newsUCIPEM n. 604 – 3 luglio 2016

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ADOZIONE                                                           Figlia da restituire ai genitori-nonni.

Nipote alla nonna convivente.

ADOZIONE INTERNAZIONALE                   La Cai finalmente risponde alle coppie ancora in attesa dei rimborsi

Il 30% di chi ottiene l’idoneità sceglie di non adottare.

ADOZIONI INTERNAZIONALI                     Colombia. Nel 2015 i bambini abbandonati in aumento del 101%.

AFFIDO ESCLUSIVO                                        Figli alla madre se il padre se ne disinteressa.

AMORIS LAETITIA                                           Sulla novità di Amoris laetitia.

CASA CONIUGALE                                          Assegnazione: chi paga le spese di condominio.

CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF                                 Newsletter n. 12/2016, 29 giugno 2016.

CHIESA CATTOLICA                           Il matrimonio e i veri valori europei.

La tradizione cattolica e il “nichilismo canonico”.

CONSULTORI FAMILIARI                              Roma. Consultorio diocesano al Quadraro.

DALLA NAVATA                                              14° Domenica del tempo ordinario – anno C -3 luglio 2016.

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

DIACONIA                                                         Le diaconesse? È più urgente cambiare la struttura piramidale.

DIVORZIO                                                          Divorzio breve, condizioni «stabili».

DONNE                                                                               “Le donne di Galilea” e “Maria di Magdala”.

EMBRIONE                                                        Il suo statuto nel diritto costituzionale dopo la Sentenza n.84/2016

FAMIGLIA                                                          La famiglia è la medicina contro l’individualismo della società.

Sostenere la famiglia? Fa bene anche al territorio.

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA             È la famiglia che soffre di più per la mancanza del lavoro.

NULLITÀ MATRIMONIALI                            Voglio chiedere la nullità matrimoniale, cosa devo fare?

OMOADOZIONE                                             Stepchild adoption, approfondimento necessario.

OMOFILIA                                                         “I vescovi attuino l’Amoris Laetitia”. L’appello dei cristiani LGBT.

PARLAMENTO Senato 2° C. Giustizia.    Disposizioni sul cognome dei figli.

Camera                     Assemblea    Orientamenti del Governo su cosiddetta stepchild adoption.

SEGRETO PROFESSIONALE                          Sulla tutela del segreto, tra l’obbligo di denuncia e di referto.

SOSTEGNO A DISTANZA                              Presentate le nuove linee guida per un sostegno a distanza.

UCIPEM                                                              Congresso: La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.

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ADOZIONE

Figlia da restituire ai genitori-nonni.

Corte di cassazione – prima Sezione civile – Sentenza n. 13435, 30 giugno 2016.

La legge non prevede limiti di età per «chi intende generare un figlio»: per questa ragione la Cassazione ha dato ragione al ricorso straordinario di una coppia di coniugi ai quali la figlia era stata tolta a poche settimane della nascita per abbandono di minore. Alla base dell’accusa, culminata in un processo penale, l’aver lasciato la bambina da sola in macchina. Nel processo si era però chiarito che la bimba non aveva corso alcun pericolo perché la strada, di paese, era illuminata e chiusa al transito. I giudici di merito avevano però insistito in maniera sospetta sull’età della coppia: la mamma aveva concepito la figlia a 57 anni, quando il marito ne aveva 69. Per la Suprema corte, in assenza d’altro, non basta per spezzare i legami familiari.

 

Nipote alla nonna convivente.

Corte di cassazione – prima Sezione civile – Sentenza n. 13431, 30 giugno 2016.

Nel rispetto dell’interesse del minore a restare in ambito familiare il giudice non può ignorare la richiesta di adozione della nonna. La Cassazione accoglie il ricorso di una nonna la cui nipotina era stata messa in stato di adottabilità a causa dei problemi psichici della madre naturale. In attesa di un recupero della figlia, la donna aveva chiesto l’affidamento della piccola, facendo presente che poteva contare sull’aiuto del suo compagno con il quale aveva un legame da 19 anni e che aveva una nipotina della stessa età della sua. Per la Cassazione basta.

Organismo Unitario Avvocatura 1 luglio 2016

www.oua.it/cassazione-cassazione-in-breve-il-sole-24-ore-25

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

Con la neopresidente Boschi, la Cai finalmente risponde alle coppie ancora in attesa dei rimborsi

Sembra davvero essere cambiato il vento dalle parti di Villa Ruffo, sede della Commissione Adozioni Internazionali. Per ora si tratta solo di una leggera brezza, ma le premesse sono incoraggianti. La Cai ha infatti iniziato a fornire le prime risposte a una delle annose questioni che hanno caratterizzato gli ultimi anni in materia di adozioni internazionali nel nostro Paese: i rimborsi alle famiglie adottive. Dopo l’ennesimo tentativo di mettersi in contatto con la Commissione, quasi tutti rivelatisi vani da aprile 2014, le coppie che hanno adottato negli anni scorsi e che sono ancora in attesa dei rimborsi hanno finalmente iniziato a ricevere qualche informazione. Nessuna novità concreta, per il momento, ma pur sempre un segno di vita, un’indicazione, da parte di un’Autorità Centrale che, nel periodo della presidenza di Silvia Della Monica, ha fatto della mancanza di dialogo con le famiglie una delle sue “strategie” principali.

            Il cambio al vertice della Cai, annunciato il 10 maggio e divenuto operativo il 21 giugno 2016, che ha portato il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi ad assumere la presidenza della Commissione sembra aver rappresentato la tanto attesa svolta positiva. Anche per le coppie che da anni attendono i rimborsi spettanti delle spese sostenute durante l’iter adottivo.

            “Il ministro Boschi ha assunto la presidenza della Cai solamente giovedì scorso e si sta attivando con la vicepresidente Della Monica alla verifica delle situazioni ancora appese in merito ai rimborsi relativi in particolare agli anni 2010-2011”. Questo il testo dell’e-mail ricevuta da alcune coppie che, nei giorni successivi alla presa in carico della presidenza della Cai da parte del ministro Boschi, avevano riprovato a contattare la Commissione per avere informazioni sui rimborsi tanto attesi.

            La stessa Boschi, del resto, l’8 giugno, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, aveva fatto chiarezza sulle risorse disponibili per rimborsare le famiglie adottive. Sbugiardando di fatto Della Monica che, in precedenza, aveva sostenuto che non ci fossero soldi disponibili. Boschi invece disse che questi soldi ci sarebbero e ammonterebbero a 20 milioni di euro, di cui 7,5 “derivanti da riporti relativi alle annualità precedenti” e 12,5 previsti dal Fondo per le adozioni internazionali.

            Stando a quanto saputo dalle coppie in attesa dei rimborsi, quindi, attualmente gli uffici della Cai starebbero terminando la verifica sulla congruità delle risorse disponibili con quelle necessarie a soddisfare le istante pervenute per il rimborso delle spese relative al 2011.

            Un primo segno di ripresa di dialogo tra Commissione e famiglie che si spera possa tornare a essere la strategia vincente per ridare fiducia alle coppie e accompagnare l’adozione internazionale fuori dalla crisi provocata soprattutto da una Cai paralizzata per oltre 2 anni.

            Una delle coppie interessate ai rimborsi ha riportato gli aggiornamenti ricevuti nel Forum del sito di Amici dei Bambini, dove è disponibile il testo integrale della risposta, con l’intenzione di condividere la notizia con tutte le altre famiglie che si trovano nella stessa situazione. Ancora una volta, quindi, il Forum di Ai.Bi. si conferma una “piazza virtuale” in cui scambiare e trovare informazioni anche di primaria importanze per le coppie che vogliono intraprendere o stanno già vivendo un percorso di accoglienza.

Ai. Bi.  1 luglio 2016              www.aibi.it/ita/category/archivio-news

 

Audizioni alla Camera. Zevola (Tribunale di Milano): “Il 30% di chi ottiene l’idoneità all’adozione internazionale sceglie di non adottare”

“La legge italiana sulle adozioni così com’è funziona, va semmai aggiornata in alcuni punti, ma deve rimanere fondata sul superiore interesse del minore, che non consente alcun calcolo sulla sorte dei bambini”. È sostanzialmente una promozione quella che il presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano Mario Zevola esprime a proposito della legge 184/1983. Intervenendo in commissione Giustizia della Camera mercoledì 29 giugno 20126, nel corso delle audizioni avviate in vista di una riforma della normativa sull’adozione e l’affido, Zevola traccia un quadro a 360 gradi del panorama adottivo del nostro Paese, con particolare riferimento a quanto avviene nel suo distretto di competenza.

Mentre le adozioni, soprattutto quelle internazionali, sono in “forte calo” – ha sottolineato il presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano -, il rapporto tra coppie disponibili all’accoglienza e iter adottivi effettivamente avviati resta sbilanciato. “Negli ultimi 5 anni – ha detto Zevola – a Milano ci siamo occupati mediamente di 110 procedimenti adottivi all’anno, a fronte di circa 900 disponibilità offerte dalle coppie. È evidente che oggi non sia sufficiente sentirsi disponibili a dare una famiglia a un bambino orfano o abbandonato solo sulla scorta del trasporto dovuto al non aver avuto figli propri”. Ecco perché una riforma della legge deve tenere conto della consapevolezza, necessaria per ogni coppia, della diversità tra l’accoglienza adottiva e la filiazione biologica.

Da qui alcune proposte di Zevola per il miglioramento della legge vigente. Tra queste, l’inserimento dell’obbligo per gli aspiranti genitori di frequentare corsi formativi e informativi ancora prima di presentare la domanda di adozione. [come avviene di fatto da anni in Piemonte ndr]Quest’ultima, per il presidente del Tribunale milanese, dovrebbe essere facilitata attraverso la piena informatizzazione della procedura. Tra le altre necessità individuate da Zevola nella realtà attuale delle adozioni in Italia, quelle di riservare maggiore attenzione alla fase di post-adozione, di evitare che il bambino “subisca” i tempi lunghi delle procedure e di prevedere la nomina di un avvocato per il minore da parte dello Stato. Nessuna urgenza, invece, di un allargamento della possibilità di adottare anche “a singoli e coppie conviventi”.

A fronte di un sistema che sostanzialmente funziona, Zevola mette comunque il luce dei problemi nell’odierna realtà delle adozioni. Innanzitutto il calo di quelle internazionali, con il crollo dai 4.130 minori stranieri accolti nel 2011 ai soli 2.211 di cui parlano i dati recentemente forniti dalla Commissione Adozioni Internazionali. Una caduta repentina dovuta a una serie di elementi che evidentemente tendono a scoraggiare le coppie. Basti pensa che, “il 30% di coloro che ottengono l’idoneità, dopo lunghi e delicati accertamenti, poi non la utilizza”. Rilevante anche il dato delle coppie che, dopo essersi vista negata l’idoneità, ricorrono in appello: sono il 30% di quelle a cui il Tribunale dice di no. E di queste, il 70% vede accolto il proprio ricorso.

Ai. Bi.  30 giugno 2016                      www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

            Colombia. Nel 2015 i bambini abbandonati sono aumentati del 101%.

L’ICBF invita le coppie straniere a farsi carico del loro destino. I bambini della Colombia chiamano le famiglie di tutto il mondo. Sono sempre di più infatti i piccoli colombiani abbandonati e molti di loro hanno problemi di salute o dei fratelli dai quali non vogliono separarsi. E se per ogni bambino abbandonato ogni giorno che passa riduce le speranze di trovare una nuova famiglia, per quelli con caratteristiche e bisogni speciali questo tempo sembra scorrere ancora più velocemente. Non a caso, infatti, l’Icbf (Instituto Colombiano de Bienestar Familiar), l’istituzione pubblica colombiana che lavora per la protezione di minori e famiglie e si occupa di adozioni, ha deciso di promuovere proprio l’accoglienza di questi ultimi.

            In accordo con gli enti autorizzati stranieri che seguono gli iter delle adozioni internazionali, l’Autorità Centrale di Bogotà sta attualmente lavorando a un programma di adozione che favorisca l’accoglienza di minori con bisogni e caratteristiche particolari: le fratrie composte da 3 o più membri, quelle con componenti di età superiore ai 10 anni, i minori con disabilità fisica o mentale e quelli affetti da patologie che richiedono terapie specialistiche. Le famiglie che da sempre si dimostrano più aperte all’accoglienza di questi bambini ono quelle straniere. Da qui la decisione dell’Icbf di incoraggiare ulteriormente l’adozione internazionale dei piccoli colombiani da parte di coppie provenienti da altri Paesi.

            La Colombia, del resto, rimane uno dei principali Paesi di origine dei minori adottati nel mondo. Lo dimostrano i 509 piccoli adottati nel 2015, secondo le statistiche ufficiali. Senza dimenticare le 1.882 coppie straniere che, il 31 marzo 2016, risultavano ancora nella lista d’attesa dell’Icbf, insieme alle 274 coppie colombiane.

            I bambini in cerca di una nuova famiglia, del resto, in Colombia sono sempre di più. Basti citare, per esempio, il dato drammatico diffuso all’inizio del 2016 dalla direttrice della sezione “protezione” dell’Icbf Ana Maria Fergusson che denunciò un aumento del 101% dei bambini abbandonati nell’arco di un anno nella sola capitale Bogotà: passati dai 148 del 2014 ai 298 del 2015.

            Per molti di loro, l’ostacolo principale tra il ritrovamento per strada e l’accoglienza in una nuova famiglia è il tempo. Nonostante secondo la legge l’adottabilità di un minore debba essere dichiarata entro 4 o al massimo 6 mesi spesso un bambino si trova a dover aspettare anni per risultare finalmente adottabile. Tra i casi più recenti c’è quello di Maria, Joseph e John. I primi due, nel 2010, avevano rispettivamente 2 e 5 anni e furono ritrovati dai funzionari dell’Icbf in mezzo alla strada, dove vivevano tra violenze e abusi. Nel 2012 fu salvato anche il terzo fratello, che viveva nelle medesime condizioni e all’epoca aveva un anno. Per ottenere l’adottabilità, però, i 3 fratelli hanno dovuto attendere 4 anni perché durante questo periodo per ben 4 volte è stato tentato il reinserimento familiare. Solo nel 2016, poi, Maria e John sono stati effettivamente adottati, mentre per il terzo, affetto da ritardo mentale, la sorte non è stata ancora propizia. È con questi problemi che l’Icbf si confronta ogni giorno ed è per trovare una famiglia a tanti bambini che ne sono rimasti privi per troppo tempo che la Colombia vuole incoraggiare le adozioni dei piccoli con bisogni speciali.

            Fonte: El Tiempo        Ai. Bi.  27 giugno 2016                      www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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                                                              AFFIDO ESCLUSIVO

Figli: affido esclusivo alla madre se il padre se ne disinteressa.

Tribunale di Modena, sent. n. 631/2016.

Separazione e divorzio: il figlio viene affidato solo alla madre se il padre non versa il mantenimento e se ne disinteressa non partecipando alle cerimonie di famiglia come la comunione, la cresima e gli appuntamenti più importanti della sua giovane vita. Un padre che si disinteressa del figlio, dimostrando di non tenerci perché non versa l’assegno di mantenimento, né partecipa agli eventi più importanti della sua giovane vita, come ad esempio la comunione e la cresima, non può poi pretendere l’affidamento condiviso del minore; per cui, in questi casi, il giudice può disporre l’affidamento esclusivo in favore della madre presso cui il bambino vive. È quanto chiarito dal Tribunale di Modena con una recente sentenza.

            Il giudice non ha dubbi: è inequivocabile il comportamento del genitore che, pur tenuto a versare l’assegno di mantenimento per le spese ordinarie del figlio, non lo fa in modo continuativo tanto da venire condannato in sede penale per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Se poi tale condotta, benché a parole giustificata dalle difficoltà economiche e dalla disoccupazione dell’uomo, viene confermata anche dal complessivo atteggiamento del genitore, che si disinteressa alla vita del figlio, senza presenziare agli “appuntamenti” più importanti come la recita di scuola, il saggio di danza, la prima comunione e la cresima, allora si può benissimo revocare l’affidamento condiviso.

            Nella vicenda in oggetto, dopo la separazione con la ex moglie, il padre si era trasferito subito in un’altra città, omettendo di frequentare le figlie, allora entrambe minorenni, e di corrispondere il contributo per il loro mantenimento come disposto dal giudice, maturando un debito totale di 53.500 euro.

            Quanto all’affidamento dei minori, la regola prevede che il giudice debba sempre optare per l’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori [Art. 337 quater cod. civ.], anche per garantire a questi ultimi il diritto a poter crescere e frequentare entrambi i genitori. Tale regola può essere derogata solo in casi eccezionali, ossia quando i rapporti con uno dei genitori risultino pregiudizievoli per l’interesse del minore, come nel caso in cui il genitore non affidatario si sia reso totalmente inadempiente all’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento in favore dei figli minori ed abbia esercitato in modo discontinuo il suo diritto di visita. Infatti, tali comportamenti sono sintomatici della sua inidoneità ad affrontare quelle maggiori responsabilità che l’affido condiviso comporta anche a carico del genitore con il quale il figlio non coabiti stabilmente.

            È corretto quindi, in casi del genere, affidare il minore in via esclusiva alla madre.

Redazione       Lpt      26 giugno 2016

www.laleggepertutti.it/124684_figli-affido-esclusivo-alla-madre-se-il-padre-se-ne-disinteressa

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AMORIS LAETITIA

Sulla novità di Amoris laetitia.

Un saggio del teologo Pietro Cantoni su Cristianità, la rivista di “Alleanza Cattolica” parla delle aperture del documento al di là di letture “normalistiche”. “Non si convocano due sinodi dei vescovi, conducendo discussioni animate e accese per due anni al solo scopo di lasciare tutto esattamente come prima. È il senso profondo dell’espressione “riforma nella continuità” proposta da papa Benedetto XVI”. È la chiave interpretativa di Amoris laetitia, l’esortazione post-sinodale sulla famiglia, proposta dal teologo Pietro Cantoni in un saggio pubblicato sull’ultimo numero di Cristianità, rivista di “Alleanza Cattolica” non certo sospettabile di progressismo. Don Cantoni, fratello del fondatore di “Alleanza Cattolica”, affronta senza giri di parole i temi contenuti nel capitolo ottavo dell’esortazione. “Scopo del documento è celebrare la bellezza del matrimonio cristiano con il suo ineliminabile carattere d’indissolubilità e di apertura alla vita. All’interno di questo argomento e in stretta dipendenza da questa intenzione vanno letti il capitolo ottavo, “Accompagnare, discernere ed integrare la fragilità”, e in particolare i paragrafi dal n. 300 al n. 312″.

            “Una lettura che qualcuno potrebbe chiamare “normalistica” del documento – osserva Cantoni – che cioè pretendesse che “non è cambiato nulla”, anche se proposta da persone autorevoli e certamente intenzionate a fare il bene della Chiesa e del Magistero, preservandolo da ipotetiche critiche, non rende completamente ragione del testo. Questo anche a lume del solo buon senso: non si convocano due sinodi dei vescovi, conducendo discussioni animate e accese per due anni al solo scopo di lasciare tutto esattamente come prima. È il senso profondo dell’espressione “riforma nella continuità” proposta da papa Benedetto XVI il 22 dicembre del 2005 come chiave di lettura del Concilio Ecumenico Vaticano II.

