
www.famigliacristiana.it/articolo/apre-a-milano-una-succursale-spagnola-per-la-riproduzione-assistita-la-globalizzazione-che-non-ci-piace.aspx
Badante e nonnino. Ma che nozze sono?
Pietro Boffi (da Noi Famiglia & Vita, supplemento di Avvenire)
Ecco perché la Consulta sbaglia dicendo no all’ipotesi di tagliare le pensioni di reversibilità per i cosiddetti “matrimoni di comodo”.
Meno trentenni e più colle vuote. “La scelta di avere un figlio sta diventando quasi eroica
Francesco Belletti, direttore Cisf.
“[…] E comunque maternità e paternità rimangono una delle esperienze più belle che in assoluto possiamo sperimentare, nonostante i nostri limiti, ben al di là dei nostri meriti”.
www.santalessandro.org, settimanale on line della diocesi di Bergamo
www.santalessandro.org/2016/09/meno-trentenni-e-piu-culle-vuote-francesco-belletti-la-scelta-di-avere-un-figlio-sta-diventando-quasi-eroica
Save the date.
Giornata nazionale delle famiglie al museo, domenica 9 ottobre 2016
I volti dell’accoglienza: un’immagine che parla da sé, terza edizione del concorso fotografico indetto da Famiglie per l’Accoglienza, Il concorso è aperto a tutti […] termine ultimo per l’invio delle fotografie: 23 ottobre 2016.
Nord: Ascoltare, leggere, crescere. La Libreria Editrice Vaticana a Pordenone, decima edizione, 25-29 ottobre 2016.
Centro: Insieme nell’amore. Settimana della Famiglia, Forum delle associazioni familiari Lazio, Roma, 2-8 ottobre 2016.
Sud: Dalla Cultura dello Scarto al Welfare Community – Dialogo, Sussidiarietà e Cooperazione. XIII Meeting della cittadinanza piena e universale, Fondazione Beato Bartolo Longo, Latiano (BR), 24-29 ottobre 2016.
Iscrizione alle newsletter http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
http://newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/settembre2016/17/index.html
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CENTRO ITALIANO DI SESSUOLOGIA
Ciclo di Seminari formativi. Terzo seminario. Intorno al genere.
Firenze 15 ottobre 2016 – Professionisti e genere: il docente, il consulente ecc…
Responsabili scientifici e Segreteria scientifica: Carlo Conti e Rosanna Intini
Iscrizioni Liliana Marri ilcampuccio@gmail.com

E’ in rete SessuologiaNewsOnline settembre 2016 www.cisonline.net
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CHIESA CATTOLICA
Ruolo delle donne nella Chiesa: concluso simposio a Roma
Si è concluso ieri a Roma un simposio di tre giorni promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede sul ruolo delle donne nella Chiesa. All’incontro, organizzato da un comitato internazionale (Mary Melone, Lucetta Scaraffia, Ana Cristina Villa Betancourt, José Granados) e aperto dal cardinale Gerhard Müller, hanno partecipato una cinquantina di teologhe, storiche e canoniste, religiose e laiche, provenienti da tutti i continenti, e diversi consultori e ufficiali del dicastero.
Il tema – riferisce un comunicato del Dicastero – è stato affrontato grazie all’intreccio di due punti di vista: quello dell’approfondimento e della definizione della vocazione femminile nella tradizione cattolica, e quello dei ruoli concreti che le donne hanno ricoperto e possono ricoprire all’interno della Chiesa.
La definizione della vocazione femminile è stata affrontata il primo giorno dalla relazione di Barbara Hallensleben (discussant Margaret McCarthy), che ha inquadrato il tema all’interno del sacerdozio battesimale e del sacramento del matrimonio, e dagli interventi di Anne-Marie Pelletier e di Mary Healy, che hanno illustrato l’importante arricchimento che molte studiose donne hanno portato nell’interpretazione delle Scritture. Nel pomeriggio la presenza delle donne nella storia della Chiesa è stato il tema della relazione di Lucetta Scaraffia (discussant Sol Serrano). Bruna Costacurta e Laetitia Calmeyn hanno quindi parlato dell’importanza delle donne nella formazione dei sacerdoti, mentre Madelein Fredell è intervenuta sul tema delle donne predicatrici di esercizi spirituali.
Al centro del secondo giorno è stato il tema della differenza sessuale, presentato da Bianca Castilla Cortázar (discussant Deborah Savage) e oggetto di una interessante discussione. L’ultimo giorno Sara Butler (discussant Tracey Rowland) ha parlato della Chiesa come sposa e madre, offrendo così un fondamento ecclesiologico al dibattito. E nel pomeriggio Linda Ghisoni ha affrontato il tema del diritto canonico in rapporto alla cooperazione delle donne in ruoli decisionali, mentre Sandra Mazzolini ha parlato delle collaborazioni nella pastorale.
Accanto a queste relazioni principali sono state ascoltate interessanti e commoventi testimonianze che hanno riferito casi di esperienza concreta di intervento femminile nella Chiesa: nella teologia, nelle missioni, nella Curia romana, nelle conferenze episcopali, l’esperienza dell’Unione internazionale delle superiori generali, nella comunicazione, nella trasmissione della fede, in esperienze di collaborazione tra uomini e donne, nel dialogo ecumenico e tra le religioni, nella catechesi, nella carità. Come ha ribadito l’arcivescovo Luis Ladaria alla fine dei lavori, è prevista la pubblicazione degli atti che renderanno accessibile il risultato di questi giorni di dibattito.
Notiziario Radio vaticana -29 settembre 2016 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

La lunga marcia dei gay credenti “Con Bergoglio fuori dalle catacombe”
Hanno vissuto per anni nelle catacombe, in una Chiesa che, come spiega il gesuita tedesco Klaus Merten, direttore del collegio di St. Blasien, all’interno di un articolo appena pubblicato sulla rivista accademica theologie geschichte, non riesce «a decidersi a rivendicare diritti umani fondamentali per le persone omosessuali». E ancora: «Che essa, piuttosto, tolleri che persino alti rappresentanti del clero invochino comprensione per tradizioni culturali in cui le persone omosessuali vengono minacciate di morte, è in contraddizione con il Vangelo». Loro sono i cristiani Lgbt, lesbiche, gay, bisex e trans, persone credenti che cercano soltanto una cosa: accoglienza e comprensione, «trovare un posto dove sentirsi accettati e accolti» anche per «risolvere le difficoltà legate alla fede e al suo rapporto con la sessualità».
In Italia sono 28 i gruppi di persone Lgbt che si ritrovano per camminare assieme, alcuni ancora in stato di semi clandestinità, altri tollerati dal vescovo, pochi altri pienamente riconosciuti dalla diocesi di appartenenza. Eppure, dicono, con Francesco al soglio di Pietro «qualcosa per noi è cambiato». Tutto iniziò nell’estate del 2013. Nel viaggio di ritorno da Rio de Janeiro, Bergoglio usò parole chiare in merito all’omosessualità. Disse che se un problema esiste, questo è dato dalle lobby gay, non dall’omosessualità in quanto tale: «Se qualcuno è omosessuale e cerca Dio con buona volontà, chi sono io per giudicarlo?», aggiunse. Da quel momento la parte di Chiesa «omofoba», come la definisce Merten, è rimasta tale, ma l’ostilità nei confronti delle persone Lgbt non si è più manifestata. E l’ultimo rapporto, appena pubblicato, sui cristiani Lgbt in Italia e curato da Giuliana Arnone è lì a dimostrarlo.
Secondo il rapporto, seppure molti ritengano che sul piano istituzionale e teologico non ci sia stata un’apertura, sul piano fattuale e pastorale la realtà è mutata: parrocchie, conventi maschili e femminili hanno accolto negli ultimi tre anni ben il 42% dei gruppi Lgbt a parlare della propria storia. E così hanno fatto anche diverse sezioni di scout che hanno raccolto le testimonianze del29% dei gruppi; stessa percentuale riguarda i gruppi invitati presso le Chiese evangeliche. Certo, molto deve ancora avvenire. Ne è consapevole anche don Gian Luca Carrega, incaricato della diocesi di Torino per l’accompagnamento delle persone omosessuali credenti. È stato lui a scrivere una prefazione illuminante a un libro coraggioso di Adrien Bail pubblicato dalla Effatà Editrice: “Omosessuali e transgender alla ricerca di Dio”. «A parte rare eccezioni — dice — la pastorale ordinaria sembra paurosamente indifferente alla questione. In tutta la penisola sono appena tre le diocesi, con Torino anche Cremona e Parma, che hanno nominato ufficialmente un referente per accompagnare le persone credenti omosessuali nel loro cammino di ricerca spirituale». Un dato, spiega ancora, «alquanto preoccupante. Il posto di un cristiano è nella Chiesa, non in un ghetto preparato apposta per lui. L’amore incondizionato che Gesù mostra nei vangeli per ogni uomo e donna che si accosta a lui è il modello da riprendere nella nostra pastorale».
Le chiusure in parte restano. Eppure, spiega Innocenzo Pontillo, uno dei responsabili del Progetto Gionata, la rete italiana on line su fede e omosessualità, «i segnali di cambiamento, seppur piccoli ci sono. Non è un caso che alla tre giorni del Forum di Albano (15-17 aprile) dove erano riuniti tutti i gruppi di cristiani lgbt italiani, i loro genitori e gli operatori pastorali che li accompagnano, il vescovo di Albano, Semeraro (segretario nel collegio dei cardinali che aiuta il Papa nella riforma della Chiesa) ha voluto incontrare i partecipanti, e Avvenire ha dedicato all’evento un ampio spazio con un articolo inaspettatamente positivo. Nei giorni seguenti, anche Tv2000 per la prima volta ha deciso di affrontare il tema dell’omosessualità in una trasmissione in cui hanno parlato due degli operatori pastorali presenti al Forum».
Le altre comunità cristiane agiscono diversamente. In Francia, ad esempio, la Chiesa protestante unita ha concesso dal 2015 alle coppie sposate dello stesso sesso la possibilità d essere benedette da un ministro di culto. In Italia e altrove, invece, la Chiesa cattolica propone una benedizione separata per i due membri della coppia e soltanto alcuni singoli sacerdoti si prendono la libertà di benedire le due persone insieme. È sempre in Francia che è attiva la “Comunità Betania” nata con lo scopo di accogliere le persone omosessuali che si sentono escluse dalla Chiesa. Al suo interno vi lavora suor Bernadette che dice: «Un giorno mi hanno spiegato che a un nostro amico piacevano gli uomini. Ho capito subito che dovevo accettarlo per quello che era».
Paolo Rodari la Repubblica 30 settembre 2016.

Il vizio più difficile da estirpare.
Fin dal suo primo discorso di fine anno rivolto alla curia romana, papa Francesco non ha perso mai occasione per stigmatizzare un vizio ricorrente in ogni curia, ma anche in ogni comunità, soprattutto monastica o religiosa: le chiacchiere e la mormorazione. E le sue parole – in discorsi ufficiali come in prediche a braccio – non temono espressioni sferzanti: ha chiesto la pratica dell’“obiezione di coscienza” di fronte alle parole vane che possono uccidere, ha condannato il “terrorismo della chiacchiera”, ha messo in guardia da “mormorazioni e invidie” anche e soprattutto chi ha un ministero nella chiesa e chi vive la vita religiosa, evidenziando il “potere distruttivo” della lingua usata come arma contro i fratelli e le sorelle.
Ma cosa sono le mormorazioni e la chiacchiera? Mormorazione è parola, discorso ostile che esprime riprovazione, malumore, ma che non viene detta ad alta voce e a chi la si dovrebbe dire come eventuale correzione fraterna, bensì viene sussurrata di nascosto, celata, più simile a un rumore indistinto che a una parola umana (murmur). Rodolfo Ardente (XI secolo) così la definisce: “Murmuratio est oblocutio depressa minoris contra maiorem ob impositam sibi rei gravitatem”.
Non si dimentichi che la mormorazione è un vizio detestabile, più volte descritto nella Bibbia. Questo atteggiamento appare nei libri in cui si attesta l’uscita dall’Egitto del popolo di Israele. Nel cammino del deserto, giunto a Mara, quando l’acqua fu accertata come amara, allora “il popolo mormorò contro Mosè” (Es. 15,24). Subito dopo, ecco un’altra mormorazione nel deserto di Sin, contro Mosè e Aronne, le due guide dell’esodo: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Es. 16,3). Ed è lo stesso Mosè a definire queste parole come “mormorazioni” (Es 16,8). Poco oltre, a Refidim, “il popolo mormorò contro Mosè” (Es. 17,3). Anche Maria e Aronne, sorella e fratello di Mosè, mormorarono contro di lui (“parlarono contro Mosè”: Nm. 12,1) e ricevettero da Dio il castigo della lebbra (cf. Nm. 12,9-10).
Mormorazioni che sono contestazioni alla guida, all’autorità, ma non rivolte direttamente al destinatario, bensì mosse di nascosto, quando è possibile dare giudizi, aumentare fatti avvenuti, manipolarli, non essendoci chi potrebbe e avrebbe il sacrosanto diritto di spiegare, difendersi o acconsentire umilmente alla critica. I salmi storici ricorderanno queste mormorazioni e la loro sanzione, rinnovando sempre l’invito a non partecipare a esse. Solo un esempio, che mostra tra l’altro come la mormorazione sia strettamente legata alla mancanza di fede (cf. anche Es. 16,8): “Non credono alla parola del Signore, nelle loro tende continuano a mormorare, non ascoltano la sua voce” (Sal. 106,24-25). Colpisce, infine, che l’umile e povero resto di Israele sia presentato con un tratto che riguarda proprio l’uso della parola: “Non proferiranno menzogna, non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta” (Sof. 3,13).
