UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
News UCIPEM n. 981 – 24 settembre 2023
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone
Le news sono strutturate: notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}. Link diretti e link per pdf -download a siti internet, per documentazione.
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica
02 ABUSI Per una nuova visione degli abusi psicologici e della vulnerabilità
02 La natura psicosociale dell’abuso spirituale
04 ASS. CONSULENTI FAMILIARI La giornata di studio a Bologna 29 ottobre 2023
05 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 33, 20 settembre 2023
07 CHIESA IN ITALIA Le riforme della diocesi funzionano se il centro decide
O8 CHIESE NEL MONDO Abusi nelle chiese: le principali religioni francesi lavoreranno insieme
09 CITTÀ DEL VATICANO Il Vicariato di Roma conclude la visita canonica al Centro Aletti
10 Abusi nella chiesa, le vittime dell’ex gesuita Rupnik si oppongono alla riabilitazione
11 Il caso Rupnik sta diventando un macigno sul pontificato di Francesco
13 DALLA NAVATA XXV domenica del tempo ordinario (anno A)
13 Riflettiamo insieme
142 ECUMENISMO Cattolici e ortodossi: il nodo nazionalismo
16 49a sessione ecumenica con la partecipazione delle teologhe
18 GESTAZIONE PER ALTRI Procreazione: la genitorialità che cambia
19 La gestazione per altri. Prospettiva etico-teologica
24 Parrocchia si cambia, ma come?
31 SACERDOTI Preti celibi e sposati nella Chiesa cattolica
37 SESSUOLOGIA Eros e persona
39 SINODALITÀ «La sinodalità è il modo di vivere la comunione nella Chiesa»
43 SINODI DIOCESANI Padova, ripresi i lavori dell’Assemblea sinodale diocesana
43 SINODO Le lettere del card. Grech
ABUSI
Per una nuova visione degli abusi psicologici e della vulnerabilità
Il fenomeno degli abusi psicologici nella Chiesa “deve essere analizzato alla luce delle matrici relazionali personali e di contesto, che soggiacciono alla relazione e a tali strutture. Al contrario, c’è stata finora la tendenza a considerare non dimostrabile l’abuso psicologico, perché basato su una percezione appena soggettiva della coercizione e dell’invasione della struttura di personalità e psicofisica della vittima da parte dell’abusatore”, così come c’è stato scetticismo “nel riconoscere l’abuso spirituale come una forma più sottile ma devastante di spersonalizzazione e di violenza”.
Su questi temi – e sulla necessità di rivedere radicalmente il concetto di “vulnerabilità” – interviene con la riflessione che segue la psicologa Fabrizia Raguso, docente associata di Psicologia presso la Universidade Católica Portuguesa di Braga ed ex religiosa della Comunità Loyola in Slovenia (teatro di abusi di potere e psicologici, guidata da Ivanka Hosta, in cui fortissima è stata l’influenza del prete mosaicista ex gesuita, accusato di abusi sessuali, Marko Rupnik).
Ludovica Eugenio Adista Documenti n° 31 del 23 settembre 2023
La natura psicosociale dell’abuso spirituale
Sebbene si parli sempre più di abusi, in vari contesti e da vari punti di vista, ci sono aspetti che, a mio parere, rimangono o trascurati o sottovalutati. Per questa ragione mi sembra importante chiarire alcuni concetti per far luce su alcune dinamiche psico-relazionali di questa realtà e riflettere su alcune questioni aperte.