            Non semplicemente “continuità”, ma “riforma nella continuità”. Riformare vuol dire cambiare. Non cambiare tutto, passando da un tutt’altro a un tutt’altro, perché questa sarebbe una rottura, ma certamente sviluppando”. Papa Ratzinger in quel discorso alla curia romana disse: “È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma”.

            La novità introdotta da Amoris laetitia, secondo Cantoni, “consiste innanzitutto nell’individuare come ultima istanza insuperabile e ineliminabile il giudizio che si svolge nel contesto del sacramento della riconciliazione, la confessione”. Papa Francesco afferma che non vi è da aspettarsi che la soluzione alla complessità e alla varietà delle situazioni venga da norme generali che vadano bene per tutti i casi: “Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete […] è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi” (n. 300).

            “Si tratta di un dato di fatto di tutti i tempi – fa notare l’autore del saggio – però particolarmente urgente ed evidente nell’epoca di transizione che stiamo vivendo, nel momento in cui una civiltà è morta e si stanno creando le condizioni di una rinascita. Questa “novità” contenuta nell’esortazione non annulla la norma”, ma “ne costituisce una deroga, una eccezione a fronte di casi particolari, che peraltro sono in aumento nell’attuale situazione in cui si trovano le famiglie nel mondo occidentale”.

            Cantoni ricorda: “Vi è una legge non scritta che ha sempre costituito una norma pratica per tutti i confessori, ritenuta così importante da diventare una domanda classica da porre al sacerdote che affronta l’esame previo per ottenere il permesso di confessare. Questa norma si trova pressoché in tutti i manuali di teologia morale di indirizzo neoscolastico. La riporto nella formulazione con cui è accolta in un documento recente di un organismo della Santa Sede: “è da ritenere sempre valido il principio […] secondo il quale è preferibile lasciare i penitenti in buona fede in caso di errore dovuto ad ignoranza soggettivamente invincibile, quando si preveda che il penitente, pur orientato a vivere nell’ambito della vita di fede, non modificherebbe la propria condotta, anzi passerebbe a peccare formalmente””. Il testo da cui è citata è un vademecum per i confessori del Pontificio consiglio per la famiglia, pubblicato durante il pontificato di Papa Wojtyla, nel 1997.

            “Molto spesso la persona può conoscere l’esistenza della norma, ma essere nella condizione di non capirla, di non coglierne il valore intrinseco”, si legge nel saggio pubblicato su “Cristianità”. Inoltre, “un giudizio non si può risolvere solo mediante il confronto “astratto” con delle norme scritte, ma nel rapporto concreto e vivente con un giudice in carne e ossa che autorevolmente le interpreta e le applica”. Dunque il sacerdote “nel sacramento deve prendere per mano il soggetto là dove si trova e condurlo pazientemente a una crescita nella comprensione del valore e, soprattutto, nell’apertura alla potenza trasformante della grazia, cioè della misericordia divina”.

            Don Cantoni entra quindi nel merito più specifico dei casi riguardanti i divorziati risposati. “Il caso concreto di un divorziato risposato presenta delle variabili molto significative. Vi può essere il caso di chi è stato ingiustamente abbandonato, di chi si è sposato senza una sufficiente maturità o senza una fede viva e che ora si trova legato civilmente con un’altra persona, con cui ha avuto dei figli. Tornare alla situazione precedente gli è impossibile perché il suo sposo o la sua sposa si è unito a un’altra persona con cui ha avuto altri figli. Tutti sappiamo che casi come questi sono molto reali e assai diffusi. Ora questa persona è stata protagonista di un riavvicinamento alla fede. In molti casi si tratta di un’autentica conversione. Che fare?”.

            Giovanni Paolo II, in Familiaris consortio, “ha aperto un’altra via possibile: quella di consigliare ai coniugi che si trovano in questa situazione irregolare la pratica della castità, cioè di “vivere come fratello e sorella”. Una via difficile, ma certamente possibile e molto bella. Papa Francesco però ricorda molto realisticamente gli inconvenienti che a essa possono essere connessi. In primo luogo deve essere vissuta di comune accordo e presenta comunque il rischio di minare la stabilità e unicità del rapporto”.

            Francesco a questo punto “apre una nuova via: quella di astenersi dal considerare come obbligo tassativo la separazione dalla persona con cui si condivide una seconda unione, perché potrebbe coincidere in concreto con il tentativo di risolvere un male con un altro male. Se qualcuno, per esempio, si è anche macchiato della colpa grave di aver distrutto un matrimonio canonicamente valido e ha contratto una nuova unione irregolare da cui sono nati dei figli, può ritrovare il perdono di Dio e la sua grazia pur rimanendo, per il bene dei figli, all’interno di questa stessa unione”.

            Così don Cantoni sintetizza il contenuto del capitolo ottavo: “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa” (n. 305). Ciò non potrà non avere conseguenze anche sul piano dell’ammissione all’eucaristia, che peraltro – insegna l’Amoris laetitia – non sarà mai automatica, quasi si trattasse di un diritto, ma il risultato di un prudente discernimento del caso particolare da parte dei pastori”.

            Qual è questa “situazione oggettiva di peccato” non “oggettivamente colpevole” o comunque “non colpevole in modo pieno”? “Ricordiamoci – continua Cantoni – l’esempio concreto che stiamo esaminando: una persona legata a un matrimonio canonicamente valido che ha contratto una nuova unione nella quale ha avuto dei figli. Poniamo il caso che la rottura precedente sia colpevole: da questo peccato può essere perdonato. Ora rimane nell’unione irregolare per il bene dei figli. Questo fatto non è soggettivamente peccaminoso, lo rimane solo oggettivamente. Benché la questione sia dibattuta fra teologi e canonisti, si può sostenere – era la posizione del grande teologo Melchior Cano (1509-1560) – che un matrimonio puramente civile contratto fra battezzati, se da una parte non coincide in modo assoluto con il sacramento, dall’altra non è un semplice concubinato. Consigliare a un divorziato risposato, che ha già sulla coscienza la rottura di una unione, di frantumare anche la nuova unione irregolare o di viverla “come fratello e sorella”, non si rivela sempre un buon consiglio. Per rimediare a un male talora se ne farebbe un altro”.

            Un caso completamente diverso, osserva l’autore del saggio, “è quello di chi abbandona il proprio legittimo coniuge per unirsi a un’altra persona mentre il coniuge abbandonato, magari con figli, sarebbe anche disposto molto caritatevolmente ed eroicamente a perdonarlo e riaccoglierlo”. Qui “il consiglio giusto è quello di ritornare alla precedente unione. Il rifiuto della comunione deve essere visto come una sanzione più che legittima, direi doverosa, per sottolineare la gravità del comportamento tenuto e spingere chi se ne è reso responsabile alla conversione”.

            Il papa propone con sufficiente chiarezza questi percorsi come “possibili”, non come obbligatori, in virtù della sua autorità magisteriale. “Il suo magistero si esercita però – fa notare don Cantoni – nel ritenerli come “possibili”, per cui chi ritenesse di non percorrerli e di consigliare di non percorrerli deve guardarsi dall’affermare che essi sono impossibili. Per farlo dovrebbe invocare un’impossibilità di fede, una “eresia”, che certamente non c’è”. Infatti, che “il sacramento del matrimonio sia indissolubile è una verità di fede, che in concreto non possano esistere situazioni in cui una nuova unione non possa essere tollerata non lo è”.

            Con Amoris laetitia Francesco apre una nuova possibilità “con una prassi diversa da quella seguita dagli ortodossi. La decisione, infatti, è presa all’interno del giudizio tenuto in confessionale, dopo un adeguato percorso penitenziale per accertare che gli sposi, o almeno uno dei due, hanno la sincera intenzione di seguire quanto la Chiesa prescrive, sono pentiti del male commesso, ormai non più rimediabile, e intendono proseguire sulle vie indicate dalla legge di Cristo. Non viene dunque né celebrato né benedetto un nuovo matrimonio penitenziale ma viene ritenuto sufficiente il matrimonio civile in cui già vivono. Il Concilio di Trento, definendo l’indissolubilità estrinseca con esclusione della prassi dei greci, ha di fatto definito una solubilità estrinseca. La prassi decisa è quella dell’indissolubilità, ma non così assoluta da non poter ammettere eccezioni qualora in futuro così decidesse la Chiesa”.

            La novità, peraltro, nota l’autore del saggio, “è affermata in modo volutamente dimesso… Il papa non intende solo “suggerire” ma positivamente insegnare. Rinuncia però a condannare chi intende rimanere su posizioni fissiste, se non richiamando in modo forte il dovere della misericordia”. In fondo, “l’atteggiamento del papa verso chi vive in situazioni “irregolari” è di carattere sostanzialmente missionario. Alcuni lo hanno criticato per la sua distinzione fra missione e proselitismo, dimenticando che queste categorie sono entrate nel linguaggio della Chiesa Cattolica almeno dai tempi del beato Paolo VI. Il proselitismo è il modo aggressivo, quando non umanamente maleducato, con cui il missionario si rivolge al missionato partendo dal denigrare l’esperienza che quest’ultimo sta vivendo. La missione, invece, procede con mitezza e guida alla verità partendo dai valori positivi che, pur nella sua esperienza imperfetta, il missionato già vive”.

            Come avvicinare le persone che si trovano in situazioni matrimoniali “irregolari”, che sono a loro volta maggioritarie almeno nei Paesi occidentali, proponendo loro la verità sul matrimonio cristiano? “Un atteggiamento “proselitistico” – scrive don Cantoni – consisterebbe nell’aggredirle apostrofando la loro condizione, utilizzando esclusivamente termini come adulterio, concubinaggio o fornicazione. Un atteggiamento genuinamente missionario, invece, non nasconde la verità né fa sconti sulla dottrina, ma guida gradualmente a scoprirla partendo dagli elementi imperfetti ma positivi che talora è possibile riscontrare anche nelle situazioni “irregolari”: per esempio, la cura amorevole dei figli nati dalla nuova unione, il rispetto e la fedeltà reciproca, e così via.

            Beninteso, non si tratterà assolutamente di prendere spunto da questi parziali elementi positivi per concludere che la situazione di queste coppie è oggettivamente e in sé qualcosa di positivo, il che sarebbe contrario alla verità. Ma l’atteggiamento missionario – che il papa raccomanda con un’indicazione certamente di natura pastorale, però autorevole e parte del magistero – parte da questi elementi positivi, anziché disprezzarli, e cerca di servirsene come piccoli mattoni su cui costruire un itinerario verso la scoperta della verità”.

Andrea Tornielli                    Vatican Insider, 1 luglio 2016.

www.lastampa.it/2016/07/01/vaticaninsider/ita/documenti/sulla-novit-di-amoris-laetitia-tg8V28EWgBfsPzSTi5099O/pagina.html

http://www.lindicedelsinodo.it

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CASA CONIUGALE

Assegnazione casa coniugale: chi paga le spese di condominio

Separazione e divorzio: il coniuge cui il giudice assegna l’immobile che prima era residenza della coppia deve pagare le spese ordinarie di condominio ma non quelle straordinarie. Quando, nel corso di un giudizio di separazione o divorzio, il giudice decide in merito all’assegnazione della casa coniugale a uno dei due coniugi, di norma stabilisce chi dei due debba pagare le spese di condominio: qualora, però, non lo faccia, esse sono a carico dell’assegnatario. Così, ad esempio, se il magistrato stabilisce che la casa debba andare alla moglie, sarà quest’ultima a dover pagare l’amministratore. Ma, in caso di mancato versamento delle spese mensili, il decreto ingiuntivo potrà essere notificato anche all’effettivo proprietario, ossia l’altro coniuge non assegnatario. È quanto chiarito dalle recenti sentenze della Cassazione. Ma procediamo con ordine.

A chi va la casa coniugale? Al momento della separazione, se la coppia ha avuto figli e questi sono ancora minorenni o maggiorenni e non ancora autosufficienti, il giudice assegna la casa (sia essa in comunione o di proprietà di uno solo dei due coniugi) a chi dei due è collocatario dei minori. Significa che il genitore presso cui andranno a convivere i bambini avrà diritto a rimanere nella casa che un tempo era residenza della famiglia, mentre l’altro dovrà andare via (anche se non mancano precedenti giurisprudenziali che hanno consentito la divisione dell’immobile, con sostanziale convivenza sotto lo stesso tetto).

Il discorso, tra l’altro, può allargarsi ora anche alle unioni civili tra gay e alle convivenze.

Nel caso in cui la coppia non abbia avuto figli:

  • se l’immobile era in comproprietà (come nel caso di coniugi in comunione dei beni) esso andrà diviso tra i due contitolari (salvo diverso accordo tra di essi);
  • se l’immobile, invece, apparteneva a uno solo dei due, ritornerà a quest’ultimo.

Insomma, solo se vi sono figli si può porre il problema dell’assegnazione della casa. Questo perché, stabilisce il codice civile, il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli, interesse che deve essere quello di far vivere questi ultimi nello stesso habitat domestico in cui vivevano prima della separazione. È chiaro pertanto che l’assegnazione della casa cessa se:

  • il coniuge assegnatario decide di andare a vivere altrove (ad esempio, si trasferisce o va a vivere dai genitori insieme ai figli);
  • i figli diventano autosufficienti o vanno a vivere altrove.

Cosa si intende per casa coniugale? Per casa coniugale o familiare si intende l’abitazione in cui fino al momento della separazione o del divorzio si svolgeva l’attività della famiglia. Secondo la Corte di cassazione [Cass. sent, n. 1198/2006.] “al fine dell’assegnazione a uno dei due coniugi separati o divorziati della casa familiare, nella quale questi abiti con un figlio maggiorenne, occorre che si tratti della stessa abitazione in cui si svolgeva la vita della famiglia allorché essa era unita, e inoltre che il figlio convivente versi, senza colpa, in condizione di non autosufficienza economica”.

Chi paga le spese di condominio? Nel caso di assegnazione della casa, dunque, si verifica una scissione tra l’utilizzatore del bene (colui, cioè, che ha ottenuto dal giudice l’assegnazione dell’immobile) e il proprietario. Si pone quindi il problema di stabilire chi dei due debba pagare le spese di condominio, sia quelle dell’ordinaria gestione che quelle straordinarie.

È opportuno – ma non sempre succede – che sia il giudice, nella sentenza di separazione o divorzio – a specificare quale coniuge debba pagare le spese relative alla casa, comprese quelle condominiali. Di norma, queste spese vengono messe a carico dell’utilizzatore, ma non sempre: è il caso, ad esempio, in cui il coniuge beneficiario della casa sia anche nullatenente e non ha quindi la possibilità di pagare neanche le spese di condominio. In tal caso, è necessario che il magistrato espressamente specifichi che detti oneri sono a carico del proprietario dell’immobile.

Se invece il giudice non dice nulla nel proprio provvedimento e si limita solo a stabilire a chi dei due coniugi vada la casa, si applica la regola generale:

  • tutte le spese relative all’uso dell’immobile, come le spese condominiali e quelle di manutenzione delle cose comuni dell’edificio sono a carico dell’utilizzatore, utilizzatore che di solito è la moglie in quanto spesso collocataria dei figli minori;
  • le spese straordinarie o di conservazione sono invece a carico del proprietario.

In caso di morosità nelle spese condominiali. Se il coniuge assegnatario della casa coniugale non paga le spese condominiali, l’amministratore di condominio può notificare il decreto ingiuntivo sia all’assegnatario dell’immobile che all’effettivo proprietario (salvo poi il diritto di quest’ultimo di rivalersi nei confronti dell’ex coniuge). I due, infatti, sono responsabili in solido.

Se la casa è in comproprietà. Se la casa coniugale è in comproprietà tra marito e moglie (ciò che si verifica sia quando questi sono in regime di comunione che in regime di separazione ma abbiano acquistato congiuntamente l’immobile):

  • le spese per la manutenzione ordinaria – sempre che il giudice non disponga diversamente – competono al coniuge assegnatario, titolare del diritto di godimento;
  • le spese straordinarie, invece, sono pagate da entrambi i coniugi comproprietari in base alle rispettive quote di proprietà. Per cui, se essi sono contitolari al 50%, le spese si dividono a metà.

Chi paga Imu e Tasi. La casa assegnata in sede di separazione o divorzio è esente tanto dall’Imu quanto dalla Tasi, sempre che non si tratti di immobile di lusso. Quindi il problema del pagamento delle tasse si pone solo per quanto riguarda l’imposta sui rifiuti, la Tari, che sarà a carico dell’assegnatario.

            Se l’appartamento è in affitto. Se marito, moglie e figli vivevano in un appartamento in affitto, con la separazione giudiziale nel contratto di locazione succede al conduttore l’altro coniuge, se il diritto di abitare nella casa familiare sia stato attribuito dal giudice a quest’ultimo. In caso di separazione consensuale o di nullità matrimoniale, al conduttore succede l’altro coniuge se tra i due si sia così convenuto.

Il giudice potrebbe però decidere che il canone di affitto sia pagato dal coniuge che versa l’assegno di mantenimento [Cass. sent. n. 7127/1997.].

Redazione Lpt                        27 giugno 2016

www.laleggepertutti.it/124789_assegnazione-casa-coniugale-chi-paga-le-spese-di-condominio

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CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF

Newsletter n. 12/2016, 29 giugno 2016.

Famiglie forti, comunità forti. A Trento da 12 Paesi per documentare che la famiglia costruisce il bene comune. Dal 17 al 19 giugno si è svolta a Trento la 63.a Conferenza Internazionale ICCFR (International Commission on Couple and Family Relations), organizzata in collaborazione con CISF, AICCeF, Forum delle associazioni familiari e il Patrocinio (e il decisivo sostegno) della Provincia Autonoma di Trento.

Quasi 400 partecipanti, con presenze da numerosi Paesi europei, ma anche da Stati Uniti e Australia, in un evento ricco di testimonianze ed esperienze innovative di livello internazionale, dove è emerso che anche il nostro Paese, nonostante le grandi difficoltà che attraversa, presenta al proprio interno numerose eccellenze in tema di politiche familiari, in vari territori, su diversi ambiti di intervento, dalla cura della prima infanzia al sostegno alle crisi di coppia e familiari, dallo sviluppo di comunità territoriali family friendly all’innovazione in tema di conciliazione famiglia – lavoro.

Peccato manchi tuttora una decisa volontà politica nazionale di fare sistema, nonostante un Piano nazionale sulla famiglia, approvato dal Governo nel 2012, che tuttora chiede attuazione.

Diversi media hanno parlato del convegno: si segnalano qui i testi su Famiglia Cristiana e su Avvenire.

Si allega poi l’intervento introduttivo svolto dal Cisf nella sessione inaugurale, venerdì 17 giugno, cui era stato affidato il compito di descrivere il modello interpretativo e operativo alla base del convegno, centrato su sussidiarietà, empowerment e lavoro interprofessionale di rete.