Nel Nuovo Testamento, oltre alle mormorazioni rivolte contro Gesù dai suoi avversari (cf. Lc 5,30; Gv 6,41.43.61) o dalle folle (cf. Gv 7, 12.32), è impressionante notare con quanta insistenza gli scritti apostolici mettano in guardia da questo terribile vizio: Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro [i figli di Israele nel deserto], e caddero vittime dello sterminatore (1Cor 10,10). Fate tutto senza mormorare (Fil 2,14). Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare (1Pt 4,9).
Le mormorazioni sembrano dunque il vizio più ricorrente delle comunità: perché? Perché sono il modo più facile di sfogare la violenza verso l’autorità e le sue decisioni o verso altri in comunità, quando non si ha il coraggio del faccia a faccia, del rivolgere la parola chiaramente a chi giudichiamo bisognoso di correzione e di critica, oppure del prendere la parola nei contesti comunitari come il capitolo quotidiano. E se non si ha il coraggio del faccia a faccia, perché non esprimere la critica a uno dei membri del consiglio, istituito anche per questo, o a due o tre anziani, secondo l’insegnamento evangelico (cf. Mt 18,15-17)? Gli ignavi, i paurosi, quelli che non hanno una postura di verità nella trasparenza, ricorrono facilmente alla mormorazione, soprattutto verso l’autorità, chiedono di non essere giudicati da quell’autorità che loro giudicano di nascosto.
La mormorazione, poi, crea complicità. Chi infatti ha una difficoltà con l’autorità o non è leale, sapendo che un altro è nella stessa difficoltà, mormora con lui: in tal modo si crea una complicità-contro, si mostra un appoggio fraterno all’altro, gli si è solidali, e così l’altro ci sente dalla sua parte, e di conseguenza sarà più solidale o amico con chi appoggia le sue critiche e le sue accuse. Queste sono operazioni a volte inconsce, ma che sono scoperte da chi s’interroga sulla propria responsabilità, cerca di conoscerci anche nelle sue zone d’ombra e di cattiveria, cerca di essere sincero e trasparente.
Sì, nella mormorazione giudichiamo l’altro, lo contestiamo, ci alleiamo contro di lui, nutrendoci dell’inimicizia che ci abita e che vorrebbe la negazione dell’altro, soprattutto se l’altro ci ricorda il limite, la legge, la regola, il Vangelo. Non è forse più semplice, a costo di sbagliare, andare dall’altro e in un faccia a faccia dirgli ciò che pensiamo e come giudichiamo, assumendoci tutta la responsabilità che è richiesta per azioni e parole proprie? Abba Iperechio diceva: “Il monaco che insinua malignità disperde una moltitudine di monaci e separa una comunione” (Agli asceti 151). E ancora: “È meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza le carni dei fratelli!” (Ibid. 144).
Per trovare un’ispirazione ai reiterati interventi di papa Francesco contro i pericoli della lingua e in particolare sull’esigenza di praticare l’obiezione di coscienza alle chiacchiere, basta leggere questo detto di Abba Isaia: Se un fratello ti costringe ad ascoltare calunnie contro un suo fratello, non lasciarti intimidire e non credergli, peccando contro Dio, ma digli piuttosto: “Sono un pover’uomo: ciò che mi dici riguarda me e non sono in grado di portarne il peso”. (Discorsi ascetici 4,1)
Sappiamo tutti che la mormorazione è uno dei grandi problemi della vita monastica, forse il vizio più difficile da estirpare. È una malattia che porta a giudicare costantemente ogni azione, ogni gesto, ogni parola degli altri con occhio cattivo: “Se il tuo occhio è cattivo, allora tu sarai interamente nella tenebra” (Mt 6,23; cf. Mc 11,34), ha detto Gesù. San Benedetto propone come antidoto l’umiliazione che porta all’umiltà, e più volte nella Regola condanna la mormorazione (cf. 4,39; 5,14-19; 34,6; 35,13; 41,5; 53,18), arrivando quasi a supplicare: “Questo soprattutto raccomandiamo, di astenersi dal mormorare” (40,9). Ma in tutta la letteratura monastica – in san Pacomio, in san Basilio, nella Regola di san Colombano e in quella di san Fruttuoso, fino a san Francesco (Regola non bollata XI) – si ricorda che la mormorazione, tra i peccati più gravi, se persiste merita l’espulsione dal monastero, perché chi mormora divide, sgretola, uccide la comunità e il vincolo di carità che la tiene insieme: “Alienus sit a fratrum unitate qui murmurat” (Benedetto di Aniane).
E la chiacchiera? La chiacchiera è più quotidiana ed estesa, anche se meno grave. Non ha di mira tanto l’autorità, ma ama sostare su problemi e vicende che riguardano gli altri. Nella chiacchiera si inventano molte cose, magari senza calunnie, ma le parole hanno il loro peso e di solito influenzano chi le ascolta o lo ispirano a pensare in un determinato modo. Nella chiacchiera, inoltre, si interpretano soggettivamente i fatti o le parole, ma si pretende di essere oggettivi e soprattutto si distorcono molti messaggi, molti significati, o non dicendo tutto, oppure calcando, mettendo in evidenza alcune parole ascoltate rispetto ad altre. Sì, chiacchiera come bavardage, come pettegolezzo, come noncuranza e stupidità di chi non sa ciò che dice, come lingua irrefrenabile, incapacità di tacere portando il peso di una solitudine che è costitutiva per ciascuno di noi… Scrive Giacomo nella sua lettera: “Chi sa tenere a freno la lingua è un giusto, un maturo” (cf. Giac 3,2), perché “la lingua è un fuoco, un mondo di male” (Gc 3,6).
Nelle curie come nelle comunità c’è sempre chi, non appena incontra qualcuno, deve parlare degli altri e parlarne male. Non hanno molte cose da dirsi, perché hanno un “io minimo” e vivono in un mondo piccolo e angusto, perché restano oziosi e così riempiono con le chiacchiere il loro tempo, perché non vogliono guardarsi dentro e contemplare le proprie opacità. Diventano esperti/e a riconoscerle negli altri e a parlarne sempre, in ogni occasione. Ma i chiacchieroni e i mormoratori sono facili da discernere, basta qualche anno e si rivelano per quello che sono: fratelli e sorelle inaffidabili, che, soprattutto se corretti, hanno sempre ragioni per difendersi e per non assumere la responsabilità delle parole che dicono. Si giustificano con “il loro disagio”, con “il sentito dire”, con “la loro sofferenza”, addossando sempre la responsabilità agli altri, senza mai interrogarsi sulle proprie responsabilità.
Non sorprende allora che papa Francesco, proprio nel discorso di chiusura dell’anno della vita consacrata, abbia voluto tornare con forza sulla metafora del “terrorismo delle chiacchiere”: “Chi chiacchiera è un terrorista, è un terrorista dentro la propria comunità, perché butta come una bomba la parola contro questo o quello e poi se ne va tranquillo: chi fa questo distrugge come una bomba e lui si allontana”. Sta a ciascuno di noi disinnescare questi ordigni mortiferi.
Enzo Bianchi Osservatore Romano 24 settembre 2016
www.monasterodibose.it/priore/articoli/articoli-su-quotidiani/10876-il-vizio-piu-difficile-da-estirpare
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CHIESE EVANGELICHE
Pastori sposati
Questa settimana ho ricevuto in redazione la telefonata di un ascoltatore che mi ha chiesto di chiarire le ragioni per cui i protestanti hanno abolito il celibato ecclesiastico, permettendo ai loro pastori di sposarsi e di avere una famiglia. Si tratta di un argomento che abbiamo già trattato in questa rubrica e che, effettivamente, riguarda una delle differenze tra il protestantesimo e il cattolicesimo. Nel passato questa questione ha infatti alimentato ampiamente la polemica tra le confessioni. Oggi, credo si possa parlare di questo argomento con più pacatezza.
La prima ragione per cui la Riforma rifiutò l’obbligo del celibato ecclesiastico è che questa pratica non trova fondamento nella testimonianza delle Sacre Scritture. Nella Bibbia si parla di sacerdoti con mogli e figli; si dice che gli apostoli erano sposati, e si consiglia ai vescovi, per la loro reputazione, di essere mariti di un’unica moglie. Certo, c’è anche l’apostolo Paolo che dice che chi si sposa fa bene, ma chi non si sposa fa meglio. Quella di rimanere celibi o nubili è sicuramente una scelta legittima, ma appunto è una libera scelta del singolo e non un’imposizione.
C’è poi un’altra ragione che ha spinto i Riformatori ad ammettere il matrimonio dei pastori: una diversa valutazione del mondo secolare. La vocazione cristiana, secondo il protestantesimo, può essere vissuta soltanto nel mondo secolare: non esistono né luoghi appartati come i monasteri, né condizioni particolari come il sacerdozio, nei quali vivere una fedeltà maggiore di quella che ti consente la vita di tutti i giorni. Per questo la Riforma chiuse i primi e abolì, con l’idea del sacerdozio universale, la distinzione tra clero e laicato. Un pastore si distingue dai membri di chiesa per i doni ricevuti dal Signore, per la preparazione teologica che ha, ma è un laico come tutti gli altri che è chiamato a esprimere la sua vocazione nella vita di tutti i giorni, condividendo con i suoi fratelli e le sue sorelle in fede quei doni che il Signore elargisce: tra questi, anche il matrimonio, con le responsabilità che esso comporta.
Nella concezione evangelica, dunque, il matrimonio non è un ostacolo al ministero nella chiesa: né l’essere celibe né l’essere sposata fa di una persona un migliore o peggiore ministro di culto. L’avere dei pastori sposati porta certamente con sé una serie di problemi, ma, in positivo, può contribuire a radicare maggiormente la predicazione nell’esperienza quotidiana; a comprendere la sessualità in modo più positivo tanto da non precluderla a chi si occupa per professione delle cose di Dio; a seguire i cambiamenti della società e l’evolversi, in essa e nella chiesa, dei diritti di uomini e donne, tanto che oggi non ci sono solo i pastori e le loro mogli, ma anche le pastore con i loro mariti.
Luca Baratto Riforma, settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi, 30 settembre 2016
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CONSULTORI FAMILIARI
Torino. Punto familia. Accompagnamento della coppia alla nascita del figlio
Inizia un ciclo di incontri di accompagnamento della coppia alla nascita del figlio. L’obiettivo del percorso è accompagnare le coppie ad accogliere la nuova vita affrontando consapevolmente tutti i cambiamenti che il diventare genitori comporta. La nascita di un figlio chiede infatti alla coppia una sostanziale rifondazione del rapporto, delle regole di comunicazione, delle dinamiche interne.
Consultorio via Goffredo Casalis 72 Torino
www.puntofamilia.it/news/210-preparazione-al-parto.html
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Faenza. Corso di autoconsapevolezza e Corsi di metodi naturali
In collaborazione con la S.I.Co.F. Scuola Italiana Consulenti Familiari di Roma, a novembre 2016 riparte un Corso di autoconsapevolezza per migliorare la conoscenza di sé stessi e le proprie relazioni. Il titolo è già molto esplicativo ma ulteriori informazioni sul corso organizzato dal Consultorio Ucipem di Faenza e che si svolgerà da novembre 2016 a giugno 2017, potete trovarle nel sito web del Consultorio.
Il percorso mira, attraverso l’utilizzo di dinamiche esperienziali, a favorire la capacità di auto-ascolto e l’esplorazione di sé e del proprio mondo interiore per acquisire maggiore consapevolezza di ciò che siamo.
La metodologia di apprendimento è teorico-esperienziale. Attraverso esercitazioni tecnico-pratiche si vuol favorire lo sviluppo e l’integrazione di abilità comunicative e di ascolto utili a migliorare la relazione con l’altro sia in ambito professionale che personale. Facilitare il riconoscimento e la valorizzazione delle proprie risorse e l’accettazione integrazione dei propri limiti. Favorire le relazioni all’interno del gruppo, attraverso stili comunicativi improntati all’autenticità e al rispetto di sé e degli altri. Facilitare l’ascolto dei propri bisogni e la comprensione dei propri stili comportamentali.
E’ rivolto a tutti coloro che intendono fare un percorso di conoscenza, crescita personale ed approfondimento del loro modo di relazionarsi con gli altri. In particolare, è poi consigliato a tutti coloro che si occupano di relazione: animatori di gruppi, insegnanti, educatori e persone che lavorano a stretto contatto con utenti e clienti.
10 incontri, uno ogni tre settimane, da novembre 2016 a giugno 2017, di Training Gruop della durata di 3 ore. Un seminario intensivo della durata di un giorno a primavera 2017.
Fra le varie iniziative proposte dal Consultorio UCIPEM segnaliamo i periodici Corsi di metodi naturali offerti a tutte le coppie che desiderano apprendere o approfondire la conoscenza di sé e del proprio corpo; la partecipazione ai corsi può avvenire individualmente o in coppia
Per le date dei corsi per l’apprendimento del metodo Billings e sintotermico-Rötzer chiedere direttamente in Consultorio
Consultorio Ucipem, via Severoli, 18 – Faenza tel. 0546 26478
E-mail: ucipemfaenza@alice.it
www.pastoralefamiliarefaenza.it/wp/?page_id=1038

Roma 1 via della Pigna 13. Incontro introduttivo MPA
La Meditazione Profonda e Autoconoscenza) viene offerto ad ogni persona interessata alla propria crescita spirituale e ad una maggiore conoscenza di sé. Il Corso giunto alla sua sesta edizione sarà animato dalla dott.ssa Marzia Pileri, membro del direttivo delle guide di Meditazione Profonda e Autoconoscenza, psicoterapeuta e consulente familiare.