Sembra strano, ma un aspetto non del tutto chiaro è la stessa definizione di abuso e, ovviamente, il riconoscimento delle sue cause. Dal mio punto di vista, rimane sempre più esclusa una corretta lettura delle dinamiche relazionali dell’abuso, non solo nella sua attuazione nel qui e ora della relazione violenta, ma soprattutto in una visione più complessa di tipo sistemico e relazionale. Mi sembra perciò importante partire da una constatazione fondamentale, e cioè che, come esseri umani, abbiamo profondamente bisogno gli uni degli altri; l’essere umano ha una necessità innata di relazione, per preservare non solo la sua integrità fisica ma soprattutto la sua integrità emotiva. Ormai sono innegabili i risultati di innumerevoli studi e teorie che confermano questa premessa; una fra le tante è la teoria dell’attaccamento di Bowlby, che dimostra che questa relazione privilegiata si struttura fin dal concepimento e che permette che il neonato e gli adulti di riferimento si sintonizzino fra loro. Questa sintonia, quando funziona, è importante e sostiene lo sviluppo di tutti, adulti e bambini. Quando purtroppo, per privazione precoce, grave negligenza o per altre difficoltà nello sviluppo, questa sintonia non si realizza, si possono generare col tempo risposte violente e aggressive, conseguenze appunto di una relazione fallita, non sana e traumatica. Il fallimento relazionale precoce è, a tutti gli effetti, un’esperienza traumatica che porta a complesse conseguenze lungo lo sviluppo. Una forma di compensazione a un trauma relazionale può essere la ricerca di una relazione di appartenenza e di protezione, con il rischio, tuttavia, di sviluppare relazioni di forte dipendenza, fino all’abuso, soprattutto nelle relazioni intime.
Il fatto, perciò, che oggi ci confrontiamo sempre più spesso con drammi relativi a relazioni abusive e di dipendenza affettiva, dovrebbe farci riflettere non solo sui “modelli relazionali” e sociali che trasmettiamo (come spesso si afferma), ma soprattutto sulla qualità delle relazioni che viviamo e che stabiliamo a livello intergenerazionale.
Allo stesso modo, tra le varie necessità e domande che possono spingere a aderire a forme di aggregazione settarie e potenzialmente abusanti, ci possono essere, fra l’altro, appunto desideri compensatori di protezione/appartenenza/identità; che si manifestano sia nella dipendenza di tipo dominante (abusatore), sia di tipo sottomesso (abusato). E questo è un meccanismo che già si è avuto modo di osservare in varie forme di aggregazioni religioso/spirituali a deriva settaria. Negli ultimi anni si sta prendendo coscienza che molti movimenti e comunità “nuove”, a sfondo carismatico (focolarini, legionari di Cristo, Comunione e Liberazione, Comunità Loyola, ecc) hanno vissuto processi relazionali e spirituali analoghi.
In questi ultimi anni stiamo osservando l’escalation di fenomeni simili, e a volte ancora più perversi, nelle trame relazionali e organizzative di movimenti, gruppi ecclesiali, o semplicemente intorno a leader carismatici. L’orrore in questi casi è ancor più evidente, in quanto contraddice profondamente il messaggio spirituale che anima la realtà apparente di queste strutture/movimenti e di queste nuove proposte spirituali. In non pochi casi di abusi si osserva una deriva teologica dei contenuti e delle prospettive spirituali che sono al cuore dell’esperienza di tali aggregazioni. Comprendere dunque, che la violenza spirituale e di potere esercitata nei movimenti carismatici, nelle nuove comunità post-conciliari, ha una matrice comune con le varie forme di abuso psicologico vissuto nelle relazioni di intimità, è, a mio parere, un passo importante. Questa lettura aiuta a non sminuirne la portata, ma anzi a comprendere il fenomeno qual è: una deriva settaria che violenta anche la fede e i suoi contenuti. Pertanto, ogni atto di abuso non è appena “una debolezza passeggera”, uno scivolone morale, di un singolo individuo, che possa essere corretto con un pentimento formale, o ricomposto in una “riconciliazione” superficiale. Al contrario, è necessario che la cura sia un atto di verità e di giustizia, che permetta di ricomprendere quanto vissuto, sia nell’esperienza della vittima che in quella dell’abusatore. E deve essere analizzato alla luce delle matrici relazionali personali e di contesto, che soggiacciono alla relazione e a tali strutture. Al contrario, c’è stata finora la tendenza a considerare non dimostrabile l’abuso psicologico, perché basato su una percezione appena soggettiva della coercizione e dell’invasione della struttura di personalità e psicofisica della vittima da parte dell’abusatore. Allo stesso modo, c’è scetticismo nel riconoscere l’abuso spirituale come una forma più sottile ma devastante di spersonalizzazione e di violenza. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che è solo a partire da qui che tutte le altre forme di violenza possono accadere, soprattutto nelle relazioni fra adulti, e particolarmente nel contesto delle comunità religiose, dei movimenti spirituali, dell’accompagnamento spirituale.
