newsUCIPEM n. 556 – 26 luglio 2015

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ADDEBITO                                                         Anche dopo molto tempo dall’ultimo episodio di violenza a moglie

ADOZIONI INTERNAZIONALI                     Aprire a nuovi Paesi: la ricetta della Spagna per superare la crisi.

AFFIDO CONDIVISO                                       No affido condiviso se il genitore non mantiene i figli.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO                Cassazione: niente assegno se il coniuge è idoneo al lavoro.

CASA CONIUGALE                                          Separazione: assegnazione anche al coniuge che guadagna di più.

La donna perde l’assegnazione della casa col figlio indipendente.

CHIESA CATTOLICA                              Con la Humanae vitae, Paolo VI si oppose a stereotipi culturali.

Il percorso penitenziale? Che cosa comporta? (Petrà).

DALLA NAVATA                                               XVII Domenica del tempo ordinario – anno B – 26 luglio 2015.

La moltiplicazione dei pani. Commento al Vangelo di Enzo Bianchi.

DIRITTI                                                                I diritti minimi dei figli durante l’evento separativo-divorzile.

PARLAMENTO Senato 2°C. Giustizia    Divorzio diretto, Unioni civili, Minori.

                                Camera. Assemblea      Interrogazioni su maternità surrogata.

2°C. Giustizia    Indagine attuazione della legislazione adozioni ed affido.

PEDAGOGIA                                                     Pedagogia Familiare: un nuovo approccio alle relazioni familiari

SESSUOLOGIA                                               Cambio di sesso senza intervento.

Sentenza storica ma discutibile.

SINODO SULLA FAMIGLIA                           Divorziati risposati: in un volume la riflessione più avanzata.

Il matrimonio può anche fallire. Intervista a Pierangelo Sequeri.

Per i divorziati un prete-tutor ed eucarestia solo a Pasqua.

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            ADDEBITO

Violenza alla moglie: addebito anche dopo molto tempo dall’ultimo episodio.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, sentenza n. 15511, 23 luglio 2015.

La convivenza è resa intollerabile anche da un solo episodio di violenza subito diverso tempo prima: quindi, anche con il passare dei mesi, è possibile chiedere la separazione con addebito a carico del coniuge colpevole. Non rileva l’eventuale tolleranza della moglie alle violenze subite dal marito e il suo stato di soggezione: anche dopo molto tempo dall’ultimo episodio di maltrattamento nei suoi confronti, quest’ultima può sempre chiedere l’addebito della separazione ai danni dell’altro coniuge. A chiarirlo è la Cassazione.

I maltrattamenti perpetrati da un coniuge a danno dell’altro, anche se riferiti ad un unico episodio di percosse, costituiscono comportamenti tali da sconvolgere definitivamente, e una volta per sempre, l’equilibrio della coppia: essi infatti sono lesivi della pari dignità di ogni persona, imperdonabili e inaccettabili. Pertanto, anche se sono trascorsi diversi mesi dall’ultima violenza, la vittima del maltrattamento può sempre dire al giudice che sia stato tale comportamento la causa della rottura della comunione dei coniugi e, quindi, ad aver reso intollerabile la convivenza. Con conseguente dichiarazione di addebito nel giudizio di separazione ai danni del coniuge violento.

            In pratica. Basta un solo episodio di violenza o di maltrattamenti a far scattare l’addebito della separazione: l’addebito può essere richiesto al giudice, da parte della vittima delle aggressioni, anche se da tale episodio è trascorso molto tempo.

Redazione       Lpt                              24 luglio 2015            Sentenza

www.laleggepertutti.it/94063_violenza-alla-moglie-addebito-anche-dopo-molto-tempo-dallultimo-episodio

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Aprire a nuovi Paesi: la ricetta della Spagna per superare la crisi delle adozioni.

Come funziona il sistema delle adozioni internazionali in Spagna? Con quali Paesi adotta la Penisola iberica? Ma soprattutto cosa sta facendo il Governo spagnolo per contrastare il tracollo dell’accoglienza ha subito dei contraccolpi? Tanti interrogativi corrispondenti ad altrettante tematiche che saranno affrontate da Adolfo Garcia, Coordinatore CORA – Coordinadora de Asociationes en Defensa de la Adópcion y el Acogimiento, che sarà presente al convegno internazionale di Gabicce, in programma il 26 e 27 agosto 2015 a Gabicce Mare.

Garcia è uno dei protagonisti della tavola rotonda, assieme agli altri relatori di fama internazionale: l’appuntamento clou della XXIV Settimana delle famiglie di Amici dei Bambini. Lo abbiamo incontrato e gli abbiamo posto alcune domande che anticipano i temi che svilupperà il 26 e 27 agosto.

Chi si occupa delle adozioni internazionali in Spagna?

In Spagna, attualmente, le organizzazioni che realizzano questo servizio di intermediazione nei processi di adozione internazionale, si chiamano ECAI (Entità Collaboratrice in Adozione Internazionale). Prossimamente, verrà modificata la legislazione e queste organizzazioni si chiameranno Organismi Accreditati. Esistono due federazioni di questi organismi: La Federazione Spagnola di Ecais (FEECAI), e la Federazione autonoma di Ecais (FIDECAI). La prima è composta da 9 enti autorizzati, mentre la seconda da 13. È interessante segnalare che l’ente autorizzato che ha concluso il maggior numero di adozioni internazionali in Spagna non appartiene a nessuna delle due organizzazioni. Per quanto è di mia conoscenza, queste federazioni realizzano servizi di rappresentanza degli enti autorizzati di fronte al Governo Spagnolo. Per esempio, sono membri, esattamente come CORA, del Consiglio Esecutivo di Adozione Internazionale che è l’unico organo collegiale che il Ministero della Sanità e Politiche Sociali tutela nel momento in cui si prendono decisioni riguardanti il tema dell’adozione internazionale. Una delle sue ultime azioni è stata quella di chiedere, attraverso un gruppo di politici del Parlamento Spagnolo, l’apertura del sistema di adozione internazionale verso altri Paesi. Questo perché in Spagna si può inoltrare una richiesta di adozione internazionale solo in 30 Paesi stranieri, mentre nel resto dei Paesi europei il numero di Paesi con i quali si può portare avanti un’adozione è circa 45.

Quale tipo di influenza può avere avuto, nel suo Paese, l’introduzione delle nuove pratiche di procreazione artificiale, come la fecondazione eterologa, sulla diminuzione delle richieste di adozione internazionale?

La diminuzione delle adozioni internazionali ha comportato che il numero delle gestazioni surrogate sia aumento significativamente in Spagna, nonostante sia un processo illegale nel nostro Paese. Si stima che nell’anno 2014, il numero di bambini nati attraverso la gestazione surrogata sia stato di 1400, mentre il numero di bambini arrivati tramite l’adozione internazionale sia stato inferiore ai 1200. Le agenzie coinvolte nei processi di gestazione surrogata hanno raddoppiato il volume di affari in soli 2 anni. Nonostante ciò, crediamo che non si possa attribuire la colpa della diminuzione delle adozioni internazionali solo all’utilizzo di queste tecniche di procreazione artificiale dato che l’aumento di queste ultime è successivo rispetto alla diminuzione delle adozioni internazionali.

Quali altre cause potrebbero spiegare questa diminuzione?

Alcune delle cause che possono spiegare questa diminuzione delle adozioni internazionali in Spagna sono le seguenti

  • Stati che riformano la loro legislazione limitando il profilo degli adottati o degli adottanti;
  • Stati che vietano l’adozione internazionale (Marocco) o che sono chiusi alle autorità spagnole (Mali);
  • Stati che iniziano a funzionare con il contingentamento di minori adottabili (Filippine) e di enti autorizzati (Kazakistan);
  • Aumento del numero di Stati firmatari della Convenzione dell’Aja. L’ultima conseguenza di questa Convenzione è la diminuzione degli Stati in cui è possibile adottare perché alcuni di essi non possono adattarsi alle condizioni poste da essa;
  • Il fattore più importante è il cambiamento del profilo dei minori adottabili. Da un lato, la maggior parte delle famiglie che hanno richiesto di adottare un bambino, lo hanno fatto per un minore sano e il più piccolo possibile, mentre i bambini adottabili sono per la maggior parte minori con bisogni speciali (bambini con patologie, gruppi di fratelli e bambini con più di 3 anni di età).

Ed ecco che i bambini più grandicelli continuano a rimanere negli istituti. E più il tempo passa, più si allontana per loro la possibilità di trovare una famiglia che li accolga. Bambini ‘speciali’ per la loro età che vivono sulla propria pelle continuamente il dramma dell’abbandono. Anche di loro si parlerà nel corso del convegno internazionale di Gabicce.  Una pluralità di tematiche e voci a confronto alla ricerca di una soluzione. Scarica il programma completo del convegno, iscriviti e dì la tua sul delicato tema delle adozioni internazionali.

                                                       News Ai. Bi.       21 luglio 2015

www.aibi.it/ita/gabicce-2015-adolfo-garcia-cora-aprire-nuovi-paesi-la-ricetta-della-spagna-per-superare-la-crisi-delle-adozioni

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AFFIDO CONDIVISO

No affido condiviso se il genitore non mantiene i figli.

Affido esclusivo, presupposti, inadempimento dell’obbligo di mantenimento: negato l’affidamento al genitore che trascura il figlio. L’affido condiviso dei figli minori è la regola, mentre quello esclusivo è l’eccezione: in particolare, il giudice può disporre che il minore venga affidato esclusivamente ad un genitore solo quando l’altro sia inidoneo a prendersene cura e ad educarlo o possa comunque provocargli un pregiudizio.

Uno dei casi i cui l’affido esclusivo è preferibile rispetto all’affido condiviso è quello in cui l’altro genitore trascura completamente il minore, non provvedendo al suo sostegno tanto morale ed affettivo quanto economico.

In particolare, il Tribunale di Roma [prima Sezione civile, sentenza n. 23620, 25 novembre 2013] ha ritenuto che il giudice possa revocare l’affido condiviso del minore e disporre quello esclusivo alla madre quando il padre, disinteressandosi del figlio, omette di versargli il mantenimento disposto con sentenza, così violando anche l’ordine giudiziale. Tale condotta manifesta infatti l’inidoneità educativa del padre e la necessità di evitare che il minore possa subire, a causa delle gravi carenze affettive, gravi e irreparabili danni allo sviluppo della propria personalità.

L’inadempimento dell’obbligo di mantenimento, economico e non, dei figli costituisce una grave violazione dei doveri genitoriali e giustifica pertanto la negazione dell’affido condiviso oltre che l’eventuale condanna al risarcimento del danno subito dal minore [Art. 709-ter cod. proc. civ.].

Maria Monteleone     Lpt     24 luglio 2015             Sentenza

www.laleggepertutti.it/94014_no-affido-condiviso-se-il-genitore-non-mantiene-i-figli

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Cassazione: niente assegno se il coniuge è idoneo al lavoro

            Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 11870, 9 giugno 2015.

            La Corte di Cassazione affronta nuovamente la questione della funzione dell’assegno di divorzio in rapporto all’esigenza del coniuge “più debole” di mantenere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Sia in primo che in secondo grado i giudici, nel pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio, respingono l’istanza della moglie di vedersi riconosciuto il diritto di percepire l’assegno di divorzio a carico dell’ex marito: a sostegno della richiesta di assegno, l’istante evidenziava che durante il matrimonio il tenore di vita era stato pari a quello di una famiglia media con reddito di lavoro dipendente del solo marito e con moglie casalinga, e di non essere in grado – in quanto impossidente e priva di lavoro – di mantenere detto tenore di vita. Precisava inoltre che l’ex marito, che conviveva con altra persona, dalla quale aveva avuto un figlio, si era licenziato dal lavoro al solo scopo di creare una situazione apparente di assenza di redditi, ma in realtà avrebbe continuato a lavorare presso terzi, percependo in ogni caso l’indennità di disoccupazione e godendo di una situazione economica certamente superiore.