Inizierà il giovedì 13 ottobre 2016 e continuerà nei giovedì successivi, per un totale di 6 incontri:
http://www.centrolafamiglia.org/corso-meditazione-profonda-autoconoscenza-2016/

Villanova di Guidonia Montecelio. Spazio Ragazzi.
Anche quest’anno il consultorio familiare di Villanova “Familiaris Consortio” mette gratuitamente a disposizione uno “Spazio Ragazzi”. Gli appuntamenti ai ragazzi vanno fissati in maniera tale da non cadere in corrispondenza di verifiche e interrogazioni.
Lo spazio di ascolto è attivo una volta a settimana, il mercoledì, dalle 09,00 alle 13,00 (colloqui di 30, max 45 minuti). Ogni persona ha, di massima, a disposizione 7/8 colloqui.
Lo spazio di ascolto sarà attivo dal 5 ottobre 2016 al 31 maggio 2017 con le seguenti modalità: il 1° e 3° mercoledì del mese presso la sede di Corcolle, il 2° e 4° mercoledì del mese presso la sede di San Vittorino. Il 5° mercoledì del mese (30 novembre, 29 marzo) lo sportello sarà attivo presso la sede di Corcolle.
Per lo spazio di ascolto, sarà disposto, a cura del Consultorio, l’impiego di uno psicologo o un consulente familiare che, eventualmente, sarà collaborato da uno o più consulenti familiari a seconda delle necessità. Tutti gli operatori, in possesso di idonei titoli professionali, operano già presso il Consultorio familiare UCIPEM “Familiaris Consortio”.
www.icsanvittorinocorcolle.it/riparte-il-progetto-spazio-ragazzi-a-s-2016-17
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CONVIVENZE DI FATTO
La convivenza more uxorio e la giurisprudenza sulla famiglia di fatto
Le principali problematiche in materia e le soluzioni giurisprudenziali. La convivenza more uxorio è la relazione affettiva e solidaristica che lega due persone in comunione di vita. La situazione di fatto che si crea è simile, per molti aspetti, al matrimonio. La Cassazione n. 6381/1993 dichiara che la convivenza more uxorio è legittima per il nostro ordinamento perché non contrasta con il buon costume, l’ordine pubblico e le norme imperative.
I diritti dei conviventi di fatto. La recente legge Cirinnà n. 76/2016 disciplina la coppia di fatto e prevede il contratto di convivenza. La nuova normativa contempla una serie di diritti a favore dei conviventi che restituisce dignità alle unioni che non contraggono matrimonio. Il partner di un soggetto dichiarato inabile può essere infatti nominato suo amministratore di sostegno, fargli visita nei luoghi di ricovero ed esprimere la sua opinione sul trattamento terapeutico che lo riguarda. Il decesso di uno dei conviventi causata da un illecito altrui commesso sul posto di lavoro, durante la circolazione stradale o in altre circostanze, legittima l’altro convivente a chiedere il risarcimento danni da morte. Il lavoro di uno dei conviventi nell’impresa dell’altro gli attribuisce il diritto di partecipare agli utili.
La casa familiare nelle convivenze more uxorio. Durante la convivenza, se la casa che le parti hanno destinato alla coabitazione è di proprietà esclusiva di uno solo, l’altro non vanta diritti sulla stessa, perché considerato un semplice “ospite”(in senso contrario si è espressa la Cassazione con sentenza n. 17971/2015 aderendo quanto già sancito dalle sentenze n. 7/2014 e n. 7214/2013). In caso di decesso invece il partner superstite subentra nel contratto d’affitto e, se l’immobile era di proprietà del defunto, mantiene il diritto di abitazione per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.
Il diritto al mantenimento. La corresponsione dell’assegno di mantenimento non è contemplata nel caso in cui a separarsi è una coppia di fatto. L’unica forma di contributo prevista dalla nuova legge consiste nel diritto agli alimenti, solo se l’ex convivente versa in stato di bisogno. La misura e durata degli alimenti sono tuttavia stabiliti in base al periodo della convivenza.
L’affidamento dei figli se si rompe l’unione more uxorio. I figli naturali nati al di fuori del matrimonio sono parificati in tutto e per tutto ai figli legittimi nati in costanza di matrimonio (Dlgs. n. 154/2013). Pertanto, in una coppia di fatto che si separa, ogni genitore, in assenza di accordo per gestire la relazione con i figli, può rivolgersi al Tribunale dei Minori. Spetterà così all’autorità giudiziaria stabilire la misura dell’assegno di mantenimento, il diritto di visita, l’affidamento e l’assegnazione della casa familiare.
I contratti di convivenza. I contratti di convivenza presuppongono la registrazione anagrafica della coppia di fatto (eterosessuale od omosessuale) presso il Comune di residenza. La sua stipula si rivela particolarmente utile in caso di separazione, poiché le parti possono stabilire a priori le rispettive modalità di contribuzione alle necessità della famiglia di fatto durante la convivenza e quando questa viene meno.
Le obbligazioni naturali che scaturiscono dalla convivenza. Il tema delle obbligazioni naturali all’interno delle coppie di fatto emerge quando la coppia si divide. Tanto per ricordarne brevemente il significato, l’obbligazione naturale consiste nel pagamento spontaneo di una somma di denaro o nell’esecuzione spontanea di una prestazione, per puro ossequio a regole sociali o morali. L’assenza del vincolo giuridico comporta che le obbligazioni naturali siano soggette a quanto stabilito dall’art. 2034 C.C.: 1. “Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. 2. I doveri indicati dal comma precedente e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato non producono altri effetti”. Il convivente che ha elargito somme per il mantenimento della coppia o della famiglia di fatto (in presenza di figli) non può pertanto chiederne la restituzione, se sono stati rispettati i principi di proporzionalità e adeguatezza. Occorre tenere conto altresì dei casi in cui l’esborso risulta ingente e come tale non riconducibile nell’ambito delle obbligazioni naturali (Tribunale di Treviso sentenza n. 258/2015; Cassazione n. 18632/2015; Cassazione n. 1266/2016).
La giurisprudenza sulla famiglia di fatto. Tribunale di Catania sentenza del 20.05.2016: dopo la separazione della coppia convivente more uxorio, è necessario che il figlio minore recuperi e mantenga un significativo rapporto con il padre, disponendo nella fase iniziale una serie d’incontri protetti.
Cassazione penale sentenza n. 8401/2016: riconosce la configurazione del reato di maltrattamenti art. 572 C.P. quando il destinatario della condotta illecita è il convivente more uxorio, anche in caso di frequenti e temporanei allontanamenti dall’abitazione comune da parte dell’imputato.
La risoluzione n. 64/2016 dell’Agenzia delle Entrate prevede a favore del convivente more uxorio la possibilità di detrarre le spese sostenute per interventi eseguiti su un’abitazione diversa da quella principale della coppia.
Ecco, inoltre, alcune massime rilevanti in materia di famiglia di fatto:
“Nell’ambito di un giudizio per il risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale, la questione dell’esistenza o dell’assenza di una “vita familiare” ex art. 8 Cedu, in assenza di qualsiasi vincolo di parentela, è anzitutto una questione di fatto e ricomprende anche le unioni omosessuali” (Trib. Reggio Emilia n. 315/2016).
“L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso” (Cass. n. 2466/2016).
“Nei procedimenti di modifica delle condizioni di affidamento e mantenimento di prole di genitori non coniugati vige la medesima regola di tutte le statuizioni in tema di affidamento dei minori, applicata nei procedimenti di separazione e divorzio, ovvero la modificabilità e revocabilità, ove ne sorga la necessità, di tutti i provvedimenti emanati” (Trib. Modena n. 412/2016).
“Al termine di un periodo di convivenza more uxorio può essere stabilito un compenso economico a favore di un partner solo se questi ha svolto a favore dell’altro prestazioni che esulano dai normali doveri materiali e morali, quale il lavoro domestico, il cui assolvimento non dà luogo a risarcimento alcuno, costituendo obbligazione naturale ex articolo 2034 del Cc, conformemente al dettato costituzionale di cui all’articolo 2” (Cass. n. 1266/2016).
“L’accordo con il quale due genitori, non legati da vincolo di coniugio, regolamentano le condizioni di affidamento, mantenimento, collocamento ed esercizio del diritto di visita, non può essere stipulato mediante il procedimento di negoziazione assistita. Purtuttavia detto accordo – stipulato ai sensi dell’art. 2 d.l. n. 132/2014 – una volta depositato presso il Tribunale competente, alla luce del diniego del p.m., può essere considerato alla stregua di un ricorso congiunto ex art. 337 bis c.c., con la conseguenza che il Tribunale deve convocare i genitori ai fini della ratifica delle conclusioni da loro condivise” (Trib. Como 13 gennaio 2016).
“Va riconosciuta la configurabilità di un danno a carico della fidanzata non convivente della vittima primaria di un reato, non rilevando la sussistenza in termini di necessarietà di un rapporto di coniugio, quanto piuttosto la ravvisabilità e la prova di uno stabile legame tra due persone, connotato da stabilità e significativa comunanza di vita e di affetti” (Trib. Firenze n. 1011/2015).
“La convivenza “more uxorio”, quale formazione sociale che dà vita ad un consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio del convivente e diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità. Tale interesse assume i connotati tipici di una detenzione qualificata che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Pertanto l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario ai danni del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio” (Cass. n. 19423/2014).
Annamaria Villafrat Newsletter Giuridica studio Cataldi 26 settembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/23466-la-convivenza-more-uxorio-e-la-giurisprudenza-sulla-famiglia-di-fatto.asp
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DALLA NAVATA
27° Domenica tempo ordinario-anno C–2 ottobre 2016
Abacuc 02, 04 Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede».
Salmo 95, 07 Se ascoltaste oggi la sua voce.
2 Timoteo 01, 07 Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Luca 17, 05 In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».

Commento di Enzo Bianchi, priore a Bose (BI). “Se aveste fede quanto un granello di senape”.
Durante la sua salita verso Gerusalemme Gesù è interrogato, a volte invocato o pregato, a volte contestato per il suo comportamento o le sue parole. A volte Gesù si rivolge ai discepoli che lo seguono, a volte ad alcuni farisei e scribi, a volte agli “apostoli”, cioè quel gruppo ristretto di discepoli da lui resi “i Dodici” (Lc 6,13; 9,1) e inviati (questo il senso letterale di apóstoloi) ad annunciare il Vangelo, quelli che saranno anche i testimoni qualificati della sua resurrezione (cf. Lc 24,48; At 1, 8.21-22).
Proprio costoro, che hanno ascoltato le esigenze “dure” proclamate da Gesù come decisive per la sua sequela (cf. Lc 9,23-26; 14,26-27), conoscendo la propria debolezza chiedono a Gesù, designato quale Kýrios, Signore della chiesa: “Aumenta la nostra fede!”. È una preghiera rivolta al Signore, a colui che con la forza dello Spirito santo che sempre abita in lui può agire sulla fede, sull’adesione del discepolo. Questa domanda rischia però di non essere compresa nella sua reale portata, perciò sarà bene riflettere sulla fiducia-adesione assolutamente necessaria per essere discepoli di Gesù. La fede, da comprendersi in primo luogo come adesione, può essere presente solo là dove c’è una relazione personale e concreta con Gesù. La fede non è un concetto di ordine intellettuale, non è posta innanzitutto in una dottrina o in una verità, né tanto meno in formule, nei dogmi. La fede non è innanzitutto un “credere che” (ad esempio che Dio esista) ma è un atto di fiducia nel Signore. Si tratta di aderire al Signore, di legarsi a lui, di mettere fiducia in lui fino ad abbandonarsi a lui in un rapporto vitale, personalissimo. La fede è riconoscere che dalla parte dell’uomo c’è debolezza, quindi non è possibile avere fede-fiducia in se stessi. Proprio per questo, soprattutto sulla bocca di Gesù, è frequente l’uso del verbo “credere” (pisteúo) e del sostantivo “fede” (pístis) in modo assoluto, senza complementi o specificazioni:
Credi, non temere (Lc 8,50; Mc 5,36).
La tua fede ti ha salvato (Lc 7,50; 17,19; 18,42; Mc 5,34 e par.; 10,52).
Va’, e sia fatto secondo la tua fede (Mt 8,13).
Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri (Mt 15,28).
Credere senza complementi, avere fede senza specificazioni è per Gesù determinante nel rapporto con Dio e con lui stesso. Certo, la fede è un atto che si situa alla frontiera tra debolezza umana e forza che viene da Dio, forza che rende possibile proprio l’atto di fede. Si tratta di passare dall’incredulità (apistía: Mc 6,6; 9,24; 16,14; Mt 13,58) alla fede, ma questo passaggio, questa “conversione”, richiede l’invocazione a Dio e, in risposta, il suo dono, la sua grazia, che in realtà sono sempre prevenienti. È infatti difficile e faticoso per ciascuno di noi rinunciare a contare su di sé per decentrarsi e mettere al centro la parola del Signore a noi rivolta. Non si dimentichi che l’incredulità o la poca fede (oligopistía: Mt 17,20; oligópistos: Mt 6,30; 8,26; 14,31; 16,8; Lc 12,28) denunciate da Gesù contraddistinguono la situazione del discepolo (cf. Lc 24, 11.41; Mc 9,19 e par.; 16, 11.16), non di chi non incontra o non ascolta Gesù. E come non stupirci di fronte al grido di Gesù: “La tua fede ti ha salvato”, emesso davanti a malati, peccatori, stranieri e pagani che, incontrandolo, gli chiedono con fede di essere da lui aiutati e salvati?
