newsUCIPEM n. 605 – 10 luglio 2016

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ADDEBITO                                                         Le principali cause di addebito della separazione

Separazione: anche il falso tradimento è causa di addebito

ADOZIONE INTERNAZIONALE                          Il Tribunale di Taranto impone figli adottivi “sani, senza disabilità”

ADOZIONI INTERNAZIONALI                     Russia, in 5 anni il numero dei minori abbandonati si è dimezzato.

Russia. Adozioni con l’Italia crollate del 22% nel 2015.

ADOZIONE NAZIONALE                                        Livorno. Ma se ci fosse l’avvocato del minore?

AMORIS LAETITIA                                Consigli minimi. Tra regole ed eccezioni, un difficile equilibrio.

Alla scoperta di AL (18): tre mesi per un inizio di recezione.

AVVOCATO                                                       5 cose che un avvocato divorzista non dovrebbe mai dimenticare.

CHIESA CATTOLICA                                        Il Papa va oltre le categorie di coppie regolari e irregolari.

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM            Padova. Mediazione familiare

DALLA NAVATA                                              15° Domenica del tempo ordinario – anno C -10 luglio 2016.

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

FAMIGLIA                                                          Italia: la famiglia resiste. Ma fino a quando?

FECONDAZIONE ARTIFICIALE                     Procreazione medicalmente assistita: i dati sull’attività nel 2014.

FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI         L’equità si ritrova col Fattore Famiglia.

MATRIMONI                                                    Non vi dichiaro + marito e moglie. 2031, l’anno zero dei matrimoni

OBIEZIONE DI COSCIENZA                          Il Consiglio di Strasburgo sui medici non abortisti.

PARLAMENTO Camera2°C. Giustizia           Indagine su attuazione delle disposizioni su adozioni ed affido.

Commissione infanzia  Audizione sui minori fuori famiglia.

PATERNITÀ                                                       La paternità oltre il codice civile.

SCIENZA&VITA                                                Alberto Gambino è il nuovo presidente.

TRIBUNALI PER I MINORENNI                   Si alla soppressione!

Giù le mani dai tribunali per i minorenni. Ddl di riforma da rivedere-

UCIPEM                                                              Congresso: La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.

UNIONI CIVILI                                               Manca il decreto ponte.

I patrimoni al test delle «nuove famiglie».

VIOLENZA                                                          Donne che odiano gli uomini: quando la vittima è lui.

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ADDEBITO

Le principali cause di addebito della separazione.

La pronuncia di addebito a carico di un coniuge per la violazione dei doveri reciproci di cui all’art. 143 c.c. (fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione, coabitazione, contribuzione) comporta la perdita del diritto all’assegno di mantenimento e dei diritti successori. Disposta su espressa domanda di parte, la declaratoria di addebitabilità è subordinata all’accertamento della sussistenza del nesso causale tra la violazione dei doveri e degli obblighi nascenti dal matrimonio e l’intollerabilità della convivenza o il pregiudizio all’educazione della prole, di talché va escluso ogniqualvolta “la violazione dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi sia avvenuta quando era già maturata una situazione di crisi del vincolo coniugale, o per effetto di essa” (ex multis, Cass. n. 8862/2012). Di seguito l’elenco delle cause di addebito più frequenti:

Infedeltà. In presenza di una relazione extraconiugale, l’addebito può essere pronunciato non solo in ipotesi di adulterio conclamato, come il caso del marito che si vanti di avere un’amante dinanzi agli amici di famiglia (cfr. Cass. 21245/2010), ma anche quando “in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, generi plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzia in un adulterio, comporta comunque offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge” (Cass. n. 6834/1998). L’addebito, per contro, non scatta nel caso in cui i contatti con terzi estranei alla coppia non siano connotati da reciproco coinvolgimento sentimentale ma siano limitati a semplici scambi interpersonali di natura platonica, seppure per mezzo di contatti telefonici o via internet (cfr. Cass. n. 8929/2013). Sulla base della considerazione che per giustificare l’addebito il ménage coniugale non deve essere limitato al piano meramente formale (cfr, Cass. n. 21245/2010), la Cassazione ha negato l’accoglimento della domanda promossa dalla moglie il cui marito aveva convissuto con un’altra donna in costanza di matrimonio, poiché nel frangente versava in una situazione di separazione di fatto dalla consorte (cfr. Cass. n. 8052/2011).

            Mancanza di rapporti affettivi e intesa sessuale. Affermando che “il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge – poiché, provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner – configura e integra violazione dell’inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall’articolo 143 cod. civ., che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale” (Cass. n. 6276/2005), la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto il mancato soddisfacimento delle proprie esigenze affettive e sessuali tanto grave da sfuggire al giudizio comparativo delle condotte dei coniugi. In una singolare pronuncia, la giurisprudenza di merito ha accolto la domanda di addebito promossa dalla moglie, sottoposta a condotte vessatorie ed umilianti da parte del marito, in conseguenza della volontà di interrompere le pratiche di scambio di coppia e di amori di gruppo impostele da quest’ultimo, ancorché per qualche tempo da ella stessa accettate (cfr. Trib. Prato, 02.12.2008).

            Maltrattamenti, violenza fisica e psichica. Stante l’evidente gravità del comportamenti violenti e dei maltrattamenti, che non possono mai ritenersi giustificati neppure se provocati dall’altro coniuge, viene escluso il raffronto tra le condotte dei coniugi. “Infatti tali gravi condotte lesive, traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’integrità e l’incolumità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge, ed oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner, sono insuscettibili di essere giustificate come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento, la quale non può costituire un mezzo per escludere l’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere” (Cass. n. 8928/2012). Più in particolare, l’addebito può essere pronunciato anche se risulta provato un solo episodio di percosse, “trattandosi di comportamento idoneo comunque a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona” (Cass. n. 817/ 2011).

            Figli. Nascondere al coniuge la propria eventualità incapacità di procreare giustifica l’addebito in capo al coniuge sterile o impotente in quanto costituisce lesione del diritto fondamentale dell’altro coniuge di realizzarsi nella famiglia e nella società anche come genitore (cfr. Cass. n. 6697/2009). Per contro, la giurisprudenza di legittimità ha negato l’addebito della separazione al coniuge fedifrago quando l’altro coniuge era contrario ad avere figli, ritenendo che la reazione extraconiugale intrapresa dal primo fosse proporzionata all’omissione dei doveri coniugali da parte del secondo (cfr. Cass. n. 16089/2012).

            Abbandono del tetto coniugale. Il coniuge che lasci la residenza familiare senza il consenso dell’altro coniuge e rifiuti di farvi ritorno pone in essere un comportamento contrario ai doveri matrimoniali. Tuttavia, tale condotta non costituisce causa di addebito in presenza di giusta causa come, per esempio, quando sia determinata dalla “mancanza di una appagante e serena intesa sessuale” (Cass. n. 8773/2012) o dai “frequenti litigi domestici della moglie con la suocera convivente” (Cass. n. 4540/2011).

Avv. Laura Bazzan Newsletter Giuridica –  studiocataldi.it           04 luglio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22636-le-principali-cause-di-addebito-della-separazione.asp

 

Simulare un legame extraconiugale può diventare causa della crisi di coppia.

Che tradire il partner con ogni probabilità farà scattare l’addebito della eventuale successiva separazione è cosa nota a tutti. In pochi però sanno che anche un tradimento falso può comportare analoga conseguenza. Confessare al proprio compagno una scappatella immaginaria, magari solo per farlo ingelosire o per vendicarsi di un torto subito, può essere considerato un comportamento ugualmente idoneo a far addebitare al finto adultero lo scioglimento del vincolo matrimoniale.

            In caso di tradimento, infatti, la base dell’addebito è rappresentata non tanto dal gesto in sé e per sé considerato, quanto piuttosto dalle ripercussioni che esso genera in chi lo subisce. Con la conseguenza che fingere di aver tradito può, nella pratica, ledere la dignità e la stabilità emotiva del partner e mettere in crisi la coppia allo stesso modo di un tradimento reale. Specialmente se la “messa in scena” si dovesse protrarre per diverso tempo e sia posta in essere con un elevato grado di persuasione: è ben possibile che il rapporto coniugale ne risulti minato irrimediabilmente. E la colpa della crisi coniugale potrebbe essere proprio del falso fedifrago a cui la separazione può essere addebitata. Ciò che conta è che si dimostri il rapporto di causa-effetto idoneo a far scattare l’addebito nei confronti del coniuge per aver posto in essere una condotta capace di innescare la crisi di coppia e di rendere intollerabile la convivenza.

            Un’ipotesi dottrinale? Niente affatto: vi è un preciso riscontro nella giurisprudenza. In una recente sentenza, ad esempio, (la numero 25337/2015), la Cassazione ha ritenuto che se il tradimento “fasullo” umilia e getta il partner nello sconforto alla stessa stregua di un tradimento effettivo, le conseguenze dei due comportamenti vanno valutate allo stesso modo. Nel caso di specie, in realtà, la moglie (falsa fedifraga) si era spinta davvero oltre confessando la menzogna solo in sede di giudizio di separazione e non prima: la situazione era quindi effettivamente compromessa. Ma il principio vale ugualmente: non è escluso infatti che simulare un legame extraconiugale, esistente solo nei racconti di chi lo inscena, comporti comunque conseguenze tali da diventare la causa della crisi matrimoniale.

Valeria Zeppilli                      Newsletter giuridica studiocataldi.it             04 luglio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22583-separazione-anche-il-tradimento-falso-e-causa-di-addebito.asp

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

Il Tribunale di Taranto impone figli adottivi “sani, senza disabilità o patologia, neppure lieve”.

I decreti vincolati erano stati dichiarati illegittimi dalla Cassazione. Era il mese di giugno del 2010 quando la Corte di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite la sentenza n. 13332/2010, affermava l’importante principio di diritto secondo cui sono illegittimi i decreti di idoneità all’adozione internazionale vincolati con il riferimento a caratteristiche del minore. Dopo quella sentenza sembrava ormai chiaro una volta per tutte che i decreti di idoneità per l’adozione di minori stranieri potessero semmai contenere caratteristiche sulla coppia che intende adottare, ma non sul minore e meno che mai vincoli che contrastino con leggi nazionali o convenzioni internazionali, come era stato il caso per le prescrizioni sulla nazionalità o sul colore della pelle dei bambini. Provvedimenti che non si possono non definire “decreti razzisti”. La stessa sentenza infatti rimarcava il “carattere solidaristico, e non egoistico, della scelta dell’adozione” e affermava chiaramente che “il principio di non discriminazione costituisce uno dei principi fondamentali dell’ordinamento, da cui, a norma degli articoli 1 e 35 della legge n.184 del 1983, l’intera procedura relativa all’adozione internazionale non può discortarsi”.

            Sembrava fosse ormai pacifico che l’adozione internazionale è uno strumento di solidarietà che serve a dare una famiglia a bambini che non ne hanno una e non viceversa. Sembrava… ma evidentemente non era così chiaro. E infatti lo scorso giugno il Tribunale per i minorenni di Taranto ha dichiarato una coppia idonea ad adottare uno o due minori “purché sani senza disabilità o patologia alcuna, neppure lieve”.

            Ora, si può sapere quale ragionevole operatore del settore possa immaginare bambini abbandonati in giro per il mondo, provenienti da un istituto e con un passato travagliato – quale è sempre quello che conduce alla dichiarazione di adottabilità -, “senza patologia alcuna, neppure lieve”?

            E come mai, in un mondo che evolve – per fortuna e finalmente – inesorabilmente verso traguardi di uguaglianza sostanziale con riferimento alla disabilità, rappresentanti delle istituzioni nazionali si permettono di accogliere le limitanti (e limitate) disponibilità di persone che aspirano a fare i genitori senza tuttavia essere pronti alle certe difficoltà che ogni genitorialità, così come ogni vita in generale, comporta? Oltre che alla luce della legge 184 del 1983, anche secondo la legge 18 del 2009 con cui l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, decreti come quelli emessi dal Tribunale di Taranto devono considerarsi illegittimi.   Ancor più grave dunque, in quest’ottica, che il Tribunale per i minorenni abbia specificato che l’adottando o gli adottandi della coppia pugliese non debbano presentare alcuna disabilità o patologia neppure lieve, connotando l’intensità di caratteristiche del minore che per legge, come si è visto, non possono essere discriminate.

            E’ evidente che la strada verso i decreti di idoneità all’adozione internazionale che non contengano alcun vincolo né caratteristica sui bambini “desiderati” è ancora in salita.  A quanto pare, infatti, la Cassazione ha lavorato e si è pronunciata inutilmente: il Tribunale di Taranto ha seguito una direzione opposta a quella stabilita dalla decisione della Suprema Corte. Ma a che cosa serve, allora, una sentenza della Cassazione, se poi questa può essere aggirata da qualsiasi giudice a seconda di quello che egli ritiene più opportuno?

            Ai.Bi. non si tirerà certo indietro dinanzi a questa ennesima illegittimità e percorrerà volentieri questo cammino affinché tutti i bambini adottabili, a prescindere da età o altre condizioni, siano trattati in condizioni di uguaglianza e vengano accolti da famiglie davvero aperte a quello che la vita vorrà donare loro.

Ai. Bi.  6 luglio 2016              www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Russia, in 5 anni il numero dei minori abbandonati si è dimezzato.

Ma negli istituti restano 66mila bambini in attesa di una famiglia. La lotta all’abbandono in Russia sta facendo segnare ottimi risultati. Lo dimostrano i dati resi noti dalle autorità di Mosca, secondo cui il numero dei bambini abbandonati registrati nell’apposita Banca dati nazionale si è quasi dimezzati nell’arco di 5 anni, passando dai 126.574 minori presenti negli istituti della Federazione all’inizio del 2012 ai 66.359 del 1° giugno 2016. Cifre incoraggianti presentate in occasione del convegno panrusso dedicato ai dirigenti dei servizi sociali della Federazione che si è svolto a Mosca dal 26 al 30 giugno 2016. Al seminario hanno preso parte 520 figure professionali che si occupano della tutela dei minori provenienti da 84 regioni russe. Tra loro numerosi direttori di istituti che ospitano minori abbandonati, commissari regionali per i diritti dell’infanzia, rappresentanti delle organizzazioni pubbliche e specialisti del settore. Nel corso dei tre giorni di convegno, i partecipanti hanno condiviso le proprie esperienze, discusso la realizzazione dei vademecum regionali, l’operato delle istituti per minori e le condizioni di vita dei bambini in questi luoghi.

In questo quadro il viceministro dell’Istruzione e della Scienza Veniamin Kaganov ha presentato la situazione dei minori abbandonati attualmente registrati nella Banca dati nazionale. Il dato aggiornato al 1° giugno 2016 – secondo cui negli istituti russi ci sarebbero 66.359 bambini – confermerebbe la tendenza positiva che prosegue ormai da 10 anni. Dal 2006, infatti, il numero dei nominativi presenti nella Banca dati è andato costantemente diminuendo. Il 1° gennaio di quell’anno, infatti, negli istituti russi erano presenti 186mila minori: circa il triplo di quelli registrati il 1° giugno dell’anno in corso. All’inizio del 2012 la cifra si era già ridotta di un terzo, fermandosi a quota 125.574 per poi dimezzarsi nei tre anni e mezzo successivi.