            La Corte di Appello, in linea con la decisione del tribunale, ritenendo che la moglie non avesse provato adeguatamente i propri assunti, concludeva per l’insussistenza dei presupposti per l’attribuzione dell’assegno post matrimoniale, rilevandosi, da un lato, che la donna era risultata dotata di idonea capacità lavorativa, mentre l’appellato aveva dimostrato il peggioramento delle proprie condizioni economiche, sia per la nascita di una figlia, sia per la perdita del lavoro.

            Viene proposto ricorso per Cassazione, e tra i motivi di doglianza la ricorrente adduce che la corte territoriale non aveva adeguatamente considerato il tenore di vita tenuto dalla coppia in costanza di matrimonio, proprio delle famiglie con un solo reddito e prive di prole, cui si associava la sicurezza di una vita tranquilla e socialmente valida, né valutato il comportamento dell’ex marito. In secondo luogo la Corte aveva violato l’obbligo di disporre accertamenti tramite la polizia tributaria.

            In merito alla prima censura, la Corte rileva che i giudici di appello hanno correttamente ritenuto non provata una condizione deteriore della ricorrente ai fini del mantenimento, almeno in via tendenziale, di quel tenore di vita. Infatti, per gli ermellini, la sentenza impugnata, sulla base della ammissioni della stessa ricorrente, ha affermato che la stessa era dotata di capacità lavorativa, uniformandosi quindi ai principi affermati dalla Corte in merito ai criteri di attribuzione dell’assegno di divorzio.

            Come più volte sostenuto dai giudici di legittimità, “per poter valutare la misura in cui il venir meno dell’unità familiare ha inciso sulla posizione del richiedente è necessario porre a confronto le rispettive potenzialità economiche, intese non solo come disponibilità attuali di beni ed introiti, ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore “. In tale contesto, in cui assume rilievo centrale la nozione di “adeguatezza”, la corte territoriale ha correttamente evidenziato la totale carenza di elementi probatori inerenti all’impossibilità oggettiva della ricorrente di procurarsi mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio, e dal mancato assolvimento dell’onere della prova discende il rigetto dell’istanza.

            Quanto, poi, alla censura circa il mancato esercizio dei poteri di accertamento tramite la polizia tributaria, in deroga al principio dell’onere della prova, la Corte la ritiene infondata e al riguardo precisa che il giudice del merito, ove ritenga “aliunde” raggiunta la prova dell’insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell’assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la polizia tributaria (che non possono assumere valenza “esplorativa).

News avv. Andreani              23 luglio 2015            Testo della sentenza

http://news.avvocatoandreani.it/articoli/cassazione-niente-assegno-se-il-coniuge-idoneo-al-lavoro-102836.html

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CASA CONIUGALE

Separazione: assegnazione casa anche al coniuge che guadagna di più.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 15367, 22 luglio 2015.

L’assegnazione della casa coniugale non segue il coniuge economicamente più debole ma solo quello a cui viene assegnata la prole (cosiddetto collocamento). In caso di separazione della coppia sposata, la casa coniugale non viene affidata all’ex coniuge economicamente più debole, che non ha risorse economiche per pagare l’affitto, ma solo a quello presso cui i figli minori (o quelli non ancora autosufficienti) vanno a vivere. E ciò indipendentemente dal fatto che questi guadagni di più dell’altro genitore, titolare dell’immobile. Infatti lo scopo dell’assegnazione della casa coniugale non è quello di tutelare il tenore di vita di colui che guadagna di meno, ma solo quello di garantire ai figli di continuare a vivere nello stesso ambiente domestico in cui sono inizialmente cresciuti in costanza del matrimonio.

Lo ha chiarito la Cassazione. Si può dunque verificare che l’ex coniuge, benché molto più benestante dell’altro, ottenga dal giudice l’assegnazione della casa coniugale in quanto collocatario della prole. Ovviamente, non appena i figli diventano autosufficienti o vanno a vivere altrove, la casa torna al legittimo proprietario, previo ricorso al giudice.

Redazione       Lpt     23 luglio 2015            Sentenza

www.laleggepertutti.it/94010_separazione-assegnazione-casa-anche-al-coniuge-che-guadagna-di-piu

 

La donna perde l’assegnazione della casa col figlio indipendente.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 15272, 21 luglio 2015.

Separazione e divorzio: la revoca della casa coniugale comporta anche la revisione dell’assegno di mantenimento, ma non in modo proporzionale al canone di mercato dell’immobile che il coniuge deve abbandonare. L’assegnazione della casa coniugale alla donna presso cui il figlio minore è stato collocato non è “vita natural durante”, ma ha un termine: la revoca infatti scatta o quando la donna decide di andare a vivere altrove (con o senza il figlio), oppure quando il figlio diventi economicamente indipendente. Poiché infatti l’assegnazione della casa ha il solo scopo di garantire al coniuge presso cui vanno a vivere i figli lo stesso habitat domestico di cui godevano in precedenza, è chiaro che quando questo scopo sia venuto meno, l’immobile deve tornare al legittimo proprietario.

In questo caso, il giudice accorda al coniuge che deve fare le valigie una maggiorazione sull’assegno di mantenimento, ma non tale da garantirgli l’affitto di un’abitazione di pari valore e pregio a quella coniugale abbandonata, ma comunque decorosa.

È questo, in estrema sintesi, il chiarimento scaturito da una recente ordinanza della Cassazione. L’ammontare dell’assegno non deve essere sempre necessariamente direttamente proporzionale al canone di mercato dell’immobile che il coniuge deve abbandonare, potendo questo trovarsi una diversa sistemazione in un’abitazione comunque decorosa, anche se eventualmente più modesta.

Redazione       Lpt     22 luglio 2015                        Ordinanza

www.laleggepertutti.it/93938_la-donna-perde-lassegnazione-della-casa-col-figlio-indipendente

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CHIESA CATTOLICA

Con la Humanae vitae, Paolo VI si oppose ai stereotipi culturali molto diffusi

Il 25 luglio 1968, papa Paolo VI pubblicò l’enciclica Humanae vitae, che sintetizza la dottrina della Chiesa sul matrimonio, sull’apertura alla vita, sulla contraccezione e sulla genitorialità responsabile. Tutte tematiche che continuano a far parlare di sé, dentro e fuori la Chiesa. Per capire meglio i fondamenti teologici di questo documento, il suo contesto storico e le sue implicazioni, ZENIT ha intervistato il decano della Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce di Roma, Angel Rodriguez Luño.

            Quasi cinquant’anni fa, veniva pubblicata l’enciclica Humanae vitae. Quale impatto ebbe, all’epoca, questa pubblicazione?

            La Humanae vitae di Paolo VI uscì due mesi dopo gli eventi del maggio ‘68, che avevano innescato, tra le altre cose, la “rivoluzione sessuale”. C’era una forte pressione da parte di molti media e gli esperti divulgavano previsioni demografiche pessimistiche ed allarmistiche, che in seguito, si sono rivelate false. Alcuni ambienti ecclesiali subirono un certo disorientamento, a causa di interpretazioni errate del Concilio, e alcuni di coloro che parteciparono alla stesura dell’enciclica, pubblicarono stralci che non erano definitivi. In questo contesto Paolo VI, dopo una lunga riflessione, ribadì la visione cristiana della sessualità, in cui il Creatore ha unito due dimensioni di significato e di valore, che l’enciclica chiama “significato unitivo” e “significato procreativo”. Questa connessione non può disarticolarsi, senza che entrambe le componenti ne soffrano.

            Dal punto di vista teologico, l’enciclica era rivoluzionaria? In quali punti?

            Dipende da cosa si intende per “rivoluzionario”. Sostanzialmente Paolo VI ha proposto una nuova visione antropologica e morale che Pio XI, nella sua enciclica sul matrimonio, aveva considerato come “dottrina cristiana insegnata sin dalle origini e mai cambiata”. In questo senso l’Humanae vitae non rappresenta alcuna rivoluzione. Rivoluzionario è il coraggio con cui Paolo VI si oppose ad alcuni degli stereotipi culturali già allora molto diffusi, che venivano in un certo senso imposti e che continuavano ad essere nocivi per le persone sposate e, più in generale, per la morale. Anche se l’enciclica si riferisce direttamente al matrimonio, ciò che era in gioco era la visione d’insieme della sessualità.

            Per comprendere il contesto storico, cosa ha portato Paolo VI a scrivere questa enciclica? A cosa era necessario rispondere?

            Ritengo che la delicatezza del problema e la complessità del contesto, indussero Paolo VI, mentre il Concilio era ancora in corso, a trattare personalmente lo studio e la risoluzione di questo problema. Alla luce della tradizione morale della Chiesa, nessuno poteva dubitare che la contraccezione sia intrinsecamente un comportamento disordinato. C’era un’idea nell’immaginario collettivo, che la contraccezione consistesse, in qualche modo, nel manipolare la realizzazione della relazione coniugale. Poiché la pillola anovulatoria (che, come tale, oggi quasi non esiste più, perché la maggioranza dei farmaci contraccettivi hanno anche altri effetti, oltre a quello anovulatorio) non modifica il rapporto coniugale, alcuni si domandavano se il suo uso dovesse essere sempre considerato come un peccato di contraccezione. La questione non è se la contraccezione sia un peccato oppure no, ma se l’uso coniugale della pillola anovulatoria sia contraccettivo o meno. Ciò ha costretto a definire meglio l’essenza della contraccezione, alla quale Paolo VI si riferisce quando scrive: “Per atto contraccettivo si intende ogni azione che in previsione, durante, o immediatamente dopo l’atto sessuale coniugale mira a impedire il concepimento di cui l’atto sessuale medesimo è capace”. Per dirla in modo spiccio: se si scoprisse che bere un’aranciata immediatamente prima della relazione coniugale impedisce la trasmissione della vita, chiunque beva un’aranciata proponendosi come fine o mezzo, il rendere impossibile la procreazione, commetterebbe un peccato di contraccezione. Uso questa ipotesi irreale per far intendere dove sia la contraccezione, che non dipende dal fatto che il farmaco contraccettivo sia un prodotto artificiale.

            Ritiene che nella formazione al fidanzamento non siano approfonditi a sufficienza alcuni aspetti dalla Humanae Vitae?

            Ritengo che, effettivamente, nella formazione al fidanzamento l’Humanae vitae andrebbe studiata con profondità e integrità. Ma questo discorso ci porterebbe lontano. Mi limito a un concetto che la mia esperienza conferma continuamente. Quando l’enciclica di Paolo VI era in preparazione, alcuni hanno sostenuto che la morale sessuale cristiana stesse solo danneggiando l’amore tra uomo e donna e la stabilità del matrimonio. L’esperienza dimostra che oggi, in una cultura in cui vengono incoraggiati la contraccezione e il sesso prematrimoniale, le rotture tra le coppie sono sempre più numerose e sono anche più numerosi i fenomeni di violenza e di infedeltà. Certamente questi fenomeni sono accompagnati da altre cause, tuttavia continua a sorprendermi che molte coppie, che hanno avuto un fidanzamento piuttosto lungo, a volte eccessivamente concentrato sugli aspetti sessuali, dopo il matrimonio scoprono che non si conoscevano bene. Avrebbero potuto parlare di più e fare meno sesso, perché quest’ultimo non è sempre sinonimo di comunicazione e conoscenza reciproca. Nella maggior parte dei casi, al contrario, impedisce di correggere il proprio egoismo e quello del partner.

            Molte delle questioni affrontate nel presente documento continuano a destare forte attenzione nel dibattito sociale, dall’aborto, alla fecondazione artificiale. Con il passare del tempo è ancora più forte l’“opposizione” ai fondamenti teologici della Chiesa su questi temi?

            La nostra cultura ha seguito l’evoluzione che tutti conosciamo. Segnalare le cause per le quali il cambiamento sociale ha preso questa direzione, richiederebbe una riflessione molto interessante, ma troppo lunga per questa intervista. Non c’è dubbio che per alcuni – anche tra i cattolici – risulta difficile comprendere alcuni aspetti della morale cristiana. Forse ci vorrebbe uno sforzo maggiore, per spiegare e capire meglio. Ma per me è significativo che i praticanti più fedeli considerano molto positivi i propri sforzi per vivere la morale cristiana, anche se a volte commettono errori.