E qui si impone un secondo obiettivo ineludibile, vale a dire la chiara definizione del concetto e della condizione di “adulto vulnerabile”. Invero, fino agli ultimi documenti pubblicati dagli organi vaticani preposti alla tutela e prevenzione degli abusi, questo tema appare sommariamente affrontato e sbrigativamente definito. La vulnerabilità dell’adulto consisterebbe nella sua incapacità sostanzialmente cognitiva di comprendere le situazioni in cui si possa trovare in una condizione di manipolazione (psicologica e spirituale); pertanto non è in grado di difendersi. In realtà il concetto di vulnerabilità, prima che un concetto giuridico, deve essere considerato, quale esso è, un costrutto antropologico. A questo proposito ci vengono in aiuto gli atti di un seminario promosso da giuristi della Facoltà di Diritto di Oporto (Portogallo). Nei documenti che questo seminario ha prodotto, incontriamo una preziosa riflessione su questo costrutto tanto complesso, che si impone sempre più nella cultura contemporanea. Per intendere correttamente la vulnerabilità dell’adulto dobbiamo rinunciare alla premessa antropologico-razionalista, che tende a ridurre la persona umana alla sua sola condizione di essere razionale. Al contrario, i partecipanti al suddetto seminario fanno appello alla filosofia etica e alle scienze umane e sociali perché si adoperino per un contributo interdisciplinare che permetta, sul piano giuridico, di ripensare i diritti dei più fragili. A tal proposito, il documento propone una lettura molto più ampia della vulnerabilità; considera infatti, la vulnerabilità un aspetto inerente alla condizione umana, che dipende in buona misura dal contesto sociale, economico e politico in cui si situano le persone. Le disuguaglianze, la discriminazione e la violenza, di fatto generano e sfociano in uno stato, transitorio o permanente, di vulnerabilità, che affetta determinati gruppi e le persone che ne fanno parte. Al contempo, ne limitano l’esercizio e la fruizione dei propri diritti fondamentali: libertà e autodeterminazione, diritto alla vita, al lavoro, alla salvaguardia della propria privacy e intimità, diritto all’inviolabilità del proprio corpo, ecc. È evidente, perciò, che considerare la vulnerabilità come un fenomeno trasversale e universale, che può toccare qualunque persona in modo transitorio o permanente, soprattutto se situata in una condizione di dipendenza affettiva e relazionale, ne cambia completamente la prospettiva. Richiama certo, la responsabilità del singolo a definire e proteggere la sua sfera di diritto all’autonomia e alla difesa dei propri diritti. Ma, altresì, esige che la società civile e lo Stato contribuiscano attivamente a creare condizioni di prevenzione. Prevenire le condizioni che possano favorire la vulnerabilità; e soprattutto, mettere a punto strumenti idonei (leggi e sanzioni applicabili) nell’affrontare e sancire gli effetti negativi e le violazioni della persona a motivo di detta vulnerabilità, è un obiettivo che non si può più rimandare.
Auspichiamo, perciò che anche la Chiesa modifichi la sua visione antropologica, e sia più coerente con il suo messaggio. È necessario che il Diritto Canonico, alla luce di una autentica e rinnovata antropologia cristiana, si faccia attivamente promotore e garante della dignità di tutte le persone e promotore della difesa di ciascuna di esse da ogni forma di abuso e prevaricazione.
Fabrizia Raguso Adista Documenti n° 31 del 23 settembre 2023
www.adista.it/articolo/70593
ASSOCIAZIONE ITALIANA CONSULENTI CONIUGALI E FAMILIARI
La giornata di studio a BOLOGNA 29 ottobre 2023
In sintonia con il tema di approfondimento del 2023, “Il Consulente Familiare al servizio della genitorialità: l’evoluzione delle competenze”, la seconda Giornata di studio del 2023 si intitola:
“Il NOI educativo nella relazione d’aiuto. La mia competenza nella consulenza genitoriale.”