Netto anche il calo registrato nella prima parte di quest’anno: rispetto al 1° gennaio 2016, quando nella Banca dati nazionale erano presenti circa 71.156 nominativi, il loro numero è sceso di quasi 5mila unità nei primi 5 mesi dell’anno. Secondo gli esperti, sia russi che internazionali, si tratterebbe di una riduzione senza precedenti e senza eguali nel mondo in fatto di riduzione dei minori abbandonati. Un progresso che in qualche modo rende meno amaro il crollo delle adozioni internazionali registrato negli ultimi anni in Russia. Dal 2013 al 2015, infatti, il numero di bambini abbandonati russi accolti da famiglie straniere si è quasi dimezzato, passando da 1.438 a 746, per un calo del 48% in termini precedenti.

“Abbiamo bisogno di migliorare costantemente la qualità della vita dei bambini in istituto – ha concluso il viceministro Kaganov –, specialmente di quelli con disabilità”. Con la speranza che sempre di meno siano quelli costretti a vivere in istituto, anche grazie a un rilancio dell’adozione internazionale

Ai. Bi.  6 luglio 2016              www.aibi.it/ita/category/archivio-news

 

Russia. Adozioni con l’Italia crollate del 22% nel 2015: 446 i bambini russi adottati da famiglie italiane.

            Mentre i dati  ufficiali della Commissione Adozioni Internazionali relativi ai minori adottati in Italia nel 2015 si fanno ancora attendere, vengono rese note le statistiche dei Paesi di origine. Questa volta abbiamo quelle della Federazione Russa, in merito alle quali l’Italia si conferma il Paese più accogliente per i minori adottati all’estero. Le statistiche recentemente diffuse dalle autorità di Mosca dimostrano che il futuro dei bambini abbandonati russi è sempre meno all’estero Il 2015, infatti, ha fatto segnare un crollo del numero dei piccoli russi adottati all’estero rispetto al 2014. Un trend negativo che prosegue rispetto agli anni precedenti e che non risparmia, tra i Paesi di destinazione, neppure l’Italia. In termini assoluti, i minori russi adottati da famiglie straniere nel 2015 sono stati 746, il 28% in meno del 2014, quando a trovare un nuovo papà e una nuova mamma all’estero furono in 1.038. Un dato che, a sua volta, era fortemente negativo se confrontato con quello dell’anno precedente. Nel 2013, infatti, i bambini russi accolti fuori dal proprio Paese furono 1.438. Nel giro di soli due anni, quindi, dal 2013 al 2015, si è registrato un crollo del 48%. Ovvero, in 24 mesi, le adozioni internazionali realizzate in Russia si sono praticamente dimezzate.

            Un discorso simile può essere fatto per quanto riguarda nello specifico le cifre relative ai bambini russi adottati in Italia. Nel 2015 hanno fatto il loro ingresso nel nostro Paese 446 minori provenienti dalla Federazione Russa. Nel 2014 e nel 2013 erano stati invece rispettivamente 576 e 720, ovvero 130 e 274 in più rispetto al 2015. In percentuale ciò si è tradotto, nell’ultimo anno, in un calo del 22,5% a confronto con il 2014 e del 38% in rapporto al 2013. Un crollo meno ripido di quello avvenuto su scala mondiale, ma comunque vertiginoso.

            Nonostante questo, l’Italia si conferma il Paese più accogliente per i bambini abbandonati russi. Sul totale dei 746 piccoli russi adottati all’estero, quasi il 60% ha trovato una nuova famiglia in Italia. Il secondo Paese che ha realizzato più adozioni in Russia nel 2015 è molto distanziato: si tratta della Spagna che ha adottato 131 bambini della Federazione, meno di un terzo di quelli arrivati in Italia. Seguono la Francia con 45, la Germania con 38, Israele con 34, l’Argentina con 19, Malta con 13, la Svizzera con 9, il Belgio con 4, la Slovenia con 3, per chiudere con Gran Bretagna, Cipro, Lettonia ed Ecuador con una a testa. Occorre osservare che alcuni di questi, come Argentina e Israele, sono Paesi di tradizionale immigrazione di famiglie russe.

            Schiacciante la supremazia dell’adozione nazionale su quella internazionale. A fronte dei soli 746 bambini russi che, nel 2015, hanno trovato una famiglia all’estero, sono stati ben 5.903 i loro piccoli connazionali adottati da famiglie russe.

            Ai. Bi.  5 luglio 2016              www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ADOZIONE NAZIONALE

Livorno. Ma se ci fosse l’avvocato del minore?

Ancora un minore in difficoltà familiare in balìa delle differenti decisioni dei magistrati. Adottabile? In affido dalla nonna? In comunità? Da anni il destino di una bambina di Livorno è appeso al filo delle diverse decisioni prese di volta in volta dai giudici dei vari gradi di giudizio. Senza che, ovviamente, la piccola possa dire la sua e far valere i suoi diritti. Perché, come sempre, pare che gli unici diritti che contino siano quelli degli adulti.

            Questi i fatti. La madre della bambina, a causa di problemi psichici, non riesce a prendersi cura di lei e si dice favorevole all’affido della figlia alla nonna, sperando che, con il tempo, le cure possano sortire risultati positivi e lei possa recuperare il rapporto con la piccola. La nonna, dal canto suo, offre la propria disponibilità all’affido della nipote. Non è sposata, ma ha un compagno, con cui la relazione prosegue da 20 anni e che, a detta della donna, si dichiara pronto ad aiutarla nel caso si debba prendere cura della bambina. Nonostante questo, però, nel 2014 la Corte d’Appello di Firenze non prende in considerazione l’ipotesi dell’affido alla nonna e dà il via libera allo stato di adottabilità.

            Recentemente la Corte di Cassazione ribalta la sentenza dei magistrati fiorentini e allunga ancora di più una vicenda iniziata ancora prima del 2014 con una sentenza del Tribunale per i Minorenni. Secondo quanto riportato dalla stampa, la Suprema Corte avrebbe contestato la decisione dei giudici d’Appello perché emessa senza che sia stata “effettuata alcuna valutazione della nonna non solo attraverso una consulenza tecnica, ma anche da parte dei servizi sociali nonostante nella relazione della struttura di accoglienza (in cui la piccola è collocata, ndr) si riferisca del suo entusiasmo, interesse e disponibilità ad occuparsi della bambina”. Secondo la Cassazione, quindi, “di fronte a una manifestata e seria disponibilità dei nonni a prendersi cura del minore”, tale disponibilità “deve essere concretamente accertata e verificata e può valere ad integrare il presupposto giuridico per escludere lo stato di abbandono”.

            Quindi se i nonni “manifestano una seria disponibilità a prendersi cura dei minori” e hanno mantenuto con essi rapporti significativi nel tempo, hanno tutto il diritto di essere valutati e considerati come possibili affidatari dei nipoti. Solo nel caso in cui tale valutazione sia avvenuta e sia stata negativa, i nonni devono rinunciare alla possibilità dell’affido.

            Di fatto, però, la bambina da anni è in balìa delle opposte decisioni dei Tribunali italiani. Cosa che non sarebbe accaduta se anche lei avesse avuto, come gli adulti coinvolti nella vicenda, qualcuno che si facesse portavoce dei suoi diritti e delle sue necessità. L’avvocato del minore, in questo caso, avrebbe fatto valere le ragioni della bambina al pari di quanto gli avvocati degli adulti fanno con i loro assistiti. Sarebbe stato un dibattito alla pari. Invece, ne è nata una decisione più “politica” che nell’interesse del minore. Il quale, ancora una volta, resta senza alcuna tutela e vede il suo destino appeso al filo di una serie di decisioni prese solo nell’interesse degli adulti.

Fonte: Avvenire         Ai. Bi.  5 luglio 2016              www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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                                                               AMORIS LAETITIA

Consigli minimi per non perdere la strada. Tra regole ed eccezioni, un difficile equilibrio.

            Li formula il cardinale Ennio Antonelli, che chiede però anche “ulteriori indicazioni da parte della competente autorità”. Per ovviare a “rischi e abusi sia tra i pastori che tra i fedeli”. Da qualche settimana circola senza far rumore uno scritto del cardinale Ennio Antonelli a commento dell’esortazione apostolica postsinodale “Amoris laetitia”. Il cardinale Antonelli, 79 anni, è un’autorità in materia. È stato presidente per cinque anni del pontificio consiglio per la famiglia e ha anche accumulato una notevole esperienza pastorale. È stato arcivescovo prima di Perugia e poi di Firenze, oltre che segretario per sei anni della conferenza episcopale italiana. Ha una solida formazione teologica e appartiene al movimento dei Focolari. Eppure, nonostante queste sue credenziali, non fu chiamato da papa Francesco a prendere parte al sinodo sulla famiglia, né alla prima né alla seconda sessione. Ma ciò non gli ha impedito di partecipare attivamente alla discussione, in particolare con un libretto pubblicato nel giugno di un anno fa. Il timore del cardinale era che “la comunione eucaristica dei divorziati risposati e dei conviventi diventi rapidamente un fatto generalizzato”, con la conseguenza che “non avrà più molto senso parlare di indissolubilità del matrimonio e perderà rilevanza pratica la stessa celebrazione del sacramento del matrimonio”. Oggi, dopo la pubblicazione di “Amoris laetitia“, questo timore non lo vede fugato. Ma nemmeno gli appare invincibile, se di “Amoris laetitia” si saprà dare – scrive – un’applicazione attenta e sapiente, capace di far luce sui suoi passaggi oscuri, meglio ancora se con l’aiuto di future “ulteriori indicazioni da parte della competente autorità”. Come già avvenne un anno fa, anche questo scritto del cardinale Antonelli prenderà presto la forma di un piccolo libro, edito in Italia da Ares. Eccone qui di seguito anticipati alcuni passaggi. Di particolare interesse sono, nel finale, i consigli dati ai confessori circa l’accesso alla comunione dei divorziati risposati.

Tra regole ed eccezioni, un difficile equilibrio di Ennio Antonelli.

            “Amoris laetitia” ha avuto interpretazioni opposte tra i pastori, tra i teologi, tra gli operatori della comunicazione sociale. Viene spontanea la domanda: rispetto alla dottrina e alla prassi tradizionale, in particolare rispetto alla “Familiaris consortio” di Giovanni Paolo II, c’è continuità, rottura, o novità nella continuità? […]- L’insegnamento della verità oggettiva in “Amoris laetitia” rimane quello di sempre. È tenuto però sullo sfondo come un presupposto. In primo piano è posto il singolo soggetto morale con la sua coscienza, le sue disposizioni interiori, la sua responsabilità personale. Per questo non è possibile formulare una normativa generale; si può solo incoraggiare “un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari” (300). Nel passato, in tempo di cristianità, tutta l’attenzione era rivolta alla verità morale oggettiva, alle leggi generali. Chiunque veniva meno all’osservanza delle norme si presumeva fosse gravemente colpevole. Questa era un’evidenza comune, pacificamente condivisa. I divorziati in seconda unione davano scandalo, perché mettevano in pericolo l’indissolubilità del matrimonio. Perciò venivano emarginati dalla comunità ecclesiale come pubblici peccatori.

            Più recentemente, in tempo di secolarizzazione e rivoluzione sessuale, molti non capiscono più il senso della dottrina della Chiesa riguardo al matrimonio e alla sessualità. È opinione diffusa che le relazioni sessuali tra adulti consenzienti siano lecite, anche fuori del matrimonio. Si può ipotizzare che alcune persone vivano in situazioni oggettivamente disordinate senza piena responsabilità soggettiva. Si comprende allora che Giovanni Paolo II abbia ritenuto opportuno incoraggiare i divorziati risposati a inserirsi maggiormente nella vita della Chiesa e a incontrare la misericordia di Dio “per altre vie”, diverse dalla riconciliazione sacramentale e dall’eucaristia (“Reconciliatio et poenitentia“, 34), a meno che non si impegnino a osservare la continenza sessuale.

            Papa Francesco, in un contesto culturale ancora più avanzato di secolarizzazione e pansessualismo, va ancora più avanti, ma sulla stessa linea. Senza tacere la verità oggettiva, egli concentra l’attenzione sulla responsabilità soggettiva, che a volte può essere diminuita o annullata. […] Per le norme è competente la dottrina; per i casi singoli occorre il discernimento alla luce delle norme e della dottrina (79; 304). In questo processo dinamico possono influire i condizionamenti che diminuiscono o perfino annullano l’imputabilità dell’atto umano disordinato (302). Essi in definitiva si riducono a tre tipologie: ignoranza della norma, incomprensione dei valori in gioco, impedimenti percepiti come occasione di altre colpe (301). Questa impostazione non si discosta dalla tradizione: si è sempre detto che per commettere peccato mortale occorre non solo la materia grave (il grave disordine oggettivo), ma anche la piena avvertenza e il deliberato consenso (cf. Catechismo di san Pio X). La novità di “Amoris laetitia” sta nell’ampiezza di applicazione che viene data al principio della gradualità nel discernimento spirituale e pastorale dei singoli casi. L’intento è quello di dare una testimonianza ecclesiale più attraente e persuasiva al vangelo della divina misericordia, confortare le persone spiritualmente ferite, apprezzare e sviluppare, il più possibile, i germi di bene che si trovano in esse.

            In considerazione della dinamica del discernimento, papa Francesco prospetta la possibilità di una progressiva e più piena integrazione nella concreta vita ecclesiale delle persone in situazione di fragilità, perché sempre più sperimentino, e non solo sappiano, che è bello essere Chiesa. Dopo adeguato discernimento pastorale, si potranno affidare a loro vari compiti, da cui finora erano esclusi, però “evitando ogni occasione di scandalo” (299). Il discernimento personale e pastorale dei singoli casi “dovrebbe riconoscere che, poiché il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi” (300), […] “nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave” (nota 336). “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto dei sacramenti” (nota 351). Il papa schiude dunque uno spiraglio anche per l’ammissione alla riconciliazione sacramentale e alla comunione eucaristica. Ma si tratta di un suggerimento ipotetico, generico e marginale. […]

            Il papa stesso è consapevole che, ad andare avanti su questa strada, si corrono dei rischi: “Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada” (308). Si possono prevedere rischi e abusi sia tra i pastori che tra i fedeli, ad esempio: confusione tra responsabilità soggettiva e verità oggettiva, tra legge della gradualità e gradualità della legge; relativismo morale e etica della situazione; valutazione del divorzio e della nuova unione come moralmente leciti; disincentivazione della preparazione al matrimonio, demotivazione dei separati fedeli, accesso all’eucarestia senza le necessarie disposizioni; difficoltà e perplessità dei sacerdoti nel discernimento; incertezza e ansietà nei fedeli.