            Durante il Sinodo dei Vescovi sulla famiglia di ottobre, ci saranno dei cambiamenti riguardo ad alcune questioni sollevate dalla Humanae Vitae?

I Pastori desiderano affrontare i problemi pratici più urgenti per la famiglia a partire dalla dottrina della Chiesa. Papa Francesco ha detto più di una volta che si considera prima di tutto un figlio della Chiesa. Perciò, il nucleo essenziale della Humanae vitae, che come ho detto è un insegnamento proposto fin dall’inizio e che non è mai stato cambiato, è la luce sotto la quale i problemi pastorali saranno affrontati al Sinodo. Questioni pastorali molto concrete che toccano la saggezza, misericordia e prudenza cristiane con cui bisogna trattare tutte le situazioni che hanno a che fare con delle persone, possono trovare nel corso del Sinodo, con l’aiuto di Dio, risposte adeguate al nostro tempo.

Perché la Humanae Vitae è stata uno dei testi magisteriali più discussi degli ultimi decenni?

            Si tratta senza dubbio di un punto difficile, in cui siamo tutti deboli se non sappiamo appoggiarci sulla grazia che Dio ci offre. Per di più, l’opposizione della cultura dominante è forte, anche se non nuova. Come spiegò Pierre Grelot in un libro bellissimo, ci fu già uno scontro tra gli insegnamenti della Genesi sul matrimonio e il pensiero religioso della Mesopotamia, della Siria e di Canaan. Queste religioni pagane sacralizzavano la sessualità umana attraverso le due conosciute vie dei miti e dei riti. Nei miti, la divinità si presenta come la congiunzione di dèi e dee, che vivono in coppia, e le loro storie costituiscono gli archetipi dei vari aspetti della relazione uomo-donna: fecondità, amore-passione, matrimonio. Ci sono, sotto nomi diverse, le figure del dio-padre, della dea-madre, della dea-amante, ecc. La concezione politeista consente, in breve, la dissociazione tra i vari aspetti essenziali della sessualità: fecondità, amore, matrimonio. Ogni aspetto è sacralizzato separatamente. Non avviene l’integrazione in un’istituzione come il matrimonio, la condizione esclusiva dell’amore e della fecondità come moralmente buoni. Anche i riti (della fecondità, della prostituzione sacra come culto della dea-amante, l’ierogamia ecc) effettuano la stessa dissociazione in termini di azioni, attraverso le quali gli uomini si uniscono alla divinità e partecipano alla sua capacità di amare o di essere fecondi. La dissociazione delle diverse dimensioni della sessualità umana segue il paganesimo e il neopaganesimo come l’ombra di un corpo illuminata dal sole. A mio parere, questa è la spiegazione ultima delle difficoltà attuali, che sono profonde ma non insuperabili. Vedo con speranza che tra i giovani che praticano la loro fede cristiana, questi problemi sono compresi molto meglio che tra le persone della mia generazione.

Rocío Lancho García                        Zenit               25 luglio 2015

https://it.zenit.org/articles/con-la-humanae-vitae-paolo-vi-si-oppose-ai-stereotipi-culturali-molto-diffusi

 

Il percorso penitenziale? Che cosa comporta?

La pessima fama di una soluzione onesta ma incapace di cogliere la realtà. E’ noto che negli ultimi decenni del secolo scorso è stata ufficialmente proposta una soluzione comunemente indicata come “soluzione fratello-sorella” per consentire ai divorziati risposati in situazione irreversibile d’essere assolti e ammessi all’eucaristia, escludendo lo scandalo. E’ altresì noto che tale soluzione è quasi indicibile: è considerata una prova della sessuofobia cattolica giacché attribuisce ai rapporti sessuali un valore eccessivo o, come dice X. Lacroix, “un’importanza smisurata”.

            Eppure, questa soluzione ha una storia interessante. Nasce tra Ottocento e Novecento come soluzione di foro interno (tra confessore e penitente) per attenuare il rigore della prassi precedente che prevedeva la separazione delle persone in nuova unione e, se possibile, il ritorno alla precedente unione: in particolari e gravi circostanze, per assolvere e ammettere all’eucaristia si chiedeva solo la sospensione dei rapporti sessuali senza esigere la separazione, rimanendo sempre il principio di evitare lo scandalo.

            La logica di tale soluzione era molto precisa: poiché nella dottrina cattolica l’unione sessuale era – ed è ancora oggi – considerata propria ed esclusiva degli sposi, la disponibilità delle persone in nuova unione ad accettare questa proposta indicava che essi riconoscevano di non essere veramente marito e moglie, proprio in quanto accettavano di rinunciare all’unica cosa che per la dottrina cattolica è propria ed esclusiva dei veri sposi. Questa soluzione di foro esterno è stata formalmente e pubblicamente estesa nel 1979 alla Chiesa italiana e ripresa a livello universale con Familiaris consortio, n. 84.

            Ho indicato come “onesta” questa soluzione perché tenta una via pastorale di riammissione sacramentale che conserva e salvaguarda la visione cattolica della relazione tra esercizio della sessualità e matrimonio (per i battezzati il matrimonio sacramento). Non cade cioè nel rischio di incrinare la dottrina cattolica della sessualità aprendo una strada che legittimi l’esercizio della sessualità in una unione non autenticamente matrimoniale per due battezzati.

            Bisogna riconoscere che non mostrano la stessa preoccupazione tutte le soluzioni che ritengono che un percorso penitenziale – in qualunque modo sia pensato – possa fare di una seconda unione un vero matrimonio tra battezzati, pur continuando a sostenere che è il primo legame quello sacramentalmente vero. Chiunque sostenga un cosa simile necessariamente implica che l’unione sessuale può essere considerata moralmente giusta anche fuori del matrimonio sacramentale – l’unico vero – tra due battezzati, purché si attui in un contesto che ha qualche elemento di oggettività matrimoniale (matrimonio civile? certificato di convivenza? convivenza stabile? ferma volontà di sposarsi appena possibile? ecc). Affermazione difendibile ma che, come si sa, non corrisponde all’attuale dottrina della Chiesa; anzi, la incrina seriamente nella sua logica nuziale.

            Soluzione dunque onesta, ma anche soluzione che può avere un valore solo per le persone che onestamente pensano alla seconda unione come un non vero matrimonio. Qualunque cosa si possa pensare, esistono di fatto coppie nelle quali le persone accettano una tale soluzione. E’ tuttavia certo che la maggior parte delle persone che vengono a noi in seconda unione sono convinte che la loro seconda unione è un vero matrimonio e che la prima unione, pur essendoci stata e permanendo nella sua traccia esistenziale ineliminabile, non ha più un significato di vero matrimonio per loro: è cioè finita come matrimonio.

            Questo è il vero problema di qualsiasi pastorale dei divorziati risposati che tornano alla Chiesa, nei casi nei quali non si può applicare una via di nullità, di foro esterno o di foro interno che sia: c’è un modo non contraddittorio per riconoscere che la prima unione è finita? Come si sa, la dottrina cattolica dice formalmente di no.

            Eppure c’è un’affermazione della dottrina cattolica che è innegabile e consegnata ai Codici come anche alla teologia sacramentaria: la morte fisica del coniuge pone fine al vincolo naturale e sacramentale del matrimonio. Uno sposo che muore con il corpo si spoglia anche del vincolo, anche se è chiaramente affermato che il vincolo sponsale va ben al di là del suo corpo e raggiunge lo spirito, anche se è dogma di fede che lo sposo non finisce con il corpo e che ci sarà la risurrezione dei corpi, anche se si annuncia continuamente che il vincolo sponsale cristiano è segno sacramentale del vincolo di Cristo e della Chiesa, un legame che vince la morte. Ebbene, una dottrina che ha ammesso e ammette la fine “fisica” del rapporto come fine totale (naturale e sacramentale) del vincolo, pur nelle consapevolezze ricordate, dovrebbe ben essere in grado di comprendere (e pastoralmente riconoscere) che non è solo la morte fisica che può costituire la fine umana di un rapporto sponsale.

Ci sono tante vicende umane che dividono irreversibilmente e insanabilmente due sposi, vicende che hanno un sapore più amaro e funereo di tante morti che lasciano invece nel cuore riconoscenza, affetto indistruttibile, attesa fiduciosa di ritrovarsi di nuovo nella pienezza del Regno.

Basilio Petrà              blog il Regno              20 luglio 2015

www.ilregno-blog.blogspot.it/2015/07/il-percorso-penitenziale-che-cosa.html#more

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DALLA NAVATA

                        XVII Domenica del tempo ordinario – anno B – 26 luglio 2015.

2 Re                  04, 44 Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.

Salmo                         145, 15 Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa e tu dai loro il cibo a tempo opportuno. Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.

Efesini               04, 01 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.

Giovanni                      06, 12 E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto».

 

La moltiplicazione dei pani. Commento al Vangelo di Enzo Bianchi

            Introduzione generale a Gv 6. L’ordo delle letture bibliche dell’annata liturgica B ha previsto che, giunti nella lettura cursiva di Marco all’evento della moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,35-44), si interrompa la lettura del vangelo più antico e la si sostituisca con la lettura dello stesso episodio narrato nel quarto vangelo. Per cinque domeniche si legge dunque il capitolo 6 di Giovanni, un testo che richiede una breve introduzione generale. In verità questo capitolo, tutto incentrato sul tema del “pane di vita”, che mai appare altrove, appare piuttosto isolato nello svolgimento del racconto giovanneo. Con buona probabilità, si tratta di un brano aggiunto più tardi per dare alla chiesa giovannea una catechesi sull’eucaristia, il cui racconto è mancante nel quarto vangelo, sostituito da quello della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-17). Se questa ipotesi fosse vera, questo capitolo diventerebbe ancora più importante, perché proprio trattando il tema dell’eucaristia si conclude con la confessione dell’identità di Gesù: per i giudei è il figlio di Giuseppe, semplicemente un uomo della Galilea (cf. Gv 6,42), mentre Gesù dichiara di essere il Figlio di Dio, colui che è suo Padre (cf. Gv 6,40); e ciò è confermato da Pietro e dagli altri discepoli, che riconoscono in lui “il Santo di Dio” (Gv 6,69).


Una grande folla segue Gesù, perché egli ha compiuto dei segni, guarendo i malati. Questa sembra l’ora del successo per Gesù, che rinnova le meraviglie dell’esodo e le azioni dei profeti, assenti in Israele almeno da cinque secoli. In realtà si tratta di una folla incredula e quel “grande raduno” si risolverà nell’epifania di una più grande distanza tra Gesù e quanti correvano a vederlo in cerca di straordinario, ma senza ascoltare le sue parola. Anche di quella folla, però, Gesù ha compassione e vuole saziarla di cibo. L’evangelista annota che “era vicina la festa di Pasqua”, dunque quella è un’ora vigiliare (come lo sarà per l’istituzione eucaristica secondo i sinottici!). La Pasqua era anche la festa dell’offerta delle primizie, il primo raccolto di cereali destinati a diventare pane (cf. Es 9,31; Rt 1,22, ecc.). Ma il cibo che Gesù vuole dare non può essere comprato nelle panetterie, né si potrebbe pagare in modo adeguato, come pensa Filippo.

Ormai è presente Gesù, il profeta escatologico, ben più di Eliseo che aveva moltiplicato i pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44). Un altro discepolo, Andrea, gli fa notare la presenza di un ragazzo che ha con sé cinque pani d’orzo (i pani primizia) e due pesci. Questi vengono presentati a Gesù, non al tempio, e attraverso quell’offerta egli compie il segno: quei pani e quei pesci condivisi sazieranno tutti, in un banchetto pasquale, primaverile, che vede tanta gente sdraiata sull’erba del prato come nel banchetto escatologico, come in un banchetto pasquale celebrato da persone libere, non schiave. Quella folla è immensa, costituita da più di cinquemila uomini, ma il cibo dato da Gesù basterà per tutti: nella vita cristiana si ha sempre poco, ma il poco condiviso basta per tutti!