C’è un episodio, descritto con particolare cura da Marco (cf. Mc 9,14-29), ma presente anche in Luca (cf. Lc 9,37-43) e Matteo (cf. Mt 17,14-18), che può aiutarci a comprendere meglio il brano che stiamo commentando. Un padre ha un figlio indemoniato e i discepoli di Gesù non riescono a guarirlo. Scoraggiato, quando incontra Gesù, gli dice: “Se tu puoi qualcosa, avendo compassione di noi aiutaci”. E Gesù, dopo aver rimproverato i discepoli – “Generazione incredula!”; come fa Mosè in Dt 9,6; 31,27; 32,5 –, gli risponde: “Non dire: ‘Se puoi’, ma comprendi che tutto è possibile a chi crede”. Ovvero: “Se hai fede, tutto ti è possibile attraverso la fede che ti salva”. È come se Gesù gli dicesse: “Ti basta credere, avere fiducia”, cioè confidare che tutto è reso possibile da Dio per colui che crede, perché “tutto è possibile a Dio” (Mc 10,27; Gen 18,14). Allora il padre risponde: “Io credo, ma tu vieni in aiuto alla mia incredulità (apistía)”. Basta offrire a Gesù la propria incredulità, lasciare che sia lui a vincere i nostri dubbi, sempre presenti dove c’è la fede all’opera. E così Gesù guarisce non solo il figlio, ma anche il padre, preda della sfiducia verso la vita.
Dunque, proprio perché la fede è credere alla potenza di Gesù, non ha senso la domanda degli apostoli: “Aumenta la nostra fede”. Basta infatti – continua nel nostro brano Gesù– avere fede quanto un granello di senape per sradicare un gelso e trapiantarlo nel mare, per spostare le montagne (cf. Mc 11,22-23; Mt 17,20; 21,21). Gli apostoli sono consapevoli di avere una fede piccola; vorrebbero essere giganti della fede, ma Gesù fa loro comprendere che la fede, anche piccola, se è reale adesione a lui, è sufficiente per nutrire la relazione con lui e accogliere la salvezza. È vero, la nostra fede è sempre oligopistía, fede a breve respiro, ma basta avere in noi il seme di questa adesione alla potenza dell’amore di Dio operante in Gesù Cristo. Credere significa alla fin fine seguire Gesù: e quando lo si segue, si cammina dietro a lui, vacillando sovente, ma accogliendo l’azione con cui egli ci rialza e ci sostiene, affinché possiamo stare sempre là dove lui è. Noi cristiani dovremmo guardare spesso il piccolo seme di senape, tenerlo nel palmo della mano, avere coscienza di quanto sia piccolo; ma dovremmo anche vederlo come seme seminato, morto sottoterra, germinato e cresciuto, fino a diventare grande come un arbusto che dà riparo agli uccelli del cielo – immagine usata da Gesù per descrivere il regno di Dio (cf. Mc 4, 26.31-32) –, e dunque stupirci. Così è la nostra fede, piccolissima forse; ma non temiamo, perché se la fede c’è, è sufficiente, perché più forte di ogni nostro altro atteggiamento. La fede è la fede: sempre, anche se piccola, è adesione a una relazione, è obbedienza (hypakoé písteos: Rm 1,5).
La risposta di Gesù agli apostoli prosegue poi con una parabola che li riguarda particolarmente, in quanto inviati a lavorare nel campo, nella vigna il cui padrone è il Signore. Gesù li mette in guardia dal confidare in se stessi, perché questo è il peccato che si oppone radicalmente alla fede. È l’atteggiamento che Gesù condannerà nella parabola del fariseo e del pubblicano al tempio (cf. Lc 18,10-14), rivolta ad alcuni che, come il fariseo, “confidavano in se stessi perché erano giusti (prós tinas toùs pepoithótas eph’heautoîs hóti eisìn díkaioi: Lc 18,9)”. Questo potrebbe succedere anche agli inviati che, consapevoli di aver fatto puntualmente la volontà del Signore, vorrebbero essere riconosciuti, premiati. Ma Gesù, con realismo, chiede loro: può forse succedere questo nel mondo, nel rapporto tra padrone e schiavo? Quando lo schiavo rientra dal lavoro, il padrone gli dirà forse: “Vieni e mettiti a tavola”?”. Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, preparati a servirmi, e dopo mangerai e berrai tu”? Dovrà forse ringraziarlo per aver svolto il suo compito? No, questo non può avvenire, e così gli apostoli, inviati a lavorare nella vigna del Signore, quando hanno terminato il lavoro devono dire: “Siamo servi non necessari, ciò che dovevamo fare l’abbiamo fatto”.
Nella sequela di Gesù non si rivendica nulla, non si pretendono riconoscimenti, non si attendono premi, perché neppure il compito svolto diventa garanzia o merito. Ciò che si fa per il Signore, si fa gratuitamente e bene, per amore e nella libertà, non per avere un premio… Purtroppo nella vita della chiesa i premi, i meriti vengono dati da sé a se stessi e non c’è neanche da aspettare qualcosa da Dio!
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10882-se-aveste-fede-quanto-un-granello-di-senape
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DIVORZIO
Divorzio? Meglio la relazione sabbatica
Sempre più coppie si stanno orientando verso il nuovo trend della pausa (variabile) in alternativa alla separazione e al divorzio. Divorzio immediato? No, meglio pensarci un po’ su. Così l’anno sabbatico, quello che serviva come pausa di riflessione nel campo dello studio o del lavoro, adesso diventa il trend per le relazioni matrimoniali in crisi. Sono sempre di più le coppie che, invece di darsi un out out, preferiscono allontanarsi per qualche tempo nella speranza, remota in alcuni casi, di poter ricucire eventuali “fratture” nella relazione. I partner che stanno insieme da tanto tempo spesso affrontano un mucchio di criticità. La routine quotidiana, la passione che viene meno ed il sentimento che si trasforma, oltre al fatto di condividere gli impegni di una vita (casa, figli, obblighi vari), rendono sempre più difficile restare uniti e innamorati come il primo giorno.
Ed ecco che il concetto di “relazione sabbatica”, di congedarsi temporaneamente dalla propria vita in comune, può essere un modo per ritrovare il legame. Attenzione però è solo un congedo temporaneo teso a funzionare come per gli altri campi: rinfrancare la mente, formarsi, fare nuove esperienze per poi tornare alla vita di prima con rinato entusiasmo. Il presupposto della relazione sabbatica è che entrambi i partner contano di tornare insieme dopo il periodo di pausa. Nulla a che vedere dunque con la separazione. La coppia non vuole lasciarsi. Sta ai partner stabilire modi e tempi del periodo sabbatico: c’è chi si separa per un anno intero, chi per due o tre mesi l’anno va a vivere altrove, chi lo fa su base settimanale (4 giorni assieme e 3 no, per esempio).
La possibilità di prendersi un anno sabbatico in coppia, in ogni caso, non è nuova. Era stato circa dieci anni fa il saggio “The Marriage Sabbatical: The Journey That Brings You Home” di Cheryl Jarvis (secondo cui lo praticavano già le scrittrici Anne Morrow Lindbergh e Harriet Beecher Stowe) a sdoganare l’idea che però non aveva preso piede perché tacciata di egoismo. Sembra invece che oggi le donne, in uno slancio di consapevolezza, abbiano imparato a tenere a freno i sensi di colpa e pensare anche un po’ a sé: è tutto un mettere i matrimoni in pausa.
Potrebbe dunque essere questo uno dei piccoli segreti della longevità di una coppia, lasciarsi solo quel tanto per espellere le “tossine” della routine, per poi tornare insieme, più innamorati e felici? Per alcuni studiosi pare di sì. Il congedarsi per un periodo può spingere le persone a diventare partner migliori e far riaccendere la scintilla dichiara la dottoressa Sonjia Kenya al magazine Foxnews, mentre secondo la terapista di coppia Sheri Meyers fa ricordare i pregi dell’altro e sentirne la mancanza (leggi: “Could a relationship sabbatical save your marriage?”).
Tuttavia, è realistico pensare che anche l’anno sabbatico per le coppie ha i suoi rischi. Il partner potrebbe realizzare che andarsene è proprio quello che desiderava e decidere di non tornare più. Perlomeno, però, anche se si arriva comunque al divorzio, la pausa servirà a calmare gli animi!
Gabriella Lax news Studio Cataldi 29 Settembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/23518-divorzio-meglio-la-relazione-sabbatica.asp
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Ai vescovi argentini: vera carità pastorale
In risposta alla lettera dei vescovi argentini della regione di Buenos Aires dedicata a come applicare pastoralmente il cap. VIII di Amoris laetitia, papa Francesco ha scritto una lettera con la quale definisce il testo dei presuli un atto di “vera carità pastorale”.
http://www.lindicedelsinodo.it/2016/09/vescovi-argentini-e-amoris-laetitia.html
Riprendiamo il testo così come è stato tradotto e presentato da L’Osservatore Romano del 12-13 settembre scorso e a seguire l’originale spagnolo della lettera di Francesco così come è stato reso noto dal blog Il Sismografo.
È la carità pastorale che spinge a «uscire per incontrare i lontani e, una volta incontrati, a iniziare un cammino di accoglienza, accompagnamento, discernimento e integrazione nella comunità ecclesiale».
Ruota intorno a questa premessa la lettera che Papa Francesco ha inviato ai vescovi della regione pastorale Buenos Aires — indirizzandola al loro delegato, monsignor Sergío Alfredo Fenoy — in risposta al documento «Criterios básicos para la aplicación del capítulo VIII de Amoris laetitia» (“Criteri fondamentali per l’applicazione del capitolo VIII di Amoris laetitia”).
Esprimendo il suo apprezzamento per il testo elaborato dai presuli, il pontefice ha sottolineato come esso manifesti nella sua pienezza il senso del capitolo VIII dell’esortazione apostolica — quello che tratta di «accompagnare, discernere e integrare la fragilità» — chiarendo che «non ci sono altre interpretazioni». Il documento dei vescovi, ha assicurato il papa, «farà molto bene», soprattutto per quella «carità pastorale» che lo attraversa interamente.
Il testo elaborato dai pastori della Chiesa argentina è «un vero esempio di accompagnamento ai sacerdoti», ha spiegato il Pontefice, rimarcando quanto sia necessaria la vicinanza «del vescovo al suo clero e del clero al vescovo». Infatti, ha scritto, il «prossimo “più prossimo” del vescovo è il sacerdote e il comandamento di amare il prossimo come se stesso comincia per noi vescovi precisamente con i nostri preti». Naturalmente, la carità pastorale intesa come tensione continua alla ricerca dei lontani è faticosa. Si tratta di una pastorale «corpo a corpo» che non può ridursi a «mediazioni programmatiche, organizzative o legali, sebbene necessarie». Delle quattro «attitudini pastorali» indicate — «accogliere, accompagnare, discernere e integrare» — la meno e praticata, secondo Francesco, è il discernimento.
«Considero urgente — ha affermato — la formazione nel discernimento, personale e comunitario, nei nostri seminari e presbiteri». Infine, il Pontefice ha ricordato che l’Amoris laetitia è stata il «frutto del lavoro e della preghiera di tutta la Chiesa, con la mediazione di due Sinodi e del Papa». Pertanto, ha raccomandato una catechesi completa sull’esortazione, che «certamente aiuterà la crescita, il consolidamento e la santità della famiglia».
Il documento dei vescovi argentini, focalizzandosi appunto sull’VIII capitolo dell’esortazione apostolica, ricorda che non «conviene parlare di “permesso” per accedere ai sacramenti, ma di un processo di discernimento accompagnato da un pastore». Questo processo deve essere «personale e pastorale». L’accompagnamento è infatti un esercizio della via caritatis, un invito a seguire il cammino di Gesù.
Si tratta di un itinerario, scrivono i vescovi, che richiede la carità pastorale del sacerdote, il quale «accoglie il penitente, lo ascolta attentamente e gli mostra il volto materno della Chiesa, mentre accetta la sua retta intenzione e il suo buon proposito di collocare la vita intera alla luce del Vangelo e di praticare la carità». Questo cammino, avvertono i presuli, non termina necessariamente nei sacramenti, ma può orientarsi in altre forme di maggiore integrazione nella vita della Chiesa: una maggiore presenza nella comunità, la partecipazione a gruppi di preghiera o riflessione, l’impegno in diversi servizi ecclesiali.
«Quando le circostanze concrete di una coppia lo rendano fattibile, specialmente quando entrambi siano cristiani con un cammino di fede — si legge nel documento — si può proporre l’impegno di vivere in continenza». L’ Amoris laetitia «non ignora le difficoltà di questa opzione e lascia aperta la possibilità di accedere al sacramento della riconciliazione quando si manchi a questo proposito». In altre circostanze più complesse, e quando non si è potuto «ottenere una dichiarazione di nullità — sottolinea il testo — l’opzione menzionata può non essere di fatto praticabile».