Domenica 29 ottobre 2023, ore 9,00 ZanHotel Europa, Bologna, Via C. Boldrini 11
Discuteremo sul valore della responsabilità e della competenza nella relazione d’aiuto, ingredienti essenziali per costruire il NOI educativo. Nell’anno dedicato dalla Commissione Europea allo sviluppo delle competenze, il focus professionale andrà indirizzato sulle nostre competenze nella consulenza genitoriale e sulle abilità che vogliamo approfondire.
La Giornata sarà in presenza, con collegamento a distanza
- Saluto della Presidente Stefania Sinigaglia. Saluto delle autorità
- Relazione della prof.ssa Lorena Milani, professore ordinario di Pedagogia Generale e Sociale dell’Università degli Studi di Torino, dal titolo: “Il NOI educativo. Generare competenze professionali e genitoriali tra advocacy, autoadvocacy e co-advocacy”
- Le competenze del Consulente familiare. Conversazione con le Consulenti Manuela Mammarella e Giuliana Tordi, che presentano: “Le Competenze del Consulente Familiare nella relazione con i genitori”. La ricerca fa seguito allo studio realizzato nel project work del Corso di Alta Formazione
- “Nascita di due genitori”. Una storia e un percorso di consulenza raccontati dai Consulenti Familiari: Antonella Monacelli e Claudio Tufo del Consultorio di Assisi
- ore 13:00 Conclusione collegamento on line
- Laboratori in presenza
- Restituzione dei gruppi in plenaria
- Ore 17:30 Conclusione e saluti
i laboratori vogliono mettere l’accento su quelle competenze del Consulente Familiare necessarie al supporto genitoriale, inteso sia come parte interna di ciascuno, sia come competenze concrete utili ai genitori (clienti) per attivare efficaci cambiamenti.
Partendo, dal presupposto che il Consulente Familiare, con la sua formazione, ha preso consapevolezza della propria capacità di “farsi da papà e mamma da solo”, come sostiene E. Fromm, ogni laboratorio lavorerà su una coppia di parole dicotomiche, per evidenziare come è possibile attuare un apprendimento attivo del Consulente Familiare e della coppia genitoriale/il genitore, anche attraverso il processo di modeling, l’apprendimento tramite l’osservazione di un modello, in questo caso la relazione di aiuto.
- Laboratorio 1: Confini & Permessi con Stefania Sinigaglia e Maria Montemurro
- Laboratorio 2: Conflitti & Negoziazione con Ivana de Leonardis e Sabrina Marini
- Laboratorio 3: Emozioni & Potere con Stefano Sancandi e Susanna Lombardi
- Laboratorio 4: Piacere & Dovere con Sarah Hawker e Cinzia Ascenzo
- Laboratorio 5: Ordine & Disordine con Sergio Pepe e Maddalena de Vivo
Vai alla descrizione del contenuto dei Laboratori
Le iscrizioni sono aperte sino al 15 ottobre
L’evento è riservato a tutti i Soci Aiccef ed è aperto anche agli allievi delle Scuole di formazione, riconosciute dall’Aiccef, che frequentano il terzo anno o che si sono appena diplomati.
La partecipazione all’evento in presenza vale 60 Crediti Formativi Professionali e per i Soci aggregati in tirocinio 8 ore di formazione.
La partecipazione all’evento a distanza vale 30 Crediti Formativi Professionali e per i Soci aggregati in tirocinio 4 ore di formazione.
Il contributo alle spese di organizzazione della Giornata è di € 80,00 (euro ottanta/00) per la partecipazione in presenza e € 40,00 (euro quaranta/00) per la partecipazione a distanza.
L’importo dell’iscrizione va versato per intero, prima della prenotazione on line, con bonifico bancario IBAN: IT07 R076010 24CHIECSE00 0000 4697 3889, intestato ad AICCeF, Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari, causale: Contributo spese giornata 29 ottobre.
Per maggiori informazioni sull’iscrizione e per le relative istruzioni
Anche quest’anno, per chi arriva sabato 28 a Bologna, è stato organizzato un evento sociale per conoscere meglio la città di Bologna. Se sei interessato alla visita guidata clicca SI nell’apposito spazio del format di iscrizione.