            C’è bisogno di ulteriori indicazioni da parte della competente autorità per una attuazione prudente. […] L’ammissione alla comunione eucaristica normalmente esige la completa comunione visibile con la Chiesa. Non può essere concessa come regola generale finché dura la situazione di vita oggettivamente disordinata, quali che siano le disposizioni soggettive (tra l’altro è questa la disciplina applicata nelle relazioni ecumeniche con i cristiani non cattolici). Tuttavia sono possibili eccezioni e, come si è visto, il papa mostra di essere disposto ad ammetterle in alcuni casi (300; 305; note 336; 351). Ovviamente è sempre vera la dottrina che ogni peccato mortale esclude dalla comunione eucaristica, testimoniata da tutta la tradizione […]. Papa Francesco mette in risalto il carattere sociale, la discriminazione dei poveri, che aveva il peccato incompatibile con l’eucarestia condannato da san Paolo (185-186), ma sicuramente non intende negare che tutti i peccati mortali costituiscano un impedimento. Per ricevere dunque degnamente l’eucarestia sono necessarie la conversione e la riconciliazione sacramentale. […]

            Per le coppie in situazione irregolare il cambiamento adeguato è il superamento della loro situazione, almeno con l’impegno serio della continenza, anche se per la fragilità umana si prevedessero ricadute (nota 364). Se manca questo impegno, è piuttosto difficile individuare altri segni delle buone disposizioni soggettive e della vita in grazia di Dio sufficientemente sicuri. Tuttavia si può raggiungere una ragionevole probabilità, almeno in alcuni casi (298; 303).

            In attesa di auspicabili indicazioni più autorevoli, provo a ipotizzare con molta esitazione un modo di procedere in foro interno nel difficile caso in cui si riscontrasse la mancanza di un chiaro proposito riguardo alla continenza sessuale. Il sacerdote confessore può incontrare un divorziato risposato che crede sinceramente e intensamente in Gesù Cristo, conduce uno stile di vita impegnato, generoso, capace di sacrificio, riconosce che la sua vita di coppia non corrisponde alla norma evangelica, tuttavia ritiene di non commettere peccato a motivo delle difficoltà che gli impediscono di osservare la continenza sessuale. Da parte sua il confessore lo accoglie con cordialità e rispetto; lo ascolta con benevola attenzione, cercando di considerare i molteplici aspetti della sua personalità. Inoltre lo aiuta a rendere migliori le sue disposizioni, in modo che possa ricevere il perdono: rispetta la sua coscienza, ma gli ricorda la sua responsabilità davanti a Dio, il solo che vede il cuore delle persone; lo ammonisce che la sua relazione sessuale è in contrasto con il vangelo e la dottrina della Chiesa; lo esorta a pregare e ad impegnarsi per arrivare gradualmente, con la grazia dello Spirito Santo, alla continenza sessuale. Infine, se il penitente, pur prevedendo nuove cadute, mostra una certa disponibilità a fare dei passi nella giusta direzione, gli dà l’assoluzione e lo autorizza ad accedere alla comunione eucaristica in modo da non dare scandalo (ordinariamente in un luogo dove non è conosciuto, come già fanno i divorziati risposati che si impegnano a praticare la continenza). In ogni caso il sacerdote deve attenersi alle indicazioni date dal suo vescovo.

            Il sacerdote è chiamato a mantenere un difficile equilibrio. Da una parte deve testimoniare che la misericordia è il cuore del Vangelo (311) e che la Chiesa, come Gesù, accoglie i peccatori e cura i feriti della vita. D’altra parte deve custodire la visibilità della comunione ecclesiale con Cristo che risplende nella predicazione fedele del Vangelo, nella celebrazione autentica dei sacramenti, nella giusta disciplina canonica, nella vita coerente dei credenti; deve in particolare potenziare la missione evangelizzatrice della famiglia cristiana, chiamata ad irradiare la presenza di Cristo con la bellezza dell’amore coniugale cristiano: uno, fedele, fecondo, indissolubile (cf. Concilio Vaticano II, “Gaudium et spes”, 48).

Sandro Magister        6 luglio 2016              http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351334

 

Alla scoperta di Amoris Laetitia (18): tre mesi per un inizio di recezione

La breve storia di “Amoris Laetitia” – giunta già ai suoi primi tre mesi di vita – è ricca di sorprese e di novità. Con questa Esortazione Apostolica, che riassume il cammino ecclesiale, sinodale e papale degli ultimi tre anni, ci viene offerta una chiave di lettura della lunga tradizione ecclesiale, che si qualifica per alcuni punti-chiave, i quali emergono di giorno in giorno in modo sempre più evidente alla attenzione di tutti i cristiani:

  1. Nel percorso storico, che ha individuato nel tema “matrimonio/famiglia” uno dei punti vitali della tradizione cattolica – percorso inaugurato sostanzialmente da Pio IX a metà del XIX secolo – il testo di “Amoris Laetitia” costituisce una svolta epocale, che riprende alcuni elementi anticipati dal Concilio Vaticano II e da Familiaris Consortio, liberandoli della cornice ottocentesca in cui ancora quei testi ragionavano e si muovevano;
  2. Potremmo dire che AL è il primo documento ecclesiale su matrimonio/famiglia che consapevolmente si muove nella sfera inaugurata da “Dignitatis Humanae”. Esso riflette su uno dei “cardini della comunione umana e divina” non secondo il solo principio di “autorità”, ma anche tenendo conto in modo radicale del “principio di libertà”. E’ qui la sua novità più significativa;
  3. Per questo motivo AL supera due “ideali-idoli” del cattolicesimo in contesto moderno, ossia il valore assoluto della “oggettività della legge” e la lettura solo “pedagogica” della legge stessa. Accettando la correlazione tra oggettivo e soggettivo in campo morale e comprendendo la legge non solo come “pedagogia”, ma anche come “riconoscimento di diritti”, AL reimposta il rapporto Chiesa-mondo, anche al di là della dimensione familiare;
  4. Questa evoluzione dello stile dottrinale e disciplinare ha conseguenze non solo sul piano pastorale, ma anche su quello dottrinale, morale e giuridico. AL imposta diversamente il ruolo che nella “pastorale familiare” hanno il diritto e la morale. Uscendo da una logica di “massimalismo morale” – che negli ultimi 30 anni aveva acquisito una imbarazzante autorevolezza – erode il terreno su cui aveva potuto fiorire una “soluzione giudiziaria” alle questioni matrimoniali che non è esagerato chiamare “nichilismo canonico”;
  5. In una Chiesa come “ospedale da campo” le questioni familiari e matrimoniali debbono avere, anzitutto, uno spazio pre- e metagiudiziale di competenza e di risoluzione. Per costituirlo sarà necessario un cammino non lineare di ripensamento della identità ecclesiale e della funzione che nella Chiesa hanno la penitenza e l’eucaristia. AL determina, sia pure indirettamente, un profondo ripensamento della ecclesiologia e della sacramentaria cattolica.
  6. Questo è stato reso possibile grazie ad un “movimento sinodale”, ma potrà diventare reale solo con un altrettanto determinato movimento sinodale. Fin dalle prime righe di AL Francesco dice apertamente che il “magistero” (papale e sinodale) non deve risolvere tutte le questioni. Questo significa che si riconoscono “altre autorità”: quelle dei singoli vescovi, dei singoli parroci, delle coppie implicate nel discernimento. A tutto questo non siamo affatto abituati. E dovremo elaborare le virtù necessarie.
  7. Di fronte a questo inizio di movimento vi è, come sempre, chi si spaventa, chi ha paura, chi pensa di perdere potere, di perdere chiarezza, di smarrire la via. Ma si tratta di frange marginali, minoritarie, di cui occorre prendersi cura, ma alle quali non si deve permettere di distrarre la Chiesa dal suo compito di rinnovamento e di aggiornamento.
  8. AL, uscendo dello schema di contrapposizione allo “stato moderno” – che dal XIX secolo passava per il “teologumeno”: “Dio e non l’uomo unisce i coniugi”; “Dio e non l’uomo fa nascere i bambini” – recupera una logica più complessa, in cui, per il fiorire della grazia della comunione e della generazione, non si può più permettere a nessuno di demonizzare la libertà e la storia dei soggetti. Questa novità non riguarda solo la famiglia, ma tutto il Vangelo. E può essere compresa rileggendo AL alla luce dell’intero magistero di Francesco, e sulle orme dei grandi testi del Concilio Vaticano II. In verità, chi mostra di non capire AL, dimostra di non aver mai compreso il Vaticano II.

Andrea Grillo            “Come se non” 8 luglio 2016

www.cittadellaeditrice.com/munera/alla-scoperta-di-amoris-laetitia-18-tre-mesi-per-un-inizio-di-recezione

www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non

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AVVOCATO

Le 5 cose che un avvocato divorzista non dovrebbe mai dimenticare

Un breve vademecum per affrontare con maggior consapevolezza le procedure di separazione e divorzio coppia che litiga di fronte al giudice. L’avvocato che si trova ad assistere uno o entrambi i coniugi in seguito alla crisi matrimoniale riveste un ruolo particolarmente impegnativo. Di seguito un pentalogo essenziale a tutela dell’attività professionale e degli interessi dei clienti con indicazioni rivolte al divorzista utili all’assolvimento del mandato:

  1. Possedere un’adeguata preparazione non solo professionale ma anche comportamentale: il dovere di competenza professionale imposto all’avvocato divorzista trascende i limiti del correlativo canone deontologico per includere nozioni multidisciplinari e, soprattutto, un’attitudine personale alla comprensione delle vicende personali dei coniugi nel loro turbinio emozionale in un momento così delicato come la fine di un matrimonio. Un’indole sensibile e conciliativa costituisce un attributo particolarmente efficace nella trattazione delle controversie familiari, che richiedono sempre una grande capacità di ascolto e intendimento anche al di là di quanto venga espressamente riferito in occasione del colloquio in studio.
  2. Mantenere la propria obiettività: anche dinanzi alle narrazioni più incredibili, è necessario astenersi dal giudicare la condotta dei coniugi e soprattutto evitare di identificarsi con il proprio assistito. L’equilibrio tra la propria indipendenza ed autonomia valutativa e la fedeltà al mandato va ricercato e mantenuto per tutta la durata del rapporto professionale; si tratta del solo criterio che consente di riformulare le richieste del cliente affinché possano trovare tutela nell’ordinamento e, al contempo, permette di agevolare la risoluzione delle questioni, filtrando quelle che non necessitino l’intervento del magistrato per la loro definizione.
  3. Comprendere se la crisi di coppia si può comporre: più che di un intuito innato si tratta di una capacità acquisibile con l’esperienza. Al di là delle situazioni davvero drammatiche, nelle quali la separazione e il divorzio costituiscono una scelta obbligata, se la crisi appare superabile, lo stesso avvocato, promuovendo il dialogo tra i coniugi, mediante un approccio maieutico, può accompagnarli nella ricerca di una nuova stabilità nella relazione, anche attraverso l’apporto professionale di altri specialisti (psicologi, terapeuti, mediatori familiari).
  4. Non inasprire i contrasti tra le parti: nell’affrontare le procedure di separazione e divorzio è necessario abbandonare la tradizionale impostazione di contrapposizione che caratterizza il contenzioso e perseguire una logica conciliativa per la pacifica composizione degli interessi. Rappresentate all’assistito tutte le alternative disponibili, restano da tralasciare le strategie processuali dettate dal risentimento per limitare il depauperamento affettivo oltre che patrimoniale, evitando a tutti i costi di utilizzare i figli come argomento di ricatto negli accordi tra le parti.
  5. Salvaguardare l’interesse dei figli: anche a discapito della puntuale soddisfazione delle richieste formulate dall’assistito, la tutela dei figli deve improntare l’intera attività svolta dall’avvocato. A differenza dei coniugi, infatti, i figli non hanno un loro legale che direttamente li rappresenti e difenda ed è necessario che nel loro interesse vengano mantenuta, per quanto possibile, una certa stabilità nei legami familiari e parentali, attutendo così le conseguenze negative della fine di un matrimonio.

Avv. Laura Bazzan                     Newsletter giuridica –  studiocataldi.it         04 luglio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22614-le-5-cose-che-un-avvocato-divorzista-non-dovrebbe-mai-dimenticare.asp

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CHIESA CATTOLICA

«Il Papa va oltre le categorie di coppie regolari e irregolari guardando alle persone».

Pubblichiamo in anteprima un estratto dell’ampia intervista concessa dal cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, a padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, nel numero della rivista dei gesuiti in uscita domani. Più volte Francesco ha affermato che Schönborn («è un grande teologo, leggete la sua presentazione») aveva colto il significato dell’Esortazione Amoris laetitia, scritta dopo i due Sinodi sulla famiglia. Nell’intervista emergono i grandi temi del testo e tra l’altro il cardinale afferma a scanso di equivoci (e resistenze), che l’Esortazione è un atto di magistero del Pontefice, non l’espressione di semplici opinioni come vorrebbero i suoi critici. E chiarisce: chi vive uno stato «oggettivo» di peccato (come divorziati e risposati) non sempre è «soggettivamente» colpevole; e quindi «è possibile che in certi casi possa ricevere l’aiuto dei sacramenti», anche l’Eucaristia.

            Alcuni hanno parlato di «Amoris laetitia» come di un documento minore, quasi di un’opinione personale del Pontefice senza pieno valore magisteriale. Che valore ha questa Esortazione? È un atto del magistero?

            «È evidente che si tratta di un atto di magistero! È una Esortazione apostolica. È chiaro che il Papa qui esercita il suo ruolo di pastore, di maestro e dottore della fede, dopo avere beneficiato della consultazione dei due Sinodi. Penso che, senza dubbio alcuno, si debba parlare di un documento pontificio di grande qualità, di un’autentica lezione di sacra dottrina, che ci riconduce all’attualità della Parola di Dio. Amoris laetitia è un atto del magistero che rende attuale nel tempo presente l’insegnamento della Chiesa. Così come noi leggiamo il Concilio di Nicea alla luce del Concilio di Costantinopoli, e il Vaticano I alla luce del Vaticano II, così ora dobbiamo leggere i precedenti interventi del magistero sulla famiglia alla luce del suo contributo. Siamo portati in modo vitale a distinguere la continuità dei princìpi della dottrina nelle discontinuità di prospettive o di espressioni storicamente condizionate. È la funzione propria del magistero vivente: interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa».

            Sono incuriosito dal fatto che il Papa parli delle situazioni irregolari mettendo l’aggettivo tra virgolette e facendolo precedere dall’espressione «cosiddette». Secondo Lei, questo ha un significato particolare?

            «Il fatto rilevante di questo documento è che esso supera le categorie di “regolare” e “irregolare”. Non ci sono, in modo semplicistico, da un lato i matrimoni e le famiglie che funzionano, che vanno bene, mentre le altre non vanno bene. Francesco parla di questa realtà che riguarda tutti: siamo viatores, siamo in cammino. Siamo tutti soggetti al peccato e tutti abbiamo bisogno della misericordia. […] Francesco non nega che ci siano situazioni regolari o irregolari, ma va al di là di questa prospettiva per mettere in pratica il Vangelo: chi tra voi non ha mai peccato scagli la prima pietra».

            Il Pontefice, ascoltando i Padri sinodali, ha preso coscienza del fatto che non si può più parlare di una categoria astratta di persone, né racchiudere la prassi dell’integrazione in una regola del tutto generale.

            «Sul piano dei princìpi, la dottrina del matrimonio e dei sacramenti è chiara. Papa Francesco l’ha nuovamente espressa con chiarezza comunicativa. Sul piano della disciplina, il Pontefice tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete e ha affermato che non ci si doveva aspettare una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. Sul piano della pratica, di fronte a situazioni difficili e famiglie ferite, il Santo Padre ha scritto che è possibile solo un nuovo incoraggiamento a un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, “poiché il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi”».