L’azione compiuta da Gesù è quella che i sinottici mettono in evidenza sia nella moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,30-44 e par.; 8,1-10; Mt 15,32-39) sia nell’istituzione eucaristica avvenuta durante la cena pasquale (cf. Mc 14,22-26 e par.), sia nel pasto del Risorto con i discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,30): Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, fatto eucaristia (eucharistésas), li distribuì ai commensali, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. Questa è l’azione eucaristica di Gesù ma è anche il rinnovamento dei prodigi con cui Dio diede la manna al suo popolo nel tempo dell’esodo (cf. Es 16), è anche l’azione del Dio pastore che fa riposare il suo popolo su pascoli di erbe verdeggianti (cf. Sal 23,2), è anche il rinnovamento del gesto profetico di Eliseo.

Così tutta quella folla viene saziata da Gesù con una tale abbondanza che ne mangiarono “quanto ne volevano” e ne avanzarono pure dodici canestri. Ma questa azione di Gesù è un “segno” (semeîon), non è semplicemente un miracolo straordinario: un segno nel senso che richiede alla folla la capacità di risalire dal pane al donatore del pane, di non fermarsi a guardare il miracolo ma a colui che il miracolo indica. La folla invece, meravigliata dal miracolo, si serve di esso per sentirsi esaudita nelle proprie attese. Sapeva che, secondo la Legge, il Signore avrebbe suscitato un profeta pari a Mosè (cf. Dt 18,15), ed è pronta a riconoscerlo in Gesù; si aspetta però che egli si manifesti come un re, come un potente di questo mondo. Sì, è stato così allora ed è ancora così: di fronte a un’azione grandiosa gli esseri umani sono disposti a riconoscere che chi la compie è un profeta promesso e inviato da Dio, ma egli deve comportarsi come i potenti di questo mondo, per poterli sconfiggere con le loro armi, per poter portare la liberazione…

Il segno operato da Gesù si rivela dunque come un vero fallimento. La folla numerosa misconosce Gesù, lo interpreta e lo vuole secondo i propri desideri e le proprie proiezioni, non è disposta ad accettare un Messia, un Profeta al contrario: un uomo mite, un servo del Signore e degli umani, che chiede di comprendere che cosa indica quel pane donato in abbondanza. È significativo che Giovanni scriva che “volevano impadronirsi di lui per farlo re”, cioè volevano renderlo un oggetto, un idolo secondo i loro desideri, volevano un Messia con un altro stile, con un programma messianico mondano. Ma Gesù rifiuta quel potere che gli vogliono dare e fugge, così come aveva fuggito le tentazioni nel deserto (cf. Mc 1,12-13; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13). Egli si ritira nella solitudine della montagna, discernendo l’illusione di un apparente successo, che non può né desiderare né accettare. Salendo su quel monte da solo, avendo lasciato a valle anche i discepoli, pure loro inadeguati a comprendere, Gesù con infinita compassione si ripeteva: “Non hanno capito nulla, continuano a non comprendere nulla”, e certamente li affidava al Padre.

Al termine di questa lettura dobbiamo sentire che quella folla siamo noi, sempre facilmente religiosi ma sempre faticosamente credenti, sempre in cerca di un Dio che si impone e si fa valere: il Dio fabbricato dai nostri desideri e dalle nostre brame, non quello che Gesù ha cercato di svelarci come unico Dio.

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/9574-la-moltiplicazione-dei-pani

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DIRITTI

I diritti minimi dei figli durante l’evento separativo-divorzile

«Con tutto quello che stava succedendo, chi aveva tempo di preoccuparsi della mia persona? Io non esistevo per nessuno […]. Compresi allora i soprusi che la famiglia mi aveva fatto subire. Vidi con esattezza la struttura dell’inganno. Mi attribuivano la colpa di ogni ferita che mi avevano inferto. Il boia non smette mai di proclamarsi vittima. Grazie a un abile sistema di negazioni, privandomi di ogni genere di informazione – e non sto parlando di informazione orale ma di esperienze per la maggior parte extra-verbali – ero stato spogliato di ogni diritto, trattato come un mendicante senza terra al quale veniva offerto con bontà sdegnosa un frammento di vita. I miei genitori sapevano che cosa stavano commettendo? Assolutamente no. Senza volerlo, facevano a me quello che era stato fatto a loro. E così, reiterando di generazione in generazione i misfatti emozionali, l’albero di famiglia continuava ad accumulare una sofferenza che durava da parecchi secoli. Domandai al Rebe [il nonno]: “Tu che sai sempre tutto dimmi che cosa posso pretendere da questa vita, che cosa mi è dovuto, quali sono i miei diritti fondamentali”. Immaginai quello che il Rebe mi avrebbe risposto:

            “Innanzitutto, dovresti avere il diritto di venire generato da un padre e da una madre che si amino, durante un atto sessuale coronato dal reciproco orgasmo, affinché la tua anima e la tua carne abbiano come radice il piacere. Dovresti avere il diritto di non essere considerato un incidente né un peso, bensì un individuo atteso e desiderato con tutta la forza dell’amore, come un frutto che deve dare un senso alla coppia trasformandola in famiglia. Dovresti avere il diritto di nascere con il sesso che la natura ti ha dato (è sbagliato dire: “aspettavamo un maschietto e invece è arrivata una femmina” o viceversa). Dovresti avere il diritto di essere preso in considerazione fin dal primo mese della tua gestazione. Sempre, in ogni momento la donna gravida dovrebbe accettare di essere due organismi in via di separazione e non uno solo che si espande. Nessuno può considerarti responsabile degli incidenti che potrebbero intervenire durante il parto. Quello che avviene all’interno dell’utero non è mai colpa tua […] dovresti avere diritto ad una profonda collaborazione: la madre deve voler partorire tanto quanto il bambino o la bambina vogliono nascere. Lo sforzo sarà reciproco e bene equilibrato. Dal momento in cui tale universo ti produce, è tuo diritto avere un padre protettivo che sia sempre presente durante la tua crescita. Così come ad una pianta assetata si dà l’acqua quando manifesti un interesse hai diritto che ti venga data la possibilità di realizzarlo, affinché tu ti possa sviluppare sulla strada che hai scelto. Non sei venuto qui per realizzare il progetto personale degli adulti che ti impongono mete che non sono le tue, la principale felicità che ti offre la vita è consentirti di arrivare a te stesso. Dovresti avere il diritto di possedere uno spazio dove isolarti per costruire il tuo mondo immaginario, per vedere quello che vuoi senza che i tuoi occhi vengano limitati da una moralità effimera per ascoltare le idee che desideri anche se sono contrarie a quelle della tua famiglia. Sei venuto qui soltanto per realizzare te stesso. Non sei venuto ad occupare il posto di un morto, meriti di avere un nome che non sia quello di un parente scomparso prima della tua nascita: quando porti il nome di un defunto, è perché hanno innestato su di te un destino che non è il tuo, rubandoti la tua essenza. Hai il pieno diritto di non venir paragonato a nessuno, nessun fratello nessuna sorella vale più o meno di te, l’amore esiste quando si riconoscono le differenze fondamentali. Dovresti avere il diritto di venire escluso da ogni litigio familiare, di non venire preso come testimone nelle discussioni, di non essere il ricettacolo dei problemi economici degli adulti, di crescere in un ambiente pervaso di fiducia e sicurezza. Dovresti avere il diritto di venire educato da un padre e da una madre che la pensano allo stesso modo, avendo appianato le loro divergenze nell’intimità. Se divorziassero, dovresti avere il diritto di non essere costretto a guardare gli uomini con gli occhi risentiti di una madre né le donne con gli occhi risentiti di un padre. Dovresti avere il diritto di non venire sradicato dal luogo in cui hai i tuoi amici, la tua scuola, i tuoi professori prediletti. Dovresti avere il diritto di non venire criticato se scegli una strada che non rientra nei piani di chi ti ha generato, il diritto di amare chi desideri senza avere bisogno di una approvazione; e quando ti sentirai capace di farlo dovresti avere il diritto di lasciare il nido e andare a vivere la tua vita; di superare i tuoi genitori, di andare più avanti di loro, di realizzare quello che loro non hanno potuto fare, di vivere più a lungo di loro. Infine, dovresti avere il diritto di scegliere il momento della tua morte senza che nessuno ti mantenga in vita contro la tua volontà”».

[Alejandro Jodorowsky, “La danza della realtà”, edizioni Feltrinelli 2004]

            In questo brano del romanzo autobiografico dell’artista cileno Alejandro Jodorowsky sono contenuti i diritti fondamentali dei figli (quei diritti di cui esistono vari elenchi, sempre più elaborati ma poco rispettati, come la “carta dei diritti dei bambini nel divorzio”), soprattutto se in tenera età, tanto in costanza di matrimonio quanto in caso di separazione/divorzio della coppia coniugale (e non genitoriale). Quei diritti minimi che sono stati espressi nell’art. 315-bis cod. civ. “Diritti e doveri del figlio” (inserito dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219): “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”. Articolo richiamato dall’art. 147 cod. civ. “Doveri verso i figli” (come sostituito dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154): “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315-bis”. Il legislatore ha fissato quattro doveri principali dei genitori nei confronti dei figli come quattro sono i doveri reciproci dei coniugi enunciati nell’art. 143 cod. civ. Quattro come, di solito, sono ritenute le pareti o i pilastri di un’abitazione, quell’abitazione (“abitare” significa letteralmente “continuare ad avere”) da intendere soprattutto come insieme di consuetudini e riti da coltivare e preservare con e per i figli (quel concetto di “casa” che emerge nella fine del film del 1979 “Kramer contro Kramer” diretto da Robert Benton, il primo magistralmente girato sul triste fenomeno dei figli contesi).

Tra le tante novelle al codice civile a tutela dei figli, compare il diritto all’assistenza morale, forse uno dei più violati sia nelle famiglie unite sia in quelle ferite; quell’assistenza (dal latino “ad sistere”, “fermarsi, stare presso” e, pertanto, significa “stare presso alcuno per aiutarlo, soccorrerlo o altrimenti giovargli”) che dovrebbe significare attenzione, presenza equilibrata, accompagnamento durante le vicende personali e familiari del figlio. Con l’art. 315-bis cod. civ., richiamato dall’art. 147, si è ribaltata l’ottica: la presenza dei figli fa scaturire degli ineludibili obblighi che esistono, pure e non solo, in caso di coniugio. I figli vengono prima di tutto e al di sopra di tutto. L’art. 147 cod. civ., seppure migliorato, rimane con lo stesso incipit che lo distingue dagli altri due articoli letti durante la celebrazione del matrimonio. È l’unico dei tre articoli con questo tenore letterale ed è l’unico in cui si usi “ambedue” (etimologicamente da “tenere insieme, legare”) proprio per sottolineare il legame unico e particolare tra la coppia ed i figli, quel “giogo” (“coniuge”, dal latino “cum”, con, e “jugum”, giogo, quindi “unito dallo stesso giogo”) che li unirà per tutta la vita, malgrado tutto.

            Durante la separazione/divorzio della coppia coniugale i diritti dei figli non si riducono all’assegno di mantenimento o mantenimento diretto e, in caso di figli minori di età, all’assegnazione della casa familiare con collocamento presso un genitore, ma si sviluppano in una rete di diritti personali e relazionali. In caso di violazione degli obblighi genitoriali durante la separazione/divorzio vi sono strumenti civilistici, come l’art. 316-bis cod. civ. (che ha sostituito l’art. 148 cod. civ.) che prevede, fra l’altro: “Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli”.

            Accanto agli strumenti civilistici vi sono quelli penalistici, come l’art. 388 comma 2 cod. pen. che punisce chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci.