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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA
Newsletter CISF – n. 34, 20 settembre 2023
- The perfect mother. Esilarante (e decisamente veritiero) dialogo andato in onda sul Saturday Night Live a tema maternità. Emma Thompson, che interpreta una splendida nonna, chiacchiera con la figlia, neomamma disperata. “Tu sei stata così perfetta, e calma…non ti sei mai sentita persa?”: alle domande della nuova generazione, saggiamente, meglio non rispondere in modo eccessivamente sincero!
YouTube – https://www.youtube.com/watch?v=lrEkNj8NKco
- Convegno e comitato scientifico CISF. La famiglia è davvero nell’agenda del Paese? è il titolo del working group organizzato dal CISF il 15 settembre a Roma, evento “a porte chiuse” che ha anticipato le linee di ricerca del nuovo CISF Family Report, che sarà intitolato “Politiche al servizio della famiglia” (in libreria il prossimo 10 novembre). Tra i relatori sono intervenuti alcuni degli autori del report (Margherita Daverio, filosofa del diritto, Lumsa; Matteo Rizzolli, economista, Lumsa; Francesco Farri, tributarista, Bocconi) e il direttore Cisf Francesco Belletti in dialogo con Adriano Bordignon, presidente del Forum nazionale delle Associazioni Familiari. Il Comitato Scientifico del CISF si è poi riunito a Roma per delineare le linee di ricerca e la progettazione delle attività del 2024, che per il CISF coincideranno anche con le celebrazioni dei primi 50 anni di attività.
- Seminario CISF – Assistenti Sociali Lombardia su adozione e affido. È intitolato “Adozione e affido di minori con special needs: il dialogo tra famiglia e servizi” il prossimo seminario formativo organizzato dal Cisf in collaborazione con l’Ordine degli Assistenti Sociali della Lombardia: l’appuntamento è per il 5 ottobre, dalle ore 9 alle 13, presso l’Auditorium Don Alberione (via Giotto 36, Milano). Il seminario mette in campo diverse voci, tra esperti e testimonianze, per valorizzare la relazione di collaborazione tra famiglie e servizi nell’accoglienza e nel post accoglienza, centrata sui bisogni speciali dei minori [la locandina con il programma e i moduli d’iscrizione]. In corso di accreditamento per la formazione continua degli assistenti sociali.
www.famigliacristiana.it/media/pdf/cisf/programma-5-ottobre-cisf-croas.pdf
- UE/vulnerabili e accesso ai servizi essenziali. Si intitola “Access to essential services: key challenges for the most vulnerable” ed è il primo report della Commissione Europea sull’accesso ai servizi essenziali delle persone più vulnerabili. Secondo il rapporto, le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale nell’UE hanno difficoltà ad accedere a servizi essenziali come l’energia, i trasporti e la comunicazione digitale. Oltre a fornire un quadro completo della situazione, il report aggiunge preziose informazioni alle discussioni in corso relative alle definizioni di “povertà energetica” e “povertà nei trasporti”, contribuendo a modellare l’azione a livello dell’UE. E dimostra che facilitare l’accesso ai servizi essenziali per i gruppi che affrontano barriere può aiutare l’UE a raggiungere l’obiettivo di far uscire almeno 15 milioni di persone dalla povertà e dall’esclusione sociale entro il 2030. Test integrale in inglese
- ISTAT: i beneficiari delle nuove misure di sostegno al reddito. Il” working paper n.4”, appena pubblicato dall’Istat, illustra le caratteristiche dei beneficiari delle nuove misure di sostegno al reddito introdotte in Italia dal 2018 (periodo 2018-2020). L’analisi sfrutta le basi informative integrate disponibili presso
l’Istat. Vengono in particolare analizzati i caratteri socio-demografici individuali e familiari, la condizione occupazionale prima durante e dopo l’erogazione dei benefici, i segnali di presenza nelle principali fonti che tracciano l’occupazione regolare, i segnali di occupazione non regolare, il percepimento di trattamenti previdenziali non pensionistici e di assistenza, le condizioni reddituali individuali e familiari