            Ma questo orientamento era del resto già contenuto in qualche modo anche nel paragrafo 84 della «Familiaris consortio»

            «Infatti, san Giovanni Paolo II distingueva alcune situazioni. Per lui, c’è differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati ingiustamente, e coloro che invece hanno distrutto con colpa grave un matrimonio canonicamente valido. Poi ha parlato di coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido. Ognuno di questi casi, dunque, costituisce l’oggetto di una validazione morale differenziata. Apriva dunque la porta a una comprensione più ampia passando per il discernimento delle differenti situazioni che non sono oggettivamente identiche, e grazie alla considerazione del foro interno».

            Mi sembra dunque che questa tappa rappresenti un’evoluzione nella comprensione della dottrina.

            «Francesco ha fatto un passo importante obbligandoci a chiarire qualcosa che era rimasto implicito nella Familiaris consortio, sul legame tra l’oggettività di una situazione di peccato e la vita di grazia di fronte a Dio e alla sua Chiesa e, come logica conseguenza, l’imputabilità concreta del peccato. Il cardinal Ratzinger ce lo aveva spiegato negli anni Novanta: non si parla più automaticamente di situazione di peccato mortale in casi di nuova unione. Mi ricordo che nel 1994, quando la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva pubblicato il suo documento sui divorziati risposati, avevo domandato al cardinal Ratzinger: “Forse che la vecchia prassi data per scontata e che ho conosciuto prima del Concilio, quella di vedere in foro interno con il proprio confessore la possibilità di ricevere i sacramenti a condizione di non creare scandalo, è sempre valida?”. La sua risposta fu molto chiara, come le affermazioni di Papa Francesco: non esiste una norma generale che possa coprire tutti i casi particolari. Tanto è chiara la norma generale, quanto è chiaro che essa non può coprire tutti i casi in modo esaustivo».

Il Papa afferma che «in certi casi», quando ci si trova in una situazione oggettiva di peccato — ma senza essere soggettivamente colpevoli o senza esserlo interamente —, è possibile vivere nella grazia di Dio. C’è una rottura con ciò che è stato affermato in passato?

            «Il Papa ci invita a non guardare soltanto le condizioni esteriori, che hanno la loro importanza, ma a domandarci se abbiamo sete di perdono misericordioso, allo scopo di rispondere meglio al dinamismo santificatore della grazia. Il passaggio tra la regola generale e i “certi casi” non si può fare solo attraverso considerazioni di situazioni formali. È possibile dunque che, in certi casi, colui che è in una situazione oggettiva di peccato possa ricevere l’aiuto dei sacramenti».

            Che cosa vuol dire «in certi casi»? Qualcuno si chiede perché non farne una sorta di inventario.

            «Perché altrimenti il rischio è quello di cadere nella casistica astratta e, cosa più grave, creiamo — anche attraverso una norma d’eccezione — un diritto a ricevere l’Eucaristia in situazione oggettiva di peccato. Qui mi sembra che il Papa ci metta di fronte all’obbligo, per amore della verità, di discernere i casi singoli in foro interno come in foro esterno».

            Mi faccia capire: qui Francesco parla di una «situazione oggettiva di peccato». Quindi, ovviamente non si riferisce a coloro che hanno ricevuto una dichiarazione di nullità del primo matrimonio e si sono sposati, né a coloro che riescono a soddisfare l’esigenza di vivere come «fratello e sorella». Il Pontefice qui si riferisce dunque a coloro che non riescono a realizzare oggettivamente la nostra concezione del matrimonio, a trasformare il loro modo di vita secondo quella esigenza?

            «Sì, certamente! Nella sua grande esperienza di accompagnamento spirituale, quando il Santo Padre parla delle “situazioni oggettive di peccato”, non si accontenta dei casi di specie distinte nella Familiaris consortio, ma si riferisce in modo più esteso a coloro “che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio” e la cui “coscienza dev’essere meglio coinvolta”, “a partire dal riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti”».

            Lo sguardo così aperto alla realtà, e dunque alla fragilità, può nuocere alla forza della dottrina?

            «Assolutamente no. La grande sfida del Papa è proprio quella di dimostrare che questo sguardo capace di apprezzare, permeato di benevolenza e di fiducia, non nuoce affatto alla forza della dottrina, ma fa parte della sua colonna vertebrale. Francesco percepisce la dottrina come l’oggi della Parola di Dio, Verbo incarnato nella nostra storia, e la comunica ascoltando le domande che si pongono nel cammino. Rifiuta invece lo sguardo di ripiegamento su enunciazioni astratte, separate dal soggetto che vive testimoniando l’incontro con il Signore che cambia la vita. Lo sguardo astratto di tipo dottrinario addomestica alcune enunciazioni per imporre la loro generalizzazione a una élite, dimenticando che chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio, come disse Benedetto XVI nella Deus caritas est».

(g.g.v.)                        Corriere della sera    7 luglio 2016

www.corriere.it/cronache/16_luglio_07/papa-va-oltre-categorie-4f5a8f98-43b7-11e6-831b-0b63011f1840.shtml?refresh_ce-cp#

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Padova. Mediazione familiare.

La mediazione familiare è un processo nel quale un terzo equidistante e qualificato aiuta la coppia ad elaborare la separazione e a riorganizzarsi come genitori per continuare ad essere protagonisti delle proprie scelte riguardo ai figli.

La mediazione è:

  • un servizio offerto alla coppia che si separa, affinché sia possibile riuscire a rimanere entrambi genitori al di là della rottura coniugale
  • uno spazio di incontro confidenziale offerto in un ambiente neutrale, con la presenza di mediatori esperti e con la garanzia della più assoluta riservatezza
  • un aiuto a comunicare senza litigare, nonostante il conflitto, con la possibilità di affrontare gli argomenti scelti dai due genitori, con l’obiettivo concreto di trovare degli accordi costruttivi e personalizzati che tengano conto dei bisogni di ognuno
  • un lavoro motivato dall’affetto verso i figli e dal riconoscimento dei loro bisogni.

Che cosa non è la mediazione

  • Non è una consulenza di coppia (che eventualmente la precede). La mediazione si attiva solo quando i coniugi hanno deciso di separarsi e/o in funzione della separazione.
  • Non è una terapia, ma un intervento delimitato nel tempo (circa una decina di incontri, ciascuno della durata massima di due ore) e circoscritto su obiettivi concordati e predefiniti: accordi funzionali e soddisfacenti per la gestione della nuova vita con i figli (una eventuale terapia personale si potrà affiancare o, preferibilmente, effettuarsi dopo).
  • Non è una consulenza alla famiglia in genere ma si attiva per problemi connessi con la separazione e il divorzio (anche se alle volte vi possono essere consulenze alla famiglia che utilizzano modalità e tecniche della mediazione).
  • Non è una forma di assistenza legale in quanto la verifica e la definizione giuridica degli accordi rimangono di pertinenza degli avvocati.
  • Non è una consulenza tecnica per il giudice e non fornisce informazioni di alcun genere ai magistrati o agli avvocati.

Chi è il mediatore

  • E’ un professionista con formazione specifica, esperto nella gestione dei conflitti. E’ equidistante, non dà giudizi, non fornisce risposte, ma facilita la comunicazione nella coppia perché siano i genitori stessi, nella loro autonomia decisionale e quali esercenti la potestà sui figli, a individuare gli accordi possibili.

La mediazione e l’attività dell’avvocato non sono in concorrenza, ma sono in rapporto di collaborazione:

  • il mediatore si fa carico degli aspetti emotivi e relazionali delle persone per aiutarle a trovare degli accordi condivisi sui figli;
  • l’avvocato normalmente interviene dopo la mediazione orientando le parti sulle questioni relative alla procedura della separazione o su altri aspetti giuridici, in particolare economico-patrimoniali e redige il ricorso per la separazione o definisce il procedimento, tenendo conto degli accordi presi dai genitori e accompagnandoli nel procedimento giudiziario.

Consultorio UCIPEM Padova …www.consultorioucipem.padova.it/index.php/mediazione.html

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DALLA NAVATA

XV Domenica del tempo ordinario – anno C -10 luglio 2016.

Deuteronomio  30, 11 Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te.

Salmo                19, 09 I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi.

Colossesi           01, 19 È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza.

Luca                 10, 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso».

 

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

Il brano evangelico di questa domenica ci mette in guardia dal pensare che la misericordia sia solo un sentimento, una commozione profonda che ci coinvolge alle viscere e al cuore. Certamente essa è originata da tale sentimento, ma deve poi tradursi in un’azione, in un comportamento, in un fare misericordia. L’insistenza in questa pagina sul verbo “fare”, e in particolare la risposta finale del dottore della Legge (“Chi ha faro misericordia”), seguita dall’approvazione di Gesù (“Va’ e anche tu fa’ così”), ci illuminano su questa pratica della carità verso i nostri fratelli e le nostre sorelle. Leggiamo perciò insieme questo brano conosciutissimo, ma che sempre ha bisogno non di essere ripetuto pedissequamente, bensì di un’attenzione nuova e puntuale, come se lo leggessimo per la prima volta. Sì, tante volte l’ho commentato, ma sarebbe un’offesa verso la sua qualità di parola di Dio se lo presentassi a voi lettori tramite un “copia e incolla” di altri miei scritti. No, questo vangelo oggi risuona così in me e ne condivido gli effetti oggi, per l’appunto, non nel passato.

Stiamo sempre seguendo Gesù nella sua salita a Gerusalemme, ed ecco un altro incontro: questa volta tra Gesù e un dottore della Legge, un giurista (nomikós). Questo esperto della Torà e della sua tradizione in Israele vuole mettere alla prova Gesù, vuole verificare la sua conoscenze scritturistica e la sua fedeltà o meno alla tradizione. Gli pone quindi una domanda classica, tipica di ogni persona e di ogni tempo: “Che fare?”; domanda che nello spazio religioso dell’ebraismo risuona con un’aggiunta: “Che fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli risponde con una contro-domanda: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”, cercando in questo modo di portarlo a esprimersi in prima persona.

L’esperto cita allora il grande comandamento attestato nel Deuteronomio, che ogni ebreo conosce a memoria e ripete tre volte al giorno, lo Shema‘ Jisra’el: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente” (Dt 6,4-5). Poi, con intelligenza spirituale, aggiunge il comandamento dell’amore del prossimo, estraendolo dal libro del Levitico (Lv 19,18). Secondo Luca il dottore delle Legge compie un’interpretazione che ha come fondamento il parallelo tra i due comandamenti dell’amore. Gesù non può fare altro che approvare una tale interpretazione, che raggiunge il suo insegnamento sull’amore esteso addirittura ai nemici, ai persecutori (cf. Lc 6,27-35), e di conseguenza invita quest’uomo a realizzare, a mettere in pratica quotidianamente quanto ha saputo affermare.

Ma quell’esperto che aveva voluto mettere alla prova Gesù, volendo giustificare la sua domanda iniziale, lo interroga di nuovo: “E chi è il mio prossimo?”. Ancora una volta Gesù non risponde direttamente perché, se acconsentisse alla domanda del suo interlocutore, dovrebbe dare una definizione del prossimo e così situarsi all’interno della casistica degli scribi e dei farisei, ai quali il dottore della Legge appartiene. No, il prossimo non può essere rinchiuso in una definizione, perché in verità è colui che ognuno di noi decide di rendere prossimo avvicinandosi a lui. Ecco perché racconta Gesù una parabola, aggiungendovi alla fine un’altra contro-domanda.

Un uomo anonimo, del quale Gesù non precisa nulla – né nazionalità, né condizione sociale, né appartenenza religiosa –, mentre percorre la strada che da Gerusalemme scende a Gerico viene assalito da banditi che lo depredano, lo picchiano e lo lasciano mezzo morto sul ciglio della strada. Nulla di straordinario, ma un fatto che è quotidiano nelle nostre città, soprattutto dove i banditi borseggiano, strattonano, malmenano e finiscono per lasciare le persone aggredite a terra sulla strada.

            Su questa strada – dice Gesù– passano due persone segnate dalla loro funzione religiosa: un sacerdote e un levita, uomini ai quali è affidata la cura del tempio di Dio a Gerusalemme e che in Israele si vogliono esemplari per gli altri. Ebbene, questi due uomini religiosi, conoscitori della Legge, tesi a onorare la dimora di Dio, passando su quella strada vedono quell’uomo a terra, ferito e bisognoso, ma passano oltre, dall’altra parte. Stanno lontani e proseguono il loro cammino. Perché? Sono forse insensibili, malvagi? No. E allora perché? Perché sono abitati innanzitutto dal dovere di restare lontano da un possibile cadavere, per timore di diventare impuri (cf. Nm 19,11-16). O forse perché vedono ma non guardano veramente, non sono abituati a vedere discernendo (“Beato chi discerne il povero e il misero” [Sal 41 (40),2 LXX]). Non fanno alcun male, ma certo omettono di fare qualcosa. E così anche per noi: la maggior parte dei nostri peccati, delle nostre contraddizioni all’amore fraterno, non è originata da odio o cattiveria, ma si tratta di azioni mancate per indifferenza. Esattamente come ci ricorderà il Signore nel giorno del giudizio: “Via, lontano da me, maledetti, perché non avete fatto questo e quello” (cf. Mt 25,41-45).

            Ciò che sorprende nel prosieguo della parabola è che al sacerdote e al levita, i tipici religiosi, Gesù oppone un samaritano, l’antitipo, cioè il perfetto contrario dei due osservanti e puri giudei. I samaritani, infatti, erano considerati gente impura, scismatica ed eretica, detestata dai giudei e sempre in lotta contro di loro. Insomma, un samaritano era certamente la persona più disprezzata dai giudei; ma proprio lui Gesù pone come esemplare: questo è troppo! Anche il samaritano, passando su quella strada, vede, e per vedere bene si avvicina, si fa prossimo all’uomo ferito: allora, volto contro volto, il samaritano è commosso nelle viscere, sente salire dalle sue profondità un sentimento di compassione, di sdegno, di pietà. La misericordia è questo sentimento viscerale, materno, che in realtà raduna tanti sentimenti e come una pulsione sale dalle nostre viscere, facendosi sentire come sofferenza, con-sofferenza con chi è nel bisogno. Dal sentimento nasce l’azione: il samaritano versa olio e vino sulle ferite, le fascia, poi carica quell’uomo sul suo giumento e lo conduce in una locanda, affidandolo al locandiere per le cure e la convalescenza. Questo samaritano si prende cura dell’uomo ferito dai banditi fino al possibile esito positivo: fa tutto quello che può.