Nelle prossime settimane verranno messi on line sui siti delle varie organizzazioni i ricchi materiali del convegno.                               Francesco Belletti – Cisf

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Ultimi arrivi dalle case editrici. Prosegue il servizio di segnalazione di alcuni volumi (pochi, selezionati), più recenti e interessanti, che ci arrivano dalle Case editrici per il nostro Centro Documentazione. In ogni Newsletter daremo una breve “segnalazione argomentata” del volume che ci pare più stimolante. Tutti i volumi sono acquistabili sul sito www.sanpaolostore.it

            Muraro Luisa, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, La Scuola, Brescia, 2016, pp. 88, € 8,50

La nota scrittrice e filosofa Luisa Muraro in questo pamphlet propone una coraggiosa analisi del tema dell'”utero in affitto”, considerato come la forma più attuale di sfruttamento del corpo delle donne. Reagendo all’enorme pressione sulle “madri surrogate” e alla richiesta di legalizzazione di pratiche che negano il livello etico e la dignità della donna, l’Autrice ripensa il rapporto della donna con il proprio corpo – alla luce di un neoliberismo culturale che ne predica la totale disponibilità – ed esalta l’unicità della relazione madre-creatura che va formandosi. Un testo breve ma di grande pregnanza ed interesse per capire il dibattito che sta investendo la politica, il diritto, l’etica e la famiglia e per riflettere su un tema che riguarda tutti, non solo le donne, come scrive la Muraro: “Se diamo altro posto ancora alla tecnica e al mercato in ciò che riguarda la riproduzione degli esseri umani, mettiamo a rischio la relazione materna, da una parte, e dall’altra la ricerca di un nuovo e più ricco senso della paternità, che è iniziata con la fine del patriarcato”.

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Asili nido: una questione aperta. La Fondazione Rodolfo De Benedetti ha organizzato lo scorso 11 giugno la XVIII Conferenza Europea, dedicata alle politiche di cura dei minori. Il report principale, intitolato Child Care Policies in Different Countries, curato da D. Del Boca (coordinatore), Ch. Flinn, D. Piazzalunga, C. Pronzato, G. Sorrenti e M. Wiswall (vedi il testo originale in inglese, e una sintesi in italiano) affronta il tema degli effetti dei diversi sistemi di cura dei bimbi 0-2 anni sul loro sviluppo cognitivo e in generale sul loro benessere, confrontando diverse ricerche svolte negli USA, in Gran Bretagna e in Italia. Un secondo rapporto, curato da Andrea Ichino (coordinatore), Margherita Fort e Giulio Zanella, è dedicato specificamente agli “”Effetti dell’asilo nido sulle capacità cognitive e non cognitive dei bambini” (vedi qui la sintesi), e presenta i dati di una ricerca originale svolta in una città italiana. Controverse le conclusioni (preliminari): la frequenza del nido in età 0-2 anni ha effetti negativi sul quoziente intellettivo dei bambini nel medio termine (dati rilevati tra 8 e 14 anni); tale risultato è più forte per le bambine che per i bambini, soprattutto in famiglie mediamente più benestanti, mentre la riduzione non è significativa per famiglie dal background economico più svantaggiato. In altre parole andare al nido aiuta lo sviluppo dei bambini in famiglie con capitale culturale (ed economico) basso, mentre rischia di penalizzare i bambini delle famiglie più attrezzate culturalmente ed economicamente. Risultati non scontati, che meritano sicuramente ulteriori approfondimenti e verifiche.                    Pietro Boffi – Cisf

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Cosa succede in famiglia quando nasce un figlio con una disabilità grave? Vale la pena di ascoltare le straordinarie storie di alcune famiglie della lega del filo d’oro, che dimostrano come quando arriva un figlio che non vede, non sente e che forse nemmeno avrà mai la consapevolezza di chi sia la sua mamma, la famiglia, se accompagnata, è capace di riprogettarsi e di costruire una quotidianità che garantisca a tutti la qualità della vita. Vedi la presentazione del volume il codice del cuore, a cura di Sara De Carli.

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Unione europea. Access city award 2017. Premio Europeo per le città con più di 50.000 abitanti, per promuovere l’accessibilità del contesto urbano per tutti e costruire città prive di barriere/barrier free.

Scadenza per la presentazione delle buone pratiche: 8 settembre 2016. I Premi previsti (tre per tre diverse città) saranno consegnati a Bruxelles il 29 novembre 2016, all’interno di un convegno per celebrare la Giornata Europea a favore delle persone con disabilità.

Una ricerca in Scozia. L’autismo è anche donna. Gli studi sull’autismo, o per meglio dire sullo “spettro autistico”, come ultimamente si è venuta a precisare la definizione dell’ampia gamma di disturbi associati a questa sindrome, sono certamente in aumento. Resta però, tra le situazioni ancora poco esplorate, la specificità della condizione femminile davanti all’autismo. Per questo, l’associazione Scottish Autism ha lanciato un programma on line, denominato “Women and Girls Right Click Programme”, con lo scopo di aiutare le donne che sono colpite dal disturbo ad affrontare le sfide specifiche che le riguardano. Infatti secondo Charlene Tate, direttrice del programma, le ricerche mostrano che sono frequenti la mancanza di una diagnosi adeguata e la consapevolezza dei bisogni di questo gruppo particolare di malati, particolarmente vulnerabili.

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Save the date.

Nord:  Il minore come risorsa nell’intervento di tutela. Corso di formazione per diventare esperto in advocacy, Centro Studi Erickson, Trento, 3-4 ottobre 2016.

La famiglia al centro della cura. Parent Project Onlus e Famiglie SMA Onlus, Milano, 17 luglio 2016.

Centro: Sostenere la genitorialità fragile: Modelli culturali e metodi di intervento, Summer School dell’Istituto degli Innocenti, Firenze, 31 agosto 3 settembre 2016.

Sud:     Nei cantieri della città del noi. Dissodare risorse per contrastare disuguaglianze, Animazione Sociale, Bari, 1-3 dicembre 2016.

Il disegno dei bambini – un viaggio nel mondo interiore del bambino, Corso di I Livello, IGEA, Centro Promozione Salute, Pescara, 6 e 13 ottobre 2016.

Estero: Child in the City, Conference of ENCFC (European Network Child Friendly Cities), Ghent (Belgium), 7-9 novembre 2016.

http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

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CHIESA CATTOLICA

Il matrimonio e i veri valori europei.

            Uscire dall’ Europa per affermare la propria autonomia e preservare la propria stabilità. Rimanere in Europa per godere i vantaggi dello stare insieme. Ipotesi e scelte che in questi giorni hanno fatto sentire il loro peso a tutti i livelli e hanno registrato prese di posizione di segno diverso. Come il ricorso all’ assurda violenza pur di vedere affermate le proprie idee; le ridicole marce indietro pur di non assumersi fino in fondo le proprie responsabilità; reiterate richieste – non so quanto consapevoli e sincere – per costruire un’Europa dei valori, andando oltre un’ Unione meramente economica. Mi piacerebbe che, soprattutto chi sta invocando un’Europa dei valori, ci mettesse la faccia per far diventare realtà questa aspirazione.

            Ma, se le premesse restano quelle finora note, si fa fatica a credere che si possa riuscire a vedere un’Europa capace di scrollarsi di dosso il fiato pesante di lobby ben organizzate e in grado di smettere di essere ostaggio di gruppi di pressione fortemente ideologizzati. Mi piacerebbe sapere di quali valori parlano quanti, in questi giorni, si dicono stufi di un’Europa senza valori e senza radici. Mi sembra fin troppo evidente e pesante il prezzo che stiamo pagando alla perdita di una identità culturale, politica e religiosa. Come stucchevole e insopportabile sta ormai apparendo a tanti la pretesa di dichiarare “retrograda” la nazione che in Europa non decide subito o necessariamente di adeguarsi per trasformare rispettabili diritti individuali in impegnative leggi dello Stato da imporre e far riconoscere a tutti. Stiamo vivendo giorni in cui si avverte tutta la debolezza di un’Europa costruita più su delle primazie, che sul rispetto e la valorizzazione delle differenze fra gli Stati membri. È come quando – fatte le dovute proporzioni – in una famiglia, che in senso etimologico significherebbe un impegno a «servire per la casa comune», gli interessi di parte diventano invece predominanti, e questo sguardo miope fa crollare tutto. In questo caso, occorre riscoprire la bellezza originaria dell’unità familiare, fatta di piccole gioie e di progettualità condivise che fanno affrontare i limiti della quotidianità. Come dicevo qualche giorno fa a Emilio e Silvia, celebrando a Cerignola il loro matrimonio.

Tanti, anche in questi giorni in occasione del suo viaggio in Armenia, hanno plaudito al coraggio testimoniale di papa Francesco. Perché non cominciare a prenderlo sul serio anche quando parla di temi ultimamente silenziati se non apertamente avversati nella nostra Europa? Lo so, la fatica ad accogliere la riforma che Francesco sta proponendo è presente già dentro la Chiesa cattolica. È proprio vero: tutti vogliono le riforme, ma guai a chi si azzarda a promuoverle sul serio! Ne sa qualcosa chi sta seguendo il dibattito sorto intorno all’ Esortazione apostolica “Amoris laetitia”, che, con buona pace dei suoi più o meno espliciti detrattori, ripropone una idea di famiglia fortemente radicata nell’ insegnamento biblico e un’esperienza familiare realmente attenta alla storia nella quale il buon Dio, per chi ci crede, ci ha messi a vivere. Se mi è permesso un paragone, leggendo l’Esortazione pontificia, è come tornare a prendere tra le mani e assaporare il buon pane pugliese a fronte del pane che troviamo avvolto nella pellicola plastificata dei supermercati e che ha perso il suo profumo originale.

Le famiglie italiane, con tutta la fatica che sono chiamate ad affrontare, sono note per essere l’ossatura della nostra società, il nostro migliore biglietto da visita, ma anche il primo “ospedale da campo”. Non so quanto valga il paragone con la nostra vecchia Europa, ma con realismo dobbiamo riconoscere che molte famiglie stanno crollando e pongono seri interrogativi. Consegnandoci “Amoris laetitia”, Papa Francesco ha voluto offrire il frutto di un cammino collegiale che ha coinvolto credenti e non credenti, oltre ogni confine, per comprendere la via da percorrere per non rimanere vittima di questa deriva e per indicare dei percorsi positivi e propositivi. Ne è emersa la consapevolezza che «ci spetta una salutare reazione di autocritica. […] Abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono» (AL 36). In quanti giovani c’ è un profondo desiderio di “fare famiglia” che non trova compimento per la mancanza di stabilità lavorativa? Molti restano per lungo tempo conviventi e alcuni non arrivano alle nozze «soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso» (AL 294). Per altri il matrimonio è considerato un peso insopportabile da portare in solitudine. C’ è bisogno allora di un nuovo lieto annuncio sul matrimonio e, nello stesso tempo, di cucire una rete sociale solida, riscoprendo che insieme si possono superare anche crisi profonde. Ce lo raccontano i volti di tante belle famiglie, che si sono sostenute a vicenda e per le quali le cadute hanno segnato non l’interruzione di un percorso, ma una nuova opportunità di comunione. Infatti, «ogni crisi è come un nuovo “sì” che rende possibile che l’amore rinasca rafforzato, trasfigurato, maturato, illuminato» (AL 238). Occorre però assumere un nuovo sguardo sulla fragilità che ci circonda, addomesticare le paure, impastarsi con le imperfezioni della dimensione umana.

Le relazioni familiari costituiscono la migliore palestra per allenarsi ad avere questo cuore grande. Il Papa afferma che «la famiglia è l’ambito della socializzazione primaria, perché è il primo luogo in cui si impara a collocarsi di fronte all’ altro, ad ascoltare, a condividere, a sopportare, a rispettare, ad aiutare, a convivere. Il compito educativo deve suscitare il sentimento del mondo e della società come “ambiente familiare”, è un’educazione al saper “abitare”, oltre i limiti della propria casa» (AL 276). C’ è allora in gioco il futuro della nostra società e sposarsi è un’esperienza troppo bella: «non possiamo ridurci a una pastorale di piccole élites» (AL 230), alla cosiddetta “pastorale del vincolo”, dentro i nostri recinti. L'”Amoris laetitia” è un invito a educare le nuove generazioni, secondo l’intuizione sapiente di San Giovanni Paolo II, come si fa in famiglia, con la “legge della gradualità”. Insegnando cioè ad attendere il momento opportuno, a prendersi cura del fratello più piccolo che ancora deve scoprire alcune regole e del fratello più grande che magari, da adolescente, le avrà smarrite. Francesco ci dice che talvolta «alcuni padri si sentono inutili o non necessari, ma la verità è che i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti» (AL 177). Qualcuno rischia di interpretare questo cambio di prospettiva come se il Papa avesse cancellato la bontà della legge, mentre lui vuole mostrare che «pienezza della Legge è la carità» (Rom 13,10). Come lui stesso diceva recentemente al Convegno della diocesi di Roma, «questo non significa non essere chiari nella dottrina, ma evitare di cadere in giudizi e atteggiamenti che non assumono la complessità della vita. Il realismo evangelico si sporca le mani perché sa che “grano e zizzania” crescono assieme, e il miglior grano – in questa vita – sarà sempre mescolato con un po’ di zizzania».

Noi a volte abbiamo una gran fretta di giudicare, classificare, mettere di qua i buoni, di là i cattivi: il Signore, invece, sa aspettare. Egli guarda nel “campo” della vita di ogni persona con pazienza e misericordia: vede molto meglio di noi le imperfezioni, ma vede anche i germi del bene e attende con fiducia che maturino. E se imparassimo a guardare con occhi fiduciosi le giovani generazioni, riuscendo vedere in loro – anche quando vivono esperienze che di primo acchito facciamo fatica a condividere – questo grano che può diventare pane saporito sulla mensa della famiglia e linfa nuova per un’Europa che rischia l’asfissia?

mons. Nunzio Galantino        Il Sole 24 Ore             2 luglio 2016

www.newecclesia.it/news/news/il-matrimonio-e-i-veri-valori-europei

 

La tradizione cattolica e il “nichilismo canonico”. Il sonno della “ragione giuridica” genera mostri.

Le reazioni alla espressione forte con cui papa Francesco ha risposto con la consueta parresia ad una domanda sul matrimonio dimostrano molte cose: che la Chiesa è in difficoltà quando si toccano i suoi nervi scoperti; che le evidenze vengono spesso nascoste, edulcorate o negate addirittura; che una certa “moderazione” – sicuramente utile in molti casi – può anche minare a fondo la nostra capacità di avere rapporto con la realtà. Allora mi propongo di ricostruire brevemente il “caso”, di coglierne un senso non immediatamente evidente e di trarne alcune conseguenze non secondarie per la complessa recezione di Amoris Laetitia.

a)      La “battuta” del papa in originale e la sua “versione ufficiale”. In molti ambienti ecclesiali ha suscitato sconcerto la versione originale di una risposta di papa Francesco circa i “matrimoni nulli”, che egli ha riferito alla “maggior parte” dei matrimoni, poi correggendo la versione stampata con “una parte”. Ora, la versione “originale” parlata è significativa, mentre quella scritta è senza alcun significato. Che “parte” dei matrimoni siano nulli dice una cosa assolutamente ovvia. La vera notizia è che il papa dica apertamente che “la maggior parte” dei matrimoni sono nulli…E, se si ascoltano alcuni canonisti, si sente dire anche peggio, ossia che “tutti i matrimoni canonici” potrebbero essere riconosciuti nulli. Questo dato, a mio avviso, porta alla luce una questione decisiva nella “cultura matrimoniale cattolica” degli ultimi due secoli. Poiché quella “nullità” che oggi possiamo lamentare in forma tanto diffusa, dipende da una “teoria del matrimonio” che è nata nel contesto dello scontro della Chiesa con il mondo moderno. Abbiamo fatto con il matrimonio come le compagnie aeree hanno fatto con la cabina di pilotaggio dell’aereo. Abbiamo blindato il “disegno divino” scritto nel matrimonio, rendendolo autonomo e compiuto, quasi autosufficiente. Abbiamo chiesto solo una cosa, agli uomini e alle donne: il “consenso originario”. In questo modo, pensavamo 150 anni fa, la pretesa moderna di “avere ragione” del disegno di Dio, e di piegarlo al proprio arbitrio, sarebbe stata ostacolata e combattuta in radice. Ma questo modello, lungo questi 150 anni, è diventato una sorta di boomerang. Da un lato, infatti, il “consenso” si è molto complicato, perché il “soggetto” è diventato complesso, condizionato dal contesto sociale, dal suo inconscio, da diverse logiche culturali, da nuove tutele giuridiche, da nuovi linguaggi e da nuove promesse. Dall’altro, questo sguardo concentrato solo sull’inizio, ha distorto l’attenzione, ha portato ad accurate retrospettive, senza riconoscere alle crisi alcuna prospettiva. Ci siamo specializzati in “retrospettive sulle crisi”. A causa di un modello difensivo, privo di vera interazione tra divino ed umano, abbiamo perso il rapporto con la realtà umana e divina e alle sue nuove forme di relazione. Dire che “la maggior parte dei matrimoni sono nulli” significa ammettere che il nostro modo di comprendere ufficialmente il matrimonio non è più all’altezza né della libertà degli uomini, né della grazia di Dio. Il testo “detto a braccio” dice qualcosa di importante. Il testo scritto non dice nulla.

b)      Un modo distorto di guardare al matrimonio. Ecco allora la questione: la nostra insistenza unilaterale e ossessiva sulla “verifica della validità” dipende da un difetto di approccio teologico, che la canonistica del XX secolo ha disinvoltamente avallato, senza alcuna significativa distanza critica. Giungendo a produrre quello che non è azzardato chiamare un “nichilismo canonico” sul matrimonio. Non si tratta, infatti, soltanto di “costatare una nullità”, ma di costruire progressivamente un sistema al cui sguardo “molti matrimoni” (per non dire quasi tutti i matrimoni) possono apparire “nulli”. Per aver accesso al reale – ossia alle vicende delle storie e delle coscienze dei soggetti – ci siamo sentiti costretti, nello stesso tempo, ad un duplice movimento. Ad onorare da un lato formalisticamente una “indissolubilità” che “si impone” per autorità, per poi svuotarla, dall’altro, di ogni contenuto mediante la rilevazione accuratissima di “vizi del consenso”. Il mutare della società e dei soggetti passa così attraverso la “cruna dell’ago” di un “vizio del consenso”. Si pensi, ad esempio, alla “violenza”. In una società tradizionale tutte le “violenze” che i genitori imponevano a figli e figlie, nell’esprimere il loro consenso alle nozze, erano sostanzialmente inapprezzabili e irrilevanti. Solo una “società dei diritti” ha progressivamente elaborato un concetto di “violenza” (e di libertà) del consenso, che la società tradizionale conosceva solo molto approssimativamente. Ma – e qui sta il paradosso – la novità della società può essere apprezzata solo nella forma di una “nuova ermeneutica dei capi di nullità”. E questo non solo è troppo poco, ma opera continuamente una distorsione quasi irrimediabile nella percezione e nella elaborazione della esperienza dei soggetti, della loro storia e della loro coscienza, retrodatando ogni evento, ogni dolore, ogni scacco.