[il documento integrale www.istat.it/it/files//2023/09/IWP-4-2023.pdf
- Firenze: al via Age-it, maxi ricerca sull’invecchiamento. L’Università di Firenze è capofila di AGE-IT, partenariato esteso finanziato dal PNNR (potrà contare su un finanziamento di oltre 114 milioni di euro e su 350 ricercatori, grazie alla rete di partner di cui è composto: 27 tra Università, centri di ricerca, industrie, enti e organizzazioni, con il coordinamento dell’ateneo italiano). “Saremo al lavoro per trovare le migliori soluzioni tecnologiche, sociali, medico-assistenziali e di policy per il benessere di una società dove gli equilibri tra le generazioni stanno cambiando radicalmente”, ha sottolineato Daniele Vignoli, ordinario di Demografia all’Università di Firenze e coordinatore scientifico di AGE-IT. https://ageit.it
- Proposte di formazione. Corso online sull’etica nell’ambito dell’intelligenza artificiale. La London School of Economics ha pubblicato un corso interamente online, della durata di 3 settimane (pari a 6-8 ore a settimana), con certificato finale, intitolato “Ethics of AI”. Il corso, in inglese, è articolato in tre moduli: l’intelligenza artificiale e lo Stato (democrazia, legittimità e trasparenza); AI e business (bias algoritmici e disuguaglianza); AI e società: sfide e opportunità
- Save the date
- Convegno (Ginevra/Web) – 28 settembre 2023 (15.30-17). “Climate change induced disasters: Older persons’ preparedness and response to build forward better“, promosso da UNECE [qui per info e iscrizioni online] https://unece.org/info/Population/events/382736
- Congresso (Roma) – 28/29 settembre 2023. “Children’s Healthcare in a changing world” a cura della Paediatric Nursing Associations of Europe (PNAE) https://congressrome2023.pnae.eu
- Convegno (Varese) – 30 settembre/1 ottobre 2023. “Voglio un Movimento spericolato!”, convegno dei Movimenti per la Vita presso Villa Cagnola di Gazzada, in provincia di Varese
www.vitavarese.org/voglio-un-movimento-spericolatoil-convegno-di-due-giorni-dei-pro-life/amp/
- Convegno (Trento) – 3 ottobre 2023 (14.30-18). “Abitare la montagna. Strategie innovative a confronto”, convegno organizzato dalla Fondazione De Marchi nell’ambito dell’undicesima edizione della Settimana dell’Accoglienza 2023.
www.fdemarchi.it/ita/Centro-di-documentazione/News/Incontro-Settimana-dell-Accoglienza
- Webinar (Francia) – 16 ottobre 2023 (inizio ore 20.30). “Choisis la vie !”, promosso da AFC-Associations Familiales Catholiques nell’ambito del ciclo di formazione AFC Jeunes
www.helloasso.com/associations/cnafc/evenements/cycle-de-formation-afc-jeunes-16-octobre-2023
Iscrizione http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.asp
CHIESE IN ITALIA
Le riforme della diocesi funzionano se il centro decide
Il 16 settembre scorso si è riunita la “assemblea diocesana”. In precedenza avevano luogo due diverse assemblee, una per i preti e una per i laici. Questa volta si è trattato di una assemblea “unitaria”, comprendente cioè sia laici che preti. Don Goffredo Zanchi vi ha partecipato e ne valuta i limiti sulla sua competenza di storico della Chiesa.
Sinodo, Comunità Ecclesiali Territoriali (CET) e loro riforma. L’assemblea del 16 settembre aveva all’ordine del giorno due temi principali. Uno riguardava l’attività degli incontri avvenuti nella nostra diocesi nella prima tappa del cammino sinodale dedicata all’ascolto. I temi emersi negli incontri diocesani sono stati sintetizzati a livello nazionale. Essi richiamano quelli elaborati dai nostri incontri diocesani, riprova di problematiche comuni ed esigenze diffuse. Il prossimo anno pastorale sarà dedicato alla fase sapienziale e di discernimento.