            A parte queste disposizioni vi sono, poi, gli interventi della cosiddetta giurisprudenza creativa (la stessa che ha elaborato la differenza opinabile tra “stile di vita” e “tenore di vita” a proposito del mantenimento durante separazione/divorzio) che sopperiscono (non senza contraddizioni) ai casi o agli aspetti non previsti legislativamente. In sede civilistica rilevante è l’illecito endofamiliare per danno nelle relazioni familiari, che può essere fatto valere per azione dei medesimi figli.

            In ambito penalistico è invalsa l’applicazione estensiva o analogica degli articoli 570-574 cod. pen., sotto la rubrica “Dei delitti contro l’assistenza familiare”, alle varie sindromi emergenti nella conflittualità da separazione o forme di maltrattamento o infanzia abusata o infanzia negata o figli in ostaggio, che corrispondono prevalentemente alla mancata assistenza morale (introdotta dall’art. 315-bis cod. civ.) da parte dei genitori o di un genitore durante la separazione/divorzio: la PAS (sindrome d’alienazione genitoriale; tanto discussa perché non riportata nel DSM V, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, pubblicato negli USA nel 2013), mobbing genitoriale, sindrome del bambino maltrattato, sindrome del genitore malevolo o, più specificatamente, della madre malevola (o di Turkat), sindrome di Münchhausen per procura (una grave forma di ipercura). In ambito penale il legislatore è stato lungimirante nel parlare in maniera ampia di “assistenza familiare” ed anche incisivo nell’usare la locuzione “condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie” (art. 570 comma 1 cod. pen.) in cui ha messo dei parametri suscettibili di interpretazione evolutiva e che comunque ancorano l’interpretazione soprattutto nell’epoca attuale in cui vengono a mancare punti di riferimento; significativo anche l’uso del plurale “famiglie”.

            Tra le tante sentenze, indicative quella contro un padre, in cui si è affermato che è reato non educare i figli ad amare il coniuge separato (sentenza Cassazione Sez. VI penale n. 2925/2000), e quella contro una madre ed un nonno materno (che, tra l’altro, avevano isolato il bambino e gli avevano rappresentato in maniera negativa e violenta la figura paterna tanto da imporre al bambino di farsi chiamare col cognome materno), in cui si è enunciato che anche l’atteggiamento iperprotettivo integra reato (sentenza Cassazione Sez. VI penale n. 36503/2011). Ciò a dimostrazione che le decisioni giudiziali non sono a favore dell’uno o dell’altro genitore ma cercano solo di tener conto dell’interesse superiore del fanciullo, come previsto nell’art. 3 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. “Interesse” significa letteralmente “che sta in mezzo” ed i genitori devono prendere consapevolezza che un figlio sta in mezzo alla coppia genitoriale e non va bistrattato da una parte all’altra. Come pure il figlio sta in mezzo tra la famiglia d’origine e la società verso cui si affaccia e, pertanto, non va leso nella sua integrità psicofisica.

            È dolente, però, rilevare che i figli ricevano più tutela avverso i comportamenti dei loro genitori in sede penale quale forma di prevenzione secondaria o addirittura terziaria. Sarebbe meglio, invece, impiegare più risorse nella preparazione dei futuri genitori nei corsi prematrimoniali e successivamente in apposite scuole dei genitori, come da più parti auspicato e in alcuni posti già organizzate; così come è richiesta la qualificazione del personale delle istituzioni, dei servizi e delle strutture responsabili della cura e della protezione dei fanciulli (art. 3 par. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). La preparazione è la migliore forma di prevenzione primaria di costi personali, economici e sociali. Laddove ciò non sia possibile bisogna avere il coraggio di ricorrere quando necessario alla professionalità (e non necessariamente alle professioni) delle relazioni di aiuto.

            1Bisogna acquisire la consapevolezza che venendo meno agli obblighi genitoriali durante l’evento separativo – divorzile non si fa un torto all’altro coniuge ma al figlio e che bisogna ottemperare ai propri obblighi indipendentemente dall’altro coniuge e anche se l’altro coniuge non vi ottemperi.

            “Il bimbo di genitori separati va incontro a una grossa sofferenza: a chi lo incontra chiede rispetto, comprensione e sostegno” (Teresa Maria Getrevi, presidente provinciale UNICEF). Gli adulti coinvolti nell’evento separativo – divorzile, dai coniugi agli avvocati, dimenticano questa realtà semplice e imprescindibile. Soprattutto i coniugi o ex-coniugi (o ex-conviventi) non devono chiudersi nei loro egoismi e rancori rivendicando rispetto, comprensione e sostegno l’uno dall’altro e sottraendoli ai figli che dicono di amare, ma manifestandolo nel modo sbagliato. Devono sostituire alla spirale di reciproche accuse e rivendicazioni una spirale d’amore “riconosciuto che il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Margherita Marzario           Altalex            24 luglio 2015.

www.altalex.com/documents/news/2015/07/10/i-diritti-minimi-dei-figli-durante-l-evento-separativo-divorzile?utm_source=nl_altalex&utm_medium=referral&utm_content=altalex&utm_campaign=newsletter&TK=NL&iduser=144450

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PARLAMENTO

Senato 2°Commissione GiustiziaDivorzio diretto, Unioni civili, Minori

            21 luglio 2015 È proseguito il vaglio del Ddl n. 1504-bis e connesso sul divorzio diretto, dell’A.S.14 e connessi, sulle coppie di fatto e unioni civili, del disegno di legge n. 1707, sulle visite agli istituti penitenziari, e del Ddl n. 1552-bis, stralcio alla ratifica alla Convenzione Aja sulla protezione dei minori

http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=933072

Camera dei deputati. Assemblea      Interrogazione a risposta immediata su maternità surrogata.

27 luglio 2016. n. 3-02421 Iniziative di competenza volte ad evitare lo svolgimento di incontri aventi come oggetto la promozione e la commercializzazione di pratiche relative alla maternità surrogata.

Pag.39         www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0663&tipo=stenografico#sed0663.stenografico.tit00100.int00010

2°Commissione Giustizia       Indagine attuazione della legislazione adozioni ed affido.

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PEDAGOGIA

Pedagogia Familiare: un nuovo approccio alle relazioni familiari

Pur occupandosi di un ambito antico quanto l’uomo, la Pedagogia Familiare è una scienza recente, in via di sviluppo, che si apre a nuovi e continui orizzonti di studio e di analisi. Con l’approvazione della legge 4/2013, quella del Pedagogista Familiare è stata riconosciuta in Italia come libera professione; pertanto, presso l’Anpef – Associazione Nazionale dei Pedagogisti Familiari – è stato istituito un Registro Nazionale dei professionisti che si sono formati all’interno dell’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare, in particolare attraverso il Master Biennale in Pedagogia Familiare.

            La Pedagogia Familiare, dunque, rappresenta non solo un percorso di studi ma ancor prima un metodo innovativo di approcciare le relazioni all’interno della famiglia, tra famiglia e società, tra famiglia e mondo scolastico e così via. Risulta, allora, evidente come tale percorso formativo apra a molteplici opportunità professionali, come testimoniano gli studenti che si sono diplomati all’INPEF.

            L’esperienza più comune è proprio l’avvio della libera professione di Pedagogista Familiare, con l’apertura di studi anche in associazione con altri professionisti, in linea con l’Approccio Familiare Multidisciplinare Coordinato, che l’Istituto promuove, per potersi avvalere del prezioso lavoro in rete con esperti di discipline affini e complementari.

            Una ulteriore opportunità interessante proviene dal settore della Didattica Efficace, grazie all’esperienza maturata attraverso i laboratori permanenti in cui i corsisti sperimentano tecniche facilitanti l’insegnamento ed il superamento di difficoltà di apprendimento, nonché sistemi di comunicazione alternativi – in particolare la Lingua Italiana dei Segni (LIS), la LIS Tattile ed il Codice Braille – per poter entrare in relazione anche con bambini e ragazzi non udenti e/o non vedenti.

            Oltre ad aprire Centri per la Didattica Efficace, molti corsisti già impiegati nel settore scolastico, hanno potuto capitalizzare le competenze acquisite nel Master, andando a ricoprire nuove funzioni, ad esempio occupandosi di sportelli di ascolto e nuclei di raccordo per i genitori, anche negli asili nido.

            Molti altri hanno trovato impiego presso Case Famiglia: spesso le stesse presso cui avevano avviato il tirocinio previsto all’interno del Master. Proprio il tirocinio costituisce infatti una preziosa opportunità per inserirsi in realtà lavorative: oltre alle già citate case famiglia, le carceri in cui sono reclusi madri e bambini ed altre realtà complesse.

Fondamentale, in tal senso, il contatto con professionisti ed operatori del settore – a partire dai docenti – che quotidianamente si confrontano con tutte le tipologie di famiglia che la complessa realtà sociale presenta oggi.

            Vale la pena sottolineare che il campo di applicazione della Pedagogia Familiare, non riguarda solo le famiglie cosiddette “problematiche” ma anche quelle più consuete, che possono trovarsi– in alcune contingenze e fasi di vita – ad avere bisogno di sostegno, orientamento, conforto. Un ambito determinante di intervento della Pedagogia Familiare è proprio quello mirato ad offrire percorsi alternativi alla “patologizzazione delle criticità”.

            Oltre a ciò, vanno considerati poi gli ambiti istituzionali in cui la figura del Pedagogista Familiare può essere impiegata: sedi dei tribunali, servizi sociali, consultori familiari, case per la salute, case famiglia, scuole, sportelli, oratori e parrocchie, studi professionali associati, centri per la mediazione familiare, carceri, centri di affido e adozione, centri anti-violenza, centri educativi, ludoteche ecc.

            Formarsi come Pedagogista Familiare rappresenta dunque una grande opportunità in termini di spendibilità professionale ed allo stesso tempo fa della persona una risorsa importante per i bisogni della società.

Valeria Biotti             linea diretta 24                     22 luglio 2015

www.lineadiretta24.it/comunicati-stampa/pedagogia-familiare-un-nuovo-approccio-alle-relazioni-familiari.html

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SEPARAZIONE

Separazione e ascolto dei minori: quali regole?

            L’ascolto ha lo scopo di assicurare ai figli una tutela effettiva dei loro diritti: chi e come deve procedere all’audizione; quando essa è necessaria e quando può essere evitata. Quando una coppia di genitori si separa è quasi inevitabile che, se ci sono figli minori, questi debbano essere ascoltati dal giudice sulle questioni che li riguardano. Il momento dell’ascolto (che rappresenta oltre che un dovere per il giudice anche un vero e proprio diritto per il figlio) viene spesso guardato dai genitori con diffidenza e sospetto, come se si trattasse di una situazione in grado di nuocere in qualche modo alla prole. In realtà, l’ascolto è uno strumento di tutela per il figlio, attraverso il quale egli partecipa alla assunzione delle decisioni che lo riguardano; per questo motivo esso non va visto né come una sorta di “interrogatorio” né come una testimonianza (in quanto non è rivolto all’accertamento di fatti), ma semplicemente alla presa d’atto (con modalità che a breve vedremo) delle opinioni ed emozioni manifestate dal minore in un determinato momento storico, e potremmo dire critico, della famiglia.

            Le norme che prevedono l’ascolto. La consapevolezza dell’importanza dell’ascolto, prima ancora che dal nostro ordinamento, è stata riconosciuta in numerose convenzioni internazionali; di seguito, nel nostro Paese ha trovato la sua prima disciplina giuridica nell’ambito delle procedure di adozione e affidamento [Disciplinate dalla legge 4 maggio 1983, n. 184 poi modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149] che prescrivono l’ascolto del minore che ha compiuto i 12 anni, così come quello di età inferiore in considerazione della sua maturità e capacità di comprendere il significato delle proprie affermazioni (cosiddetta capacità di discernimento).