c)      Le responsabilità ecclesiali nella tendenza a questo “nichilismo”. Se a questo “nichilismo matrimoniale” la Chiesa cattolica ha dato il suo contributo, lasciandosi mettere nell’angolo dalle proprie normative difensive rispetto al diritto civile, come possiamo oggi tentare di rispondere con responsabilità? La strategia di papa Francesco è chiaramente quella della “pluralità dei fori”. Se tutte le crisi passano soltanto attraverso il “processo canonico”, la Chiesa perde rapporto con la realtà. Per recuperare terreno e senso, occorre aprire un “foro alternativo”, che potremmo chiamare “foro pastorale”, in cui non si affrontano le questioni solo ab ovo, ma si accetta lo spazio e il tempo della relazione, la storia dei soggetti e la maturazione delle coscienze come regola della esperienza faticosa della comunione. Per far fronte al “nichilismo canonico” la Chiesa ha scelto, con Amoris Laetitia, di aprire una strategia di “accompagnamento, discernimento e integrazione” che si colloca su un altro piano rispetto al “processo canonico” e che, inevitabilmente, lo circoscrive e lo delimita, sottraendogli definitivamente l’esclusiva di una autorità che era diventata sempre più imbarazzante, per tutti. Il sonno della “ragione giuridica”, che spesso perdura anche oggi, genera sempre mostri.

d)      Il superamento del “modello giuridico” impostosi nel XIX secolo. Ma questo “parallelismo di fori”, che si inaugurerà con la recezione di AL a livello di prassi pastorale, non sarà il passaggio decisivo. Creerà nuove prassi, aprirà nuove speranze, entrerà meglio nelle dinamiche, ma sarà impotente sul piano della “oggettività formale”, che continuerà ad essere definita da un “diritto sostanziale canonico” che appare – anche alla luce della nuova Esortazione – un “sistema inadeguato” di rappresentazione e di gestione del matrimonio. Questo punto avrà però bisogno di lunga e appassionata gestazione. Dovrà elaborare una “teoria matrimoniale” che traduca la Parola di Dio in un contesto non più segnato dalla priorità di difendere la Chiesa dal “sopruso moderno”. Che la Chiesa conservi tutta la competenza su “unione” e “generazione” è stato il progetto del XIX secolo che con AL ha visto iniziare la sua fine. Quel modello giuridico ha, al suo interno, una lettura della Scrittura, della Tradizione e del rapporto tra la Chiesa e il mondo che non risponde più alla dottrina comune, acquisita dopo il Concilio Vaticano II. Solo con un profondo mutamento di “traduzione istituzionale” si potrà venire a capo della sfida secolare, che intorno al matrimonio, viene lanciata alla tradizione ecclesiale, come preziosa occasione di rinnovamento.

e)      Le “chances” e le difficoltà di AL. Non vi è dubbio che in questo ambito il primo passo significativo viene mosso da AL. Che è “inizio di un inizio”, con la non piccola difficoltà di richiedere una “conversione” a pastori e popolo, abituati da almeno un secolo e mezzo all’habitus della esecuzione di normative dall’alto, stile che contrasta profondamente con le nuove richieste di accompagnamento, discernimento e integrazione, con largo spazio lasciato alla discrezione. Questi tre sostantivi indicano “modi di agire” che non sono affatto scontati e che contrastano profondamente con quella “identità di funzionari” che non pochi presbiteri vivono come profilo primario e che non minor numero di laici pretendono dai loro preti, per aver salvata l’anima senza troppi problemi. Tra qualche decennio avremo “norme” capaci di formare habitus adeguati. Oggi dobbiamo creare le condizioni di nuovi habitus che possano tradursi, domani, in norme generali di altra qualità e finezza. Sarà un cammino lungo e duro, ma sarà l’unico che meriti di essere percorso. Nella speranza e nella carità. Perché domani il “nichilismo canonico” non sia più né il nostro spauracchio, né la nostra farmacia sottobanco.

Andrea Grillo blog: Come se non     27 giugno 2016

www.cittadellaeditrice.com/munera/alla-scoperta-di-amoris-laetitia-17-la-tradizione-cattolica-e-il-nichilismo-canonico-il-sonno-della-ragione-giuridica-genera-mostri

      www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non

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CONSULTORI FAMILIARI

Roma. Consultorio diocesano al Quadraro.

Operativo dal 1993, ogni anno segue 4mila utenti. Punto di forza della struttura è il servizio di ginecologia a misura di disabili. Sostegno dai fondi dell’otto per mille. Un ambiente amico, aperto a tutti senza distinzione di nazionalità o religione: è il consultorio familiare diocesano “Al Quadraro”, in via Tuscolana 619 a Roma. In 200 metri quadri suddivisi in due livelli, incontri varie figure di professionisti che collaborano insieme al fine di rispondere ai tanti bisogni della famiglia, della donna, della coppia. Assoluta precedenza è riservata all’accoglienza e all’ascolto dei disabili, «i privilegiati», e degli adolescenti, per garantirne la tutela. Operativo dal 1993, è aperto tutto il giorno dal lunedì al giovedì, il venerdì dalle 15.30 alle 18.30.

            Offre consulenze a 360 gradi: da quelle preconcezionali a quelle genetiche, dai corsi per i genitori allo spazio giovani nel quale è possibile chiedere anche un semplice colloquio con una ginecologa. E ancora consulenze psicologiche e psicopedagogiche. A farla da padrona è la cordialità che parte dall’accoglienza, dal sorriso affettuoso della giovane volontaria alla reception e dal calore dell’ambiente reso familiare dalle tendine colorate alle finestre e allegri quadri alle pareti.

            Fu fortemente voluto da monsignor Giuseppe Mani, già vescovo ausiliare per il settore est di Roma, e a dirigerlo chiamò la dottoressa Enrica Cichi. In 23 anni di strada ne è stata fatta tanta: iniziò con una forza lavoro di 10 persone, oggi può contare sulla collaborazione di tirocinanti e di una cinquantina di operatori, gran parte dei quali retribuiti. Tutte le spese vive sono sostenute grazie ai fondi dell’Otto per mille.

            Punto di forza e orgoglio della struttura è il servizio di ginecologia a misura di disabili fisici o psichici lievi, l’unico del centro sud Italia. Offre gratuitamente a donne con disabilità visite ginecologiche, ecografie anche morfologiche e flussimetria, pap test. Tutto attentamente studiato nei dettagli per andare incontro alle esigenze delle pazienti alle quali è riservato maggior tempo di accoglienza rispetto all’utenza normale. «Non lavoriamo sulla quantità dell’utenza ma sulla qualità del servizio offerto – spiega Giada Costi, ostetrica -. Per ogni disabile ci riserviamo un tempo minimo per la visita di 40 minuti». L’ambulatorio è dotato di un bagno attrezzato per portatori di handicap, di un lettino elettrocomandato per regolarne la giusta altezza e inclinazione e di un ecografo donato da san Giovanni Paolo II. «Grazie a quest’apparecchio possiamo eseguire ecografie ostetriche e pelviche e siamo di supporto all’Asl di zona sprovvista di ecografo – sottolinea Cichi -. Di questo e del nostro rapporto con il quartiere siamo molto soddisfatti». Non è solo il quartiere a beneficiare dei servizi offerti dal consultorio: ogni anno vengono seguiti circa 4mila utenti provenienti da tutto il Lazio e dalle regioni limitrofe. «Essere i soli al Centro Sud in grado di offrire un servizio studiato per le specifiche necessità dei disabili ci gratifica, ma non è motivo di orgoglio, perché è segno che in altre strutture non è riservata ai disabili la stessa attenzione», afferma la coordinatrice Francesca Zuccarella.

            Attenzione da sempre dimostrata al consultorio “Al Quadraro”: per permettere ai disabili l’accesso al secondo piano anni fa fu installato un ascensore grazie anche all’impegno di Ileana Argentin, delegato alle Politiche dell’handicap durante la giunta Veltroni. Altra chicca del consultorio è l’incontro riservato solo ai papà nell’ambito del corso di preparazione al parto che dura circa due mesi e mezzo.

            Della «famiglia del consultorio», come la definisce Cichi, fa parte anche don Giuseppe Colleo, psicologo, psicoterapeuta, assistente ecclesiastico e consulente etico presso la struttura. «La mia presenza – spiega – è principalmente riservata agli operatori affinché possano confrontarsi anche con la proposta cristiana dei problemi che affrontano, ma sono sempre a disposizione anche dell’utenza. Tanti ignorano che il nostro è un consultorio del Vicariato, di ispirazione cristiana, ma è la prima cosa che viene detta loro, pur accogliendo tutti».  «Noi seguiamo lo spirito del Vangelo e l’insegnamento del Papa – interviene Cichi –, le porte sono aperte, tutti sono ascoltati, mettiamo al centro il rispetto e il valore della persona e della famiglia. Si rivolgono a noi anche omosessuali con problemi di coppia o di relazione con il mondo esterno». Don Giuseppe partecipa alle riunioni di équipe e spesso interviene «per suscitare, dove non venga colta, la dimensione cristiana del lavoro svolto e per rispondere agli interrogativi degli operatori. Recentemente abbiamo anche svolto un incontro sull’esortazione del Papa “Amoris laetitia”, sull’amore nella famiglia».

            I tempi che cambiano hanno indotto il consultorio ad ampliare l’offerta di servizi: da tre anni è nato il servizio di terapia familiare. «La tipologia della famiglia è cambiata e un consultorio professionale è quanto mai utile e importante in questo momento storico – prosegue Cichi -. Sposi cristiani ce ne sono sempre meno, aumentano le coppie separate e il nostro ruolo è quello di provare a risanare le relazioni in queste famiglie per preservare la serenità dei figli».

            Altro servizio offerto alle famiglie in crisi è la consulenza legale. «La società che cambia ha anche quadruplicato il numero di adolescenti che si rivolge a noi – conclude Cichi –. Garantiamo loro momenti di ascolto anche all’ora di pranzo. Sono soprattutto sedicenni con problemi familiari, scolastici, d’identità sessuale e rapporti con i coetanei».

Roma sette     30 giugno 2016                      www.romasette.it/al-quadraro-il-consultorio-della-famiglia

www.consultorioquadraro.it

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DALLA NAVATA

XIV Domenica del tempo ordinario – anno C -3 luglio 2016.

Isaia                66, 12 Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti.

Salmo              65, 16 Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto per me ha fatto. Sia benedetto Dio, che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia.

Galati             06, 14 Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.

Luca               10, 01 In quei giorni il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.

 

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

Gli inviati del Signore. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: «Pace a questa casa!». Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: «È vicino a voi il regno di Dio». Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino». Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città.

Ritorno dei discepoli. I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

Quando Luca ricorda e racconta questa pagina del suo vangelo, ha davanti a sé la fervente missione dei primi cristiani che andavano di città in città nel bacino del Mediterraneo, annunciando con un certo successo la buona notizia. Sì, è il Kýrios, il Signore che agisce con potenza, per questo anche nel racconto l’evangelista designa Gesù appunto con questo titolo.

Gesù aveva già inviato i Dodici (cf. Lc 9,1-6), da lui scelti e chiamati apóstoloi, missionari-inviati, ma ora ne invia altri settantadue, tanti quanti il numero delle genti abitanti la terra secondo la tavola delle nazioni di Genesi 10 (nella versione greca dei LXX). Li invia davanti a sé come precursori e preparatori della sua prossima venuta: quello che Giovanni il Battista aveva fatto prima che Gesù si manifestasse a Israele (cf. Lc 3,1-18), ora lo fanno i discepoli, affinché il Signore trovi i cuori pronti ad accogliere la buona notizia del regno di Dio.

Questa missione, come le altre fatte da Gesù, abbisognava di uomini che in realtà non c’erano o non erano sufficienti: il campo del mondo è vasto, mentre i possibili inviati sono pochi. Gesù intravede la messe abbondante, i campi che biondeggiano, ma constata la scarsità degli operai che dovranno mietere. È stato così al tempo di Gesù, è stato così lungo la storia della chiesa, è così anche oggi! Nessuno pensi che vi siano stati tempi con abbondanza di inviati: se mai, vi sono stati tempi favorevoli all’arruolamento di “mercenari”, di mietitori poco convinti del lavoro, che lo facevano senza essere stati inviati dal Signore… A volte c’è ressa sul cammino della mietitura, ma non è detto che poi la mietitura sia abbondante, né che gli inviati siano capaci di mietere.

Per questo occorre pregare Dio affinché sia lui a chiamare e a mandare operai, perché la messe o la vigna è sua e non tutti quelli che vi lavorano sono stati chiamati. Occorre pregare, sì pregare, affinché il Signore con il suo Spirito chiami, non inventarsi missioni che il Signore non si è mai sognato di affidarci, non imponendo a qualcuno una missione che lo renderà non un santo, ma un miserabile in più! La chiamata di un missionario avviene a causa della preghiera della chiesa, la missione deve sempre scaturire dalla preghiera (cf. Lc 6,12-13), il lavoro della mietitura va fatto nella preghiera.

Ecco allora il mandato che dice cosa fa e quale stile deve adottare l’inviato di Gesù, ma ci fa anche capire perché gli operai sono pochi… Com’è possibile che siano molti quelli a cui è chiesto ciò che Gesù chiede? Se fossero molti, ci sarebbe da dubitare sulla loro reale conformità a queste esigenze radicali. Gesù manda i discepoli a due a due, perché vivano innanzitutto in comunione e siano l’uno sostegno per l’altro, l’uno regola all’altro nelle tentazioni; due a due affinché la missione non sia un’azione di uomini singolari e individualisti. Li invia come pecore tra i lupi, cioè inermi, deboli, fragili, consapevoli di stare in mezzo a coloro che si oppongono al Vangelo di Gesù Cristo; pecore tra i lupi anche per testimoniare che così gli inviati preparano quel giorno escatologico in cui “il lupo dimorerà insieme con l’agnello” (Is 11,6).

Gesù si ferma a spiegare in modo particolare lo stile del discepolo inviato da lui, il Signore, e da lui totalmente dipendente. Non sarà come alcuni missionari farisei, né come i filosofi itineranti, né come i rabbini visitatori. Sarà piuttosto come il levita del salmo 16, che nella sua povertà proclama: “Il Signore è mia porzione e mio calice” (v. 5), perché confiderà solo nel Signore. Sarà povero, non misero, ma senza denaro con sé, senza assicurazioni per il viaggio, e attuerà innanzitutto un contatto cellulare, entrando nelle case, incontrando sulle strade quelli che cercano la vita piena. A costoro, “figli della pace”, della vita in pienezza, gli inviati augureranno lo shalom, la pace, e con loro entreranno in rapporti umanissimi: mangiando e bevendo alla loro tavola, senza l’ossessione della purità delle persone e dei cibi… In tutti gli inviati deve regnare e manifestarsi la gratuità, che essi mostreranno anche prendendosi cura gratuitamente degli altri, curando i malati nel corpo nella mente e nello spirito e annunciando a tutti che il regno di Dio si è avvicinato.

Ciò che stupisce in questo invio dei discepoli è che Gesù non chiede di compiere grandi cose, portenti, ma di vivere umanamente i rapporti, infondendo in tutti la fiducia e la speranza che è possibile far regnare Dio nelle nostre povere vite. Messaggio brevissimo – “Il regno di Dio si è avvicinato” –, comportamento esigente, che deve fare segno a lui, Gesù, il povero, il mite, l’amico dei pubblicani e dei peccatori, venuto per servire e per spendere la vita per gli umani tutti. Si tratta di vivere come Gesù che, “da ricco che era, si è fatto povero per noi” (cf. 2Cor 8,9); come Gesù che, da santo che era, è andato ad alloggiare presso i peccatori (cf. Lc 19,7); come Gesù, che annunciò lo shalom quale buona notizia (cf. At 10,36).

Vi è inoltre un avvertimento che nasce dall’esperienza della chiesa nascente: il missionario, il predicatore, dov’è accolto cerchi di restare. Perché questa precisazione? Perché sono i poveri che accolgono più facilmente, mentre i ricchi accolgono chi hanno conosciuto, dunque il rischio per un missionario è quello di iniziare tra i poveri e finire tra i ricchi, soprattutto se si mostra ricco di doni… Può anche darsi che il missionario abbia un certo successo, che il suo ministero gli procuri possibilità e attenzioni da parte di molti, tra i quali quelli che contano, i ricchi. Il missionario inviato a tutti, proprio a tutti, incontra tutti, ma vigili per non finire per essere solidale e amico di chi conta, ma lontano dai poveri e dai semplici credenti quotidiani.

Si dà però anche la possibilità di non essere accolti da una città, da alcuni. In tal caso nessuna vendetta, nessuna offesa, nessun rancore: nella libertà, l’inviato scuoterà la polvere dai suoi piedi, esprimendo con quel gesto di non volere neppure la polvere di quella gente. Certo, nel giorno del giudizio sarà il Signore a giudicare, e invocando quel giorno Gesù si rivolge soprattutto alla città che ha amato e dove ha scelto di risiedere durante il suo ministero pubblico: Cafarnao. Gesù amava quella città e quanti la abitavano, ma proprio in essa aveva registrato il fallimento della sua missione in Galilea. Per questo la avverte: l’antico oracolo del profeta Isaia contro Babilonia (cf. Is 14,13-15), potrà riguardare anche lei (cf. Lc 10,15)! Queste parole di Gesù successive all’invio sono il suo lamento per il suo amore frustrato proprio dalle città destinatarie della sua missione, predicazione e azione liberatrice.

In seguito i settantadue, andati nelle città e svolto il loro mandato, ritornano da Gesù pieni di gioia, perché sono riusciti a togliere terreno a Satana, dominando sulle forze malefiche e demoniache. Gesù allora sente dentro di sé la verità della sua missione: Satana che cade per l’azione non solo sua, ma anche di quelli che ha inviato e ai quali ha dato dýnamis, forza. Ma i discepoli – dice loro Gesù – non siano nella gioia a causa del potere ricevuto o del bene che compiono, bensì a causa della comunione che hanno con Gesù stesso, ora sulla terra e poi nel regno di Dio (“i nomi scritti nei cieli”…). La vera speranza dei discepoli-missionari non va riposta nella riuscita della missione ma nella comunione di vita con il Signore, dal quale nessuno di loro potrà mai essere separato: nessun fallimento, nessuna persecuzione, neppure la morte potrà separare gli inviati dall’amore di Cristo (cf. Rm 8,35.37)!

Questa pagina evangelica può sembrarci radicale, severa nelle richieste relative allo stile missionario, ma in verità per ogni inviato si tratta di essere figlio nel Figlio, vivendo la missione che il Figlio stesso ha ricevuto dal Padre quando è stato da lui inviato nel mondo. Basta riferirsi alla missione di Gesù e non inventarci noi delle missioni, soprattutto in un clima come quello attuale: si è così tesi all’evangelizzazione degli altri che non si guarda più se l’inviato è evangelizzato o no, se assomiglia al suo Signore o se invece è preoccupato del numero degli ascoltatori e del risultato della sua propaganda del prodotto…

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10586-gli-inviati-del-signore

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DIACONIA

            “Le diaconesse? È più urgente cambiare la struttura piramidale nella comunità di fedeli”

Intervista con la teologa morale suor Antonietta Potente sulla spiritualità e il ruolo delle donne nella Chiesa. “Le diaconesse? È più urgente cambiare la struttura piramidale nella comunità di fedeli”. «Non è in gioco solo il nostro essere ammesse o non ammesse come diaconesse o sacerdotesse, ma è in gioco, a mio avviso, il cambio strutturale nella comunità di credenti. Da una piramide alla circolarità». A pensarla così è una donna. La teologa morale suor Antonietta Potente, domenicana di 57 anni, ora radicata a Torino; ha vissuto diciotto anni in Bolivia dove ha sperimentato una forma vita comunitaria con i contadini indigeni. Docente di Teologia morale presso l’Angelicum di Roma, nella Facoltà teologica dell’Italia centrale a Firenze e nell’Università Cattolica di Cochabamba (Bolivia), è stata anche membro della Conferenza latinoamericana dei Religiosi e collabora con l’Istituto ecumenico di Teologia andina di La Paz.