Ecco allora emergere la verità: ci sono persone ritenute impure, non ortodosse nella fede, disprezzate, che sanno “fare misericordia”, sanno praticare un amore intelligente verso il prossimo. Non si devono appellare né alla Legge di Dio, né alla loro fede, né alla loro tradizione, ma semplicemente, in quanto “umani”, sanno vedere e riconoscere l’altro nel bisogno e dunque mettersi al servizio del suo bene, prendersi cura di lui, fargli il bene necessario. Questo è fare misericordia! Al contrario, ci sono uomini e donne credenti e religiosi, i quali conoscono bene la Legge e sono zelanti nell’osservarla minuziosamente, che proprio perché guardano più allo “sta scritto”, a ciò che è tramandato, che non al vissuto, a quanto avviene loro nella vita e a chi hanno davanti, non riescono a osservare l’intenzione di Dio nel donare la Legge: e quest’unica intenzione, al servizio della quale la Legge si pone, è la carità verso gli altri! Ma com’è possibile? Com’è possibile che proprio le persone religiose, che frequentano quotidianamente la chiesa, pregano e leggono la Bibbia, non solo omettano di fare il bene, ma addirittura non salutino i con-fratelli e le con-sorelle, cose che fanno i pagani? È il mistero di iniquità operante anche nella comunità cristiana! Non ci si deve stupire, ma solo interrogare se stessi, chiedendosi se a volte non si sta più dalla parte del comportamento omissivo proprio di questi giusti incalliti, di questi legalisti e devoti che non vedono il prossimo ma credono di vedere Dio, non amano il fratello che vedono ma sono certi di amare il Dio che non vedono (cf. 1Gv 4,20); di questi zelanti militanti per i quali l’appartenenza alla comunità o alla chiesa è fonte di garanzia, che li rende bendati, ciechi, incapaci di vedere l’altro bisognoso.

Allora Gesù alla fine della parabola chiede all’esperto della Legge: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei banditi?”. L’altro risponde: “Colui che ha fatto misericordia” (Vulgata: “Qui fecit misericordiam”). E Gesù dunque conclude: “Va’ e anche tu fa’ così”, cioè fa’ misericordia, ovvero guarda bene, con discernimento, avvicinati, fatti prossimo, senti una compassione viscerale e fa’ misericordia nel prenderti cura del bisognoso. Non esiste il prossimo: il prossimo è colui che io decido di rendere vicino.

http://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2016/07/enzo-bianchi-commento-vangelo-10-luglio.html

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FAMIGLIA

Italia: la famiglia resiste. Ma fino a quando?

            Uno studio testimonia che in Italia languono misure strutturali. Ma resta forte la rete di solidarietà familiare e alto è il desiderio di genitorialità dei giovani, che merita attenzione politica. In Italia la famiglia è supportata da risorse adeguate? Basterebbe dare uno sguardo all’impietoso dato sulle nascite per capire che la domanda è retorica. Nel 2015 – nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia – i nuovi nati sono stati appena 488 mila. Il tasso di natalità di 1,38 figli per donna non assicura il ricambio generazionale.

            A confermare che il Belpaese, al di là dei suoi poetici appellativi, poco si cura delle famiglie, lo testimonia ora anche uno studio. Si tratta dell’Indice globale indipendente sulla famiglia (Igif), elaborato nel primo “Rapporto sul diritto alla famiglia nel mondo” realizzato dalla Fondazione Novae Terrae insieme all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Obiettivo del documento, che sarà presentato a breve, è di analizzare le caratteristiche della famiglia per cogliere se le sue relazioni interne ed esterne stanno cambiando, nonché di verificare in diversi contesti geografici e culturali quanto l’istituto familiare sia salvaguardato.

            I Paesi analizzati sono 46, principalmente europei, ma anche degli altri continenti del pianeta. Partendo dal presupposto che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 ha riconosciuto la famiglia, fondata sul matrimonio tra uomo e donna, quale nucleo naturale e fondante della società, il documento individua 19 criteri per valutare se i singoli Stati assicurano a tale nucleo un adeguato sostegno.

            Pessimo il posizionamento in classifica dell’Italia. È 39esima, dietro di lei soltanto Serbia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Perù, Croazia e Macedonia. Sul podio si presentano Danimarca, Nuova Zelanda e Svezia, subito a seguire Norvegia, Israele, Germania e Svizzera.

            Si evince pertanto che i Paesi del Nord Europa trionfano in quanto a risorse di natura economica su cui la famiglia può contare e possibilità di conciliare famiglia e lavoro. Da sottolineare tuttavia che non bastano soltanto i servizi da parte delle Istituzioni a garantire la formazione di nuove famiglie e la proliferazione di figli.

            Ad esempio in Germania, modello europeo di politiche familiari, nel 2014 i neonati sono stati meno di 700 mila per una popolazione che supera gli 80 milioni di abitanti. Dato che fa del Paese teutonico uno dei meno prolifici del Vecchio Continente (tasso di natalità all’8,4%).

            Gli autori del documento posizionano i Paesi che guidano la classifica in un gruppo dall’originale nome “potrei ma non voglio”, ossia quei luoghi in cui la generosità con cui lo Stato elargisce risorse per le giovani coppie e per i genitori non coincide esattamente con un indice di natalità altrettanto disinvolto. Non c’è dunque una diretta corrispondenza tra i maggiori servizi e la propensione a metter su famiglia e a fare figli.

            Propensione che tradizionalmente era patrimonio dei Paesi che si ritrovano oggi in fondo a questa classifica. Ecco allora che gli autori hanno coniato per loro l’appellativo di Paesi del “vorrei ma non posso”. In Italia, Serbia, Polonia, Perù, Slovacchia e Croazia, fanalini di coda in quanto a politiche familiari, si vive il paradosso per cui la famiglia resta una struttura più solida rispetto a Paesi in cui è presente un welfare specifico per questo istituto.

            Ne deriva che, se lo Stato fosse più attento attuando politiche familiari strutturali, l’indice di natalità salirebbe notevolmente. In Italia qualche misura è stata intrapresa nei confronti di chi si trova sotto determinati tetti di reddito, ma siamo ancora nel campo delle piccole elargizioni, le quali non rappresentano uno stimolo alla natalità. C’è un elemento che appare eloquente. Gli autori dello studio hanno usato l’indicatore della percezione. Hanno analizzato anche ricerche sociologiche internazionali sulla percezione che le famiglie e le persone hanno del proprio contesto. Un dato soggettivo, quindi, che se fosse stato espunto, la classifica avrebbe registrato qualche lieve ma significativa modifica.

            L’Italia si sarebbe posizionata ancora più in basso, passando dal 39esimo al 43esimo posto, ovvero quartultima in classifica. Ciò dimostra che i cittadini percepiscono il nostro Paese, malgrado l’inadempienza della politica, un luogo positivo per la famiglia. Il che è dovuto, a una rete di solidarietà inter-generazionale in famiglia, con nonni che aiutano i nipoti e viceversa, con genitori che sostengono anche economicamente l’esigenza dei figli di emanciparsi magari sposandosi e facendo prole. Senza dimenticare, poi, la presenza in Italia di realtà associative e di cooperazione sociale che aiutano e promuovono le relazioni.

            La vivacità dei corpi sociali intermedi, tuttavia, da sola non basta a sorreggere l’istituto familiare sotto il peso della crisi economica. Nonostante i mutamenti culturali in corso, uno studio dell’Istituto don Toniolo rivela che il 94% dei giovani italiani ha il desiderio di fare famiglia e generare figli. È ora che la politica dia una risposta concreta a questa aspirazione. Perché senza famiglia, non c’è futuro.

Federico Cenci                       Zenit               6 luglio 2016

https://it.zenit.org/articles/italia-la-famiglia-resiste-nonostante-il-disinteresse-della-politica

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FECONDAZIONE ARTIFICIALE

Procreazione medicalmente assistita: i dati sull’attività del Registro per l’anno 2014.

Quest’anno il Registro nazionale Procreazione medicalmente assistita (Pma) dell’Istituto superiore di sanità compie 10 anni di raccolta dati. Dopo un decennio si conferma la validità del sistema di sorveglianza nazionale istituito presso il Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute (Cnesps) dell’Iss che mantiene negli anni il 100% di copertura su tutti i Centri e su tutti i cicli di trattamento di Pma eseguiti nel nostro Paese.

            I dati 2014 pubblicati nella “Relazione annuale sullo stato di attuazione della Legge 40/2004 in materia di Procreazione medicalmente assistita (Pma)” confermano il trend in aumento dell’offerta dei cicli di Pma per le donne italiane che risulta di più di mille cicli per milione di abitanti (1.102) e che si sta avvicinando al gold standard considerato nelle medie europee di 1.500 cicli offerti per milione di abitanti. Aumenta però anche l’età media delle donne che si rivolgono a queste tecniche che ormai è di 36,7 anni.

            Dal documento emerge che i bambini italiani nati grazie alla riproduzione assistita da tecniche di II e III livello sono oggi 10.976, il 2,2% del totale dei nati in Italia nel 2014 (numero in aumento rispetto allo 0,66 del 2005).

            Le percentuali di gravidanza ottenute si confermano stabili sul 27% per le tecniche a fresco Ivf e Icsi mentre aumenta l’efficacia dei cicli di congelamento sia embrionario che ovocitario che riportano rispettivamente percentuali del 27,7% e del 21,1% sui trasferimenti eseguiti.

            In diminuzione l’applicazione di tecniche di I livello, come l’inseminazione intrauterina. Con 23.866 cicli di trattamento eseguiti e 1682 bambini nati, sono stabili le percentuali di gravidanza ottenute che da dieci anni si attestano intorno al 10% su ciclo iniziato. Il 65% dei cicli viene effettuato in strutture pubbliche o convenzionate.

            Dopo la sentenza 162 della Corte costituzionale di aprile 2014 che ne ha sancito la legittimità, quest’anno per la prima volta il documento riporta riportati anche i cicli di Pma effettuati con donazione di gameti. Tuttavia, è ancora presto per fare valutazioni epidemiologiche esaustive perché il tempo di applicazione di queste tecniche è stato breve e sono stati riportati solo un numero esiguo di trattamenti.

            Giulia Scaravelli – Registro nazionale PMA, Cnesps-Iss    7 luglio 2016

Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità

www.epicentro.iss.it/focus/pma/relazione2016.asp?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=7luglio2016

www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=2620

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

«L’equità si ritrova col Fattore Famiglia».

Intervista al presidente del Forum delle Famiglie. Un fisco iniquo e una classe politica che procede a colpi di riforme inefficaci, anche perché non vengono preventivamente discusse e condivise. Il presidente nazionale del Forum delle famiglie, Gigi De Palo, commenta l’analisi dell’Istat rilanciando la proposta del Fattore Famiglia. E si dice disponibile a rivedere il meccanismo degli assegni familiari.

            I numeri dell’Istat inchiodano chi sostiene ancora che il Fisco italiano è equo, ma queste ingiustizie sono figlie della crisi o dipendono strutturalmente dalla normativa fiscale?

Se il fisco italiano fosse equo – ci risponde De Palo – non ci troveremmo in questa situazione paradossale. In Italia, oggi, chi fa un figlio rischia di diventare povero nel Paese con l’inverno demografico più lungo del mondo. Magari fosse solo la crisi: prima o poi le difficoltà delle famiglie finirebbero, invece il problema è strutturale e prima interveniamo e prima, forse, possiamo invertire la rotta. Questo è il momento. Non ce ne saranno altri. La politica faccia quello che deve fare; altrimenti il governo avrà la responsabilità di essere il curatore fallimentare del Paese.

            In che misura il Ddl Lepri può sanare questa situazione?

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/772205/index.html

Sicuramente, il senatore Lepri ci sta provando; solo, ci spiace essere coinvolti sempre dopo, a proposte fatte. Così è difficile lavorare. Apprezziamo il fatto che, per quanto riguarda le famiglie incapienti, finalmente si prenda in considerazione la proposta di un assegno fisso. Per il resto le famiglie con lavoratori dipendenti ci rimettono perché, in base ai nostri conti, la situazione con il Ddl Lepri peggiorerebbe per i redditi sopra i 20mila euro, in quanto l’attuale somma di detrazione e assegno familiare risulta superiore ai 150 euro mese di cui parla Lepri. Se ne gioverebbero solo i lavoratori autonomi, che attualmente non percepiscono assegni familiari.

            Non teme però che questo genere di denunce possa mettere in mora l’istituto stesso degli assegni familiari?

Chi parla ha 39 anni ed è un lavoratore autonomo; come tanti della mia generazione non so nemmeno cosa siano gli assegni familiari e un contratto di lavoro dipendente. Quindi, ben venga togliere gli assegni familiari, ma solo a patto che vengano sostituiti con assegni mensili, in base al numero dei figli, senza che chi oggi prende gli assegni familiari, ovvero i lavoratori dipendenti, ci rimetta un solo euro.

            In alcuni casi, le detrazioni paiono ancor più inique e inefficaci degli assegni familiari. Anche in questo caso, non vi è il rischio che una riforma possa sottrarre risorse anziché redistribuirle?

Dipende da come viene fatta la riforma. Molte volte si fanno proposte forfettarie, senza adeguate simulazioni. Quindi si passa dai titoli dei giornali alla dura realtà di una proposta insostenibile. Il vero problema è che si va avanti a slogan. Giustissimo accorpare misure che spesso sono sfilacciate e dispersive, ma quello che le famiglie vogliono è essere considerate una risorsa e non un problema. La sensazione è quella di dover chiedere l’elemosina. No, vogliamo solo giustizia. Vogliamo pagare le tasse in base alla nostra capacità contributiva.

            Arriviamo al punto: qual è la proposta con cui pensate che sia possibile sanare queste ingiustizie?

Il Forum da parecchi anni ha mostrato di avere le idee più chiare di chi ci ha governato e ci governa: noi chiediamo il Fattore Famiglia. E lo facciamo da sei anni con una proposta seria, con tanto di simulazioni, che ha passato il vaglio di tutti i Governi che si sono susseguiti. A parole, sono tutti d’accordo; poi, nei fatti c’è sempre un problema più grande, un’emergenza più urgente. L’idea di base del Fattore Famiglia è quella per cui non sono tassabili le spese indispensabili per il mantenimento e l’accrescimento della famiglia. Il Fattore Famiglia introduce un livello di reddito non tassabile (la cosiddetta ‘no tax area’) crescente all’aumentare del numero dei componenti della famiglia, secondo una scala di equivalenza. Verrà quindi tassata solo la quota di reddito familiare che eccede il minimo vitale.

Paolo Viana    Avvenire         8 luglio 2016

www.avvenire.it/Economia/Pagine/Lequit-si-ritrova-col-Fattore-Famiglia-.aspx

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MATRIMONI

Non vi dichiaro più marito e moglie. 2031, l’anno zero dei matrimoni

L’indagine. Sposarsi non è più un ascensore sociale. Non serve a tutelare i diritti dei figli né a lasciare la casa dei genitori. Il risultato? Lo racconta il Censis: “Se continua così, presto le nozze in chiesa saranno solo un ricordo”. Dietro alla crisi la disaffezione per la religione e le nuove tutele per le coppie di fatto

            Sorpassati, ignorati, in via di estinzione. Né garanzia d’amore, né di famiglia felice. Così in decadenza da far temere che per i matrimoni si stia avvicinando l’anno zero. Almeno per le nozze religiose, aggredite da un disincanto ogni anno più folto, categoria per la quale esisterebbe, secondo una proiezione statistica, anche la data di morte certa: il 2031. È il Censis con uno studio dal titolo “Non mi sposo più” a raccontare la crisi (irreversibile) del matrimonio in Italia, rito ritenuto ormai non più necessario né per abbandonare la casa di famiglia, né per mettere al mondo dei figli, né tantomeno per dare dignità intima e sociale ad un amore.