Attualmente, l’obbligatorietà dell’ascolto è anche prevista anche nelle procedure contenziose (cioè quelle in cui i genitori siano in contrasto) di separazione/ divorzio e per quelle relative all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio [Vecchio art. 155-sexies cod. civ., oggi art. 337-octies, (a seguito della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e il D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154]; per esse la legge prevede, infatti, che prima dell’emanazione, anche in forma provvisoria, dei provvedimenti riguardanti la prole [Art. 337 ter cod. civ.] “Il giudice dispone l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto i 12 anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento”. Nel caso in cui, invece, i genitori siano d’accordo (quindi la procedura sia consensuale), “il giudice non procede all’ascolto se in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo” [Art. 337-octies del cod. civ. come riformato dalla legge 219/2012. Art. 337 ter cod. civ.Art. 337 ter cod. civ].

            Dunque, oggi (salvo alcuni casi che a breve vedremo) il minore deve essere sempre ascoltato nell’ambito di qualsiasi procedura che lo riguardi [Art. 315 bis. cod. civ.].

            Quali sono le procedure che riguardano il minore? Quando, però si parla di procedimenti che riguardano il minore bisogna distinguere tra quelle patrimoniali (ad esempio il contrasto tra i genitori sulla misura dell’assegno di mantenimento o sul rimborso delle spese straordinarie) e quelli relative alla sua persona. Proprio di recente, infatti, il Tribunale di Milano [ordinanza. 20.03.2014] ha chiarito che le norme che prescrivono l’obbligatorietà dell’ascolto del minore si riferiscono alle situazioni in cui debbano essere assunti provvedimenti su questioni diverse da quelle economiche.

Ciò, secondo il giudice meneghino, se pur non espressamente previsto dalla legge, lo si può evincere tuttavia dalla norma che (in tema di prescrizioni del giudice tutelare circa l’educazione e l’amministrazione del minore) [Art. 371 n. 1) cod. civ. aggiunto dal D.Lgs 154/2013], prevede espressamente che il magistrato debba procedere all’ascolto del fanciullo solo quando debba decidere su questioni “di vita” di quest’ultimo (dove vuole vivere, che tipo di studi intraprendere, che arte o mestiere imparare) e non invece su tutte le altre questioni di carattere patrimoniale (spese di mantenimento, alienazione di beni, ecc.).

            Come deve avvenire l’ascolto? Quanto alle modalità con le quali va effettuato l’ascolto, la legge [Art. 336 bis. cod. civ.] prevede che il minore è ascoltato dal Presidente del tribunale o dal giudice delegato nell’ambito dei procedimenti che lo riguardano, anche con l’ausilio di esperti (come psicologi dell’età evolutiva).

            Nello specifico, le modalità di ascolto possono essere di due tipi:

a)      Diretto (quando l’audizione da parte del giudice avviene in udienza, eventualmente, anche con un ausiliario esperto)

b)      Indiretto (cioè totalmente delegato ad un ausiliario anche nell’ambito di un Consulenza tecnica d’ufficio).

Indipendentemente dalle modalità prescelte, esistono una serie di raccomandazioni che rappresentano l’“ABC” della procedura dell’ascolto e che il giudice, e tanto più l’esperto che lo affianca, hanno il dovere di osservare, tenendo in debito conto l’età del minore, il quale:

  • deve essere messo al corrente in precedenza (meglio se dai genitori o dal suo eventuale curatore o tutore) del colloquio che avrà con il giudice e/o il suo delegato e di come esso si svolgerà;
  • al momento della convocazione non deve essere costretto a lunghe attese: pertanto, chi effettua l’ascolto è tenuto alla puntualità;
  • deve essere adeguatamente informato sulle motivazioni per cui è stato richiesto l’incontro e del fatto che il giudice (o il suo delegato) potrà non mantenere il segreto su quanto emerso dal colloquio;
  • deve ricevere l’opportuna accoglienza, allo scopo di essere messo a suo agio;
  • deve aver dedicato un tempo congruo per potere raccontare il suo vissuto e rispondere alle domande che gli vengono poste: è quindi impensabile che le audizioni di diversi minori siano cadenzate tra di loro in modo ravvicinato, potendo ciascuna richiedere tempi assai differenti;
  • deve essere ascoltato attraverso un linguaggio semplice e il più possibile adeguato alla sua età;
  • non deve subire alcun tipo di pressioni: non bisogna, quindi, prospettarli la risposta già nella domanda, tentando di fargli confermare qualcosa che chi ascolta già conosce, ritiene assunto o valuta come la soluzione migliore per lui;
  • deve essere ascoltato in un luogo adeguato, né troppo affollato (come un’aula di pubblica udienza) né desolato; la stanza dell’ascolto deve essere, quindi, accogliente e attrezzata con criteri finalizzati ad evitare al minore il trauma dell’impatto con l’istituzione giudiziaria e rendere così più agevole l’acquisizione delle sue dichiarazioni. Per questo, molti tribunali hanno predisposto delle specifiche aule, munite di sistemi di audio e video ripresa e di specchio unidirezionale che consente agli eventuali soggetti presenti in una stanza adiacente di assistere all’ascolto. Il giudice, infatti, può autorizzare i genitori, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore ed il pubblico ministero a partecipare all’audizione; tutti questi soggetti possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento.

Il contenuto del colloquio (che dovrà riferire anche il contegno avuto dal minore) può essere riprodotto in un verbale scritto oppure essere video registrato.

            Quando si può evitare di ascoltare il minore? Esistono, in ogni caso, delle situazioni nelle quali il giudice può rinunciare all’audizione del figlio. Una di queste è quella in cui il minore, avendo meno di 12 anni, non sia ritenuto capace di discernimento. Tale capacità non va confusa con quella di intendere e di volere, meglio nota in ambito penale (dove il minore di 14 anni non è imputabile e si presume incapace di comprendere il significato delle leggi penali e le conseguenze di legge di una determinata condotta) ma essa rappresenta una categoria psico- giuridica che fa riferimento alla capacità del minore di elaborare autonomamente idee e concetti, di avere opinioni proprie e di comprendere gli eventi.

Il giudice potrà valutare la sussistenza o meno di tale capacità anche disponendo, prima di ascoltare il minore, una osservazione (attraverso un colloquio clinico-valutativo) da parte di un perito. Di solito comunque, tale capacità viene ritenuta sussistente quando il bambino abbia raggiunto l’età scolare.

            Altra ipotesi di esclusione è prevista quando l’ascolto contrasti con l’interesse del minore: ne è un esempio tipico il caso in cui il figlio sia già stato sentito in altre occasioni su questioni per lui molto dolorose e in grado di porlo in uno stato d’ansia (come violenze fisiche o psicologiche subite o anche assistite).

            Ancora, il giudice può evitare l’ascolto del minore quando questo sia manifestamente superfluo; tale situazione viene di norma individuata in tutti quei casi in cui i genitori abbiano raggiunto un accordo sulle questioni di vita dei figli; in tali casi, infatti, si presume che sussista (al pari di quanto avviene nella vita quotidiana di una coppia non separata) la capacità dei genitori di trovare le soluzioni che maggiormente tutelino la prole. Ciò non toglie che – poiché il giudice, anche in caso di accordo, non è tenuto ad omologare condizioni relative ai figli che ritenga potenzialmente dannose per gli stessi – egli possa comunque decidere di procedere all’audizione (cosa che, di solito, tuttavia, non avviene).

            Un ultimo caso in cui l’obbligo dell’ascolto viene meno si ha quando sia proprio il figlio a rifiutare l’audizione. Quello del figlio ad essere ascoltato, infatti, è innanzitutto un suo diritto e ad esso corrisponde anche la facoltà del minore di non avvalersene. Risulta evidente (specie nei casi in cui i genitori si “contendono” l’affidamento o la collocazione della prole) il forte rischio di condizionamento dei minori da parte di uno o dell’altro dei genitori volti a rifiutare l’ascolto e ad ostacolare il rapporto del figlio con l’ex partner.

            È bene chiarire, tuttavia, che questi comportamenti, tesi a denigrare l’ex agli occhi dei minori, sono destinati a produrre nel tempo sui figli più danni psicologici di quanti non siano i benefici che si pensa di portare loro allontanandoli dall’altro genitore.

            Se il giudice non c’è: la negoziazione assistita. La necessità di ascoltare il figlio potrebbe sorgere (se pure per semplice opportunità) anche in una procedura di negoziazione assistita dove, lo ricordiamo, sono i coniugi insieme agli avvocati, a lavorare insieme alla redazione di una convenzione di separazione, divorzio o modifica delle condizioni ad essi relativi, prima di trasmetterla al P.M. per l’autorizzazione e di seguito al Comune di competenza.

In questi casi, dunque, il giudice, neppure nella persona del p.m. può ascoltare il minore (ma semmai solo negare l’autorizzazione all’accordo ove lo ritenga in contrasto con gli interessi del figlio). Potrebbero, allora, essere gli stessi avvocati a procedere all’ascolto dei figli per avere un quadro più completo delle ipotesi di accordo tra i genitori?

            A riguardo, il nuovo codice deontologico forense ha previsto una serie di divieti per l’avvocato [Art. 56 Cod. deont. forense, approvato il 31 gennaio 2014, pubblicato nella G.U. del 16 ottobre 2014 ed in vigore dal 15 dicembre 2014]:

  • quello di procedere all’ascolto di una persona minore di età senza il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale,
  • quello assoluto (cioè anche se il consenso vi sia) di ascoltare il minore quando vi sia un conflitto di interessi con chi esercita la responsabilità genitoriale;
  • quello di procedere, nelle controversie in materia familiare che coinvolgano un minore, ad ogni forma di colloquio e contatto con i figli minori sulle circostanze oggetto delle stesse (per un approfondimento leggi: Ascolto del minore: la deontologia dell’avvocato).

Risulta quindi evidente che, in tutti quei procedimenti in cui vi sia una contrapposizione su questioni riguardanti i minori e per le quali si suppone che i genitori stiano cercando una soluzione insieme ai propri avvocati (come appunto avviene nelle separazioni) questi ultimi non potranno ascoltare i figli minori.

Nulla vieta, tuttavia, ai genitori di incaricare concordemente un esperto affinché proceda all’ascolto; ciò potrà avvenire tanto più facilmente se – nella stessa procedura di negoziazione – si sia scelto avvalersi di un percorso di mediazione familiare o di diritto collaborativo.

Maria Elena Casarano    la legge per tutti         .22 luglio 2015

http://www.laleggepertutti.it/93900_separazione-e-ascolto-dei-minori-quali-regole

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SESSUOLOGIA

Cambio di sesso senza intervento.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 15138, 20 luglio 2015.

Non è necessario sottoporsi a un intervento chirurgico che modifichi i “caratteri primari sessuali”, ossia gli organi genitali e riproduttivi, per ottenere la rettificazione di sesso all’anagrafe. La ratio della norma doveva identificarsi nella tutela della persona sotto il profilo della sua identità sessuale o di genere al fine di consentirle di superare una situazione patologica di contrasto tra il suo sentire psichico e le condizioni anatomiche del corpo. La norma peraltro era stata introdotta al fine di scriminare in ambito penale un intervento chirurgico che diversamente avrebbe integrato un reato e sarebbe stato fonte di responsabilità per il sanitario.

Il trattamento nel caso non solo non era necessario ma si rivelava anche dannoso per il timore radicato di conseguenze pregiudizievoli per la sua incolumità fisica, tenuto conto che negli anni, in conseguenza di numerosi trattamenti estetici ed ormonali, aveva raggiunto la piena armonia con il proprio corpo; non vi era più conflitto tra il proprio sentire psichico e la condizione anatomica e non veniva, di conseguenza, più avvertita l’esigenza di assoggettarsi ad un intervento chirurgico per realizzare la propria identità sessuale. Aggiungeva il reclamante che la legge n. 164 del 1982 non prescriveva che i caratteri sessuali della persona potessero identificarsi in quelli primari e secondari limitandosi a richiederne il mutamento senza specificarne la tipologia, così da ritenere sufficiente l’adeguamento dei soli caratteri sessuali secondari.                Estratto                 Sentenza

http://renatodisa.com/2015/07/22/corte-di-cassazione-sezione-i-sentenza-20-luglio-2015-n-15138-non-e-necessario-sottoporsi-a-un-intervento-chirurgico-che-modifichi-i-caratteri-primari-sessuali-ossia-gli-organi-genit/

                       

Cambio di sesso senza intervento. Sentenza storica ma discutibile.