È possibile, tuttavia, compiere ugualmente «un cammino di discernimento». E «se si giunge a riconoscere che, in un caso concreto, ci sono limitazioni che attenuano la responsabilità e la colpevolezza, particolarmente quando una persona consideri che cadrebbe in una ulteriore mancanza provocando danno ai figli della nuova unione, Amoris laetitia apre alla possibilità dell’accesso ai sacramenti della riconciliazione e dell’eucaristia». Questo, a sua volta, dispone la persona a continuare a maturare e a crescere con la forza della grazia.
Il documento sottolinea come occorra evitare di intendere questa possibilità come un «accesso illimitato ai sacramenti, o come se qualsiasi situazione lo giustificasse». Ciò che si propone è piuttosto un discernimento che «distingua adeguatamente ogni caso». Speciale attenzione richiedono alcune situazioni, come quella di una nuova unione che viene da un recente divorzio, oppure quella di chi è più volte venuto meno agli impegni familiari, o ancora di chi attua «una sorta di apologia o di ostentazione della propria situazione, come se fosse parte dell’ideale cristiano».
In questi casi più difficili, i sacerdoti devono accompagnare con pazienza cercando qualche cammino di integrazione. È importante, si legge nel testo, «orientare le persone a mettersi con la propria coscienza davanti a Dio, e perciò è utile l’esame di coscienza» che propone l’esortazione apostolica, specialmente in ciò che fa riferimento al comportamento verso i figli o verso il coniuge abbandonato. In ogni caso, quando ci sono «ingiustizie non risolte, l’accesso ai sacramenti è particolarmente scandaloso».
Per questo il documento afferma che «può essere conveniente che un eventuale accesso ai sacramenti si realizzi in maniera riservata, soprattutto quando si prevedono situazioni di conflitto». Allo stesso tempo, però, non si deve tralasciare di accompagnare la comunità perché «cresca in uno spirito di comprensione e di accoglienza, senza che ciò implichi creare confusioni nell’insegnamento della Chiesa riguardo al matrimonio indissolubile».
A questo proposito i presuli ricordano che «la comunità è strumento della misericordia che è “immeritata, incondizionata e gratuita”». Soprattutto, ribadiscono che il discernimento «non si chiude, perché è dinamico e deve rimanere sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in maniera più piena».
L’Osservatore Romano, 12-13 settembre 2016.
www.lindicedelsinodo.it/2016/09/francesco-ai-vescovi-argentini-vera.html#more
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GESTAZIONE PER ALTRI
Utero in affitto: 50 lesbiche ne chiedono l’abolizione.
Sostenuto anche da attivisti LGBT, l’appello chiede il rispetto delle convenzioni internazionali a tutela del diritto del neonato di non essere separato dalla madre. Che la pratica dell’utero in affitto susciti perplessità anche nel mondo liberal e persino tra gli attivisti LGBT non era un mistero. Il documento in circolazione da qualche giorno rappresenta però una vera svolta, essendo stato formalmente sottoscritto da cinquanta lesbiche italiane, che non si riconoscono nella maternità surrogata e che vedono in essa una forma di mercimonio umano.
L’appello viene presentato nella sua introduzione come un testo niente affatto “proibizionista” ma semplicemente “contrario ai contratti e agli scambi di denaro per comprare e vendere esseri umani”, che – si ricorda – in Italia sono tuttora illegali. È un’illusione, prosegue il documento delle lesbiche, pensare di poter “recidere il legame affettivo tra madre surrogata e neonato/a, come se il legame dipendesse dal codice genetico e non dalla gravidanza e dal parto”. Inoltre “si tratta di metodiche invasive e pericolose per la salute materna su cui si sorvola”, mentre anche l’allattamento del seno della madre surrogata viene impedito per precluderne “l’attaccamento” del neonato.
“Nella maternità surrogata non ci sono né doni né donatrici, ma solo affari e attività lucrative promosse dal desiderio genitoriale di persone del primo mondo”, denuncia l’appello, condannando così “l’invasione del mercato in tutti gli ambiti della vita” e tutte quelle “prestazioni lavorative che invadono il nostro stesso corpo e mercificano un nuovo essere umano, che diventa il prodotto della gravidanza”.
Un altro aspetto criticato è la privazione alle madri surrogate di “diritti rispetto alla frequentazione o all’informazione sul futuro dei figli che hanno affidato ad altri”.
C’è il rischio, dunque, della “creazione di una sottoclasse di fattrici, che non possono considerare propria la creatura il cui sviluppo nutrono, anche con l’influenza epigenetica”.
Il danno, tuttavia, non risparmia nemmeno i neonati, “programmati così per essere separati dalla madre alla nascita, non per cause di forza maggiore come quando la madre viene a mancare o decide di non riconoscerli causandone la messa in adozione, ma in modo predeterminato, togliendo loro la fonte ottimale di nutrimento e interrompendo la loro relazione privilegiata con la donna che li ha generati, fonte anche di rassicurazione”.
Tutto ciò, in contrasto con la Convenzione ONU sui diritti del bambino (Stoccolma 1989) e la Convenzione sull’adozione internazionale (l’Aja 1993), che “garantiscono la continuità della vita familiare, cioè il diritto dell’infante a stare con la donna che lo ha partorito (cioè la madre), cui si può derogare solo nelle adozioni”. Peraltro “la convenzione del Consiglio d’Europa sulla biomedicina (Oviedo 1997) rende inoltre indisponibili al profitto le parti prelevate del corpo umano, come ad esempio gli ovociti”, ricordano le lesbiche.
Il documento si conclude, quindi, con quattro esplicite richieste:
Il rifiuto della “mercificazione delle capacità riproduttive delle donne”;
Il rifiuto della “mercificazione dei bambini”;
Il mantenimento, da parte di tutti i governi, della “norma di elementare buon senso per cui la madre legale è colei che ha partorito e non la firmataria di un contratto né l’origine dell’ovocita”;
Il rispetto delle “convenzioni internazionali per la protezione dei diritti umani e del bambino di cui sono firmatari”, con conseguente ferma opposizione a “tutte le forme di legalizzazione della maternità surrogata sul piano nazionale e internazionale, abolendo le (poche) leggi che l’hanno introdotta”.
A sostenere l’iniziativa figurano due attivisti LGBT: Aurelio Mancuso, giornalista, blogger e presidente di Equality Italia; Giampaolo Silvestri, fondatore di Arcigay ed ex senatore dei Verdi. Assieme a loro, tre femministe di fama internazionale: Silvia Federici (Hofsra University, New York); Ariel Salleh (Sydney University); Barbara Katz Rothman, autrice di studi sulla maternità (City University of New York).
Luca Marcolivio Zenit 27 settembre 2016
https://it.zenit.org/articles/utero-in-affitto-50-lesbiche-ne-chiedono-labolizione
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MEDIAZIONE FAMILIARE
Dal conflitto all’accordo, come funziona il percorso di collaborazione tra i partner.
La mediazione familiare è “un percorso di collaborazione tra i partner per la risoluzione di un conflitto esistente tra di essi”. Si tratta di un servizio offerto alle coppie in crisi che prevede la presenza di un soggetto terzo imparziale, il mediatore familiare, il quale aiuta le parti a comunicare e a trovare delle soluzioni accettabili ai problemi inerenti l’affidamento e/o il mantenimento dei figli, la regolamentazione dei rapporti economici o qualsiasi altro conflitto venga portato in mediazione.
E’ importante evidenziare che lo scopo della mediazione familiare non è quello di far riconciliare la coppia ma solo ed esclusivamente quello di aiutare le parti in conflitto a riattivare una comunicazione che sia, per quanto possibile, serena ed equilibrata, al fine di trovare accordi condivisi da entrambi per il bene dei figli e delle stesse parti. Quando vi sono incomprensioni all’interno della coppia, diventa difficile comunicare poiché subentrano sentimenti di rabbia, rancore, ripicche reciproche pertanto, il mediatore familiare, adottando specifiche tecniche cerca concretamente di portare le parti a dialogare nuovamente.
Possono ricorrere alla mediazione familiare non solo le coppie in crisi sposate o conviventi ma anche quelle già separate o divorziate che, sebbene abbiano già assunto degli accordi al momento della separazione o del divorzio non riescono a rispettarli, proprio perché è ancora molto forte il rancore e la rabbia che provano l’uno nei confronti dell’altra. In questi casi il mediatore aiuterà la coppia a rivedere gli accordi presi in precedenza, adattandoli agli attuali bisogni.
Il percorso di mediazione si articola in varie fasi, ciascuna delle quali svolge una specifica funzione:
Colloquio di premediazione: conoscenza reciproca tra le parti e il mediatore, il quale fornisce le prime informazioni sul percorso di mediazione (numero sedute, costi, setting ecc..). Le parti accennano alla propria situazione di conflitto e il mediatore inizia a sondare se vi siano o meno i presupposti per iniziare il percorso di mediazione;
Mediazione vera e propria: si svolge attraverso un certo numero di incontri (10/12 o in base alle esigenze del caso) nei quali il mediatore aiuta le parti a dialogare giungendo ad accordi concreti in base alle esigenze della coppia;
Fase di redazione degli accordi: gli accordi assunti dai partner verranno messi per iscritto, per poi essere recepiti nel futuro ricorso per separazione consensuale;
Fase del “follow up”: è una verifica, a distanza di alcuni mesi dal raggiungimento degli accordi, per appurare se le parti effettivamente si attengono agli stessi o meno.
Il follow up può considerarsi, in concreto, una verifica di efficacia del percorso di mediazione, il quale in definitiva è da intendersi quale strumento “per vincere tutti e due” perché nessuno dei due partner vince sull’altro ma vi è una terza persona che aiuta la coppia a raggiungere accordi che soddisfino gli interessi e soprattutto i bisogni di entrambi.
Avv. Isabella Vulcano, mediatore familiare Newsletter studio Cataldi 26 settembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/23299-la-mediazione-familiare.asp
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PARLAMENTO
Senato – 2° Commissione Giustizia Disposizioni sul cognome dei figli
27 settembre 2016 Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli
(1628) Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli, approvato dalla Camera dei deputati il 24 settembre 2014, in un testo risultante dall’unificazione di un disegno di legge d’iniziativa governativa e dei disegni di legge d’iniziativa dei deputati Garavini; Nicchi; Carfagna e Bergamini; Gebhard, Fabbri.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/802290/index.html
(1226) Lo Giudice, (1227) Buemi, (1229) Lumia, (1230) A. Mussolini, (1245) Malan, (1383) G. Mangili.
Prosegue l’esame congiunto, sospeso nella seduta del 28 giugno 2016.
Il relatore Lo Giudice (PD) ritiene di fare un’integrazione delle propria relazione, alla luce del dibattito svolto finora in Commissione e, in particolare con riferimento alle questioni e ai rilievi problematici emersi nel corso dei lavori. Innanzitutto è opportuno fare qualche precisazione sulla previsione di cui al secondo comma del nuovo articolo 143-quater del codice civile, in base alla quale in caso di mancato accordo del genitori per l’attribuzione del cognome di entrambi al figlio, si applica il criterio dell’ordine alfabetico. Fermo restando che il principio dell’accordo dei genitori deriva dai principali modelli di legislazione straniera in tale materia (Spagna, Francia, Germania), vale la pena soffermarsi sul criterio dell’ordine alfabetico in caso di mancato accordo dei genitori. A vario titolo sono state manifestate perplessità sul principio dell’automatismo alfabetico. La giurisprudenza prevalente della Corte di Cassazione (cfr. Cass. civ., sez. I, n. 2644/2011) è nel senso di escludere ogni “automaticità” nell’attribuzione del cognome, per cui secondo la Corte, nei casi in cui decide il giudice (articolo 262 del codice civile), questo deve tener conto principalmente dell’interesse del minore.
Volgendo lo sguardo ai modelli stranieri per la disciplina delle ipotesi di mancato accordo dei genitori, in Spagna l’articolo 49 della legge del 2011 sul Registro civile prevede che, in caso di disaccordo tra genitori o in assenza di indicazione dei cognomi nella richiesta di iscrizione, l’ufficiale del Registro civile è tenuto a richiedere ai genitori, ovvero ai legali rappresentanti del minore, di comunicare l’ordine dei cognomi entro il termine massimo di tre giorni, trascorso inutilmente il quale l’ufficiale del Registro civile decide in merito all’ordine da adottare nel superiore interesse del minore.
In Francia, (dove i genitori possono decidere di dare ai figli il nome del padre, della madre o di entrambi nell’ordine da loro stabilito, analogamente a quanto previsto dal disegno di legge approvato dalla Camera, ma dove è prevista anche la possibilità di assumere un nom de famille) in caso di disaccordo, il figlio assume il cognome del genitore nei cui riguardi la filiazione sia stata stabilita per prima, anche con accertamento giudiziale, ed il cognome di entrambi se la filiazione sia stata stabilita simultaneamente. Qualora i genitori portino un doppio cognome, essi possono trasmetterne uno soltanto. Il coniuge il cui nome è stato scelto come nome de famille può aggiungere quello dell’altro a titolo di nome d’usage, non trascritto sull’atto di nascita.
In Germania i coniugi, possono adottare (al momento del matrimonio o successivamente) un cognome familiare comune da assegnare alla prole. Ove manchi l’accordo sul cognome comune, si applica quanto previsto dall’articolo 1617 del BGB (Codice civile): se i genitori non hanno un nome familiare comune e se la potestà spetta ad entrambi congiuntamente, essi debbono, con dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile, designare il cognome che il padre o la madre portano al momento della dichiarazione quale cognome di nascita del figlio. Se entro un mese dalla nascita, i genitori non hanno operato tale scelta, il tribunale della famiglia attribuisce ad uno dei due genitori la facoltà di designare il cognome di nascita del figlio. Il giudice può stabilire un tempo massimo entro il quale il genitore deve operare la scelta. Se tale termine trascorre senza che il genitore abbia operato la scelta, il figlio acquisisce il cognome del genitore cui tale scelta era stata affidata.