Partendo dai Istat sul crollo complessivo delle nozze (erano 291.607 nel 1994, sono scese a 189.765 nel 2014) il Censis elabora uno scenario futuribile nel quale «nel 2020 si avranno più matrimoni civili che religiosi, e nel 2031 non sarà celebrato un solo matrimonio nelle nostre chiese». Il motivo? Semplicemente le nozze non sono più il «baricentro della vita». Tutto si può fare, cioè, senza quel contratto che, ancora fino a vent’anni fa, vincolava invece le scelte di vita.

Un po’ come dire: sposarsi non serve più a niente, i figli nati dentro e fuori dal matrimonio sono tutti legittimi allo stesso modo, i patti di convivenza appena approvati sono un ulteriore passo in avanti, e l’equiparazione tra coppie sposate e coppie di fatto è qualcosa di acquisito. Quello che colpisce però nello studio del Censis è la morte annunciata del matrimonio religioso, in un Paese in fondo tradizionalista come il nostro, anche se forse i dati già noti sulla “disaffezione” per la religione cattolica, e sulle chiese vuote, soprattutto di giovani, lasciavano intravedere la rivoluzione secolare. Nel 2014 in Italia si sono celebrate 108mila nozze in chiesa, 61.593 in meno del 2004, ma soprattutto 127.936 in meno rispetto al 1994. In vent’anni, cioè, c’è stato un crollo del 54% dei riti religiosi.

Spiega Massimiliano Valerii, direttore del Censis: «Noi abbiamo proiettato in avanti le tendenze degli ultimi vent’anni, e lo scenario futuro è quello di un’Italia a matrimonio religioso zero. Un dissolvimento totale di questa istituzione, perché ormai la crisi è globale, e riguarda sia i riti civili, che hanno smesso di crescere, sia in particolare quelli in chiesa, che sono in caduta libera. In pratica — dice Valerii — abbiamo visto che tra il 1994 e il 2014 si si sono “perduti” 128mila matrimoni religiosi, cioè 6.400 all’anno. E lo scorso anno i riti in chiesa sono stati 108mila. Ecco: se, partendo da questo dato, togliamo ogni anno 6.400 cerimonie, il risultato è che in 17 anni, cioè nel 2031, i matrimoni benedetti dal prete saranno azzerati».

Succederà davvero? Al macero fiori d’arancio e marcia di Mendelssohn? Le previsioni hanno sempre una quota d’azzardo, i mutamenti della società sono imprevedibili, ci sono gli scarti, le conversioni ad U, come sottolinea il demografo Gian Carlo Blangiardo. «Se facessimo questo tipo di proiezione sulla natalità, potremmo dire allora che tra trent’anni in Italia non nascerà più nemmeno un bambino. Per fortuna la vita è imprevedibile, la caduta potrebbe arrestarsi. Dietro al declino del rito religioso ci sono più fattori, non soltanto la disaffezione, ma le unioni miste, i divorziati, i matrimoni di ritorno, tutte situazioni che approdano nel rito civile. Certo, la coppia è cambiata, eppure in Italia il 70% dei bambini continua a nascere all’interno del matrimonio».

Una situazione frastagliata. Oggi sposarsi è davvero una scelta, visto che il matrimonio ha perso tutta una serie di sovrastrutture. E una scelta costosa: la disaffezione infatti è diventata più acuta proprio negli anni della crisi. Aggiunge Valerii: «Il matrimonio era un “ascensore sociale” in particolare per le donne, oggi le coppie sono sempre più omogenee tra di loro. Ma forse è il dato sentimentale a vincere: per i giovani quello che conta è la relazione autentica, senza vincoli formali, e cioè un libero patto d’amore».

Maria Novella De Luca                    La Repubblica            7 luglio 2016

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/07/07/non-vi-dichiaro-piu-marito-e-moglie-2031-lanno-zero-dei-matrimoni20.html?ref=search

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OBIEZIONE DI COSCIENZA

Il Consiglio di Strasburgo sui medici non abortisti

Sull’obiezione Italia promossa in Europa. L’Italia non è più sotto accusa di fronte al Consiglio d’Europa per la spinosa questione dell’obiezione di coscienza all’aborto. Il Comitato dei ministri, l’organo di governo politico dell’organismo (che niente ha a che fare con l’Ue, e conta 47 membri tra cui Svizzera, Russia o Ucraina), ha pubblicato una risoluzione positiva sul contenzioso tra il governo italiano e la Cgil che va avanti dal 2013, promuovendo l’Italia per la sua gestione della materia dopo averla censurata in un primo momento per decisione del Comitato per i diritti sociali.

            Il sindacato aveva accusato il governo di non assicurare misure sufficienti a garantire l’aborto come previsto dalla legge 194 a fronte dell’alto numero di ginecologi obiettori (attestati ormai stabilmente attorno al 70% sul totale). In aprile i rilievi presentati dalla Cgil, che lamentava l’impossibilità di abortire in alcune aree del Paese, erano stati accolti dalla commissione competente del Consiglio d’Europa, notizia divulgata con clamore dai nostri media nazionali come una “vittoria” del “diritto di abortire”. Al governo italiano era poi stata concessa la possibilità di presentare le proprie controdeduzioni in una seduta pubblica, che il 24 maggio aveva consentito di chiarire gli aspetti non esaminati in un primo momento con una documentazione sufficientemente aggiornata.

            Oggi, infine, il verdetto del Comitato dei ministri, che ha pubblicato una risoluzione nella quale si tiene conto delle informazioni comunicate dalla delegazione italiana. Il Comitato, si legge, «prende nota delle informazioni fornite in seguito alla decisione del Comitato europeo dei diritti sociali e accoglie con favore gli sviluppi positivi intervenuti». L’Italia resta sotto osservazione – nel documento si sottolinea che il Comitato dei ministri «attende con interesse il rapporto che sarà sottoposto (dall’Italia, ndr) al Comitato europeo dei diritti sociali nel 2017 – ma dopo la bocciatura di tre mesi fa si tratta certamente di una promozione. È indubbio infatti che siamo di fronte a un successo ottenuto in Europa nel giudizio su come è organizzata l’obiezione di coscienza all’aborto in Italia. Il nostro Paese esce dalla posizione scomoda di “accusato”, anche se, sottolineano fonti di Strasburgo, «l’obiettivo non è mai di sanzionare uno Stato ma di aiutarlo a mettersi in linea con gli standard». L’11 aprile era stata resa nota la decisione del Comitato europeo per i diritti sociali, dopo un lungo braccio di ferro, con l’accoglimento parziale del ricorso della Cgil, rilevando la violazione di una serie di articoli della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, tra cui il fatto che «le lacune nella prestazione dei servizi d’interruzione di gravidanza in Italia non sono state ancora rimediate e le donne che desiderano ricorrere ai servizi di aborto continuano a incontrare nella pratica reali difficoltà», con «rischi considerevoli alla salute e al benessere delle donne coinvolte», in violazione dell’articolo 11 sulla protezione della salute.

            Il Comitato aveva inoltre contestato la violazione del divieto di discriminazione, visto che a suo dire c’era un trattamento difforme in base alla geografia (servizi migliori in alcune regioni rispetto ad altre) e a come vengono erogati altri servizi medici dove non c’è obiezione. Il Comitato per i diritti sociali aveva accolto anche l’accusa della Cgil secondo la quale i medici non obiettori sarebbero trattati peggio di quelli obiettori quanto a carichi di lavoro, ripartizione delle mansioni e possibilità di carriera. Fondata per il Comitato era anche la denuncia di presunte “pressioni” di cui sarebbero oggetto i medici non obiettori per cambiare orientamento.

            Considerando che era questo il punto di partenza, il successo odierno assume un rilievo ancora maggiore. Tra il Ministero della Salute e la Cgil si è assistito in questi mesi a un duro botta e risposta, con il ministro Beatrice Lorenzin che aveva parlato di «dati vecchi» forniti dal sindacato, posizione contestata duramente dalla leader della Cgil Susanna Camusso. Al dunque il Comitato dei ministri – organismo politico di livello superiore rispetto al Comitato per i diritti sociali – ha accolto gli argomenti forniti dal Ministero ritenendoli più persuasivi del reclamo. I dati presentati dall’Italia a Strasburgo, tratti dalla Relazione annuale al Parlamento sull’attuazione della legge 194, parlano di un calo del 5,1% della richiesta di aborti tra il 2013 e il 2014, con un crollo rispetto al 1983 della pressione sui medici non obiettori (da 145 interventi pro capite l’anno ai 69 nel 2013). Inoltre, il 70% delle strutture ospedaliere per la maternità italiane pratica l’aborto, un tasso ben superiore al numero di aborti per nascite complessive (il 20%). E ancora: ci sono 5 strutture che garantiscono aborti a fronte di 7 punti nascita. Ora anche l’Europa s’è detta convinta che in Italia l’obiezione non è un problema.

Giovanni Maria Del Re                     Avvenire         6 luglio 2016

www.avvenire.it/Vita/Pagine/obiezione-di-coscienza-italia-promossa-in-europa.aspx

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PARLAMENTO

            Camera 2° Comm. Giustizia. Indagine su attuazione delle disposizioni su adozioni ed affido.

4 luglio 2016. La II Commissione Giustizia, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozioni ed affido, ha svolto le audizioni di: Salvatore Di Palma, Presidente della I Sezione civile della Corte di Cassazione; Francesca Ceroni, Sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione; Alida Montaldi, Presidente della Sezione famiglia e minori della Corte d’appello di Roma; Simonetta Matone, Sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma; Patrizia Esposito, Presidente del Tribunale per i minorenni di Napoli; Melita Cavallo, già Presidente del Tribunale per i minorenni di Roma; rappresentanti dell’Associazione nazionale comuni italiani (ANCI); Carla Busato Barbaglio, Presidente del Centro di psicoanalisi romano; Enrico Quadri, Ordinario di istituzioni di diritto privato presso l’Università degli studi di Napoli Federico II e rappresentanti del Coordinamento famiglie adottanti in Bielorussia.

Commissione infanzia                        Audizione sui minori fuori famiglia

5 luglio 2016. La Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza ha svolto l’audizione di rappresentanti dell’Associazione genitori separati dai figli (GESEF), dell’Associazione di aderenti nazionali per la tutela dei minori (Adiantum) e dell’Associazione Penelope Italia Onlus, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia.

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PATERNITÀ

La paternità oltre il codice civile.

Negli articoli 316 e seguenti del codice civile, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, il soggetto cui si riferiva ogni disposizione relativa alla “patria potestà” era il padre. La legge 19 maggio 1975 n. 151 “Riforma del diritto di famiglia”, legge di attuazione del disegno costituzionale della famiglia, ha eliminato ogni distinzione tra padre e madre introducendo la “potestà dei genitori” ed altre novità normative.

            Fino al decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”, l’ultimo riferimento relativo al padre nel codice civile compariva nell’art. 316 coma 3, in cui si leggeva: “Se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili”. Disposizione – per quanto anacronistica e opinabile, perché retaggio della famiglia patriarcale cui era improntata la disciplina codicistica prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 – dava al padre un ruolo ed una differenziazione di ruolo, come può essere quello dello Stato, del paese d’origine, di un presidio.

La protezione è insita nella figura del padre perché tale è il significato etimologico, “colui che protegge, sostiene, mantiene la famiglia”. Da “padre” è stata ricavata la parola “paternità” al femminile come “maternità”, perché l’una si realizza con l’altra nella genitorialità. La paternità è una relazione non scontata o connaturale, come può sembrare la maternità. “Non riesco a considerare nessuna necessità nell’infanzia tanto forte come la necessità di protezione del padre” (citazione attribuita a Sigmund Freud che dava molta importanza al ruolo del padre).

            In seguito ai continui rimaneggiamenti legislativi sono stati eliminati tutti i riferimenti normativi alla figura paterna nel codice civile ed è rimasta solo la locuzione “diligenza del buon padre di famiglia” nell’art. 1176 cod. civ. relativo all’adempimento delle obbligazioni, rubricato “Diligenza nell’adempimento”, al cui primo comma si legge: “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”. Corresponsabilmente padri e madri abbiano la medesima diligenza affinché la figura paterna non sia ulteriormente esautorata o derubricata a livello familiare e sociale. Alla paternità non solo si addice l’art. 1176, ma anche l’art. 1177, “Obbligazione di custodire”: “L’obbligazione di consegnare una cosa determinata include quella di custodirla fino alla consegna”. Custodia (etimologicamente “coprire, difendere”) richiesta al padre in qualsiasi momento, ma ancor di più nei casi di separazione/divorzio. Applicabile pure l’art. 1178, “Obbligazione generica”: “Quando l’obbligazione ha per oggetto la prestazione di cose determinate soltanto nel genere, il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla media”. Disposizione che vale soprattutto nei casi in cui si pretende troppo dai padri per l’assegno di mantenimento.

            Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, afferma: “Sono convinta dell’importanza della figura materna a tutti i livelli d’età, ma qui si esagera. Che fine ha fatto il padre? Colui che per la psicologia dovrebbe traghettare il figlio verso il mondo esterno ed essere il depositario dei valori morali e sociali? Perché ha perso quell’autorevolezza che per secoli ha contraddistinto il suo rapporto con la prole? Non ho una spiegazione convincente al riguardo. Non posso fare altro che invitare i padri, soprattutto quelli con figli ancora bambini, a riflettere sull’importanza del loro ruolo, a non abdicarvi. Perché privarsi della gioia di percorrere un pezzo di strada insieme al proprio figlio?”.

Essere padre non deve significare solo avere un organo genitale capace di produrre liquido seminale atto al concepimento della vita (secondo i latinisti “sperma” ha la stessa radice etimologica di “speranza”), ma soprattutto avere un cuore atto al concetto di vita e all’adempimento della paternità che è un’obbligazione che lega per tutta la vita e che richiede diligenza (etimologicamente “capacità di scegliere, separare”), ovvero che si operi con amore, con cura sollecita e assidua. “Tenerezza” (da “malleabile, che si lascia stendere”) è propria della madre il cui grembo si stende per accogliere il nuovo essere. “Autorità” (da “autore”, “colui che spinge, promotore”) è propria del padre il cui spermatozoo si spinge in avanti per fecondare una nuova vita. I ruoli sono designati già dalla natura (etimologicamente “ruolo” era il “rotolo di carta” su cui si scriveva). In realtà “tenerezza”, facendo un’indagine latinistica dell’etimo, indica le qualità “consustanziali” (distinte, ma identiche nella sostanza affettiva e relazionale) dell’agire materno e paterno nei riguardi del lattante: il contenere e l’abbracciare della madre (verbo “teneo“, “tenere, tenere in sé”) e il custodire fermo del padre (aggettivo “tenax“, “che tiene saldamente”). A dimostrazione dell’unitarietà e univocità della genitorialità nell’incontro tra maternità e paternità.