Le CET hanno funzionato poco. Scarsi i collegamenti con le parrocchie. Parallelamente si è trattato del programma pastorale diocesano imperniato sul rilancio delle CET (Comunità Ecclesiali Territoriali). A giustificazione della loro riuscita solo parziale, sono state riconosciute le difficoltà, attribuibile per la maggior parte allo scarso collegamento tra il mondo della parrocchia e quello delle Comunità territoriali. Il rilancio è affidato alla ristrutturazione del Consiglio Pastorale territoriale che allarga i propri ambiti fino a comprendere una serie di attività parrocchiali.
Questo esige una ridefinizione della composizione del Consiglio pastorale territoriale con la partecipazione di clero e laici. Si tratta di una novità di un certo rilievo, che verrebbe meglio compresa se fosse stato distribuito nell’Assemblea il nuovo regolamento delle CET. Il ritardo sembra dovuto anche alle problematiche attinenti alla sfera canonica, per la conflittualità tra i diritti della parrocchia e del Consiglio Pastorale territoriale. La genericità con cui è stato presentato il nuovo progetto sarebbe stata eliminata dalla presentazione e spiegazione del regolamento.
È mancato il dialogo. Ciò che rende maggiormente perplessi è la mancanza di confronto all’interno della nostra chiesa su questa nuova istituzione: non è stato presentato nessun bilancio di un’esperienza di cinque anni per un confronto approfondito da parte dei protagonisti.
La riforma viene imposta senza dibattito. Aumenta lo scetticismo. Tutto questo si è verificato in un contesto di conclamata sinodalità, la quale comporta collaborazione, la conoscenza adeguata delle iniziative che si intendono adottare, momenti di ascolto e di franco confronto tra visioni diverse, da effettuarsi nella carità e nel rispetto dei vari ruoli ecclesiali e di chi ha la responsabilità della decisione finale. Il nuovo assetto delle Comunità territoriali viene dunque imposto senza un dibattito previo che aumenta lo scetticismo generale, poiché alla generalità del clero e dei laici è stata lasciata solo la possibilità di accettarlo a scatola chiusa.
Lo storico della Chiesa: le istituzioni locali non hanno mai cambiato la diocesi. Vi è poi un secondo aspetto da rilevare. Le Comunità sono strutture territoriali che possono svolgere un utile lavoro di programmazione pastorale locale, ma non hanno le risorse per diventare il motore del rinnovamento diocesano, come ci si aspetta. La Chiesa italiana è chiamata a rinnovarsi profondamente per assolvere al compito della testimonianza evangelica nel mondo odierno.
Come appare dalle sintesi nazionale e diocesana della fase di ascolto, sono emersi temi la cui complessità è superiore alle capacità di una CET: la figura del prete e la ridefinizione del suo ruolo, il volto di una parrocchia missionaria, l’annuncio della fede, la catechesi, la liturgia, la crisi della famiglia ecc.
I problemi da affrontare sono enormi. Le CET non hanno le forze necessarie per affrontarli. I profondi cambiamenti culturali e le difficoltà dell’evangelizzazione sono stati lucidamente richiamati nella relazione di don Giuliano Zanchi. Mentre ascoltavo mi chiedevo se le CET avessero le capacità ed i mezzi per rispondere a queste esigenze. Come storico posso sostenere che negli ultimi quattro secoli non si è mai visto la realizzazione di una riforma della Chiesa, come oggi si esige, da parte dei soli organismi territoriali, senza il coinvolgimento del centro, cioè della diocesi nel suo insieme.
Il Consiglio Presbiterale e il Consiglio Pastorale: i grandi dimenticati. Si ritiene che basti l’assistenza degli uffici della curia diocesana, che sono stati debitamente rafforzati. Mi sembra che anche questo sia ancora insufficiente. Occorre uno sforzo globale della diocesi in tutte le sue componenti per la formulazione di piani pastorali seri, della durata di qualche anno, che, oltre agli organismi territoriali, vedano in primo piano quelli previsti dal diritto canonico, come il Consiglio Presbiterale. Mi sembra che il suo ruolo sia sotto valorizzato nella nostra diocesi, quando il Codice di diritto canonico lo definisce il “Senato del Vescovo” [can. 495] dotato di voto consultivo, ma con l’invito al Vescovo ad “ascoltarlo negli affari di maggiore importanza”, consultazione però obbligatoria nei casi espressamente previsti dal diritto [can. 500 & 2].