A proposito del cognome familiare, si ricorda che il disegno di legge n. 1628, per una precisa scelta fatta dalla Camera dei deputati, non tratta delle questioni del cognome dei coniugi e, pertanto, è difficile ipotizzare nel disegno di legge in esame, una qualsiasi forma di accordo preventivo in ordine al cognome dei figli.
Quanto, al quarto comma del nuovo articolo 143-quater del codice civile, in base alla quale il figlio che ha un doppio cognome (cioè sia quello del padre che quello della madre) può trasmetterne al proprio figlio soltanto uno, a scelta, la norma è abbastanza chiara nel senso di evitare una moltiplicazione di cognomi ad ogni nuova generazione.
Tuttavia, a fronte delle perplessità che sono state manifestate nel corso del dibattito in Commissione, con riferimento all’ambiguità della formulazione usata “Il figlio al quale è stato attribuito il cognome di entrambi i genitori può trasmetterne al proprio figlio soltanto uno, a sua scelta» (che secondo alcuni potrebbe essere letta anche come la facoltà di non trasmetterne nessuno), si potrebbe specificare che al figlio è attribuito solo uno dei due cognomi di ciascun genitore e non entrambi. Per quanto riguarda i problemi che possono derivare dalla mancata scelta del genitore su quale cognome trasmettere al figlio, la soluzione potrebbe essere che il figlio, in caso di mancata scelta, assume il primo dei due cognomi.
La stessa questione relativa alla mancata scelta si pone anche all’ articolo 3 comma 1, e potrebbe essere risolta con una specificazione analoga.
Sulla questione del cognome del figlio nato fuori dal matrimonio, l’articolo 2 del disegno di legge n. 1628, che riformula l’articolo 262 del codice civile, detta una diversa disciplina solo se il riconoscimento del secondo genitore avviene successivamente a quello del primo. In questo caso, il cognome del secondo genitore si aggiunge a quello del primo solo con il consenso di questi, oltre che a quello del figlio, se ha già compiuto 14 anni. Se il figlio è riconosciuto contemporaneamente da entrambi i genitori, si applica la stessa disciplina del nuovo articolo 143-quater, (articolo 1 del disegno di legge), per il figlio di genitori coniugati.
Anche alla luce della nuova normativa sull’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi (legge n. 219 del 2012 e decreto legislativo attuativo n. 154 del 2013), risulta inopportuna la distinzione contenuta nel disegno di legge 1628 fra un articolo 1, recante “Introduzione dell’articolo 143-quater del codice civile, in materia di cognome del figlio nato nel matrimonio ” e un articolo 2 recante ” Modifica dell’articolo 262 del codice civile, in materia di cognome del figlio nato fuori del matrimonio”.
La Corte di Cassazione (cfr. Cass. 17 luglio 2007, n. 15953 e Cass. civ., sez. I, n. 15087/2008) ha prevalentemente affermato che occorre assicurare, anche in materia di attribuzione del cognome, il diritto costituzionalmente garantito di tendenziale completa equiparazione del trattamento dei figli naturali a quello dei figli nati nel matrimonio, contemperandolo, peraltro, nell’interesse esclusivo del figlio stesso, con la tutela generale del cognome, in quanto elemento identificativo della persona.
Il testo approvato dalla Camera dei deputati in verità non compie alcuna discriminazione sostanziale fra figli nati dentro o fuori dal matrimonio, ma differenzia di fatto solo la situazione dei figli riconosciuti contemporaneamente o successivamente dai due genitori. A maggior ragione appare opportuno modificare la differenziazione presente nelle rubriche degli articoli 1 e 2 (oggi relative rispettivamente ai figli nati dentro o fuori dal matrimonio) riferendole piuttosto alle diverse situazioni dei figli riconosciuti contemporaneamente e a quelli riconosciuti successivamente.
Appare opportuno inoltre – in sintonia con quanto previsto dal nuovo articolo 143-quater – sostituire l’obbligo con la possibilità che venga aggiunto il cognome del secondo genitore nel caso in cui il riconoscimento da parte di questi avviene successivamente.
Il seguito dell’esame congiunto è infine rinviato.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=990861
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SINODO DEI VESCOVI
Diario del Sinodo, di Franco Ferrari: una svolta in famiglia
E’ appena uscita il libro di Franco Ferrari, Famiglia. Due Sinodi e un’esortazione. Diario di una svolta (Nerbini, Firenze 2016), che raccoglie le cronache che, giorno per giorno, l’autore ha steso durante i due Sinodi del 2014-2015. Pubblico qui la Introduzione che l’autore mi ha chiesto di scrivere per il suo volume e dalla quale si può capire l’interesse di questa raccolta.

Cronaca di una svolta annunciata. Il volume che F. Ferrari ha “composto” – nella forma di un “diario del Sinodo” – ci permette di ricostruire i tre anni di cammino ecclesiale, lungo i due Sinodi – quello Straordinario del 2014 e quello ordinario del 2015 – con una campata temporale di “documentazione” che si estende per poco più di un anno, a partire dal 3 ottobre 2014 per arrivare al 25 ottobre 2015. Prezioso risulta, per questo, lo scandirsi dei passi, giorno per giorno, durante le due Assemblee. Già oggi, infatti, noi rischieremmo di dimenticare come si è arrivati al testo di Amoris Laetitia. Alla luce di questo preziose “pagine di agenda” noi dovremmo guardare alla “svolta” indirizzando l’attenzione a due campate “maggiori” di questo semplice “anno di cronaca”. Una prima è quella già indicata dei tre anni, che vanno dal “primo spunto” di progetto del Sinodo sulla famiglia, nell’ottobre del 2013 alla pubblicazione della Esortazione Apostolica “Amoris Laetitia” nell’aprile 2016. Ma vi è una ulteriore “campata” da considerare, che va da “Arcanum divinae sapientiae”, enciclica di Leone XIII del 1880, fino al testo di AL del 2016. Potremmo quindi affermare – senza esagerare – che questa cronaca quotidiana di una quarantina di giorni, che si estendono per poco più di un anno, ci è molto utile per capire non solo la evoluzione degli ultimi 3 anni, ma anche quella degli ultimi due secoli.
La svolta del Vaticano II rilanciato (Sulle orme e oltre Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II -1981). Negli ultimi tre anni abbiamo visto rinascere il Concilio Vaticano II. E il primo sintomo di tutto ciò è che se ne parla molto meno di prima. Perché lo si mette direttamente in opera, con l’urgenza di un “atto di misericordia”: di cui aveva bisogno la Chiesa; di cui aveva bisogno la famiglia e il matrimonio. La prima “breccia” di tutto ciò era avvenuta, solennemente, 35 anni fa, dopo un altro Sinodo dei Vescovi, recepito nella Esortazione Familiaris Consortio. Essa sanciva, in modo inequivocabile, il riconoscimento di una “società complessa”, non più misurabile soltanto sul “diritto canonico”. L’esito fu, allora, un paradosso: si poteva concepire una “comunione ecclesiale” che comprendeva anche le regioni della “irregolarità familiare”, alle quali, tuttavia, non poteva corrispondere alcuna “comunione sacramentale”. Ora, con i lenti passi compiuti in questi tre anni, si apre una possibilità nuova: ossia che, in foro interno, possa accedere alla comunione anche chi, in foro esterno, rimane collocato in una regione “irregolare”. Potremmo dire che, in foro interno, è data una autorità alla esteriorità civile, diversa da quella canonica. E questo è un fatto epocale, perché modifica strutturalmente il rapporto tra Chiesa e mondo.
La svolta del rapporto con la realtà e con il tempo (Oltre “Arcanum Divinae Sapientiae” di Leone XIII – 1880). In questa svolta è nato dunque qualcosa di nuovo. In questa svolta muore anche qualcosa di vecchio. Muore la ossessione di controllo, muore la preoccupazione integralista di un Vangelo ridotto a dottrina e di una dottrina identificata con una sola disciplina possibile. Nella storia della Chiesa, dovremmo sempre ricordarlo bene, “ciò che non muore e ciò che può morire/, non è se non splendor di quella idea/, che partorisce amando il nostro Sire” (Dante). Nella tradizione cattolica sul matrimonio una accurata ridefinizione di ciò che non muore e di ciò che può morire è la cura con cui la Chiesa – il Vescovo di Roma in comunione con il Sinodo dei Vescovi – hanno ridefinito nelle cronache di questi 37 giorni di “lavoro comune”. Se “la realtà è superiore alla idea”, e “il tempo superiore allo spazio” – come si dice in Evangelii Gaudium – ciò implica che la Chiesa non debba “spazialmente” difendere competenze, ma debba mettersi temporalmente in cammini di discernimento, di accompagnamento e di integrazione. Né la competenza esclusiva della Chiesa sul matrimonio come istituzione, né la esclusiva naturale sulla generazione contro ogni “artificiale separazione” tra sesso e procreazione: queste erano le preoccupazione di fine XIX secolo e di inizi XX che sono rimaste tanto a lungo come “priorità tipicamente cattoliche”. Le abbiamo ancora sentite risuonare nelle Assemblee sinodali, e la loro eco non è assente neppure nel testo della Esortazione. Ma l’orizzonte è mutato: la misericordia spiazza una Chiesa autoreferenziale, la fa uscire per strada, le fa trovare Dio nella città: è già presente, persino sub contraria specie. Il tempo trasforma lo spazio, la realtà anticipa e supera l’idea. Ecco, una volta acquisita la pace di una sintesi finale, con la sua organicità e la sua ampiezza, è bello ritornare ai singoli passi che l’hanno preparata, ostacolata, accompagnata e purificata. In un cammino nel quale i Vescovi stessi si sono sentiti “cambiati” dagli scambi sinodali, appare chiaro il valore di questo “diario”. Documentando passo passo il crescere della coscienza episcopale intorno al tema “amore”, esso attesta non solo l’atto di un Pontefice, ma il non facile assenso di una Assemblea episcopale; non solo la parola di un capo, ma il dialogo di un corpo; non solo la grande dottrina della giustizia, ma anche la più grande sapienza della misericordia. Quelle stesse esigenze di discernimento, accompagnamento e integrazione, che AL richiede al pastore come metodo di azione ecclesiale, sono richieste, in pari tempo, al lettore e al teologo, come metodo di lettura per entrare nel sistema raffinato della Esortazione e di tutta la storia della sua preparazione. A tale compito questo libro di F. Ferrari dà un contributo originale e prezioso, mostrando, con i dati della cronaca, un lento costruirsi della storia, nella quale è intrecciata, in modo indissolubile, l’azione di Dio e la azione degli uomini.
Andrea Grillo blog: Come se non 1 ottobre 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/diario-del-sinodo-di-f-ferrari-una-svolta-in-famiglia
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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI
XXIV Congresso Nazionale U.C.I.P.E.M. Oristano, 2-4 Settembre 2016
La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità
Nel sito web è riportata la relazione dell’avv. Rosalisa Sartorel (Belluno): “Il diritto di famiglia oggi: dalla potestà alla responsabilità genitoriale, dall’affido congiunto nelle separazioni all’accesso all’origine nelle adozioni.
Prima di entrare nel vivo della mia esposizione vorrei partire dal tema del congresso (La famiglia crocevia di relazioni e opportunità) e dall’argomento trattato dal prof. Anzani (I cambiamenti in atto nella società), per tracciare la linea ideale che seguirà l’excursus del tema che mi è stato assegnato.
Le due parole chiave sono “cambiamento” e “relazione”. Potremmo dire che i rapidi cambiamenti avvenuti nel diritto di famiglia negli ultimi 10 anni (con un’accelerazione particolarmente significativa negli ultimi 3/4) -cambiamenti normativi che riflettono e recepiscono (sempre a posteriori) i mutamenti sociali e familiari- sono avvenuti all’insegna della conservazione delle relazioni familiari e, più in generale, delle relazioni interpersonali.
Questo perché (mia riflessione), rubando l’espressione a Baumann, una “società liquida” non può che generare una “famiglia liquida”. E allora si è sentita la necessità, nell’informe stato liquido delle cose di famiglia, di “solidificare”, se non l’” istituzione”, quantomeno le relazioni di cui essa è formata. Si tratta di relazioni che non sono più “gerarchiche”, in cui c’è qualcuno che esercita un “potere” esclusivo su qualcun altro, ma relazioni che trovano il loro fondamento nel principio e nel valore della responsabilità.