            “Mio padre ha poggiato i suoi sogni sulle mie spalle facendomi studiare fotografia” (così Vittorio Storaro, direttore della fotografia). I genitori, ed in particolare i padri, non devono caricare di aspettative i figli né programmare la loro vita, ma trasmettere, alimentare, valorizzare sogni. Illuminante un dialogo tra un padre ed una figlia: “Qualcosa di strano o bellissimo? – No, papà! Perché me lo chiedi sempre? – Boh, forse perché desidero che ti accada qualcosa di strano o bellissimo!” (dal film Ondine). I figli non devono essere oggetti di desideri, ma soggetti dei desideri dei genitori. In particolare il padre, “colui che protegge, che sostiene, che nutre”, dovrebbe nutrire, sostenere lo spirito, i sogni, la serenità dei figli ed in special modo delle figlie. “Egli [il bambino] ha diritto alla spensieratezza, alla risata, al gioco, ed anche ad un avvenire professionale” (dalla Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance, Parigi, giugno 2007). In questo ha un ruolo fondamentale il padre, pilastro della famiglia, di cui la base è la madre ed insieme fanno “casa” (dall’origine osca di “famiglia”).

            “Papà? Papà, mi senti? Lo so, non vuoi che io alzi la voce. Non vuoi nemmeno sentirla, la mia voce. Una volta, ricordi, me lo dicesti perfino, che il mio tono ti infastidiva, che ti distraeva dai tuoi pensieri. Me la ricordo fin da quando ero piccola, questa sensazione. Le volte che eri a casa, e io dovevo smettere di giocare, di guardare la televisione, di ascoltare musica. Ricordo gli occhi della mamma, spalancati di terrore, una muta richiesta di comprensione, forse di aiuto. Stai zitta, mi supplicava. Zitta. E io tacevo, per lei e per me, per non sentire sulla pelle il bruciante dolore della tua cinghia, per non dover sperimentare la terribile combinazione della tua faccia priva di espressione, del tuo sguardo vuoto e della sofferenza delle ferite sulla schiena. Mi ascolti, papà? Mi senti?” (lo scrittore Maurizio De Giovanni). La violenza paterna è una delle peggiori, se non la peggiore, perché perpetrata da una delle persone più importanti della e nella vita di ognuno. Violenza in ogni forma: percosse, faccia priva di espressione, sguardo vuoto, mancato ascolto, mancate risposte anche ad un semplice buongiorno, mancanze e assenze. E risulta ancor più deleteria per le figlie, perché incide sulla formazione dell’identità sessuale e sulla futura relazione con l’altro sesso, soprattutto quando le figlie non possono nemmeno confrontarsi ed identificarsi con una figura materna positiva.

            “Papà, mi senti? Lo so che non mi risponderai. Non mi hai mai risposto. Non che ti abbia mai chiesto niente, d’altronde. E che avrei dovuto chiederti? Quali argomenti avevamo in comune? La casa, la mamma. Ma tu tornavi e ti mettevi in poltrona, lo sguardo nel vuoto, gli occhi senza niente dentro. Quegli occhi. Così simili ai miei, così spaventosamente diversi. Una finestra aperta sul nulla, sullo spazio senz’aria che c’è tra le stelle, senza la quiete di un raggio di luce. Il luogo del silenzio erano i tuoi occhi, papà. Un silenzio che infettava anche la mamma, che pure quando tu non c’eri rinasceva, come risvegliandosi in primavera dopo un lungo, inguaribile inverno. Non che fosse allegra; ma almeno il mento non le tremava di terrore come quando tu mi picchiavi, lo sguardo nel lavandino, le mani bianche per la stretta ad asciugare nervosamente un piatto già asciutto. Non parlavo di noi a scuola. Mi vergognavo dell’abissale differenza tra il mio mondo e quello delle compagne, che parlavano dei padri con tenerezza, con fastidio o con simpatia. Che ne ridevano, perfino. Io non avevo niente da ridere” (M. De Giovanni). Ci sono padri che, pur stando con i figli ed in particolare con le figlie, non riescono a contribuire alla loro crescita armonica, un po’ per incapacità un po’ per mala volontà. “I padri sono pesanti, anche e soprattutto quelli che non ci sono. Più sono assenti e più lasciano segni evidenti, a maggior ragione nelle figlie” (cit.). I padri non siano ladri d’amore, ma quadri di vita d’amore.

            “Senso del padre” e “insieme”: è quello che dovrebbe dare ogni padre ed è quello che dovrebbe poter dire ogni figlio a proposito del padre. È anche questo uno dei significati di “ricerca della paternità”, di cui all’art. 30 comma 4 della nostra Costituzione, che va ben oltre il test del DNA e il riconoscimento della paternità.

            “Un papà del cuore. Un papà vero. Perché essere papà vuol dire crescere accanto al proprio bambino. E amarlo” (lo psicoterapeuta Alberto Pellai): paternità è probità, quella maturità di vita e di amore che si manifesta, in particolare, in quell’assistenza morale che è stata aggiunta ai doveri verso i figli nell’art. 147 del codice civile (e nell’art. 315 bis).

Margherita Marzario           Newsletter giuridica studio Cataldi.it                      04 luglio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22653-la-paternita-oltre-il-codice-civile.asp

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SCIENZA&VITA

Alberto Gambino è il nuovo presidente

Il giurista Alberto Gambino è il nuovo presidente nazionale di Scienza & Vita, associazione impegnata nel campo della bioetica e per il diritto alla vita. Ordinario di diritto privato, prorettore dell’Università europea di Roma, Gambino è anche direttore della rivista “Diritto, mercato e tecnologia” e dal 2014 componente del Comitato etico dell’Istituto superiore della sanità. Succede alla filosofa Paola Ricci Sindoni, alla guida dell’associazione negli ultimi tre anni.

R. – Ho accolto questa nomina con grande gratitudine e anche con senso di responsabilità, perché è un’Associazione di grandissimo rilievo che, partendo da una impostazione scientifica molto rigorosa, ha l’obiettivo di appassionare e animare un dibattito nella cittadinanza su temi eticamente sensibili.

D. – Uno dei motti di Scienza & Vita è “Alleati per il futuro dell’uomo”. Quali sono le sfide di oggi per Scienza & Vita?

R. – Proprio nel Consiglio che mi ha eletto sono emersi due temi. Il primo riguarda i costi della sanità, che talvolta sono a detrimento della dignità della persona: sempre di più si tende – sotto una enfasi della autodeterminazione – a nascondere, invece, forme di abbandono terapeutico. L’altro è il tema della sperimentazione, della tecnologia legata al genoma, all’embrione, al materiale biologico. Ecco, questo segna davvero il futuro dell’umanità: la tracciabilità, ma anche l’utilizzo di parti del nostro corpo, implica un ridimensionamento anche della nostra libertà.

D. – Che ruolo si propone Scienza & Vita sia di dialogo con le istituzioni, sia di rapporto con la cittadinanza?

R.- Un dialogo di proposta: non vogliamo sottostare all’agenda politica dettata spesso da motivi contingenti o da casi singoli; vogliamo, invece, proporre, aprire dibattiti, col confronto con il mondo laico e il mondo cattolico, però nell’ottica della centralità della persona e con una fortissima base scientifica. Qui le competenze, più che mai, sono necessarie per trovare delle soluzioni equilibrate e rispettose della dignità.

D. – Anche un’attenzione all’economia integrale, con riferimento all’Enciclica Laudato si’. Qual è questo approccio scientifico ai temi dell’Enciclica?

R. – C’è un filo conduttore che tocca i temi della bioetica con i temi sociali. In realtà il mondo dell’economia, il mondo del profitto potremmo dire, quando sovrasta alcuni principi di parità tra gli esseri umani finisce con il discriminare. Ecco, questa discriminazione fa sì che poi a essere discriminati siano soprattutto le persone più fragili, più deboli della società. Questa cultura dello scarto che, oggi, anche sui temi della bioetica, sembra avanzare sempre di più.

D. – Tanti i suoi contributi accademici sulla famiglia, sul diritto alla vita e sui biodiritti in generale. Qual è l’apporto di questa sua esperienza, ora al servizio dell’associazione Scienza & Vita?

R. – Come tutti i giuristi, a me piace mettere in bella copia quelli che sono gli approfondimenti degli scienziati. E’ la prima volta che un giurista viene messo a capo di una Associazione importante come Scienza & Vita: il mio compito è ascoltare la base degli scienziati e in particolare i loro studi, per poi cercare – con quel poco di possibilità che ho – di renderle, queste posizioni, il più persuasive possibili, argomentandole anche in un’ottica magari di proposta legislativa.

D. – Prendendo le parole in prestito dalla politica, se vogliamo, nei primi cento giorni della sua presidenza quali sono le priorità?

R. – Intanto io, per motivi universitari, viaggio molto per l’Italia e quindi cercherò di andare a trovare le varie associazioni territoriali locali, che sono davvero la spina dorsale di Scienza & Vita. Con i presidenti delle realtà associative, ad ottobre, faremo un primo incontro a Roma in modo da definire bene anche il piano di azioni dei prossimi cento giorni.

D. – Tornando all’Italia, quali sono – secondo lei – i rischi maggiori?

R. – Ormai gli obiettivi non sono più soltanto legati ad un individualismo esasperato, ma sono legati spesso ad una contingenza del risparmio economico: talvolta vengono ammantate sotto l’ideale della libertà alcune scelte – anche dirompenti nei confronti della vita, dell’abbandono, dell’eutanasia, della vita nascente – ma in realtà siamo più banalmente legati a problemi di bilancio. Questo è davvero insidioso e va subito messo in chiaro, anche perché su questo tema troveremo molti più consensi anche da parte laica, rispettosa davvero delle prerogative delle persone più deboli.

Michele Raviart   Notiziario Radio vaticana -10 luglio 2016   http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

 

Quaderno n- 16          Per una ecologia integrale. Laudato si’ un anno dopo.

Ad un anno dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015), l’Associazione Scienza & Vita ha dedicato un Quaderno di approfondimento e di riflessione ai molteplici temi di questo messaggio di Papa Bergoglio. L’importanza storica dell’enciclica è stata sottolineata da più parti, e non pochi hanno colto nella data della pubblicazione la volontà del Papa di consegnare un contributo diretto alla Conferenza sui cambiamenti climatici, tenutasi a Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre 2015.

Scienza & Vita, coerentemente ai suoi scopi statutari, anche con questo Quaderno intende rispondere e promuovere l’appello di Papa Francesco: “Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare […] diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane”

Questo numero, con la preghiera per il creato di Papa Francesco e i contributi di: Paola Ricci Sindoni, Emanuela Lulli e Paolo Marchionni, Giacomo Samek Lodovici, Daniela Notarfonso, Chiara Mantovani, Paola Binetti, Leonardo Becchetti, card. Angelo Scola, Gianfranco Cattai, Gianfranco Bologna. Andrea Stocchiero, mons. Filippo Santoro, Pier Giorgio Liverani, Le Associazioni Continentali delle Conferenze Episcopali Nazionali.

testo allegato                   www.scienzaevita.org/per-una-ecologia-integrale-laudato-si-un-anno-dopo

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TRIBUNALI PER I MINORENNI

Si alla soppressione del tribunale per i minorenni!

Basta con una giustizia affidata a psicologi e assistenti sociali!

L’AIAF, Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i Minori, che rappresenta duemila avvocati italiani, interviene nel dibattito che si è acceso in seguito all’approvazione da parte della Camera del disegno di legge delega sulla riforma del processo civile. Il disegno di legge, con l’obiettivo di accorpare le competenze e di tutelare i diritti soggettivi dei minori, prevede l’abolizione del tribunale per i minorenni.

            Da anni gli avvocati di famiglia e dei minori chiedono che i governanti abbiano il coraggio di mettere mano a un sistema di giustizia minorile che sempre più spesso espone il nostro Paese a gravi condanne da parte delle Corti Europee, come nel 2013, nel caso Lombardo v. Italia. Non si contano più le pronunce della Corte Europea dei Diritti Umani che ravvisano la lesione del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare di bambini e adolescenti vittime di un sistema di giustizia civile affidato a psicologi e assistenti sociali.

            Un tribunale che impiega anni ad assumere una decisione sul futuro dei soggetti che dovrebbe tutelare non può rispondere alle istanze di un paese civile, e deve essere abolito. I nostri figli meritano di vedere i loro diritti tutelati da “giudici veri”, che siano vicini sul territorio al cittadino, nell’ambito di un processo giusto e dai tempi celeri.

            Il disegno di legge approvato dalla Camera prevede il trasferimento dei compiti e delle funzioni del tribunale per i minorenni a sezioni specializzate del tribunale ordinario. Chi avversa questa decisione afferma, distorcendo la realtà, che si perderebbero le competenze e la dedizione proprie dei giudici minorili. E’ vero il contrario: le competenze vanno a giudici ordinari, ma specializzati, mettendo fuori dalla porta l’attuale pletora di magistrati onorari, perché tali sono oggi psicologi e assistenti sociali. Andreste a chiedere una ricetta medica o una diagnosi a un infermiere o a un guaritore? Lo stesso deve valere per la giustizia minorile.

            Il disegno di legge approvato dalla Camera va nella giusta direzione e ha il sostegno dell’AIAF. Noi auspichiamo tuttavia che il disegno di legge venga perfezionato, evitando residui di separata giurisdizione, che porterebbero a intralci, ritardi, conflitti di attribuzione. In definitiva a un cattivo servizio al cittadino.

            Comunicato stampa               4 luglio 2016

www.aiaf-avvocati.it/si-alla-soppressione-del-tribunale-per-i-minorenni-basta-con-una-giustizia-affidata-a-psicologi-e-assistenti-sociali

 

Giù le mani dai tribunali per i minorenni. Ddl di riforma da rivedere.

            No all’abolizione dei tribunali per i minorenni. Serve un tavolo di confronto tra il ministero della giustizia e gli operatori del settore per rivedere, tramite emendamenti, la parte contenuta nel disegno di legge Orlando che riguarda la giustizia minorile. O, qualora i tempi non lo permettessero, è necessario stralciare direttamente l’articolato. È quanto emerso nei giorni scorsi nel corso del convegno organizzato dall’Unione nazionale delle camere minorili che si è tenuto presso il Senato, dal titolo «La giustizia minorile e di famiglia.

Quale riforma?». Al dibattito hanno partecipato diversi esponenti del mondo minorile, parlamentari di maggioranza e opposizione e il sottosegretario alla giustizia, Federica Chiavaroli. «Tutti i partecipanti hanno manifestato viva preoccupazione per questo provvedimento», ha spiegato Rita Perchiazzi, presidente Uncm, «che contiene soluzioni che impoverirebbero di molto la tutela minorile con la mancata previsione di un analogo organismo dedicato alla giustizia dei minori. Siamo disponibili ad avviare un confronto costruttivo con il ministero per trovare soluzioni, senza alzare barricate. Spero che questa comunanza di vedute», ha sottolineato la Perchiazzi, «possa convincere il ministro della necessità di ripensare la materia, se non addirittura di stralciare la parte che riguarda la giustizia minorile dal Ddl, per dedicarvi un maggiore approfondimento. Peraltro, ci sono altri disegni di legge già presentati che prevedono una diversa impostazione assicurando continuità ai tribunali per le famiglie. Il nodo cruciale, in ogni caso, è la necessità di garantire la giustizia ai minori». Riguardo alla possibile apertura di un tavolo di confronto, invece, gli operatori attendono il via libera da parte del ministero. «Il provvedimento», ha spiegato la presidente Uncm, «dovrebbe essere calendarizzato non prima di settembre, ci ha assicurato via Arenula, per cui l’eventuale stralcio o modifica del Ddl dipende esclusivamente dai tempi e dall’eventuale carattere di urgenza della riforma della giustizia. Tra i punti critici vi è sicuramente il mantenimento del doppio binario e lo smantellamento del presidio di giustizia rappresentato dalla procura minorile. In questo modo, anziché tagliare i costi, si verificherà un aumento in termini di costi sociali». Al convegno è intervenuto anche il Cnca Lombardia, che con una petizione lanciata due mesi fa, che ha raccolto a oggi 18 mila firme, ha chiesto di fermare l’abolizione dei tribunali dei minori. «Chiediamo che la commissione giustizia non proceda alla discussione prima di aver convocato il tavolo di confronto promesso», ha dichiarato Liviana Marelli del Cnca, «questo tavolo dovrà rispettare la pluralità di voci, magistrati, avvocati, società civile, organizzazioni e coordinamenti nazionali e ordini professionali. Infine, abbiamo chiesto che la commissione assuma l’orizzonte finale di costituzione di un unico, autonomo e specializzato organo giurisdizionale». 