L’abbiamo intervistata a margine della conferenza sulle donne nelle Scritture che ha tenuto durante la presentazione del «Bilancio sociale 2015» dell’associazione Orizzonti-Maidan, gestita dai Camilliani di Torino.

Secondo Lei le donne potrebbero avere un ruolo maggiore nella Chiesa con il magistero di papa Francesco?

«Ammetto che papa Francesco ha dato un’altra chiave di lettura su tutto, e anche riscatta un po’ questo ignorare le donne per molto, molto tempo. Non dico per secoli perché credo che nel I secolo erano molto più protagoniste di quanto lo siamo oggi. Però certamente poi siamo cadute nell’ombra, non è che non ci venga dato un posto, ma è un posto come quello di Sara che resta nella tenda e guarda da lì. Io credo che in questo momento, come sta succedendo riguardo alle coppie separate, alla questione gay, alle unioni civili, anche su questo sta avvenendo qualcosa. A me sinceramente quello che inquieta un po’ è che comunque noi donne dobbiamo aspettare che gli uomini si mettano d’accordo per decidere se siamo ammesse o non siamo ammesse».

Che cosa pensa del dibattito che si è creato intorno alla possibilità di aprire alle diaconesse?

«La questione delle diaconesse, che è un ruolo, mi sembra un po’ come le quote rose dei partiti: vediamo qual è il partito che ha più donne. Quello che invece si dovrebbe fare e riconoscere è questa grande presenza alternativa, questa lettura alternativa che noi facciamo della storia da secoli. E anche un po’ lasciarsi criticare da noi donne. Fino a quando ci si circonderà di donne che sanno solo dare ragione, non cambierà nulla. Nella Chiesa serve davvero una certa critica, perché non è in gioco solo il nostro essere ammesse o non ammesse come diaconesse o sacerdotesse, ma è in gioco, a mio avviso, il cambio strutturale nella comunità di credenti. Da una piramide alla circolarità, perché, nonostante papa Francesco, la struttura piramidale esiste ancora».

Anche quel clericalismo tante volte denunciato da papa Francesco.

«Non va bene questo sentirsi pastori investiti di qualcosa di molto più grande di quello che è l’investitura quotidiana di tante donne e anche uomini. E poi, credo che se si ammettessero le donne al sacerdozio bisognerebbe anche ammettere tutti i laici che già si riconoscono in una vocazione di questo tipo. Però se la Chiesa continua con questa struttura piramidale, se le comunità continuano con questa struttura, mi sembra difficile. Sia riguardo alle donne, all’essere presenti nell’ambito della formazione oppure a esercitare determinati ministeri. Penso che il grande ostacolo sia questa grande struttura, che ormai ha secoli».

Nella relazione finale del Sinodo sulla famiglia si legge che «la presenza dei laici e delle famiglie, in particolare la presenza femminile, nella formazione sacerdotale, favorisce l’apprezzamento per la varietà e la complementarietà delle diverse vocazioni nella Chiesa». Così le donne potrebbero trovare più spazio in generale nella vita delle comunità?

«Sì, per esempio in America Latina questo avveniva molto. La maggior parte degli studenti nella facoltà dove insegnavo in Bolivia erano seminaristi o comunque religiosi chiamati poi al sacerdozio. Il problema è che probabilmente siamo poche voci rispetto a quello che è tutto il resto della formazione. Io sono molto critica».

Lei è vissuta con i campesinos aymara della Bolivia. Cosa potrebbero imparare i laici e la Chiesa in generale dalle donne indigene?

«Penso possano imparare tanto. Loro, le donne, hanno una grande capacità strategica e di esistenza. Mi sembra che somiglino a quelle donne bibliche, che nei momenti più disperati di un popolo riescono a trovare delle strategie particolari di vita, di vita concreta, cioè non solo di idee, di parole. In fin dei conti anche chi regge l’economia laggiù sono le donne, sia l’economia informale che quella riconosciuta. È vero che se uno guarda superficialmente, magari nelle riunioni comunitarie, sembra che parlino gli uomini e che le donne non partecipino. Stando lì, a me è sembrato il contrario. Le donne hanno comunque una forza, non è solo come ruolo, ma anche come pensiero, perché il pensiero nella cultura indigena è femminile. Non dico un femminile escludente, perché nella loro cultura c’è un netto bilanciamento».

Pablo Lombò              La Stampa-Vatican Insider   27 giugno 2016

www.lastampa.it/2016/06/27/vaticaninsider/ita/inchieste-e-interviste/le-diaconesse-pi-urgente-cambiare-la-struttura-piramidale-nella-comunit-di-fedeli-1Spng3YD61vSmHAKiBYFVJ/pagina.html

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DIVORZIO

Divorzio breve, condizioni «stabili».

Tribunale di Brescia, ordinanza 13 maggio 21016.

Con il divorzio breve, no alla revisione delle condizioni fissate con la sentenza di separazione. Infatti, la circostanza che la separazione sia «particolarmente recente» contribuisce a far sì che non ci siano mutamenti tali da giustificare la revisione delle condizioni. È la conclusione del Tribunale di Brescia, con ordinanza del 13 maggio scorso.

Apre la questione il ricorso di un uomo che, nel presentare domanda di divorzio, chiede la revoca degli assegni di mantenimento per moglie e figlio, concordati con la separazione. Ma il tribunale respinge la richiesta. Per le statuizioni economiche – ricorda il giudice – l’assetto emerso durante la separazione, seppur non vincolante, rappresenta un indice di riferimento idoneo a fornire elementi utili per valutare sia il tenore di vita coniugale che le condizioni economiche delle parti. Del resto, nella fase presidenziale della causa divorzile, tesa a emettere provvedimenti temporanei e urgenti, il materiale probatorio raccolto è ridotto e la cognizione è sommaria. Così, le condizioni stabilite in sede di separazione a seguito di istruttoria o concordate se consensuale, assumono «un importante valore indiziario ai fini delle determinazioni provvisorie». Soprattutto «quando poco tempo sia trascorso dalla separazione all’udienza presidenziale di divorzio».

Nel caso esaminato, dato che la separazione è particolarmente recente e non si riscontrano cambiamenti eccezionali in famiglia, vanno confermate, almeno in via provvisoria, le condizioni stabilite.

Selene Pascas             il sole 24 0re               27 giugno 2016

www.oua.it/sentenze-divorzio-breve-condizioni-stabili-il-sole-24-ore/

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DONNE

“Le donne di Galilea” e “Maria di Magdala

Genova Chiesa Di San Torpete

                                                                  Marinella Perroni          10 giugno 2016

VIDEO

http://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2016/06/marinella-perroni-le-donne-di-galilea.html

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EMBRIONE

Lo statuto dell’embrione nel diritto costituzionale in seguito alla Sentenza n. 84/2016

  1. Premessa. La Legge n. 40/2004 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”)

http://www.camera.it/parlam/leggi/04040L.htm

è di recente ritornata al vaglio della Corte Costituzionale, che con la Sentenza n. 84/2016 ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze sul divieto assoluto di ricerca clinica o sperimentale sull’embrione che non risulti finalizzata alla tutela dello stesso e su quello di revocare il consenso alla procreazione medicalmente assistita dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo.

            Nonostante la decisione della Corte non abbia modificato lo stato del diritto, la sua motivazione offre alcuni interessanti spunti per riprendere una riflessione cominciata in un precedente articolo e precisare alcune delle considerazioni già svolte in tema di bioetica e diritto costituzionale. In particolare, questo breve studio intende approfondire l’annosa questione dello statuto dell’embrione alla luce dell’ultima giurisprudenza costituzionale italiana e analizzare il principale limite che la Carta Fondamentale impone al legislatore nell’esercizio del suo potere discrezionale in questa delicata materia.

2. La Sentenza n. 84/2016: inesistenza di un modello bioetico a contenuto costituzionale vincolato.

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2016&numero=84

A seguito della Sentenza n. 84, 20 aprile 2016 si può a ragione affermare che non esiste nell’ordinamento giuridico italiano un modello bioetico a contenuto costituzionale vincolato sulle questioni riguardanti l’inizio della vita umana. In altre parole, il sindacato della Corte è limitato all’esclusione di modelli di biodiritto non conformi ai principi costituzionali. Nel decidere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze sul divieto assoluto di sperimentazione sugli embrioni umani (cfr. art. 13, Legge n. 40/2004), la Corte rileva, infatti, che alla base “[della] normativa impugnata [è] una scelta di così elevata discrezionalità, per i profili assiologici che la connotano, da sottrarsi, per ciò stesso, al [suo] sindacato”. Questo significa, in teoria, che non esiste una regola del conflitto per risolvere il bilanciamento tra la libertà della ricerca e la tutela dell’embrione, ma, semmai, più di una. Ciò basta ad escludere con certezza l’esistenza di un modello di biodiritto a contenuto costituzionale vincolato.

            Il punto critico risiede, invece, nel valutare se in materia sia escluso ogni sindacato a mente dell’articolo 28 della Legge n. 87/1953 o se la Carta Fondamentale, pur non prescrivendo un modello di biodiritto in particolare, ne vieti l’adozione di alcuni altri in contrasto con principi in essa contenuti (e, se adottati, ne ammetta la censura).

            Si pensi al caso che ha dato origine al giudizio nel corso del quale è stato sollevato l’eccezione di costituzionalità: dal materiale biologico di una coppia sono prodotti dieci embrioni, di cui cinque affetti da una patologia genetica grave, quattro non biopsabili ed uno di media qualità [vedi Tribunale di Firenze, Ordinanza n. 166/2013]. Ai sensi della normativa vigente, i primi nove embrioni saranno crioconservati e il decimo dovrà essere impiantato. Possono, tuttavia, essere prospettate almeno altre due possibilità: una legge che permetta di destinare alla ricerca gli embrioni certamente non destinati ad un futuro impianto ma non anche il decimo ed una legge che permetta di destinare alla ricerca tutti gli embrioni prodotti senza distinzioni.

            È evidente come la normativa vigente risolva il bilanciamento tra la libertà della scienza e la tutela dell’embrione a tutto favore del secondo, mentre le due ipotesi alternative spostino gradatamente l’equilibrio dalla tutela di un’istanza all’altra fino a capovolgerlo.

            Se si ritiene che la materia sia sottratta in assoluto al sindacato della Corte Costituzionale, deve anche ammettersi che ognuna di queste soluzioni sarebbe una soluzione legittima (non solo, cioè, non esiste un modello di biodiritto a contenuto costituzionale vincolato, ma non esistono modelli di biodiritto incostituzionali); se, al contrario, si ritiene, come credo, che almeno una di queste soluzioni non possa dirsi conforme al dettato costituzionale, deve sì riconoscersi l’inesistenza di un modello di biodiritto a contenuto costituzionale vincolato, ma proseguire l’indagine per identificare quali siano i modelli di biodiritto incostituzionali e, quindi e più in generale, quali siano i limiti del potere discrezionale del legislatore in materia.

            3. Limiti al potere discrezionale del legislatore: il limite espresso della “dignità dell’embrione”

            A conferma dell’esistenza di limiti al potere discrezionale del legislatore è certamente il riconoscimento giurisprudenziale del valore costituzionale della tutela dell’embrione, “riconducibile al precetto generale dell’articolo 2 della Costituzione” [Corte Costituzionale, Sentenza n. 229/2015].

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero=229

Valendo la premessa per cui “quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, [l’embrione] non è certamente riconducibile a mero materiale biologico” [Corte Costituzionale, Sentenza n. 229/2015], sembra anche vigere la regola per cui la tutela dell’embrione non sia suscettibile di affievolimento in assenza di un altro interesse costituzionale antagonista. Ne segue che sarebbe certamente incostituzionale un modello di biodiritto che prevedesse la possibilità di sopprimere ad nutum gli embrioni creati nel corso di procedimenti di procreazione medicalmente assistita.

            Fuori da questo caso limite, comunque, è lecito domandarsi se sia in qualche maniera differente il caso di revoca ad nutum del consenso prestato dalla paziente dopo la fecondazione dell’ovulo. Ai sensi della normativa vigente questo non è possibile (anche se sul divieto sono state sollevate più volte questioni di legittimità costituzionale [vedi Corte Costituzionale, Sentenze nn. 151/2009 e 84/2016], dichiarate inammissibili per difetti di rilevanza).

            Ancora una volta il problema risiede nell’indeterminazione, per quanto qui interessa, sul piano del biodiritto dello statuto dell’embrione: infatti, se si equiparasse totalmente l’embrione al nascituro (intendo con “nascituro” l’embrione impiantato con successo ovvero quello prodotto in seguito ad un atto procreativo non medicalmente assistito), il bilanciamento tra il diritto dell’embrione e il diritto all’autodeterminazione terapeutica della paziente dovrebbe essere risolto con la regola del conflitto dettata in tema di interruzione volontaria di gravidanza [vedi già Corte Costituzionale, Sentenza n. 75/1975], se invece si differenziasse totalmente l’embrione dal nascituro si potrebbe giungere fino al riconoscimento di un pieno diritto di autodeterminazione in capo alla donna.

            Ad un esame più approfondito, entrambe le ipotesi prospettate mal si conciliano con i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico: ad una piena equiparazione nel mondo del diritto, da un lato, corrisponderebbero nel mondo dei fatti due situazioni sostanzialmente differenti una totale differenziazione, dall’altro lato, si porrebbe in aperto contrasto con l’elaborazione della giurisprudenza costituzionale e con il valore costituzionale della “dignità dell’embrione, quale entità che ha in sé il principio della vita” [Corte Costituzionale, Sentenza n. 84/2016].

            Una parziale differenziazione sembra allora la scelta più equilibrata, e a livello di politica legislativa e a livello di interpretazione del diritto positivo. Di tale differenziazione, infatti, sembra ritrovarsi traccia nella stessa motivazione della Sentenza n. 84/2016 che pare limitare la possibilità di destinare alla ricerca i soli embrioni c.d. “non portati a nascita” [Corte Costituzionale, Sentenza n. 84/2016, considerato in diritto n. 8.2]. In effetti, per questi stessi embrioni non destinati ad un futuro impianto vigeva già anche una silenziosa deroga al divieto di revoca del consenso alla procreazione medicalmente assistita dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo (in seguito alla Sentenza n. 96/2015, infatti, è per esempio divenuto legittimo il rifiuto della donna di impiantare un embrione affetto da una patologia genetica grave).

            Pertanto, ad oggi può affermarsi che il potere discrezionale del legislatore è limitato al bilanciamento (non irragionevole) tra tutela dell’embrione e altre istanze di rilievo costituzionale con esclusivo riferimento alla categoria degli embrioni non portati a nascita, valendo per gli altri embrioni prodotti per mezzo di tecniche di procreazione medicalmente assistita la regola del conflitto “bloccata” che vale per il bilanciamento del diritto del nascituro. Resta aperta, peraltro, la questione se il divieto di revocare il consenso alla procreazione medicalmente assistita dopo la fecondazione dell’ovulo, con riferimento a quest’ultima categoria di embrioni, possa essere derogato solo in caso di contrasto con il diritto alla salute della paziente [vedi Corte Costituzionale, Sentenza n. 151/2009] o se anche altri interessi costituzionali ne possano giustificare una deroga. 

4. Critica del concetto di “dignità dell’embrione”. La fragilità del sistema appena descritto dipende principalmente dal contenuto indeterminato della locuzione “dignità dell’embrione” [Corte Costituzionale, Sentenza n. 84/2016, considerato in diritto n.  8.2.1] e, di conseguenza, dalla non piena determinatezza del bene giuridico oggetto di tutela. Il concetto di “dignità”, infatti, è un “costrutto storico, aperto a plurime ricostruzioni alla luce di diverse visioni dell’uomo e del mondo” e risulta molto difficilmente conciliabile con i principi di tassatività, offensività e soprattutto laicità, ispiratori del diritto penale.

            Nell’elaborazione della giurisprudenza costituzionale la dignità dell’embrione è collegata al suo “[essere una] entità che ha in sé il principio della vita” [Corte Costituzionale, Sentenza n. 84/2016]. Senza ulteriori specificazioni, però, questa nozione rischia di facilitare una pericolosa confusione tra i piani del biodiritto e della bioetica. Se una tale confusione non è auspicabile in nessun ambito del diritto di uno stato costituzionale e laico, essa diviene assolutamente inaccettabile in quello penale.

            La moderna scienza penalistica, infatti, vuole a fondamento di ciascuna sanzione penale l’esigenza di difendere una “reale oggettività giuridica”. La correlazione alla genesi della vita, posta dalla Corte Costituzionale a fondamento della tutela dell’embrione, può rispettare questo stretto canone, a mio avviso, soltanto se intesa come potenzialità di sviluppo, escludendo cioè ogni idealizzazione e moralizzazione del principio della generazione della vita (c.d. sanctity of life doctrine).

            Ora, per una tale istanza può essere immaginata in teoria una tutela in astratto o in concreto. Tutelare la potenzialità di sviluppo dell’embrione in astratto significa partire dal presupposto che ogni embrione può astrattamente diventare persona: risultano, da questa prospettiva, giustificati i divieti di sperimentazione, crioconservazione e soppressione. Una tutela in astratto della potenzialità di sviluppo, peraltro, finisce per equiparare totalmente l’embrione al nascituro. Una tutela in concreto, al contrario, fondata cioè sul dato di fatto che per ora soltanto gli embrioni impiantati (rectius: impiantandi) hanno la possibilità di divenire persone, esclude la legittimità di tali divieti penali assoluti nei confronti degli embrioni non portati a nascita.

            Aprendo la strada ad una diversa regolamentazione del conflitto tra la libertà della scienza e la tutela dell’embrione non portato a nascita, ma, al tempo stesso, limitando la possibilità di affievolire la tutela del secondo alla sola presenza di altra istanza costituzionale, la Sentenza n. 84/2016 colloca la tutela effettiva che l’ordinamento costituzionale italiano obbligatoriamente offre all’embrione a metà strada tra una tutela in astratto (ed in assoluto) ed una in concreto.

            Questa posizione intermedia, che non è senza contraddizioni in fatto (gli embrioni non portati a nascita sono comunque destinati ad estinguersi) e in diritto (tra le molte, gli embrioni non portati a nascita godono di una maggiore tutela rispetto ai concepiti, non potendo i primi essere in nessun caso soppressi), può essere giustificata unicamente facendo riferimento al contenuto ulteriore, ma, come si è detto, totalmente indeterminato, che la Corte Costituzionale attribuisce al concetto di “dignità dell’embrione” rispetto alla potenzialità di sviluppo.

            5. Conclusioni. Al termine di questa breve indagine, condotta a partire dalla Sentenza n. 84/2016, sembra opportuno riassumerne schematicamente i risultati:

  1. il fondamento della tutela costituzionale (e penale) dell’embrione è la sua dignità;
  2. anche se non esiste un modello di biodiritto a contenuto costituzionale vincolato, il potere del legislatore è limitato al solo bilanciamento tra tutela dell’embrione e altre istanze di rilevanza costituzionale (e, di più, sembrerebbe al solo bilanciamento tra tutela dell’embrione non portato a nascita e altre istanze di rilevanza costituzionale);
  3. il concetto di “dignità dell’embrione” mal si concilia con i principi fondamentali, assiomatici e argomentativi, che dovrebbero ispirare un (bio)diritto penale costituzionalmente orientato, dovendosi perciò ad esso preferire una reale oggettività giuridica (come quella qui proposta della potenzialità di sviluppo in concreto dell’embrione).