“La sentenza della Suprema Corte di Cassazione, che ha sancito il principio secondo cui per il cambio di sesso non serve nemmeno un intervento chirurgico sui genitali, non ha precedenti e sicuramente lascia stupefatti e divide le coscienze degli Italiani e degli addetti ai lavori che si occupano di diritto di famiglia e delle persone” così esordisce l’avv. Gian Ettore Gassani, Presidente Nazionale dell’Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani.

            “Sono curioso di leggere le motivazioni della sentenza prima di esprimere un giudizio definitivo, ma è indubbio che tale provvedimento provochi sconcerto perché può fungere da apripista ad una serie di ricorsi per cambiare sesso soltanto per motivi di carattere psicologico. Nel nostro Paese da un lato sussistono leggi che comprimono i diritti delle coppie dello stesso sesso e dall’altro si coniano principi francamente poco condivisibili, sia sul piano giuridico che sociale” aggiunge il Presidente dell’AMI. “Da oggi in poi attraverso perizie basterà sentirsi dell’altro sesso dal punto di vista psicologico per cambiarlo dal punto di vista anagrafico. Tale sentenza va comunque rispettata, non risolve i gravi problemi di omofobia del nostro Paese, ma rischia di creare soltanto confusione ed incertezza in un Paese dove ancora tanti diritti sono calpestati”.

Redazione       Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani       21 luglio 2015

www.ami-avvocati.it/cambio-di-sesso-senza-intervento-sentenza-storica-ma-discutibile/?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+ami-avvocati+%28AMI-avvocati.it+RSS%2

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SINODO SULLA FAMIGLIA

Divorziati risposati: in un volume la riflessione più avanzata.

In vista del Sinodo ordinario dei vescovi sulla famiglia ad ottobre in Vaticano, la Libreria editrice vaticana ha pubblicato il resoconto di tre seminari nei quali 29 tra i maggiori esperti mondiali riflettono sulle questioni “sensibili” inerenti il rapporto tra famiglia e Chiesa.

www.ibs.it/code/9788820995706/famiglia-chiesa-legame.html

E’ un volume di oltre 500 pagine, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana due mesi fa e passato praticamente sotto silenzio.  Contiene la più avanzata riflessione sul rapporto tra la famiglia e la Chiesa e su tutte le questioni “sensibili”. Lo ha curato il Pontificio Consiglio per la famiglia, presieduto da mons. Vincenzo Paglia. E’ il resoconto di tre seminari a porte chiuse dove 29 tra i maggiori esperti mondiali (canonisti, teologi morali, dogmatici e pastoralisti, psicologi, antropologi, filosofi) si sono confrontati per offrire un contributo interdisciplinare al prossimo Sinodo ordinario dei vescovi sulla famiglia ad ottobre in Vaticano. Tra loro non c’era alcun vescovo o cardinale.

I seminari si sono svolti in 17 gennaio, il 21 febbraio e il 14 marzo 2015. Ai seminari hanno partecipato anche mons. Paglia, il sottosegretario al Sinodo dei vescovi mons. Fabio Fabene il segretario del Pontifico consiglio mons. Jean Laffitte, il sottosegretario al Pontificio Consiglio per la famiglia mons. Simon Vazquez, ma nessuno di loro è intervenuto nel dibattito. Dalla discussione è emersa una sostanziale volontà di cambiamento e di aggiornamento anche delle attuali prassi pastorali e la richiesta di approfondimento della teologia del matrimonio. Ha detto don Eberhard Schockenhoff docente di teologia morale all’università di Friburgo in Germania nell’ultimo seminario: “Le possibilità di un’evoluzione della dottrina ecclesiastica del matrimonio sono maggior di quanto non suggerisca l’affermazione secondo la quale la Chiesa non può modificare la sua prassi senza tradire le proprie tradizioni”.

            Eucarestia e unioni “irregolari”. La relazione che ha aperto l’ultimo dei tre seminari il 14 marzo, è stata svolta da don Gianpaolo Dianin che insegna morale familiare e pastorale della famiglia alla Facoltà teologica del Triveneto ed è rettore del Seminario maggiore di Padova. Ha spiegato che vi sono questioni teologiche e pastorali “aperte” e ha premesso che la Chiesa nel corso della storia ha sempre regolato il matrimonio sulla base “delle problematiche nuove che di volta in volta emergevano”. Riguardo a ciò che è permesso o proibito a chi si è separato e poi risposato, Dianin sottolinea come “un’anomalia” il divieto a fare i catechisti contrapposto alla sollecitazione ad “educare cristianamente i figli”. Denuncia che alcuni cristiani considerano i divorziati risposati “persone pericolose, inaffidabili che hanno tradito una promessa” e dunque, è il suo consiglio, “ancora prima di “ogni iniziativa bisogna lavorare per cambiare la mentalità e l’atteggiamento” delle comunità.

            Tra coloro che vivono il disagio maggiore vi sono i sacerdoti, “che vorrebbero fare qualcosa, ma si sentono le mani legate dalla disciplina della Chiesa che ha volte conoscono poco”. Sulla questione del rapporto tra verità e misericordia circa l’indissolubilità e la possibilità di accostarsi alla comunione, don Dianin ricorda una frase di Joseph Ratzinger, pubblicata nel 1969 nel suo testo “La teologia del matrimonio”: “Al sotto della soglia della dottrina classica, per così dire al di sotto o all’interno di questa piena forma che caratterizza la Chiesa, c’è sempre stata evidentemente nella pastorale concreta una prassi più morbida che, per quanto non sia del tutto conforme alla vera fede della Chiesa, tuttavia non è stata assolutamente esclusa”. Anche alcuni libri penitenziali dal V al XI secolo ammettevano dopo la penitenza i divorziati risposati ai sacramenti.

            Molte ipotesi per la Comunione. I padri sinodali non hanno davanti a sé una pagina bianca anche se Dianin riconosce che finora il magistero della Chiesa non ha preso in considerazione nulla. Le ipotesi sono molte. C’è quella di Bernard Haering, notissimo teologo tedesco che nel 1990 in un volume sulla “pastorale dei divorziati” elaborò la tesi di una “morte morale” del vincolo, come nel caso della vedovanza, per permettere le “seconde nozze”. I vescovi francesi nel 1992 hanno raccomandato ai fedeli di seguire la coscienza e la stessa cosa hanno fatto i vescovi dell’Alto Reno, tra cui i cardinali Lehman e Kasper, l’anno successivo, ma sono stati criticati dalla Congregazione per la dottrina delle fede. Oggi la comunione la possono ricevere i coniugi risposati solo se si astengono dai rapporti sessuali. Lo ha ribadito Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio. Nonostante ciò sul tema c’è una aperta discussione tra i teologi e c’è stata anche al Sinodo straordinario dell’anno scorso. Alphonse Borras, canonista a Lovanio e all’Istituto cattolico di Parigi, ritiene il requisito “profondamente ambiguo”, perché riduce la sessualità alla sola “genitalità”, altri invece sono d’accordo.

            L’unico peccato “imperdonabile”? La discussione più ampia è stata fatta sul concetto di peccato e di peccato “imperdonabile”. Attualmente il peccato del “nuovo matrimonio” è l’unico che non può essere perdonato. I divorziati risposati non potranno mai accedere ai sacramenti, cioè all’Eucarestia, alla Confessione e all’unzione degli infermi, come stabilito dal canone 915 del codice di diritto canonico. Humberto Miguel Yanez, gesuita direttore del Dipartimento di teologia morale della Pontificia università Gregoriana, ha osservato: “Abbiamo concesso la comunione ai genocidi che non hanno mai fatto ritrattazione pubblica, ai capitalisti che hanno sfruttato gli operai per far crescere il loro profitto senza limiti, ai mafiosi che hanno strumentalizzato la Chiesa per legittimare i propri affari e la loro malavita, ai criminali di guerra che mai si sono pentiti, ma non è consentito ai divorziati risposati”.

            Davvero si tratta di “peccato senza perdono”? Il teologo francese Xavier Lacroix, per molti anni docente all’università cattolica di Lione, contesta e spiega che “non c’è vita cristiana senza perdono e neanche vita coniugale” e che il perdono “non è una scusa o un oblio, ma una ri-dono”. Eberhard Schockenhoff docente di teologia morale all’università di Friburgo in Germania, citando San Tommaso, il quale riteneva una “punizione perenne inadeguata”, chiede un aggiornamento della Familiaris consortio. Eduardo Scognamiglio, frate minore che insegna teologia alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale, confida che il Sinodo si chieda “con onestà se è possibile privare un fedele dell’Eucarestia per tutto il decorso della sua esistenza”.

            Una proposta per la Comunione. Dal seminario è uscita una proposta, abbastanza articolata, che prevede un cammino penitenziale, accompagnato dal vescovo o da un sacerdote specializzato indicato da lui e poi, eventualmente, l’Eucarestia. Ma sono emersi pareri contrastanti. Padre Josè Granados, docente di teologia dogmatica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II a Roma, ritiene che il percorso penitenziale debba finire con la rottura della nuova unione o, se non è possibile, con la piena continenza sessuale. La sua è la posizione più radicale. Tutti gli altri hanno convenuto che il percorso penitenziale, che può essere più o meno lungo con una conclusione preferibilmente pubblica con una celebrazione davanti alla comunità, permetta di tornare ad accostarsi al sacramento. Il relatore del seminario don Giampaolo Dianin ha sottolineato che la Relatio synodi non parla dell’impegno a vivere “come fratello e sorella”, e non chiede solo il pentimento, ma un cammino penitenziale sotto la responsabilità del vescovo e ipotizza un’ammissione parziale alla Comunione, per esempio il giorno di Pasqua. Di un’ipotesi del genere si è parlato anche al Sinodo dell’anno scorso, a quanto si apprende, riproponendo la tradizione elaborata dal Concilio lateranense IV (1215) che stabilì il cosiddetto “precetto pasquale”, cioè la comunione e la confessione necessaria nell’economia della salvezza almeno una volta all’anno. Quindi ciò è il minimo che non si può negare ai divorziati risposati. La proposta ha trovato sostanziale consenso, anche con sfumature diverse. C’è chi ha spiegato che limitarla, dopo la confessione non ha senso. Chi invece ritiene che sia un segno del fatto della gravità della situazione, pur avendo compiuto un cammino penitenziale.

Attenti al legalismo. Tuttavia non si può imporre nulla e occorre stare attenti alla psicologia delle persone e alle esigenze di proteggere la privacy. Altrimenti si corre il rischio, hanno avvertito alcune intervenuti, di considerare la Chiesa come una dogana, come ha denunciato più volte papa Francesco. Va evitato, come ha spiegato il gesuita Gian Luigi Brena, docente di antropologia filosofica all’Istituto Aloisianum di Padova, di mettere l’accento “sulla disciplina” e il fatto che il cammino penitenziale possa essere inteso come “un castigo o un prezzo da pagare” insomma “un dazio”. Quindi non bisognerebbe considerare la “serietà della richiesta come una condizione previa per cominciare un cammino, perché “il perdono non si guadagna, neppure si merita, ma è un dono gratuito del Signore” e quindi non si possono stabilire prima quali sono le condizioni per poter bussare alla porta della Chiesa. Né tuttavia si deve temere di essere accusati di “lassimo” o di “buonismo” o di “poca serietà” se si ragiona su questi temi e si cercano strade per una soluzione. Il padre Brena lo ha detto con grande chiarezza al seminario: “Tutto ciò può portarci a dimenticare la misericordia e a mantenerci in posizioni di sicurezza, rischiando di restare fermi al giudizio verso delle persone in difficoltà, senza arrivare all’accoglienza e al perdono”. E aggiunge: “Oltretutto la disciplina attuale non sembra sia così sicura; in questo caso non ci sarebbe stato bisogno di un doppio Sinodo”.