Gabriele Ventura                  Italia oggi                   8 luglio 2016

www.oua.it/minori-giu-le-mani-dai-tribunali-per-i-minorenni-ddl-di-riforma-da-rivedere-italia-oggi

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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI

La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.

XXIV CONGRESSO NAZIONALE U.C.I.P.E.M.

Oristano, 2-4 Settembre 2016 Hotel Mistral, via XX settembre 84

Molte sono le scienze umane che hanno voce in capitolo riguardo alla famiglia. La medicina, il diritto, la giurisprudenza, la psicologia, la sociologia ci evidenziano in un crescendo sempre più pressante ogni forma di genesi, evoluzione, cambiamento che avvengono in seno ad essa.

            In una società in accelerato progresso, sia dal punto di vista scientifico che tecnologico, crediamo di conoscere tutto, o quasi tutto, attraverso l’informazione che ci arriva dai media. Di fatto siamo più “informati” e indirizzati dalla “cronaca”, che assiduamente, in forme diverse ci bersaglia, che non messi in grado di conoscere, scegliere, discernere. Tutto quello che succede o che facciamo succedere ci riguarda molto da vicino, intimamente, come persone e società.

            La famiglia è il crocevia dove tutto converge: la famiglia è costretta a elaborare velocemente, incalzata dal ritmo frenetico e assordante della comunicazione multimediale che appartiene, in modo diversificato, alle diverse generazioni che sono dentro la famiglia oggi.

            Il dialogo generazionale dovrebbe tradursi in una dinamica comunicativa e progettuale che incarni tradizione, storia e attenzione al nuovo e al diverso.

            Anche la crisi economica e le crisi della famiglia, pur nelle loro dolorose implicazioni, possono costituire un’occasione di riflessione, di confronto, di aderenza alla realtà.

            Gli operatori dei Consultori familiari ne sono consapevoli e vivono ogni giorno, con le persone e le famiglie, la realtà delle diversità: di generazione, di sesso, di razza, di religione, di pensiero politico, di orientamento sessuale.

            Il Congresso vuole offrire, attraverso l’esperienza e la passione degli operatori, un momento di sosta, di riposo (nello splendido contesto del Golfo di Oristano) e di lavoro, per restituire alla diversità e al cambiamento una connotazione positiva di valore e opportunità.

 

Venerdì 2 settembre ore 17.00

Apertura del Congresso: Saluti delle autorità

Francesco Lanatà – Presidente U.C.I.P.E.M. “La famiglia crocevia di differenze e opportunità”

Giuseppe Anzani “La famiglia che cambia in una società che cambia”

Ore 21.00       assemblea consultori familiari soci dell’ U.C.I.P.E.M.

Sabato 3 settembre ore 9.00

Beppe Sivelli   “Cercarsi, perdersi, ritrovarsi: il cammino della coppia fra lontananza e vicinanza”

Emidio Tribulato “Figli in difficoltà: tra legami familiari fragili e pressione sociale e mediatica”

Ore 10.15 Tavola rotonda condotta e coordinata da Luca Proli

  • Alice Calori “Le nuove famiglie immigrate: tra identità e integrazione”
  • Rosalisa Sartorel “Il Diritto di famiglia oggi: dalla potestà alla responsabilità genitoriale, dall’affido congiunto nelle separazioni all’accesso alle origini nelle adozioni”
  • Domenico Simeone “Educare alla generatività le coppie e le famiglie”

Ore 13.00 Partenza per Cabras, Tarros e Museo dei Giganti

Ore 21.30 Concerto corale folcloristico in hotel offerto dal Consultorio di Oristano

                        Domenica 4 settembre ore 9.00

Alfredo Feretti “Amoris Laetitia: una road map per le relazioni familiari”

Ore 9.45 Lavori di gruppo presentati e coordinati da Mariagrazia Antonioli

“La domanda delle famiglie e la risposta del Consultorio”

Conduttori dei gruppi: Costantino Usai, Giancarlo Odini, Stefania Sinigaglia, Francesca Frangipane, Raffaella Moioli, Chiara Camber, Cristiano Marcucci.

Ore 11.45 Conclusioni dei lavori di gruppo: Mariagrazia Antonioli e Luca Proli.

Ore 12.00 Conclusioni e chiusura Congresso Francesco Lanatà – Presidente U.C.I.P.E.M.

 

Scheda di iscrizione, note organizzative, informazioni, pieghevole, prenotazioni, ospitalità in

www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=399:congresso-ucipem-di-oristano-bozza-del-programma&catid=61&Itemid=203

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UNIONI CIVILI

Manca il decreto ponte.

            Le unioni civili aspettano ancora il decreto ponte, che dovrebbe spiegare procedure e tenuta dei registri. E scoppia la polemica sul ritardo del ministro Angelino Alfano, reo di non avere adottato le misure attuative per consentire la celebrazione delle unioni omosessuali. Vediamo di che si tratta.

La legge Cirinnà (n. 76/2016), all’articolo 1, comma 34, ha affidato a un decreto del presidente del consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’interno, da emanare entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge (cioè entro ieri), il compito di stabilire le disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile. Questo nelle more dell’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti per adeguare le disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni (comma 28, lettera a).

Nell’attesa del decreto ponte, il rischio è di una situazione caotica nei comuni a fronte di richieste di procedere subito all’unione civile, con l’eventualità che gli atti possano essere non considerati validi ed efficaci.

Antonio Ciccia Messina         Italia Oggi      6 luglio 2016

www.oua.it/unioni-civili-unioni-civili-manca-il-decreto-ponte-italia-oggi

 

                        I patrimoni al test delle «nuove famiglie».

            La legge Cirinnà, entrata in vigore il 5 giugno scorso, impone un ripensamento del concetto di famiglia tradizionale, con implicazioni giuridiche e sociologiche che alimenteranno a lungo il dibattito civile. Intanto, in attesa che le norme attuative rendano del tutto operative le nuove disposizioni di legge, conviene ragionare su alcuni aspetti patrimoniali, non di rado trascurati dagli analisti: quali ripercussioni ci saranno su materie quali fisco e successioni? Vale la pena ricordare che il provvedimento si snoda su due nuclei principali: nella prima parte, istituisce le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Nella seconda, disciplina in modo organico le convivenze di fatto, introducendo una nuova fattispecie, il cosiddetto «contratto di convivenza», attraverso cui le coppie di fatto potranno, facoltativamente, regolare in modo dettagliato i propri rapporti patrimoniali.

v  In riferimento alle unioni civili, è da rilevare una distinzione prettamente formale rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio. «Nella sostanza, l’effetto che il provvedimento realizza è una pressoché totale equiparazione delle parti di un’Unione civile ai coniugi, relativamente a obblighi, diritti e doveri — spiega Leo De Rosa, dello studio Russo De Rosa Associati —. Viene espressamente richiamata una serie di disposizioni dettate in tema di matrimonio: in particolare, i doveri di assistenza morale, materiale e coabitazione; la disciplina in materia di regime patrimoniale (separazione o comunione dei beni ndr), prestazioni previdenziali, obblighi alimentari, diritti successori, impresa familiare, ordini di protezione, tutela e amministrazione di sostegno, cause impeditive e procedure di scioglimento. L’unica importante e sofferta eccezione a questa impronta generale è relativa alla legge sull’adozione, che resta, salvo le ipotesi di adozione in casi speciali, appannaggio esclusivo di coppie unite in matrimonio». Secondo De Rosa, il principio generale di equiparazione dovrà estendersi necessariamente anche ai temi di fiscalità delle successioni, rendendo applicabili ai protagonisti delle unioni civili aliquote, franchigie, esenzioni, detrazioni, e così via.

v  Diverso il trattamento previsto per le convivenze di fatto, ovvero, secondo la definizione della legge Cirinnà, la relazione instaurata tra «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile». Attraverso il contratto di convivenza, si possono regolare in modo dettagliato, ad esempio, le modalità di partecipazione alle spese comuni, la definizione dei reciproci rapporti patrimoniali in caso di cessazione della convivenza; si può scegliere anche il regime della comunione dei beni. La Cirinnà riconosce ai conviventi i diritti e doveri reciproci in tema di sanità (diritto di visita, assistenza e così via) e impresa familiare, oltre ai diritti in materia di abitazione e corresponsione degli alimenti: «in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, infatti, è garantito al convivente superstite il diritto di abitare nella stessa casa per due anni, o per un periodo pari alla convivenza, se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni, salvo che nella stessa casa abitino anche figli minori o disabili; nel qual caso — precisa De Rosa — il diritto di abitazione è riconosciuto per un periodo non inferiore ai tre anni». In caso di cessazione della convivenza, il convivente che versi in stato di bisogno, e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, ha il diritto di ricevere gli alimenti, per un periodo proporzionale alla durata della convivenza, nella misura che sarà stabilità da un giudice.

Dal punto di vista dei diritti successori, cosa cambia per i conviventi? «La legge non si spinge sino a questo punto — aggiunge De Rosa —. Fatta eccezione per il diritto di continuare ad abitare nella casa comune per un periodo limitato, al convivente superstite non sono riconosciuti altri diritti. Questo significa che, per tutelare il partner, bisognerà fare ricorso ad altri strumenti offerti dall’ordinamento, come ad esempio, la redazione di un testamento, l’istituzione di un trust, oppure ancora la stipula di una polizza assicurativa a beneficio del proprio compagno o compagna. Anche sotto il profilo fiscale sarei prudente — suggerisce De Rosa —. Non credo che le modifiche introdotte con i regolamenti attuativi consentano di applicare al convivente il trattamento tributario riservato al coniuge».

Pieremilio Gadda       Corriere Economia    5 luglio 2016

www.oua.it/unioni-civili-i-patrimoni-al-test-delle-nuove-famiglie-corriere-economia

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VIOLENZA

Donne che odiano gli uomini: quando la vittima è lui.

Oltre quattro milioni di abusi in Italia, gli allarmanti dati della violenza sugli uomini di cui si sa e si parla poco. La violenza sulle donne rappresenta un tema il cui dibattito è costantemente alimentato dai numerosi e spiacevoli episodi di cronaca. Eppure non altrettanto si discute circa il dramma inverso: sul lato oscuro della luna giace la violenza sugli uomini per mano femminile, che si concretizza spesso in veri e propri abusi e molestie.

            Già nel 2012 uno studio (qui sotto allegato) pubblicato in Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza aveva stimato in circa sei milioni gli uomini vittime di violenza, di cui oltre 3,8 milioni per violenza sessuale e 2,5 milioni per atti persecutori. Numeri allarmanti che, nel 2015, continuano a destare scalpore poiché sono sempre più numerose le telefonate ai centri anti violenza per denunciare casi di stalking o reati sessuali, soprattutto tra i giovani.

            L’indagine svolta dall’Adnkronos ha, infatti, stimato che nel 2014 gli abusi hanno riguardato il 39% dei ragazzi rispetto al 35% della controparte femminile in Italia. Un’analisi che si associa all’unico studio, sopra menzionato, realizzato da Pasquale Giuseppe Macrì, docente dell’Università di Arezzo, che parla di un fenomeno “sommerso e sottovalutato”. Molti uomini hanno dichiarato di essere stati sia minacciati che oggetto di violenza fisica da parte di una donna, di violenza sessuale e anche psicologica ed economica, nonché di stalking, con numeri talvolta sorprendenti.

            Per l’esperto, gli uomini abusati rappresenterebbero il 18,7% della popolazione maschile italiana totale tra i 18 e i 70 anni, praticamente due maschi su dieci nel nostro Paese. Tuttavia, sono pochi coloro che denunciano le molestie e gli abusi subiti. Il problema fondamentale riguarda sicuramente un diffuso blocco culturale a concepire l’uomo come vittima, un pregiudizio diffuso che impedisce di denunciare gli abusi: il maschio oggetto di aggressioni, fisiche e psicologiche, nonché di vessazioni e stalking da parte di mogli, compagne, amiche ecc. è già restio solo a parlarne, temendo che questa situazione possa minare la sua mascolinità.

            Come ha spiegato Gaia Mignone, sociologa con specializzazione in criminologia, che opera nel centro anti-violenza Ankyra, sono gli stereotipi di genere il primo avversario da affrontare: “Riceviamo tra le 80 e le 100 telefonate l’anno da tutta Italia – racconta all’AdnKronos – in genere si tratta di uomini vittime di violenza domestica e stalking”. La parte più difficile è ammettere di subire abusi da parte di una donna, poiché questo genera vergogna e “per un uomo è squalificante secondo la mentalità comune che c’è oggi, e così fanno fatica a denunciare. L’atto di sedersi in Questura di fronte a un carabiniere o a un poliziotto è complesso specialmente quando si parla di violenza sessuale”, conclude la dott.ssa Mignone.

            Altro grave impedimento alla libertà di denunciare a cuor leggero. è sicuramente rappresentato dalla carenza di strutture all’uopo predisposte: in Italia sono soltanto due a occuparsi principalmente della materia e delle violenze domestiche subite dagli uomini, ossia il centro Ankyra di Milano e il Ceav di Vicenza.

            Le violenze più spesso segnalate sono molteplici e coinvolgono sia le molestie psicologiche, umiliazioni, piccole e grandi crudeltà, ricatti a cui si aggiungono, le strumentalizzazioni dei figli usati spesso come “arma”. Non mancano anche i casi di violenza fisica come percosse, calci, morsi, raffi, schiaffi e capelli strappati che l’uomo è costretto a subire senza reagire, per timore di provocare più male di quanto ne stia subendo, e di cadere nella facile trappola della denuncia. Secondo i dati della Questura di Milano ammontano a 1498 i maltrattamenti in famiglia subiti per mano femminile nel 2013, mentre sono state 975 le denunce per stalking avanzate dagli uomini nei confronti di donne. Tra i comportamenti più frequenti le telefonate, l’invio di mail e sms incessanti, la ricerca insistente di colloqui e il danneggiamento di beni.

            Come conclude la ricerca condotta dal professor Macrì, “Esplicito dovere di una società civile dovrebbe essere prevenire e condannare la violenza a 360°, a prescindere dal genere di autori e vittime”.

allegato                    Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile

Lucia Izzo      news. Studio Cataldi.it                      07 Luglio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22667-donne-che-odiano-gli-uomini-quando-la-vittima-e-lui.asp

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