Pier Francesco Bresciani      Diritto costituzionale             30 giugno 2016   Citazioni

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FAMIGLIA

La famiglia è la medicina contro l’individualismo della società.

Si sta svolgendo la 63ma Conferenza internazionale Iccfr, la Commissione internazionale per le relazioni della coppia e della famiglia dedicata alle “Famiglie forti, comunità forti”, sostenere le relazioni familiari per generare bene comune. Nella società contemporanea cresce l’importanza dell’individuo, mentre diminuisce la rilevanza del benessere comunitario. Viene così oscurata anche l’idea stessa di dover proteggere la famiglia come “cellula sociale basilare”. Si generano così individui impegnati in una lotta solitaria, una soggettività isolata che tenta di affrontare i propri compiti senza adeguata strumentazione. Anche gli interventi delle istituzioni si organizzano su politiche circoscritte e limitate, indirizzate soprattutto agli individui, senza prestare adeguata attenzione alle relazioni familiari che li possono sostenere.

            Ecco allora la scelta del tema “Famiglie forti, comunità forti”, sostenere le relazioni familiari per generare bene comune che anima la 63.a Conferenza internazionale Iccfr, la Commissione internazionale per le relazioni della coppia e della famiglia a Trento, da ieri venerdì 17 giugno a domenica 19. Presenti il Cisf, Centro Internazionale Studi Famiglia, l’Iccfr, l’Agenzia per la famiglia, la natalità e le politiche giovanili della Provincia autonoma di Trento, l’Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari (AICCeF) e il Forum delle associazioni familiari. Nelle giornate di ieri venerdì 17 giugno, oggi e domani domenica 18 giugno a Trento, si intende fare luce su una concezione di famiglia come soggetto sociale, che genera capitale umano, relazionale e sociale. Una famiglia considerata come il principale luogo di solidarietà e di umanizzazione della persona e della società, vera risorsa generatrice di bene comune.

            Ad aprire le sessioni, il primo giorno tra gli altri (Ugo Rossi, Presidente della Provincia autonoma di Trento, Mons. Lauro Tisi, Vescovo della diocesi di Trento, Anne Berger, Presidente ICCFR, Rita Roberto, Presidente Aiccef, Gianluigi De Palo, Presidente del Forum delle associazioni familiari), anche l’intervento del presidente del Cisf Francesco Belletti. «Si conferma, anche nell’impianto di questa Conferenza, l’idea che la famiglia sia esperienza e “oggetto sociale” multidimensionale, che non si fa appiattire su un’unica linea interpretativa. Sia per comprendere la famiglia, che per lavorare con la famiglia, occorre quindi molta umiltà, da parte dei singoli saperi ed esperti, perché la dimensione familiare eccede qualsiasi specializzazione. Fare famiglia è questione di cuore, di relazione, di affetti, ma riguarda molto anche le leggi e le politiche; e molto ha a che fare con il lavoro, i soldi, il benessere economico, le scelte di stile di vita».

Ecco perché allora, anche in sintonia con il modello consolidato utilizzato dall’Iccfr, le tematiche proposte nell’arco dei tre giorni, sono state e verranno affrontate da una prospettiva multidisciplinare, approfondendo gli aspetti di politica sociale, di terapia e del diritto di famiglia. Dal punto di vista metodologico, il convegno si articolerà su tre distinte modalità: sessioni in plenaria, dove un relatore di riferimento proporrà un intervento di inquadramento generale e ci uno spazio di dialogo con i partecipanti; gruppi di discussione, dove i partecipanti potranno confrontarsi sulle relazioni in plenaria, valorizzando la forte eterogeneità di competenze, storie professionali, nazioni e culture di provenienza; seminari di approfondimento, dove verranno presentate e discusse varie esperienze innovative dall’Italia e dall’estero.

            Gli interventi di questa mattina, sabato 18 giugno, del sociologo Pierpaolo Donati, La famiglia come sorgente di beni (e mali) relazionali per se stessa e per la comunità, «occorre “pensare relazionalmente” la famiglia. Poiché la realtà sociale umana, in primo luogo la famiglia, è fatta di relazioni, solo con un pensare relazionale possiamo vedere qualcosa che altrimenti rimane nascosto, latente, non detto e indicibile, privo di riflessività: cioè quei beni relazionali, innanzitutto famigliari, da cui dipende la qualità umana e spirituale della vita di ogni individuo», «la famiglia è un valore sociale aggiunto, un’istituzione sociale non del passato, ma del futuro determinante per la qualità di vita individuale di cui la società non può fare a meno»; e di Carlo Rimini, Professore ordinario di Diritto privato nell’Università di Milano La gestione quotidiana e l’esecuzione dei giudizi relativi alla responsabilità genitoriale. Alcune indicazioni sulla base dell’esperienza italiana, «a me tocca portarvi agli inferi spiegando cosa succede quando le relazioni si spezzano e la famiglia viene spazzata via dalla crisi», «ho il sospetto che nonostante l’ottimo presupposto di tentare di riconciliare le parti, non ci sia una rete di sicurezza per i genitori che quando non ce la fanno vengono abbandonati senza capire da dove sia nato il conflitto» hanno dato il là al pomeriggio e alla domenica di workshop e seminari.

Chiara Pelizzoni                    famiglia cristiana                   18 giugno 2016

www.famigliacristiana.it/articolo/a-trento-tre-giorni-per-riflettere-sulla-famiglia-cellula-sociale-basilare_94461.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_29_06_2016

Sostenere la famiglia? Fa bene anche al territorio

Sostenere le reti familiari a livello locale vuol dire lavorare per il benessere delle famiglie ma anche promuovere lo sviluppo di un territorio. E poi offrire strumenti di assistenza e di cura per accompagnare i giovani sposi, per affrontare il periodo del pre e del post pasto, per prevenire i conflitti, per diffondere servizi specifici di consulenza, per favorire l’integrazione delle famiglie immigrate. Un sogno o una pretesa? Niente di tutto questo, visto che questi modelli si ritrovano, simili nell’ispirazione pur con le inevitabili variazioni, dall’Italia alla Germania, dalla Finlandia agli Stati Uniti, da Malta all’Australia.

            Il messaggio che arriva dalla Conferenza organizzata a Trento dalla Iccfr (Commissione internazionale per le relazioni della coppia e della famiglia) è chiarissimo e sarebbe urgente farlo rimbalzare nei palazzi della politica o comunque laddove si prendono decisioni importanti dal punto di vista amministrativo: alla radice del bene comune ci può essere solo la valorizzazione della famiglia come soggetto sociale. Perché solo la famiglia che riesce ad assolvere al meglio le proprie funzioni generative, educative, relazionali rimane luogo di solidarietà e di umanizzazione della persona e della società, vera forza generatrice del bene comune. Da qui la necessità di spezzare la logica di una politica che si rivolge soprattutto agli individui, con misure circoscritte e limitate, senza prestare adeguate attenzioni alle famiglie che ogni giorno accolgono, accompagnano e sostengono questi individui.

            La ricchezza e l’evidenza dei progetti internazionali presentati a Trento conferma che, soprattutto a livello locale, la strada delle reti familiari è un volano di benessere per tutti. «Abbiamo dimostrato – spiega Francesco Belletti, direttore del Cisf, tra gli organizzatori dell’evento – come la famiglia sia esperienza e ‘oggetto sociale’ multidimensionale, che non si fa appiattire su un’unica linea interpretativa». Fare famiglia, ha messo in luce ancora Belletti, «è questione di cuore, di relazioni, di affetti, ma riguarda molto anche le leggi e le politiche, il lavoro, i soldi, il benessere economico, gli stili di vita». Il racconto familiare che emerge dalla conferenza di Trento è quello di tante realtà associative diverse che, quando trovano situazioni, sostegni, alleanze significative, riescono improvvisamente a togliere alla famiglia i panni della grande malata per riassegnarle quella funzione di primo generatore di capitale sociale che le è connaturata.

            «La sfida sulla famiglia in termini di risorsa e di generatività è grande, occorre lavorare in rete. Dobbiamo uscire dalla logica della famiglia come aggregato di individui per considerarla come luogo privilegiato per il benessere della persona e della società», hanno ribadito Maria Grazia Colombo ed Emma Ciccarelli, le due vicepresidenti del Forum delle associazioni familiari. Non solo parole. Proprio il caso Trento dimostra, come abbiamo più volte documentato sui nostri media, che l’invenzione dei ‘distretti familiari’ e del ‘marchio famiglia’, sono modalità non solo per offrire ai nuclei familiari servizi di alto profilo e vantaggi economici, ma soprattutto per sottolineare come il far famiglia si possa inserire in modo sereno e accogliente in un nuovo progetto di comunità. Ma succede anche in Finlandia, per esempio, con il progetto ‘Happy Hour’, una modalità innovativa per stare accanto alle coppie nel periodo prima e dopo il parto, con una equipe di specialisti che accompagnano i neogenitori per quanto riguarda il prendersi cura e per gli aspetti educativi.

            Oppure in Germania, in Renania-Palatinato, dove è attivo da anni un punto di servizi centralizzati per le istituzioni che sostengono la famiglia. Numerosi anche i progetti per la prevenzione dei conflitti coniugali. A dimostrazione non solo che la crisi si risolve più facilmente se l’intervento è tempestivo, ma che ad ogni latitudine e in ogni cultura le macerie sociali lasciate dagli slogan forsennati del liberismo affettivo (separarsi è bello) sono un peso di cui tutti vorrebbero liberarsi. A Boston sono attive associazioni che lavorano con i tribunali locali e favoriscono percorsi di rieducazione alla genitorialità. L’ha spiegato Anne Berger, presidente dell’Iccfr. «Quando una coppia va in crisi e la situazione rischia di ripercuotersi sui figli, il giudice in accordo con le nostre associazioni può ordinare percorsi di mediazione. E spesso riusciamo a prevenire l’irreparabile».

            Un progetto coordinato per gruppi di separati ad alta conflittualità è presente anche in Germania. Sotto la guida di un tutor, serve sia a gestire meglio le fasi della separazione, sia a recuperare le responsabilità genitoriali. «Abbiamo avuto modo di vedere come sia possibile realizzare una bella collaborazione tra tutti i professionisti che lavorano intorno alla famiglia, senza divisioni ideologiche», osserva Rita Roberto, presidente Aiccef (Associazione italiana consulenti coniugali e familiari). «La famiglia non è un ‘articolo in esaurimento’ ma bene comune e bene relazionale per l’intera comunità. I vari progetti dimostrano come in tutto il mondo ci sia desiderio di famiglia e come ovunque si tenti di individuare nuove strade per valorizzare e tutelare la realtà familiare, al di là delle situazioni di crisi».

Luciano Moia avvenire         28 giugno 2016

www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Sostenere-la-famiglia–Fa-bene-anche-al-territorio-.aspx

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Francesco: è la famiglia che soffre di più per la mancanza del lavoro

Durante l’udienza giubilare di oggi il Papa ha salutato i Consulenti del Lavoro che oggi hanno aperto il 7° Festival del Lavoro. Francesco li ha incoraggiati a “promuovere la cultura del lavoro che assicura la dignità della persona e il bene comune della società”. Il Papa richiama la necessità di un lavoro che dia certezze, soprattutto alla famiglia. “E’ proprio la famiglia, infatti – dice Francesco – a soffrire di più per le conseguenze di un cattivo lavoro: cattivo per la sua scarsità e per la sua precarietà”: “Voi, consulenti del lavoro, non avete un compito assistenziale, ma promozionale, affinché in ambito nazionale ed europeo le istituzioni e gli attori economici perseguano in modo concertato l’obiettivo della piena e dignitosa occupazione, perché il lavoro dà dignità”.

I Consulenti del Lavoro oggi aprono il loro settimo Festival e anche secondo loro è necessario conciliare di più i tempi del lavoro e della famiglia. Marina Calderone, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro: Nel momento in cui non abbiamo una serie di strumenti che poi sono i servizi di sostegno alla persona e alla famiglia diventa difficile, soprattutto per le madri, potersi dedicare all’attività lavorativa. Vediamo questo anche all’interno di un lavoro che come Consiglio nazionale abbiamo promosso attraverso un libro che si chiama “La fatica nelle mani”, che ha come obiettivo quello di mettere in evidenza quanto invece oggi la crisi della famiglia possa tradursi negativamente anche in crisi nel mondo del lavoro e viceversa. Se il capofamiglia perde il lavoro si perde anche quella condizione di stabilità su cui invece puntano anche le nuove generazioni di figli. Quindi un welfare della famiglia, un’attenzione a creare dei servizi di sostegno alla famiglia, favorendo anche delle politiche di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare, è assolutamente indispensabile.

D. – Siamo in presenza di una ripresa che non porta lavoro, almeno questo principalmente in Europa. Che cosa sta succedendo secondo lei?

R. – Noi da tempo diciamo che le riforme in materia di lavoro, cioè le buone norme, certamente accompagnano una ripresa dell’occupazione, ma non possono essere assolutamente stravolgenti rispetto a quelli che sono i dati tendenziali. Una buona norma da sola non fa lavoro se non è calata in un contesto all’interno del quale invece c’è tutta un’altra serie di provvedimenti a sostegno dell’economia e anche della riduzione della contrazione dei costi del lavoro. Il costo del lavoro in Italia è comunque una delle componenti più critiche, visto e considerato che quello che è il differenziale, quello che si chiama “cuneo fiscale contributivo” è tra i più alti in Europa. Un lavoratore italiano per percepire mille euro in busta paga costa all’azienda il 115% in più. Abbiamo anche osservato nell’ultimo anno quanto gli sgravi che erano collegati alla legge di stabilità 2015 abbiano contribuito ad aumentare il numero di contratti a tempo indeterminato. Quegli sgravi hanno fatto di più rispetto a quelle norme come il contratto a tutele crescenti che è stato presentato come la risoluzione per la problematica della flessibilità in uscita.

D. – Secondo lei ad oggi in Italia c’è troppa flessibilità? Vediamo che anche in Francia le proteste si stanno concentrando su questo aspetto.

R. – In Francia poi si va a concretizzare un percorso che noi abbiamo vissuto nel corso del 2015, cioè il tabù dell’articolo 18 e quindi la preoccupazione, soprattutto per i lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti, di perdere stabilità a causa della nuova norma sulle tutele crescenti. Penso che l’azienda abbia bisogno di flessibilità; certamente non di flessibilità cattiva, cioè quella che va oltre il confine delle norme e soprattutto dell’etica del lavoro. Abbiamo bisogno sicuramente di creare un tessuto imprenditoriale di qualità e soprattutto dobbiamo accompagnare le imprese a risparmiare non solo in termini di costo del lavoro, ma di valore dell’attività lavorativa, nel senso che se riusciamo ad ottimizzare le risorse, a formare i lavoratori, a riqualificarli per le nuove attività lavorative, questo vale per l’impresa molto più della libertà di poter recedere da un rapporto d i lavoro se c’è necessità di licenziare. L’azienda preferisce avere personale qualificato su cui investire

Alessandro Guarasci                         notiziario radio vaticana       30 giugno 2016

            http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

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NULLITÀ MATRIMONIALI

Voglio chiedere la nullità matrimoniale, cosa devo fare?

Dal parroco alla diocesi, sino al libello: ecco quali sono i primi passi da compiere. Quali sono i primi passi da compiere se una coppia decide di chiedere la nullità del proprio matrimonio celebrato in chiesa?

            Ci sono tre passaggi, che possiamo definire tre livelli di “consulenze” da seguire. Lo spiega bene il volume “La riforma dei processi matrimoniali di Papa Francesco” a cura della Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale (Ancora editrice)

  1. Il parroco. Può essere anzitutto frequente il caso in cui la persona interessata si rivolga al suo parroco o ad altro sacerdote conosciuto, poiché con questi ha maggiore confidenza e facilità ad esprimere la propria situazione familiare. Nel nuovo regolamento di procedura varato dalla Riforma di Papa Francesco si accenna a questi operatori: «La stessa indagine sarà affidata a persone ritenute idonee dall’Ordinario del luogo, dotate di competenze anche se non esclusivamente giuridico-canoniche. Tra di esse vi sono in primo luogo il parroco proprio o quello che ha preparato i coniugi alla celebrazione delle nozze. Questo compito di consulenza può essere affidato anche ad altri chierici, consacrati o laici approvati dall’Ordinario del luogo» (art. 3, primo capoverso). Queste persone dovrebbero appurare prima di tutto se non vi sia più la possibilità di risolvere la crisi coniugale ed offrire quindi un adeguato supporto spirituale; inoltre, se richiesto o opportuno, dovrebbero rendersi disponibili a un primo ascolto per iniziare a valutare se sorgano dubbi significativi circa la validità del matrimonio. Queste persone che per prime sono coinvolte in un’opera di consulenza dovranno offrire un parere equilibrato e, là dove ve ne siano i presupposti, inviare ad un livello di consulenza più specializzato.
  2. La diocesi. Ecco quindi un secondo possibile livello di consulenza: quello rappresentato da organismi o personale specializzato in questo ambito. Sempre nella Riforma si afferma: «La diocesi, o più diocesi insieme, secondo gli attuali raggruppamenti, possono costituire una struttura stabile attraverso cui fornire questo servizio» (art. 3, secondo capoverso). Si tratta quindi di persone/consulenti preparati nel diritto matrimoniale, oltre che provvisti di particolare sensibilità pastorale. Di fatto tale servizio già da tempo viene svolto in diverse diocesi, soprattutto da parte di sacerdoti esperti in diritto canonico o mansionari di qualche ufficio di curia; oppure da parte di consulenti canonici, anche laici, che operano nei consultori familiari; si tratta quindi oggi di estendere tale servizio in tutte le Chiese particolari o di organizzarlo ancora meglio. In questo secondo livello di analisi della vicenda matrimoniale si entrerà più in profondità, cercando di precisare se in realtà emergano motivi e prove sufficienti per introdurre una causa di nullità; non si tratta certamente di esprimere già una sentenza, ma di evidenziare se esiste quel fumus boni iuris che permette di non avviare in modo azzardato una causa di nullità. L’uomo non può dividere ciò che Dio ha unito. Si tratta di un servizio al quale i fedeli possano rivolgersi senza grande incomodo e in modo assolutamente gratuito. Alla fine di questa consulenza dovrà essere espresso un parere preciso (benché non insindacabile) circa la possibilità o meno di procedere in una causa di nullità, offrendo quindi, in caso positivo, le debite indicazioni per proseguire nel cammino, ossia generalmente quella di affidarsi o a un patrono stabile o a un avvocato di fiducia; inoltre potrebbe essere utile fornire sinteticamente all’interessato alcune informazioni circa la procedura che la causa seguirà, i tempi e i costi previsti.
  3. Il legale. Un terzo livello di consulenza, ma come detto potrebbe anche essere l’unico, è quello rappresentato dall’avvocato, che poi avrebbe anche competenza e titolo a patrocinare la causa. Tale figura è prevista e regolata nei cann. 1481-1490, distinguendo fra «procuratore» (persona incaricata di rappresentare legalmente la parte in giudizio) e «avvocato» (persona che consiglia, assiste e difende la parte durante il processo): di solito però è una medesima persona che ricopre entrambi i ruoli. Dunque la figura dell’avvocato rappresenta un po’ l’anello finale della consulenza, quello in cui definitivamente si decide per l’introduzione della causa, approntando quanto necessario. È ciò che sostanzialmente richiama RP (Regolamento di Procedura) 4: «L’indagine pastorale raccoglie gli elementi utili per l’eventuale introduzione della causa da parte dei coniugi o del loro patrono davanti al tribunale competente. Si indaghi se le parti sono d’accordo nel chiedere la nullità»; il fatto di appurare quale sia la posizione dell’altro coniuge può servire per raccogliere ulteriori elementi per la causa o anche per verificare l’eventualità, oggi ammessa, che a promuovere la causa siano entrambi i coniugi, anche in vista di percorrere la cosiddetta via più breve davanti al vescovo (cf art. 5 [= cann. 1683-1687 MIDI]), se la causa presenta evidenti motivi di nullità.