            La contraccezione. Dalla seconda sessione del seminario, quella del 21 febbraio, è venuta la richiesta al prossimo Sinodo di un chiarimento dell’atteggiamento della Chiesa di fronte alla sessualità, superando una “eccessiva severità e una regolamentazione autoritaria”, ha osservato il gesuita padre Brena. Il francescano padre Scognamiglio ha spiegato che “i metodi naturali non vanno assolutizzati” e hanno bisogno di “essere vagliati criticamente dal punto di vista scientifico”: “Al prossimo Sinodo bisogna far emergere un pensiero maturo sulla fede e sulla morale. Non possiamo sostituirci alle scelte della coppia, ma semplicemente possiamo educare a scegliere con consapevolezza e maturità di fede”. Quindi, ha proseguito il francescano, “non possiamo e non dobbiamo sostituirci alle coscienze dei fedeli in ogni ambito, soprattutto in quello della morale sessuale e familiare”. Paolo Moneta, professore ordinario di diritto canonico all’università di Pisa, ha spiegato che “dal punto di vista giuridico sono irrilevanti i mezzi con cui i coniugi intendono regolare le nascite”: “Se vi è una radicale esclusione della prole il matrimonio è nullo anche se i coniugi intendono usare soltanto quei metodi naturali accettati dalla morale cattolica”. E Xavier Lacroix contesta che vi sia “un abisso” tra i metodi naturali e gli altri. “In entrambi i casi l’unione è separata dalla procreazione”. Quindi invita a superare in questo campo la dicotomia “permesso – proibito”.

            Senza dubbio tutti nel dibattito hanno dimostrato di dare una preferenza ai metodi naturali, ma la discussione sulla liceità degli altri metodi non va chiusa. Il teologo tedesco Schockenhoff invita a riflettere sull’”incertezza” circa la questione “se la fondamentale apertura alla vita debba essere preservata in ogni singolo incontro sessuale” e osserva che “su questo punto le argomentazioni del magistero omettono di fornire una spiegazione, aprendo una lacuna che lascia in forse la conclusione  normativa che l’uso dei metodi contraccettivi artificiali sia moralmente inammissibile” e domanda: “Benché sia indubbio che una sessualità umanamente degna debba salvaguardare il primato della persona, perché mai questo primato dovrebbe venir meno solo per il fatto che i coniugi escludono temporaneamente o durevolmente la fertilità dell’atto sessuale?”. Nella relazione introduttiva al seminario don Maurizio Chiodi, che insegna teologia morale alla facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano, ha messo in luce “la seria difficoltà di una divario tra dottrina e pratica pastorale” e invitato a non limitarsi all’alternativa secca pillola sì o pillola no. Il gioco c’è anche la questione del rapporto tra “norma e coscienza”, cioè “tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo, e dunque tra la coscienza e la ragione che conosce la natura”.

            Matrimoni cattolici veri o falsi? Ci si può sposare in chiesa anche senza fede? La questione è stata molto dibattuta al Sinodo e approfondita nel primo giorno del seminario degli teologi. La relazione introduttiva del prof. Andrea Bozzolo, salesiano, che insegna teologia sistematica ed è preside della Facoltà teologica della Pontificia università salesiana, ha denunciato che “per lo più i percorsi di accompagnamento al matrimonio stentano ad assumere il profilo di un vero itinerario ecclesiale”. Il teologo africano Gregoire Kifuayi, docente alla Ecolé teologie di Yaoundé in Camerum, ha detto che non si dovrebbe concedere il sacramento per il solo fatto che “gli sposi sono battezzati”. Ma la questione non è di facile soluzione: da una parte non si può svendere un sacramento, dall’altra non ci si può opporre alla buona volontà delle persone che chiedono il matrimonio in Chiesa. Il punto centrale è la fede degli sposi e non solo la loro appartenenza o vicinanza alle istituzioni della Chiesa. Il teologo tedesco Schockenhoff, che nel corso dei seminari ha posto sul tappeto questioni e riflessioni molto avanzate, proprio ragionando sulla fede dei coniugi ha osservato che “una teologia del matrimonio dovrebbe tenere conto anche della possibilità di un fallimento del matrimonio”: “Tale fallimento è teologicamente spiegabile solo con il fatto che i coniugi non hanno collaborato sufficientemente con la grazia divina concessa loro dal sacramento del matrimonio”. Sicuramente la questione sarà uno dei nodi centrali del prossimo Sinodo di ottobre.

            Alberto Bobbio          Famiglia cristiana      25 luglio 2015

www.famigliacristiana.it/articolo/sinodo.aspx

 

Il matrimonio può anche fallire così proviamo a sanare le ferite. Intervista a Pierangelo Sequeri.

            «Più si comprende in profondità la fisiologia del matrimonio cristiano, più si è attrezzati a rispondere alla domanda circa il fallimento del matrimonio stesso. I lavori del seminario, in fondo, anche a questo erano indirizzati, a una maggiore comprensione per rispondere alla sfida delle ferite». Pierangelo Sequeri, teologo e scrittore, fra i curatori degli atti del seminario avvenuto presso il Pontificio Consiglio della Famiglia, spiega come sia stato «in scia alle conclusioni che il Santo Padre ha fatto lo scorso ottobre al Sinodo sulla famiglia nelle quali chiedeva di “trovare soluzioni concrete a tante difficoltà e innumerevoli sfide che le famiglie devono affrontare”, che si è lavorato in spirito di comunione e favorendo una libera discettazione». Da dove nasce l’idea della via discretionis? «Si tratta di una linea di sintesi fra antica disciplina penitenziale e la prassi che poi è stata fermata (ma non del tutto) precedente al chiarimento avvenuto con l’esortazione apostolica Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II. Secondo la cosiddetta “probata praxis in foro interno”, fino a qualche decennio fa si potevano ammettere ai sacramenti i divorziati risposati per scelta di coscienza approvata dal confessore. Spesso, infatti, non si riusciva ad allinearsi con l’annullamento, e allora si concedevano i sacramenti con l’accordo che tutto dovesse restare riservato, per non creare scandalo, fino all’assoluzione canonica».

Il Sinodo del prossimo ottobre recepirà questa strada? «È difficile rispondere. Potrebbe dire tante cose: ad esempio, ma siamo nel campo delle ipotesi, che ci si deve fermare alle soglie dell’eucaristia. Oppure il Sinodo potrà accettare questa strada penitenziale in toto, specificando le condizioni della sua compatibilità con la dottrina sacramentale e morale del matrimonio».

Paolo Rodari              la Repubblica             22 luglio 2015

            http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/07/22/il-matrimonio-puo-anche-fallire-cosi-proviamo-a-sanare-le-ferite20.html

 

Per i divorziati un prete-tutor ed eucarestia solo a Pasqua.

Un percorso penitenziale ad-hoc, chiamato “via discretionis”, che consenta di far accedere i divorziati-risposati ai sacramenti dell’eucarestia e della riconciliazione. È la proposta emersa durante un seminario internazionale di tre giorni a porte chiuse convocato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia in vista del prossimo Sinodo dei vescovi di ottobre. Tre giorni di lavoro, nel febbraio e marzo scorsi, i cui risultati sono stati pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana all’interno di un corposo volume intitolato “Famiglia e Chiesa. Un legame indissolubile” e curato da Andrea Bozzolo, Maurizio Chiodi, Giampaolo Dianin, Pierangelo Sequeri e Myriam Tinti.

Al seminario hanno partecipato teologi, moralisti, giuristi ecclesiastici e laici italiani ed esteri che da sempre si dedicano agli studi del matrimonio e della famiglia. Nessun vescovo, dunque, ma soltanto studiosi che hanno espresso posizioni eterogenee e insieme concrete, molte in difesa dell’indissolubilità del matrimonio e, in scia alle ultime udienze generali di Francesco, dell’importanza della famiglia fondata sul matrimonio stesso. Insieme, anche posizioni più aperte, con l’ipotesi di una strada che possa andare a lenire, per quanto possibile, le sofferenze di chi ha fallito. Il tutto assecondando quanto già emerso nella sessione straordinaria del Sinodo dello scorso ottobre quando Francesco, chiudendo i lavori, chiese di «trovare soluzioni concrete a tante difficoltà e innumerevoli sfide che le famiglie devono affrontare». A pochi mesi dall’apertura del Sinodo, dunque, è questo il lavoro più avanzato svolto dentro il Vaticano in merito alle ferite della famiglia e alle loro soluzioni. Certo, il lavoro svolto ha carattere meramente consultivo, non impegna cioè a nulla il Sinodo. Ma nonostante ciò, la volontà di mostrare, almeno da parte di alcuni teologi, che a livello pastorale poco può restare così com’è, c’è tutta: un «nuovo inizio», per i divorziati risposati, può essere possibile, grazie a un cammino penitenziale che sia però valutato «caso per caso».

Scrivono i teologi: «Si tratta di una via che non potrà che riguardare coloro che hanno forti motivazioni legate alla fede e che non può essere frainteso come un cedimento di fronte all’indissolubilità del matrimonio, ma che, proprio per la serietà del percorso proposto, potrebbe diventare una sottolineatura forte dei valori in gioco a cominciare dal valore dell’indissolubilità». La via “via discretionis”, che in sostanza svolge una mediazione fra i testi del teologo Xavier Lacroix (apre all’eucaristia ma non al riconoscimento delle seconde nozze) e del teologo Paul De Clercl (ipotizza il riconoscimento delle nuove nozze sulla scia della Chiesa ortodossa), segue regole precise. Ogni diocesi dovrà dotarsi di un prete incaricato soltanto di seguire questi casi. Se necessario questo sacerdote potrà essere affiancato da équipe esperti. Andranno quindi verificate le intenzioni della coppia e le motivazioni che l’hanno portata a chiedere la riammissione all’eucaristia. Il prete valuterà anzitutto la strada della nullità matrimoniale, inviando la coppia al tribunale ecclesiastico: spesso, a monte delle separazioni, vi sono matrimoni di fatto nulli. Qualora la nullità non sia percorribile, si porterà la coppia a iniziare un percorso penitenziale. Questo non sarà breve e seguirà alcune tappe: «Capire i motivi che hanno portato al fallimento del matrimonio; prendere coscienza di aver tradito un comando del Signore; arrivare a riconciliarsi con il proprio passato».

Il percorso «potrebbe richiedere il carattere pubblico della penitenza e dimostrerebbe alla coscienza comune dei cristiani come la riconciliazione della persona che ha fallito il suo matrimonio non significhi leggerezza da parte della Chiesa nell’interpretare il precetto evangelico, ma piuttosto volontà di verificare concretamente l’obbedienza attuale al precetto medesimo». Infine, la riammissione ai sacramenti «potrebbe essere piena o anche parziale». Per alcuni, infatti, l’accesso all’eucaristia potrebbe essere limitato al precetto pasquale. Sulla questione più dibattuta, ovvero circa il valore da attribuire alle seconde nozze, molti teologi hanno spiegato come non sia possibile parlare di sacramento perché il sacramento rimane unico, ma si può riconoscere «l’alto valore umano e spirituale del nuovo legame». Come scrive il cardinale Kasper: «Là dove è presente una fede che diventa operosa nell’amore e si fa sentire nella penitenza per la colpa che c’è stata nella rottura del primo matrimonio, un secondo matrimonio entra a far parte anche della dimensione spirituale della vita ecclesiale». Certo, a ottobre l’ultima parola sarà del Sinodo e quindi del Papa. Ma intanto, dentro le mura vaticane, nuove soluzioni esistono e sono messe nero su bianco, in scia a una Chiesa che sia dell’accoglienza e della misericordia.

Paolo Rodari              la Repubblica             22 luglio 2015

www.repubblica.it/vaticano/2015/07/22/news/_per_i_divorziati_un_prete-tutor_ed_eucarestia_solo_a_pasqua_-119566308

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