Il primo cambiamento in ordine cronologico è stato quello dell’affidamento condiviso dei figli nella separazione, nel divorzio e nella fine delle convivenze. La legge che ha prodotto il mutamento è una legge del 2006, la nr. 54 entrata in vigore il 16 marzo del 2006, proposta da un collega e parlamentare bellunese, in qualità di primo firmatario, l’allora onorevole Paniz. Apro una parentesi per sottolineare che in questa legge sono state gettate le basi anche per la successiva importantissima riforma che riguarda lo status giuridico di figlio, dal momento che con essa non solo è stato introdotto l’affidamento condiviso dei figli ma è stato dato anche un forte impulso al processo di unificazione del loro stato giuridico stabilendo espressamente l’applicabilità delle disposizioni in essa contenute anche ai figli naturali, assimilandoli in questo modo sul piano processuale ai figli legittimi per quanto riguardava la disciplina relativa alla regolamentazione delle questioni riguardanti i figli: in pratica si applicavano gli stessi principi (anche se per trattare dette questioni si continuava ad andare al Tribunale dei Minor). La situazione precedente all’introduzione di questa normativa prevedeva che in caso di separazione dei genitori i figli venissero affidati in via esclusiva ad uno dei due, il quale ne esercitava in concreto la potestà: al 95% si trattava della madre. L’altro genitore era il cosiddetto genitore non affidatario il quale, pur non perdendo la potestà genitoriale, aveva in concreto pochissime occasioni per esercitarla, se non quando il suo parere si rendeva necessario e vincolante per le scelte più importanti nella vita del minore, e, in sostanza, finiva con l’essere un genitore “finanziatore”. Egli, infatti, non partecipava alla crescita e all’educazione della prole, semplicemente versava all’altro genitore il contributo economico necessario al mantenimento dei figli e del resto poteva anche disinteressarsi senza che ne derivassero conseguenze giuridiche pregiudizievoli. Con l’aumento delle separazioni e dei divorzi, il padre stava diventando una figura sempre più evanescente all’interno delle famiglie divise e questo aveva generato un vivo dibattito non solo giuridico, ma anche sociologico e psicologico, sull’impatto che questa situazione di “padri assenti” avrebbe avuto sulle nuove generazioni. In questo spirito è stata elaborata la normativa sull’affidamento condiviso, con lo scopo di coinvolgere entrambi i genitori (ma soprattutto i padri) nell’educazione della prole, in base al principio della condivisione della responsabilità genitoriale, o principio di bigenitorialità.
Così è stato introdotto il principio secondo il quale i figli hanno diritto di trascorrere tempi adeguati con entrambi i genitori, in modo da superare quella consuetudine che si era andata consolidando nel tempo in cui c’era il genitore del tempo ordinario e quello del weekend e dei divertimenti. La nuova norma così recitava: “anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. In precedenza l’articolo era invece così formulato: “Il giudice che pronuncia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole…ecc.”.
Cos’è cambiato con l’introduzione della nuova disciplina in materia di affido condiviso? Dal punto di vista pratico non molto. Nel senso che i figli continuano ad avere una collocazione prevalente presso uno dei due genitori, nella maggior parte dei casi la madre, che è anche il genitore cui viene attribuito di solito il diritto di abitazione nella casa familiare (anche se non ne è proprietaria) fino all’indipendenza economica dei figli. Vi è, sì, normalmente, la previsione di una maggiore frequentazione dell’abitazione paterna da parte dei figli, che col padre dovrebbero trascorrere più tempo per essere accuditi anche da costui, ma non sempre la dilatazione dei tempi di permanenza col padre viene rispettata, nella maggior parte dei casi essa si riduce ad uno o due pasti serali in più. Ciò che di rivoluzionario c’è stato, tuttavia, è un cambiamento nelle relazioni genitoriali. Nel senso che con l’introduzione del principio secondo il quale i figli hanno diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi i genitori (i quali entrambi esercitano sui figli una responsabilità condivisa), si è “obbligato” i genitori a comunicare fra di loro per continuare a crescere insieme i figli, e quindi a continuare ad esercitare insieme la funzione genitoriale.
Sembra facile, ma non lo è. Soprattutto quando un rapporto coniugale si interrompe nel conflitto tra i due. Com’è possibile, si chiedeva qualche interprete della prima ora, obbligare i genitori ad andare d’accordo sui figli, quando non vanno d’accordo su nulla? Quando sono in lite perenne, magari con denunce penali in corso? La risposta della giurisprudenza non si è fatta attendere: anche se i genitori sono in conflitto si deve disporre l’affidamento condiviso dei figli minori, nel loro superiore interesse. Si sanciva, in sostanza, la separazione di concetti tra non essere un buon coniuge e non essere un buon genitore: colui che si era rivelato un coniuge inadeguato poteva non di meno essere un buon genitore, ed inoltre si voleva obbligare i genitori a non interrompere il legame genitoriale e quindi a tenere aperta (o magari aprire per la prima volta) la comunicazione relativa ai figli.
In questa situazione di condivisione “coatta” della genitorialità, i Consultori che tra i primi avevano attivato il servizio di Mediazione Familiare sono stati (e continuano ad essere) di grande aiuto alle coppie genitoriali separande o separate. Il nostro Consultorio ha attivato il servizio di M.F. poco dopo l’entrata in vigore della legge ed è stato gratificante lavorare con i genitori su questi nuovi valori che in qualche modo aprivano loro una nuova visione della famiglia, non convenzionale, ma comunque conservata nella sua funzione essenziale dell’accudimento e della crescita dei figli.
Con questa prima riforma è stato istituzionalizzato un nuovo modello di famiglia, fatto di figli e di genitori che non vivono più sotto lo stesso tetto, ma che continuano a collaborare nell’interesse dei figli. Ecco servito dal Legislatore il primo importante cambiamento dell’idea di famiglia e della sua struttura, nell’ottica della salvaguardia delle relazioni.
La seconda rivoluzione nel diritto di famiglia arriva nel 2012 e riguarda i figli e la relativa responsabilità genitoriale. Con la L. 219/2012 (10.12.2012) pubblicata nella G.U. n. 293 del 17.12.2012, il Legislatore italiano ha definitivamente equiparato il trattamento giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio e dei figli adottivi a quello dei figli legittimi. È stata quindi sancita l’unicità dello stato giuridico di figlio, sicché d’ora innanzi i figli avranno gli stessi diritti e gli stessi doveri nei confronti dei loro genitori, nonché dei parenti del genitore, a prescindere dalla circostanza che la loro nascita sia avvenuta all’interno del matrimonio o al di fuori di esso. Si tratta di una riforma storica, a più voci definita epocale; certamente rappresenta una rivoluzione culturale, che dà finalmente risposta alle tante attese sia della società civile sia degli operatori del diritto che da molto tempo auspicavano un intervento normativo che spazzasse via non solo la dicotomia terminologica tra figli naturali e figli legittimi, ma soprattutto eliminasse le molte discriminazioni tra le (allora) diverse categorie di figli.
Per comprendere l’importanza della riforma è sufficiente riflettere su questo dato: ogni anno in Italia il 23% dei bambini nascono fuori dal matrimonio, credo che questa sia un’esperienza ben conosciuta non solo a livello giudico, ma anche consultoriale. Anche qui possiamo dire che è stato il cambiamento della società a produrre il cambiamento della normativa: non era possibile pensare che a carico di un bambino su quattro permanessero disparità di trattamento giuridico per il solo fatto di essere nato fuori dal matrimonio.
La L. 219/2012 consta di sei articoli che modificano il codice civile i cui interventi sono ispirati al principio “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”, quindi “tutti i figli sono uguali”. Ma la legge, all’art. 2, contiene anche un’ampia delega al Governo il cui termine di esercizio scadeva ad un anno dall’entrata in vigore della legge e cioè il 1° gennaio 2014: l’esercizio della delega è stato puntualmente svolto entro il termine, tanto che il 28 dicembre 2013 è stato approvato il D. Lgs. N. 154, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 8 gennaio 2014 n. 5. Lo scopo della delega era quello di modificare tutte le disposizioni vigenti al fine di eliminare ogni residua discriminazione tra figli legittimi, naturali ed adottivi.
Esaminiamo brevemente alcune delle modifiche principali al Codice Civile, partendo dall’art. 74 c.c. intitolato “parentela”. La norma è stata interamente riformulata ed è stata data una nuova definizione della nozione di parentela stabilendo espressamente che il vincolo di parentela riguarda le persone discendenti dallo stesso stipite, qualunque provenienza abbia il vincolo di consanguineità e anche nell’ipotesi in cui il vincolo discenda da un rapporto giuridico estraneo ad un legame di sangue. La nozione di parentela dunque, prescinde dal legame biologico essendo estesa non solo ai figli nati fuori dal matrimonio ma anche a quelli minori di età adottati. La parentela cui si riferisce l’articolo è non solo quella in linea retta ma anche quella in linea collaterale: questi figli saranno nipoti dei genitori dei propri genitori e nipoti dei fratelli e delle sorelle dei propri genitori, nonché cugini dei figli degli zii e così via. (Art. 74 c.c. nuovo testo: “La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti.”)
Anche per i figli incestuosi il Legislatore del 2012 compie un passo avanti nel percorso di eliminazione delle discriminazioni prevedendo che potranno essere riconosciuti previa autorizzazione del tribunale avuto riguardo al loro interesse e alla necessità di evitare loro pregiudizio. In tal modo si è inteso privilegiare i valori e i diritti della persona a ricostruire i legami e le relazioni, ed eliminare ogni forma di discriminazione con la parificazione di tutte le forme di filiazione, in attuazione ai principi costituzionali e alle norme internazionali.
L’art. 250 del c.c., prima della riforma, era intitolato al riconoscimento dei figli naturali. Con la riforma l’articolo è stato modificato eliminando l’aggettivo “naturale” e sostituendolo con “nato fuori dal matrimonio” poi invertendo l’ordine dei soggetti legittimati al riconoscimento (da padre-madre a madre-padre) poi ancora prevedendo l’abbassamento dai sedici ai quattordici anni quale soglia di età per l’assenso del figlio al riconoscimento e infine prevedendo che il consenso del genitore che ha effettuato per primo il riconoscimento è necessario per il figlio infraquattordicenne. Vale a dire che il riconoscimento del figlio infraquattordicenne non potrà avvenire senza il consenso dell’altro genitore. La ratio di questi interventi va ricercata in primo luogo nell’abbandono di ogni forma di discriminazione, poi nella presa d’atto da parte del Legislatore che il processo di maturazione del minore avviene oggi in modo sicuramente anticipato e da qui la necessità di un maggiore coinvolgimento dello stesso nelle decisioni che lo riguardano, anche alla luce della legislazione sopranazionale che, com’è noto, attribuisce al minore il diritto ad essere ascoltato in tutti i procedimenti che lo riguardano (conv. New York art. 12 sui diritti del fanciullo ratificata in Italia nel 1989, e la Conv. Di Strasburgo del 25.01.1996 ratificata in Italia il 20.03.2003 sull’esercizio dei diritti del fanciullo).
In buona sostanza viene senza dubbio valorizzata la volontà del figlio minore di età. (Art. 250 c.c. nuovo testo: “Il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente. Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso. Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento. Il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio. Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315-bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262. Il riconoscimento non può essere fatto dai genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età, salvo che il giudice li autorizzi, valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio.”)
Nella stessa direzione della valorizzazione dell’autodeterminazione e della maggiore consapevolezza del minore va letto l’ultimo comma dell’articolo in esame nel quale viene fatta un’apertura al riconoscimento del genitore infrasedicenne, che prima della riforma non era previsto. Il divieto, infatti, non è più assoluto in quanto viene prevista la possibilità di ottenere l’autorizzazione al riconoscimento da parte del giudice “valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio”. Sebbene la procreazione in età adolescenziale non sia molto frequente il Legislatore ha voluto attenuare gli ostacoli all’esercizio della genitorialità, ed evitare l’avvio della procedura di adottabilità e la conseguente incertezza relativa allo status e all’identità personale del figlio. Intervenuta l’autorizzazione del giudice al riconoscimento da parte del genitore infrasedicenne, verrà impedita all’origine la procedura adottiva.
Circa un anno fa mi sono trovata proprio nella situazione di dover proporre molto velocemente un ricorso al Giudice Tutelare per una minore quindicenne, affidata ai servizi sociali, al fine di consentirle di riconoscere il bambino che aveva appena partorito. In effetti, i servizi avevano già attuato, nei fatti, la separazione del neonato dalla madre, impedendo a quest’ultima di vederlo in ospedale e di portarlo con sé all’atto delle dimissioni. La ragazzina era molto determinata a volersi tenere il figlio per poterlo accudire e crescere da sé. In questa occasione la legge recentemente varata, che ha derogato al limite d’età assoluto (16 anni) per poter riconoscere il figlio, mi è tornata molto utile e la ragazzina è stata la prima minore infrasedicenne della provincia ad avvalersi della normativa e a poter riconoscere il figlio. Ottenuta molto velocemente l’autorizzazione da parte del Giudice Tutelare, il quale ha ritenuto che il riconoscimento andasse nella direzione dell’interesse del neonato, la minore, quindicenne, in seguito al riconoscimento, ha potuto andarsi a prendere il figlio in ospedale per portarlo con sé.
Veniamo ora ad esaminare molto rapidamente l’art. 315 c.c. La disposizione in esame, prima dedicata ai doveri dei figli verso i genitori, con la nuova legge viene riformulata già nella rubrica che ora si chiama “Stato giuridico della filiazione”. L’art. 315 c.c. sancisce espressamente: “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”. La portata innovatrice della disposizione consiste nell’introduzione di una condizione unitaria di figlio, senza più alcuna distinzione né nominale né sostanziale tra le varie categorie di figli. Con tale norma è stato proclamato il principio di parità assoluta tra figli naturali, legittimi ed adottivi.
Ed eccoci giunti, infine, al nuovo statuto dei diritti e dei doveri del figlio, contenuto nell’art. 315 bis c.c.. Questa è una nuova norma, introdotta con la legge 219/2012. In essa è stato trasfuso l’intero contenuto del vecchio art. 315 c.c., relativo prima solo ai doveri del figlio verso i genitori, inserendo nella nuova disposizione la previsione organica dei diritti del figlio, cosicché, ora, la stessa rappresenta, come anticipato, un vero e proprio statuto dei diritti e dei doveri del figlio. (Art. 315-bis c.c.: “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”).