Il libello. La consulenza che si conclude con la decisione di introdurre la causa approda quindi alla stesura del libello, ossia della domanda ufficiale con cui la parte, assistita dal suo patrono, chiede al tribunale competente di avviare una causa di nullità sul suo matrimonio, indicando brevemente i tratti della vicenda matrimoniale e puntualizzando quelli che sono ritenuti i motivi per cui si ritiene vi sia una nullità. Così infatti indica RP 5: «Raccolti tutti gli elementi, l’indagine si chiude con il libello, da presentare, se del caso, al competente tribunale»

Gelsomino Del Guercio         Aleteia                        30 giugno 2016         

http://it.aleteia.org/2016/06/30/nullita-matrimoniale-cosa-fare-parroco-diocesi-libello

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OMOADOZIONE

Stepchild adoption, approfondimento necessario.               Estratto

            Altra risposta sollecitata al ministro Orlando ha riguardato la tematica della stepchild adoption. Rispondendo alle interrogazioni dell’onorevole Scotto ed altri, il Guardasigilli ha ricordato come l’articolo 44 della Legge 184/1983 sull’adozione in casi particolari – compresa l’adozione del figlio del coniuge – non pone alcun divieto in base all’orientamento sessuale dell’adottante. E’ questo il contesto normativo in cui si iscrive la tematica in oggetto, la cui trattazione – sottolinea Orlando – richiede, anche in sede parlamentare, una profonda e condivisa riflessione, riflessione che “non implica alcun arretramento sulla tutela dei diritti e degli interessi degli aspiranti all’adozione e dei minori, ma al contrario rassicura che l’assetto normativo vigente è comunque già in grado di garantire tutela nelle situazioni rappresentate”.

            In assenza di una più puntuale regolamentazione normativa sono, infatti, i giudici a recepire i cambiamenti sociali e le istanze via via presentate a tutela dei soggetti più vulnerabili. E per il ministro, non appare neanche necessario, allo stato, un intervento normativo che consenta l’acquisizione del vincolo di parentela all’adottato in caso di stepchild adoption, posto che l’attuale versione dell’articolo 74 del codice civile, “ne prevede la sussistenza in tutti i casi adozione, senza escludere in alcun modo l’ipotesi dell’adozione in casi particolari”.

Eleonora Pergolari    eDotto             30 giugno 2016

www.edotto.com/articolo/orlando-su-legittima-difesa-e-stepchild-adoption?newsletter_id=5774fe15fdb94d127c7eeb54&utm_campaign=PostDelPomeriggio-30%2f06%2f2016&utm_medium=email&utm_source=newsletter&utm_content=orlando-su-legittima-difesa-e-stepchild-adoption&guid=95d4bbb3-b2fa-4444-800e-57eec7c9090b

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OMOFILIA

“I vescovi attuino l’Amoris Laetitia”. L’appello dei cristiani LGBT dal Toscana Pride.

Il tradizionale appuntamento con il Gay Pride – festa colorata e gioiosa ma anche occasione per rivendicare i diritti di persone e famiglie omo e transessuali in un Paese dalla laicità ancora incompiuta – ha significativamente fatto tappa, lo scorso 18 giugno 2016 per la prima volta, anche nel capoluogo toscano dove, insieme a carri e striscioni degli storici movimenti lgbt, ha fatto capolino anche lo striscione di Kairòs, gruppo di gay, lesbiche e trans di Firenze che hanno voluto portare al Toscana Pride «la testimonianza positiva del cammino dei cristiani Lgbt e il racconto dell’accoglienza inclusiva di tante parrocchie fiorentine e dei preti e suore che li accompagnano».

Accanto ai membri di Kairos hanno infatti pregato e camminato suor Stefania Baldini (domenicana

residente a Prato e collaboratrice della Comunità di Base delle Piagge di Firenze), don Andrea Bigalli (parroco a Sant’Andrea in Percussina, Firenze) e don Alessandro Santoro (storico animatore della Comunità delle Piagge). «Quello dei cristiani Lgbt non è un cammino facile ma può aiutare ad abbattere tanti muri nella società e nella Chiesa», si legge nel comunicato diramato da Kairòs a poche ore dall’inizio della parata.

In quella stessa data il gruppo ha inviato una lettera a tutti i vescovi toscani delle diocesi in cui risiedono i suoi componenti: «Ci sentiamo profondamente incalzati dalle parole con cui il Sinodo ha invitato la Chiesa ad “accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza” (Amoris Laetitia, n. 291) per “aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia immeritata, incondizionata e gratuita” (Amoris Laetitia, n. 297)».

Durante i preparativi del Toscana Pride, affermano ancora i membri di Kairòs, «abbiamo incontrato persone Lgbt tra le più diverse, di cui molte lontane dalle Chiese ma non da Dio, spesso ferite e allontanate da parole e gesti ricevuti dai loro pastori. Abbiamo ascoltato la loro sofferenza, che è stata in passato anche la nostra, e abbiamo compreso la loro rabbia verso chi li ha feriti, non avendo mai incontrato una Chiesa capace di mettersi in ascolto del loro vissuto». Di fronte a tutto questo – incomprensioni, chiusure, rifiuti e sofferenze in seno alla comunità religiosa – Kairòs si è reso conto di poter condividere con altri la propria esperienza, «testimonianza viva e palpitante di come la Parola, quando si apre alla misericordia, produca frutto e sappia curare ferite e far “fiorire” vite nella fede. Ecco perché abbiamo deciso che era giunto, per noi, il momento di farci testimoni concreti del nostro cammino cristiano di misericordia, in una realtà che spesso non ne ha avuta, affinché “ogni donna e uomo abbiano la vita e l’abbiano in pienezza ed abbondanza” (cf. Gv 10,10)».

Ecco dunque la ragione principale che ha spinto il gruppo a partecipare e organizzare la parata di Firenze: «Accogliere e confrontarci con questi compagni di viaggio, ben consci del mandato che ci affidò il card. Antonelli, quando era arcivescovo di Firenze, che dopo averci ricevuto in vescovado ci esortò a fare “quella pastorale che la Chiesa ancora non sa fare”».

Quali speranze? La lettera del 18 giugno rappresenta, a partire da questo rinnovato impegno del gruppo di credenti Lgbt sul territorio toscano, una nuova opportunità per chiedere ai vescovi ascolto, incontro e confronto, necessari «per costruire quella pastorale delle “periferie esistenziali”, tanto cara a papa Francesco».

Al momento nessun vescovo ha replicato alla lettera di Kairòs e «realisticamente non ci aspettiamo risposte», conferma alla nostra agenzia Innocenzo Pontillo, coordinatore del gruppo, contattato il 22 giugno scorso. La nostra unica speranza, prosegue, «è che i vescovi toscani comincino a interrogarsi seriamente sulle parole, seppur molto timide, scaturite dal sinodo dei Vescovi e raccolte nell’Amoris Letitia su questo tema, affinché incomincino a confrontarsi realmente con le persone omosessuali e le loro famiglie, perché è tempo di dialogo nella Chiesa e non più di sterile contrapposizione».

Giampaolo Petrucci   Adista notizie – n. 24, 2 luglio 2016

www.gionata.org/i-vescovi-attuino-lamoris-laetitia-lappello-dei-cristiani-lgbt-dal-toscana-pride

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PARLAMENTO

Senato 2° Commissione Giustizia.    Disposizioni sul cognome dei figli

(1628)Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli, approvato dalla Camera dei deputati in un testo risultante dall’unificazione di un disegno di legge d’in iziativa governativa e dei disegni di legge d’iniziativa dei deputati Laura Garavini ed altri; Marisa Nicchi ed altri; Maria Rosaria Carfagna e Deborah Bergamini; Renate Genhard ed altri; Marilena Fabbri).

28 giugno 2016. Prosegue l’esame congiunto, sospeso nella seduta del 22 giugno 2016.

            Il senatore Palma (FI-PdL XVII) osserva che, dopo aver letto attentamente il disegno di legge approvato dall’altro ramo del Parlamento, non è riuscito a comprenderne la ratio. Ritiene infatti bizzarro che l’ordinamento italiano debba veder modificata una consolidata tradizione normativa in materia di attribuzione del cognome dei figli solo in ragione di un’esigenza di conformazione a valori giuridici europei che non ha, in realtà, questa implicazione. Bisogna considerare che la materia del cognome non riguarda soltanto il rapporto tra genitori e figli, ma investe un progetto generale di famiglia, la cui identificazione avviene principalmente attraverso il cognome. Pertanto modificare la disciplina sull’attribuzione del cognome significa anche incidere in modo significativo sul concetto che un determinato popolo ha della famiglia. Più nel dettaglio ritiene di dubbia applicabilità le norme di cui all’articolo 1 del disegno di legge n. 1628 che, inserendo l’articolo 143-quater del codice civile, prevedono che il padre e la madre possono concordare l’ordine secondo cui attribuire il cognome di entrambi al figlio ovvero che, in caso di mancato accordo, si applichi un automatismo alfabetico per l’attribuzione dei cognomi di entrambi i genitori. Sotto tale profilo sarebbe, in via subordinata, quantomeno necessario prevedere che l’accordo sia raggiunto in un momento precedente al matrimonio. Non vi è chi non veda che questa normativa comporta altresì la necessità di una modifica della disciplina sul cognome dei coniugi che è, invece, assente nel testo in questione. Infine l’oratore si sofferma criticamente sull’articolo 4 del disegno di legge in titolo che prevede che il figlio solo se maggiorenne può modificare il proprio cognome ovvero aggiungere il cognome materno o il cognome paterno. Sempre all’articolo 4 si prevede una disciplina diversa per i figli nati fuori dal matrimonio, i quali non possono aggiungere al proprio il cognome del genitore che non abbia effettuato il riconoscimento. A tal proposito ritiene che i genitori debbano poter modificare il cognome del figlio prima che questo diventi maggiorenne; analogamente la normativa deve essere modificata anche per il periodo transitorio. Preannuncia in conclusione la propria contrarietà al disegno di legge n. 1628.

Il senatore Caliendo (FI-PdL XVII) osserva che, nella materia in esame, occorre preliminarmente individuare i valori da tutelare, ossia la necessità di individuare le origini familiari insieme a determinati valori filantropici. Peraltro fin dalla XIV legislatura sono stati copiosi i disegni di legge in materia di cognome, quantunque, essi presentino forti chiaroscuri dal punto di vista normativo. Anch’egli critica la previsione dell’automatismo alfabetico in caso di mancato accordo dei coniugi. Per quanto riguarda poi la necessità di garantire la parità tra madre e padre nell’attribuzione del cognome, questa costituisce un’esigenza reale e, al riguardo, non si può non tener conto della norma che la legge n. 151 del 1975, di riforma sul diritto di famiglia, ha previsto per l’aggiunta del cognome del marito a quello alla moglie. Egli ritiene peraltro necessario che il figlio si identifichi non solo con il cognome di entrambi i genitori, ma anche con la famiglia di origine. In questa prospettiva la previsione obbligatoria del doppio cognome, che pure è prevista in altri ordinamenti come quello spagnolo, da un lato, garantisce la parità dei genitori, dall’altro tutela l’identità della famiglia in senso ampio tradizionalmente identificata nel lato paterno.

            La senatrice Stefani (LN-Aut) condivide le perplessità manifestate dai senatori Palma e Caliendo relativamente al disegno di legge n. 1628. Più in particolare si sofferma criticamente sulla disposizione ambigua che prevede che il figlio maggiorenne possa eliminare uno dei cognomi che gli sono stati attribuiti alla nascita. Ritiene altresì poco chiara la disposizione che prevede che, nel caso di doppio cognome dei genitori, questi possono trasmetterne uno solo al figlio. Infine richiama l’attenzione sull’opportunità di svolgere un’eventuale audizione di esperti dei servizi anagrafici per comprendere meglio l’impatto che dall’approvazione della nuova legge potrà derivare sull’ordinamento.

            Il relatore Lo Giudice (PD), replicando ai rilievi emersi a vario titolo nella discussione, osserva che la normativa vigente sull’attribuzione del cognome non è di tipo consuetudinario ma deriva dal sistema, come ha precisato la Corte costituzionale nella sentenza n. 61 del 2006. Per quanto riguarda poi l’opportunità o meno di modificare anche la materia del cognome dei coniugi, il testo approvato dalla Camera dei deputati esclude siffatto intervento normativo per una scelta politica di fondo, ma numerosi disegni di legge presentati anche al Senato prevedono invece una modifica congiunta della disciplina del cognome dei figli e dei coniugi. A tale riguardo la Commissione dovrà fare un’attenta valutazione.     (…)     

Il relatore Lo Giudice (PD) si sofferma infine sulla questione della trasmissione del doppio cognome che evidentemente dovrà essere approfondita. Per quanto riguarda le audizioni, sollecitate dalla senatrice Stefani, ricorda che nel corso dell’esame alla Camera dei deputati, si è svolta un’interessante audizione del Direttore centrale per i servizi demografici, prefetto Cinzia Torraco, di cui la Commissione ha acquisito gli atti che potranno essere molto utili per la prosecuzione dell’esame. Quanto alla norma che dispone una normativa particolare per i figli nati fuori dal matrimonio, dichiara che essa si riferisce solo al caso del riconoscimento successivo da parte del secondo genitore.

            (…) Il seguito dell’esame congiunto è infine rinviato.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=981721

Camera Assemblea   

29 giugno 2016 Svolgimento di interrogazioni a risposta immediata.

Orientamenti del Governo in merito alla questione della cosiddetta stepchild adoption. n. 3-02353

Annalisa Pannarale. Ministro Orlando, pochi giorni fa una storica sentenza della Corte di Cassazione si è espressa a favore dell’adozione dei bambini all’interno di coppie dello stesso sesso. Questa sentenza importantissima ha sancito un principio fondamentale: l’interesse del minore è preminente, superiore e viene prima di tutto. Come sappiamo, a differenza della magistratura, la politica invece ha mostrato tutta la sua debolezza stralciando dalla legge in materia di unioni civili ogni possibilità di adozione per i figli di coppie dello stesso sesso. Ai bambini e alle bambine deve essere garantita sempre la massima protezione. Per questo le chiediamo, Ministro, cosa intenda fare perché Governo e maggioranza promuovano l’approvazione rapida di una legge in materia di adozione nelle coppie dello stesso sesso, portando il nostro ordinamento italiano a conformarsi ai principi delle convenzioni internazionali in materia di diritti dei bambini, garantendo cioè che essi possano essere adottati dall’altro genitore dello stesso o di sesso diverso con adozione piena anche sotto il profilo del riconoscimento della parentela con i fratelli e con i nonni.

interrogazione                 n. 3-02353

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0644&tipo=documenti_seduta&pag=allegato_a#si.3-02353

Andrea Orlando, Ministro della giustizia. Il tema che gli interpellanti sollecitano riguarda la delicata questione delle cosiddette stepchild adoption. Com’è noto l’articolo 44 della legge n. 184 del 1983 che disciplina l’adozione in casi particolari, tra cui l’adozione del figlio del coniuge, non pone alcun divieto in base all’orientamento sessuale dell’adottante. Detta modalità adottiva soccorre anche nelle ipotesi in cui non vi è stata dichiarazione dello stato di adottabilità. In questo contesto normativo si iscrive la tematica sollecitata, rivelatasi di estrema delicatezza e la cui trattazione richiede anche in sede parlamentare una profonda e condivisa riflessione. È la legge stessa che rimanda l’interpretazione sui fatti e sul caso concreto, trattandosi di situazioni che hanno per loro natura una peculiarità e una specificità che, ove tipizzata, rischierebbe di irrigidire l’istituto stesso dell’adozione. Tale istituto per sua natura richiede, invece, una complessa valutazione delle circostanze concrete. È proprio l’assenza di una più puntuale regolamentazione normativa che consente ai magistrati di recepire i cambiamenti sociali e le istanze che, di volta in volta, vengono presentate a tutela anzitutto dei soggetti più vulnerabili. L’attività giurisdizionale ha peraltro assicurato e continuerà ad assicurare l’apprezzamento di volta in volta della sussistenza dei presupposti per l’adozione in casi particolari. Tale attività del resto ha già prodotto risultati condivisi in talune delle situazioni che gli interroganti propongono di disciplinare ulteriormente. Ciò premesso, la pronuncia della Corte di Cassazione richiamata dagli interroganti conferma in realtà che, anche nel campo della stepchild adoption, il giudice chiamato ad apprezzare il caso concreto ha assicurato stabilità alla relazione nell’interesse della continuità affettiva, così tutelando il superiore interesse del minore attraverso l’applicazione della normativa vigente. Pertanto l’avvertita necessità di un approfondimento su questo aspetto, come confermato dalla pronuncia richiamata, non implica alcun arretramento sulla tutela dei diritti e degli interessi degli aspiranti all’adozione dei minori ma, al contrario, rassicura che l’assetto normativo vigente è già in grado di garantire tutela nelle situazioni rappresentate.

In merito all’ulteriore questione sollevata dagli interroganti non appare necessario allo stato neppure un intervento normativo che consenta l’acquisizione del vincolo di parentela all’adottato in caso di stepchild adoption, atteso che l’articolo 74 del codice civile, a seguito di recenti modifiche, ne prevede la sussistenza in tutti i casi di adozione, senza escludere in alcun modo l’ipotesi dell’adozione in casi particolari. Se mi è consentita un’ulteriore sottolineatura ho già evidenziato nei giorni scorsi come sia sorprendente che in questo caso si chiami in causa una supplenza della giurisdizione rispetto all’attività del legislatore perché in questo caso è stato il legislatore a decidere di non intervenire su questo tema, lasciando quindi il margine di apprezzamento del magistrato che, a mio avviso, è comunque insopprimibile in una situazione come questa e molto più ampio di quello che è previsto in altre situazioni.

Annalisa Pannarale. Ministro, in realtà noi sappiamo bene che l’Italia rispetto all’Europa è indietro su moltissimi terreni fondamentali. Ne abbiamo discusso di uno di questi qualche ora fa in quest’Aula, il diritto allo studio; e poi il reddito di esistenza, la fecondazione assistita, i matrimoni omosessuali, l’adozione dei bimbi per le coppie omosessuali. La magistratura – lei lo ha ricordato molto bene, Ministro – arriva in questo Paese dove non arriva la politica, cioè dove la politica, come ha detto lei, non è in grado di interpretare e di dare risposte ai cambiamenti sociali e alle istanze.

Voglio ricordare che stiamo parlando di bambini e di bambine che sono nati e cresciuti, che crescono all’interno di famiglie che sono assolutamente salde, unite da tempo, capaci di allevare questi minori con senso di responsabilità e profondo amore. C’è una realtà enorme che già esiste in questo Paese, che è fatta di legami, di quotidianità, di fatica, di responsabilità, e che va avanti a prescindere da interpretazioni differenti, a prescindere dalle leggi che non ci sono, dai pregiudizi o dalla disinformazione che tanta parte della politica, anche in seno alla discussione sul disegno di legge in materia di diritti civili, ha mostrato.

Ora, in questo Paese una ragazzina o un ragazzino che ha una seconda mamma o un secondo papà, e che sta bene, che è sereno, che cresce in maniera assolutamente tranquilla, in realtà rischia di avere meno diritti del ragazzino che si trova in una famiglia etero. Ci sono tanti tribunali che hanno deciso con sentenze favorevoli a questo tipo di adozione, ma noi abbiamo bisogno di una legge che possa rimuovere in maniera definitiva una discriminazione evidente, perché le coppie omosessuali devono comunque necessariamente rivolgersi al vaglio dei giudici, ed è questo che già determina una discriminazione.

E allora, Ministro, noi le chiediamo ancora una volta di dare un contributo importante perché possa essere rivista in questo Paese tutta la materia sulle adozioni, perché si possa appunto mettere al primo posto l’interesse del minore e i legami affettivi e perché sia consentita quell’adozione piena; in un Paese nel quale – glielo voglio ricordare – fino a poco tempo fa i figli naturali, cioè quelli nati al di fuori del matrimonio, non avevano né zii né nonni: per natura appunto, perché al di fuori del matrimonio non potevano essere loro riconosciuti. Ecco, la materia sulle adozioni avrebbe bisogno di essere rivista, riformata e di un chiarimento definitivo. (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Italiana – Sinistra Ecologia Libertà).

Pag. 67

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0644&tipo=stenografico#sed0644.stenografico.tit00070.sub00090

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SEGRETO PROFESSIONALE

Sulla tutela del segreto professionale, tra l’obbligo di denuncia e di referto.

            L’articolo 622 del Codice Penale punisce la rivelazione del segreto professionale [«Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento […]. Il delitto è punibile a querela della persona offesa»], e prevede che costituisca violazione della norma penale rendere noti fatti, circostanze, informazioni, notizie la cui diffusione potrebbe creare nocumento alla persona che si è rivolta al professionista in ragione del suo stato, ufficio, arte o professione (giornalista, medico, avvocato, commercialista, assistente sociale [Questi ultimi inseriti tra i titolari di segreto professionale dalla legge n. 88 del 14 aprile 2001 “Disposizioni concernenti l’obbligo del segreto professionale per gli assistenti sociali”]).

            Dunque, perché il reato si concretizzi, è sufficiente che la violazione del segreto possa comportare un danno o un pregiudizio giuridicamente rilevanti – siano essi morali, materiali, esistenziali – alla persona offesa, ma non è necessario che li “comporti” o li “debba comportare”: è pienamente sufficiente la potenzialità dannosa dell’azione del professionista. Si evince ancora dalla disposizione che la rivelazione deve avvenire “senza giusta causa”: appare evidente che con tale formula il legislatore penale non intendeva ricomprendere le cause scriminanti generiche previste dagli articoli 50-54 del Codice Penale che, per operare, non necessitano di un esplicito richiamo all’interno della disposizione penale speciale. Siamo in presenza, invece, di un elemento al di sopra delle scriminanti intese in senso stretto, che opera mandando esente da responsabilità penali l’autore della rivelazione quando, effettuato un bilanciamento tra gli interessi in gioco, il professionista rivela il segreto per tutelare un bene di rango superiore [Potremmo considerare, per esempio, il caso di un medico che riveli la tossicodipendenza per scongiurare il concreto pericolo di vita del paziente].

            Come conciliare dunque obbligo di denuncia e obbligo al segreto professionale? Nella mappa delle norme codicistiche l’obbligo di denuncia trova collocazione nel titolo relativo ai delitti contro l’Amministrazione della giustizia, agli articoli 361 e 362 del Codice Penale, e 331 del codice di rito. L’articolo 622 del Codice Penale, inerente il segreto professionale, si colloca invece nel panorama degli articoli riguardanti la tutela della persona e della sua libertà. La collocazione delle norme nel codice non è casuale, ma frutto di un’attenta analisi dei beni giuridici che le singole disposizioni si propongono di tutelare. Il codice penale predilige gli interessi collettivi a quelli individuali, ed è per questo che nei primi titoli del libro II si trovano elencate le fattispecie delittuose contro lo Stato, la sua Amministrazione, il suo Sistema giudiziario; seguono i delitti contro la persona e quelli contro il patrimonio.

            Si può concludere quindi che, seguendo questa logica, per il medico-pubblico ufficiale che abbia avuto notizia di un reato nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, scatti l’obbligo di denuncia in virtù del suo rapporto privilegiato con la pubblica amministrazione, che pone in una posizione di minor rilievo il rapporto personale col paziente, tutelato dall’articolo 622 del Codice Penale.

            Ciò detto, quid iuris circa l’obbligo di referto? Il referto, definito come l’atto mediante il quale ogni esercente una professione sanitaria rende noti all’autorità giudiziaria competente i casi in cui ha prestato la propria assistenza od opera che presentino le caratteristiche di delitti perseguibili d’ufficio, rientra tra le attività doverose che il medico è tenuto a compiere, tanto che, co e disciplinato dall’articolo 365 del Codice Penale, l’inadempimento di tale obbligo è penalmente sanzionato [“Chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità indicata nell’art. 361, è punito […]. Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”].

            Oggetto del referto sono quei casi che presentano i caratteri del delitto perseguibile d’ufficio: a nulla rileva perciò che l’autore possa essere persona non imputabile, essendo esclusi dall’obbligo soltanto i casi nei quali la procedibilità è condizionata dalla presentazione della querela.

            Giunti a questo punto è necessario mettere in evidenza la differenza che intercorre tra il referto e la denuncia, sia dal punto di vista soggettivo, che oggettivo. Sotto il primo profilo, si osserva che sono tenuti all’obbligo di referto gli esercenti una professione sanitaria, mentre la denuncia è un obbligo riservato ai medici che assumono la qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

            Dal punto di vista del contenuto, mentre la denuncia può avere ad oggetto sia i delitti che le contravvenzioni penali, il referto riguarda solo i delitti perseguibili d’ufficio, ed implica un giudizio tecnico di natura prognostica e diagnostica circa la natura del fatto, la cause, i mezzi e le conseguenze di essa (anche sul rischio per la vita) [art. 334/2° cpp.].

            La denuncia reca invece informazioni sugli elementi del fatto, con indicazioni circa la fonte della notizia, la data di acquisizione della stessa e le generalità delle eventuali persone informate, tralasciando i dati di natura biologica. L’obbligo di denuncia interessa, come disposto dall’articolo 331 del Codice Penale, tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio durante l’espletamento dello stesso che abbiano avuto notizia di un reato perseguibile d’ufficio; non v’è dubbio che la norma riguardi anche i medici che rivestano – anche temporaneamente – tali qualifiche. Ai sensi degli articoli 361 e 362 del Codice Penale, mentre per poter stilare una denuncia il pubblico ufficiale deve aver avuto notizia di un reato perseguibile d’ufficio effettivamente realizzatosi, per il referto è invece sufficiente che l’esercente una professione sanitaria – talvolta pubblico ufficiale – abbia prestato la propria assistenza od opera in casi che possano presentare le caratteristiche di un delitto, di nuovo procedibile d’ufficio.

            Quindi, con riferimento alla nostra analisi, mentre nel primo caso la normativa prevede che il medico, pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio, debba denunciare solo il reato perseguibile d’ufficio che a lui risulti effettivamente già consumato, nel secondo caso prevede che il medico (in generale), in relazione ad un caso in cui abbia prestato la propria assistenza od opera, riferisca di un “delitto in astratto che potrebbe non appartenere al mondo della realtà” [Palmieri L., Dai segreti alla riservatezza e poi al segreto, Medicina Legale Quaderni Camerti, XV, pag. 5, 1993]. Appare perciò evidente che uno dei presupposti che la legge richiede per la sussistenza dell’obbligo di referto consiste nella semplice “possibilità” che il fatto costituisca delitto perseguibile d’ufficio.

            Si noti la mancanza dell’esimente, per quanto attiene alla denuncia, prevista per il referto all’articolo 365/2° del Codice Penale, laddove è previsto che l’obbligo di referto non scatti quanto il documento esporrebbe la persona assistita a procedimento penale. Quest’altra non trascurabile differenza deriva dal fatto che l’autore del referto è esercente una professione sanitaria, il che impone l’obbligo del rispetto dei doveri deontologici di tutela dell’assistito prima ancora di quelli connessi all’espletamento di funzioni giuridiche, secondo le stesse regole che stanno alla base del segreto professionale. Va precisato tuttavia che – come è stato da altri rilevato – perché possa operare tale esimente è necessario che “tra referto e sottoposizione della persona a procedimento penale sussista un rapporto di causa/effetto, nel senso che solo a seguito del referto del sanitario il procedimento penale verrebbe aperto” [Vidoni G., Denuncia o referto? Promemoria al legislatore, in Rivista Italiana di Medicina Legale, XIII, 1991, pag. 489]. Ciò significa che tale esonero non sarebbe applicabile nel caso in cui la prestazione sanitaria fosse diretta a persona latitante, colpita da ordinanze di custodia, che debba scontare condanna o che già rivesta la qualifica di imputato in un procedimento penale [Vinci E., Il referto nell’attività sportiva. Considerazioni medico-legali, Difesa Sociale, LXXIV, 1995, pag. 1718]; in tal caso, infatti, il referto non sarebbe causa di esposizione del paziente a conseguenze processuali ma solo, semmai, occasione per il suo rintraccio [Al riguardo è opportuno precisare che l’obbligo del referto non riguarda esclusivamente i medici, andando ad interessare qualsiasi esercente una professione sanitaria latu sensu, vale a dire veterinari, farmacisti, infermieri, ostetrici, ecc. Poiché a tal proposito l’art. 365 cp. evita opportunamente di entrare nel dettaglio, i destinatari di tale disposto possono essere individuati nell’art. 99 T.U.L.S. (approvato con R.D. 27 luglio 1934, n. 1265)].

            La collocazione dell’articolo 365 all’interno del Codice Penale evidenzia come l’omissione di referto sia delitto contro l’Amministrazione della giustizia, in quanto ostacolo allo svolgimento dell’attività giudiziaria. Si tratta, in particolare, di un reato di pericolo che rende punibile non solo chi omette di redigere un referto ma anche chi non lo faccia pervenire in tempo all’autorità giudiziaria (articolo 334 Codice Penale) o chi non lo rediga in maniera completa o corretta [I delitti di più frequente riscontro statistico nell’esercizio della professione sanitaria per i quali sussiste l’obbligo di referto sono quelli contro la vita e l’incolumità personale, quali ad esempio l’omicidio, l’istigazione o l’aiuto al suicidio, la morte come conseguenza di altro delitto, le lesioni personali gravissime, gravi – che producano malattia di durata superiore a venti giorni – le lesioni colpose gravi o

Filippo Vanni             “Diritto penale”                         24 giugno 2016

www.filodiritto.com/articoli/2016/06/sulla-tutela-del-segreto-professionale-tra-lobbligo-di-denuncia-e-di-referto.html?utm_source=Filodiritto&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter+596

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SOSTEGNO A DISTANZA

Presentate le nuove linee guida per un sostegno a distanza che trasformi la solidarietà in vera relazione

Molto più dell’applicazione concreta di principi quali la solidarietà e la sussidiarietà, ma un’autentica “idea di umanità come incontro di reciproco arricchimento tra diversità”. Questa la vera immagine del Sostegno a Distanza emersa dalla conferenza stampa tenutasi martedì 28 giugno 2016 a Roma per la presentazione dei “Principi e Linee guida per il Sostegno a Distanza” e a cui ha partecipato anche una rappresentanza di Amici dei Bambini. L’evento, organizzato dal ForumSad, il network composto da più di120 associazioni italiane attive nel mondo con progetti di aiuto a distanza per le popolazioni più deboli, oltre all’esposizione delle nuove linee guida per il sostegno a distanza, è stata l’occasione anche per un confronto tra addetti ai lavori e rappresentanti istituzionali su questa forma di supporto alle realtà più emarginate del Pianeta.

            “Il sostegno a distanza rappresenta oggi una delle modalità attraverso le quali meglio si esplicano i valori della solidarietà, basata sul dono e sullo scambio, rivolta a persone che vivono in povertà estrema e a rischio di emarginazione sociale, quali famiglie, adulti soli, ma soprattutto bambini”. Così il sottosegretario del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Luigi Bobba, che ha elogiato l’importanza delle linee guida SaD e in particolare del percorso che le istituzioni e la rete di associazioni hanno fatto per dare un quadro di regolamentazione al settore. Dal sottosegretario anche un impegno, a nome del suo ministero, per una maggiore attività di promozione del sostegno a distanza, soprattutto alla luce della recente riforma del Terzo Settore.

            A sottolineare l’importanza del SaD come fondamentale forma di aiuto alle popolazioni più povere della Terra anche il viceministro per la Cooperazione Internazionale Mario Giro che, nel suo messaggio scritto per l’occasione, ha ricordato come, nel mondo attuale, “abbiamo bisogno di utopie, simboli e testimoni ‘buoni’ che portano speranza”. “La cooperazione popolare, le storie di vita della gente, di chi fa e riceve cooperazione, raccontate dal sostegno a distanza – ha scritto Giro – trasmettono un’idea di umanità come incontro di reciproco arricchimento tra diversità”.

            Sul ruolo delle nuove linee guida come “strumento di divulgazione delle specificità del sostegno a distanza” ha insistito invece il presidente del ForumSad Vincenzo Curatola. Il documento presentato nella conferenza stampa romana si è reso necessario, come evidenzia il ForumSad, vista l’assenza, nell’ordinamento giuridico italiano, di una disciplina specifica.

            In particolare, le linee guida indicano come il SaD vada oltre i semplici principi di solidarietà e sussidiarietà. “Il sostegno a distanza – si legge –  persegue infatti l’obiettivo di associare alla solidarietà la responsabilità di un rapporto e cioè di tendere a portare la prima oltre l’istantaneità del gesto individuale. La donazione può infatti esaurirsi in un gesto puntuale, nobile ma isolato. Di fronte al limite di una solidarietà che si appaga di una prestazione istantanea, il sostegno a distanza prova a creare le condizioni di continuità, perché la continuità permette di trasformare il gesto di solidarietà in una relazione”.

            Per fare questo, sottolineano le linee guida, sono fondamentali innanzitutto due aspetti legati alla trasparenza: “rendere il sostenitore pienamente edotto delle modalità di intervento delle organizzazioni” e tutelare “la dignità e l’immagine del m

Ai. Bi. 29 giugno 2016                                  www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI

La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.

XXIV CONGRESSO NAZIONALE U.C.I.P.E.M.

Oristano, 2-4 Settembre 2016 Hotel Mistral, via XX settembre 84

Molte sono le scienze umane che hanno voce in capitolo riguardo alla famiglia. La medicina, il diritto, la giurisprudenza, la psicologia, la sociologia ci evidenziano in un crescendo sempre più pressante ogni forma di genesi, evoluzione, cambiamento che avvengono in seno ad essa.

            In una società in accelerato progresso, sia dal punto di vista scientifico che tecnologico, crediamo di conoscere tutto, o quasi tutto, attraverso l’informazione che ci arriva dai media. Di fatto siamo più “informati” e indirizzati dalla “cronaca”, che assiduamente, in forme diverse ci bersaglia, che non messi in grado di conoscere, scegliere, discernere. Tutto quello che succede o che facciamo succedere ci riguarda molto da vicino, intimamente, come persone e società.

            La famiglia è il crocevia dove tutto converge: la famiglia è costretta a elaborare velocemente, incalzata dal ritmo frenetico e assordante della comunicazione multimediale che appartiene, in modo diversificato, alle diverse generazioni che sono dentro la famiglia oggi.

            Il dialogo generazionale dovrebbe tradursi in una dinamica comunicativa e progettuale che incarni tradizione, storia e attenzione al nuovo e al diverso.

            Anche la crisi economica e le crisi della famiglia, pur nelle loro dolorose implicazioni, possono costituire un’occasione di riflessione, di confronto, di aderenza alla realtà.

            Gli operatori dei Consultori familiari ne sono consapevoli e vivono ogni giorno, con le persone e le famiglie, la realtà delle diversità: di generazione, di sesso, di razza, di religione, di pensiero politico, di orientamento sessuale.

            Il Congresso vuole offrire, attraverso l’esperienza e la passione degli operatori, un momento di sosta, di riposo (nello splendido contesto del Golfo di Oristano) e di lavoro, per restituire alla diversità e al cambiamento una connotazione positiva di valore e opportunità.

 

Venerdì 2 settembre ore 17.00

Apertura del Congresso: Saluti delle autorità

Francesco Lanatà – Presidente U.C.I.P.E.M. “La famiglia crocevia di differenze e opportunità”

Giuseppe Anzani “La famiglia che cambia in una società che cambia”

Ore 21.00       assemblea consultori familiari soci dell’ U.C.I.P.E.M.

Sabato 3 settembre ore 9.00

Beppe Sivelli   “Cercarsi, perdersi, ritrovarsi: il cammino della coppia fra lontananza e vicinanza”

Emidio Tribulato “Figli in difficoltà: tra legami familiari fragili e pressione sociale e mediatica”

Ore 10.15 Tavola rotonda condotta e coordinata da Luca Proli

  • Alice Calori “Le nuove famiglie immigrate: tra identità e integrazione”
  • Rosalisa Sartorel “Il Diritto di famiglia oggi: dalla potestà alla responsabilità genitoriale, dall’affido congiunto nelle separazioni all’accesso alle origini nelle adozioni”
  • Domenico Simeone “Educare alla generatività le coppie e le famiglie”

Ore 13.00 Partenza per Cabras, Tarros e Museo dei Giganti

Ore 21.30 Concerto corale folcloristico in hotel offerto dal Consultorio di Oristano

                        Domenica 4 settembre ore 9.00

Alfredo Feretti “Amoris Laetitia: una road map per le relazioni familiari”

Ore 9.45 Lavori di gruppo presentati e coordinati da Mariagrazia Antonioli

“La domanda delle famiglie e la risposta del Consultorio”

Conduttori dei gruppi: Costantino Usai, Giancarlo Odini, Stefania Sinigaglia, Francesca Frangipane, Raffaella Moioli, Chiara Camber, Cristiano Marcucci.

Ore 11.45 Conclusioni dei lavori di gruppo: Mariagrazia Antonioli e Luca Proli.

Ore 12.00 Conclusioni e chiusura Congresso Francesco Lanatà – Presidente U.C.I.P.E.M.

 

Scheda di iscrizione, note organizzative, informazioni, pieghevole, prenotazioni, ospitalità in

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