Interessante, al primo comma l’introduzione del principio del diritto del figlio ad essere assistito moralmente dai genitori. Il diritto all’assistenza morale era già contemplato nel nostro ordinamento come obbligo coniugale nell’art. 143 c.c., tuttavia, la circostanza che il Legislatore lo abbia previsto espressamente, inserendolo nell’elencazione relativa ai diritti del figlio, è molto importante e significativo considerata la sempre maggior frequenza di casi di disinteresse affettivo dei genitori verso i figli. L’assistenza morale è stata dunque elevata al rango di diritto del figlio, conferendole una valenza corrispondente al soddisfacimento delle stesse esigenze materiali dei figli.
Altro diritto del figlio inserito nella presente disposizione e non riconosciuto finora come diritto vero e proprio, se non nelle legge speciale sull’adozione 183/1984 (così come modificata dalla L. 149/2001) è il diritto a crescere in famiglia. Trattasi di diritto che la migliore dottrina ha qualificato come diritto soggettivo assoluto e come tale tutelabile erga omnes. Il Legislatore ha quindi voluto proclamare solennemente che il distacco del bambino dalla propria famiglia è giustificabile solo se le carenze del proprio nucleo familiare siano tali da poter arrecare pregiudizio al minore, e l’interesse del minore a crescere nella sua famiglia deve essere perseguito anche a costo di impegnare le strutture sociali, con azioni di sostegno non solo economiche ma anche di ordine psicologico e pedagogico.
Tra i vari principi contenuti nella delega al Governo troviamo quello di rimodellamento del concetto di potestà genitoriale che viene adeguato al lessico psicologico-giuridico moderno, delineando il concetto di responsabilità genitoriale, così da porre l’accento sull’aspetto di cura, piuttosto che di potere sul minore. Un rapido excursus storico aiuterà a capire la portata dell’evoluzione, del cambiamento nel concetto di potestà. Il legislatore del 1942, riconobbe il “carattere pubblicistico” dell’istituto della patria potestà e in esso vide la “affermazione del principio giuridico della sottoposizione dei figli al potere familiare dei genitori” in questo modo riaffermando il rapporto potestà-soggezione, nel solco della tradizione romanistica. Fu la Legge n. 151/1975 di riforma del diritto di famiglia a modificare, già nell’intestazione, il titolo IX del libro I del Codice Civile. Da lì in poi non si sarebbe più potuto parlare di “patria” potestà, bensì di potestà “genitoriale” (cioè una potestà condivisa da entrambi i genitori secondo un modello paritetico) che diventava così esercizio di una funzione, di un munus diretto a realizzare gli interessi della prole e non quelli di chi ne fosse investito. La legge delega del 2012 aveva previsto che la rubrica del titolo IX fosse sostituita dalla seguente “Della potestà dei genitori e dei diritti e doveri del figlio” e nell’enunciare i principi e criteri direttivi cui si sarebbe dovuto attenere il legislatore delegato, assegnava al Governo di provvedere, con decreto, alla “unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, delineando la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale”. Quindi, ove la delega fosse stata scrupolosamente osservata, avremmo, oggi, il mantenimento della locuzione “potestà dei genitori” ed una configurazione della responsabilità genitoriale “quale aspetto della potestà dei genitori”. Il legislatore delegato, invece, ha varcato il confine fissato nella delega. Eccedendo rispetto alle indicazioni il Governo ha, infatti, disposto la modifica della rubrica del titolo IX, ora intitolato “Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”. Ma il Governo si è spinto anche oltre, facendo scomparire il riferimento alla potestà dal Codice Civile e di Procedura Civile (articolo 709 ter), dal Codice penale e di Procedura Penale.
Vi è da dire che l’espressione parental responsibility figurava già in numerose fonti internazionali, ben prima di questa riforma. Il decreto delegato ha inteso farsi carico di una simile evoluzione giuridica. A livello di diritto internazionale, la locuzione responsabilità genitoriale era già apparsa nella Dichiarazione ONU dei diritti del fanciullo approvata il 20 novembre 1959. La modifica terminologica, come spiega la relazione al decreto, intende assumere una diversa visione prospettica dei rapporti genitori-figli, alla luce della quale occorre porre in risalto l’interesse superiore dei figli minori e non quello dei genitori investiti della responsabilità genitoriale. Detto altrimenti, con le efficaci parole del prof. Francesco Ruscello, potrebbe dirsi che “con la nuova formulazione linguistica si abbandonerebbe l’idea asimmetrica e adultocentrica del rapporto genitori-figli a vantaggio di una idea improntata all’eguaglianza di diritti e di doveri e più marcatamente puerocentrica”. Anche in questo particolare aspetto delle relazioni genitori-figli il Legislatore ha recepito, e non poteva essere altrimenti, il cambiamento in atto nella società, una società in cui i figli sono divenuti destinatari di diritti, molto più che di doveri, e quindi titolari di relazioni diremmo quasi “tra pari” con i loro genitori, i quali ultimi hanno il dovere di esercitare responsabilmente le loro funzioni a tutela di una crescita equilibrata dei figli, non solo dal punto di vista economico, ma anche psicologico e morale.
Il terzo importante cambiamento avvenuto nell’ambito del diritto di famiglia che segna la strada del perseguimento del diritto alla ricostruzione dei legami e delle relazioni nell’ottica della tutela dei diritti dell’individuo, riguarda la possibilità per l’adottato di conoscere le proprie origini. Va detto che ancora non c’è se non una proposta di legge unificata, approvata dalla Camera il 18 giugno del 2015; tuttavia l’intervento importante è venuto dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 278 del 2013.
Originariamente, la legge sulle adozioni (Legge n. 184 del 1983) prevedeva che il minore adottato entrasse a far parte giuridicamente di una nuova famiglia con il presupposto però che fosse mantenuto il segreto sulle sue origini. Il legislatore italiano, a seguito della legge (27 maggio 1991, n. 176) di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989, ha cercato di accordare una maggiore tutela all’interesse dell’adottato a conoscere le proprie origini, pur non dimenticando la relazione conflittuale tra questo interesse e quello dei genitori naturali e adottivi. Infatti, con la legge n. 149 del 2001, ha modificato la disciplina sulla segretezza dell’adozione prevista dalla legge 184/1983 e introdotto, attraverso la novella dell’art 28, la possibilità, se pur a determinate condizioni, per la persona adottata di accedere alle informazioni riguardanti l’identità dei genitori naturali, al fine di tutelare la fondamentale esigenza dell’adottato di ricostruire la propria identità personale.
L’articolo 28 della “legge sulle adozioni” riconosce quindi, da un lato, il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini e l’identità dei propri genitori biologici, dall’altro, prevede un limite insuperabile all’informativa, radicalmente esclusa nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata. Si tratta della cosiddetta possibilità di assicurare il “parto in anonimato” o “parto anonimo”, pensata con il fine di tutelare il più possibile la salute della madre e la vita del nascituro, consentendo alla donna di partorire nella piena riservatezza, ma anche con la migliore assistenza all’interno delle strutture ospedaliere. Solo in questo caso, quindi, il segreto sulla avvenuta maternità è protetto dalla regola dell’inaccessibilità, per cento anni, alla documentazione relativa al parto (ai sensi dell’art. 93 del Codice della Privacy). Ed è proprio questo il punto ritenuto incostituzionale dalla Consulta: la madre anonima non può essere conosciuta dal figlio così partorito, il quale poi sia stato dato in adozione. Il diritto di poter rintracciare le proprie “radici” è già, peraltro, riconosciuto dal diritto internazionale: dalla già citata Convenzione sui diritti del fanciullo, già citata, dalla Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, firmata all’Aja il 29 maggio 1993 e dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950.
Al di là dei principi, pensiamo a come sia facile oggigiorno per un ragazzo o anche per un adulto, accedendo alle informazioni più svariate tramite internet, i social ma anche partecipando ad alcune trasmissioni televisive, fare ricerche per giungere a conoscere le proprie origini. In alcuni casi la scoperta è avvenuta proprio così. Per chi non lo sapesse in Facebook c’è un sito che si intitola “Figli adottivi cercano genitori biologici”. E lì, chi è alla ricerca delle proprie origini, posta foto, e pubblica informazioni atte a farsi riconoscere dai genitori naturali. Ricordiamo che secondo alcuni dati, un figlio adottato su tre ritrova “on line” la propria famiglia d’origine. E con questa nuova realtà di connessione globale, che consente l’accesso ad informazioni un tempo impensabili, devono fare i conti tutti: sia i genitori adottivi, sia quelli naturali sia, infine, le istituzioni.
Comunque, tornando all’aspetto più prettamente giuridico, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 278 del 2013 si è occupata del problema del bilanciamento tra i due valori in conflitto: il diritto all’anonimato della madre e il diritto a conoscere le proprie origini del figlio. Nella sua pronuncia, la Corte ha sancito che tra i due valori debba prevalere la tutela dell’anonimato della madre volto, da un lato, ad assicurare che il parto avvenga nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio e, dall’altro, a «distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi». La salvaguardia della vita del neonato e della salute della madre sono quindi ritenute preminenti rispetto al bisogno del figlio di conoscere le proprie origini. Tuttavia, la pronuncia della Corte segue il solco tracciato dalla decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (decisione 25 settembre 2012, Godelli c. Italia- La signora era nata a Trieste nel 1943 e fu abbandonata dalla madre biologica, la quale non volle rendere nota la propria identità. All’età di sei anni, venne costituito un rapporto di “affiliazione” tra la bambina e i coniugi Godelli. All’età di dieci anni, la bambina apprese di non essere la figlia biologica dei coniugi Godelli, e chiese notizie sulle proprie origini, senza avere risposta. Questa signora sosteneva di aver avuto un’infanzia molto difficile per l’assenza di informazioni sulle proprie origini. Nel 2006 richiese all’ufficio di stato civile del comune di Trieste dei ragguagli, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 184 del 1983, ma nell’atto di nascita il nome della madre biologica non appariva perché quest’ultima aveva deciso di non rendere nota la propria identità. Il tribunale dei minorenni di Trieste rigettò la sua domanda di rettificazione dell’atto di nascita, in quanto il diniego della madre biologica impediva di divulgarne l’identità. La Corte d’appello confermò la pronuncia del tribunale, affermando che il divieto posto dall’art. 28 comma 7 della legge corrispondeva anche ad un interesse pubblico, che ha ritenuto che la legislazione italiana violasse i principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo per una tutela dell’anonimato della madre giudicata non equa, in quanto non adeguatamente bilanciata con il diritto del figlio adulto, pur se adottato da terzi, di avere informazioni sulle sue origini familiari. Pertanto la Corte Costituzionale, nel riconoscere la disciplina attuale troppo rigida nella parte in cui non prevede la possibilità di ripensamento della madre in relazione alla scelta dell’anonimato, ha ritenuto incostituzionale la parte della normativa che non prevede, attraverso un procedimento stabilito dalla legge, la possibilità per il giudice di interpellare la madre, su richiesta del figlio, al fine di un’eventuale revoca della dichiarazione di non volere essere nominata. La sentenza non ha quindi intaccato il diritto alla riservatezza della madre, ma ha posto in capo al legislatore il compito di individuare un percorso che, da un lato, possa consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non volere essere nominata, dall’altra, a cautelare in termini rigorosi il diritto all’anonimato.
In attesa dell’approvazione di una legge da parte del Parlamento, i Tribunali per i Minorenni hanno ritenuto immediatamente applicabile la sentenza della Corte Costituzionale, riconoscendo nel procedimento di cui all’articolo 28 della “legge sulle adozioni” il percorso utilizzabile. Ad oggi, quindi, per il tramite dei Tribunali per i Minorenni, su istanza dei figli adottati non riconosciuti, le madri che hanno deciso di partorire in anonimato possono già essere interpellate dal giudice in merito alla perdurante volontà di ribadire o meno la scelta fatta in passato.
Nel giugno del 2015, come già accennato, la Camera ha approvato in prima lettura un testo risultante dall’accoglimento di alcuni emendamenti presentati in Aula. In questo testo l’ente individuato per l’attività di mediazione tra figlio e madre naturale è proprio il Tribunale per i Minorenni il quale, con modalità che assicurino la massima riservatezza, avvalendosi preferibilmente del personale dei servizi sociali, contatta la madre per verificare se intenda mantenere l’anonimato. Al fine di garantire che il procedimento si svolga con modalità che assicurino la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della madre, si chiede che il Tribunale tenga in adeguato conto, in particolare, dell’età e dello stato di salute psicofisica della madre, delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali. Se la madre conferma di voler mantenere l’anonimato, il Tribunale per i minorenni può autorizzare l’accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all’eventuale presenza di patologie ereditarie trasmissibili.
Conclusivamente, si può osservare come il diritto di famiglia stia rapidamente innovando i propri istituti giuridici di pari passo con l’accelerazione dei cambiamenti che stanno avvenendo all’interno della famiglia e della società e che questi cambiamenti, pur nel rispetto dei principi costituzionali, recepiscono l’essenza dell’istituto familiare costituito da relazioni tra le persone, perché è di questo che è costituita la famiglia. Quindi il fulcro dell’intervento normativo del legislatore non è più la salvaguardia della famiglia come “Istituzione”, ma le relazioni umane intese come legami che, se adeguatamente tutelati nella loro integrità, anche oltre il permanere dell’Istituto familiare stesso, costituiscono una ricchezza per l’individuo.
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