I due organismi di consultazione diocesana sono il Consiglio Presbiterale e il Consiglio Pastorale. Le grandi decisioni si fanno senza di loro. Vi è poi il Consiglio pastorale, necessario per avere il polso del sentire dei laici. Tra le proposte della fase di ascolto del Cammino Sinodale è emersa la richiesta di un esame del funzionamento degli organismi partecipativi. Senza questa coralità, nella quale si realizza nei fatti la sinodalità, senza cadere in facili slogan, affidare gran parte del lavoro di riforma delle CET, presenta il rischio di ricorrere a provvedimenti occasionali ed insufficienti, senza una visione generale e dell’apporto determinate della cultura.
Anche questo è una vera emergenza. Ci si preoccupa giustamente di strutture e regolamenti, ma non vi è altrettanta attenzione per la formazione teologico-pastorale del clero e dei laici, soprattutto quelli di coloro che partecipano agli organismi di governo. Questa necessità è ben emersa nella relazione di don Giuliano. Questo aspetto è imprescindibile per la necessità di avere operatori pastorali preparati e consapevoli, in grado di proporre una prassi pastorale illuminata e di approdare a qualcosa di valido.
Goffredo Zanchi La barca e il mare – Bergamo 20 settembre 2023
CHIESE NEL MONDO
Abusi nelle chiese: le principali religioni francesi lavoreranno insieme
In Francia per la prima volta i rappresentanti delle religioni cattolica, protestante, ortodossa, musulmana, ebraica e buddista collaboreranno per prevenire le violenze in ambito ecclesiastico.
I leader delle principali religioni francesi hanno annunciato mercoledì 20 settembre 2023 di voler riflettere e lavorare insieme nella lotta agli abusi in ambiti ecclesiastici. I vari leader si erano incontrati il giorno prima a Parigi per un convegno voluto proprio per dare avvio a una ampia collaborazione. Codice etico, formazione comune, si stanno esplorando diverse strade da percorrere insieme.
Martedì i leader di sei religioni (cattolica, protestante, ortodossa, musulmana, ebraica e buddista) si erano per l’appunto incontrati a Parigi per una mattinata di lavoro sul tema della violenza sessuale nelle chiese. Una prima storica che lancia una mobilitazione collettiva, indica in un comunicato redatto dalla Conferenza dei leader religiosi francesi (Crcf) al termine dei lavori. Si tratta di un passo significativo nel riconoscimento di questo tema, definito importante dal Crcf, che annuncia quattro percorsi di collaborazione interreligiosa destinati a essere oggetto delle prossime giornate di studio.
I funzionari hanno concordato di lavorare alla creazione di una formazione interreligiosa per sensibilizzare i ministri del culto e i leader religiosi sulle questioni della violenza. Intendono anche lavorare ad un codice etico e stanno valutando un’indagine scientifica sull’impatto, sul ruolo, del fattore religioso nei casi di violenza sessuale.
I responsabili dei culti hanno infine voluto sottolineare l’impegno per mantenere attiva la Commissione indipendente sull’incesto e la violenza sessuale contro i bambini (Ciivise), che dovrebbe terminare il suo operato il 31 dicembre 2023. La Crcf avvia così un dialogo cruciale sulla violenza sessuale e la responsabilità religiosa, si legge sempre nel comunicato stampa finale.
Durante la giornata di studi di martedì, i rappresentanti delle religioni intervenuti sul palco hanno tutti sottolineato che la Chiesa cattolica ha aperto la strada alle indagini in materia di abusi con il rapporto Sauvé, che ha rivelato nell’ottobre 2021 l’entità della criminalità infantile nella Chiesa, con uno studio che va dal 1950 a oggi.
Il comunicato è firmato da Christian Krieger (presidente della Federazione protestante di Francia), Eric de Moulins-Beaufort (presidente della Conferenza episcopale di Francia), Haïm Korsia (rabbino capo di Francia), Mohammed Moussaoui (presidente del Consiglio francese del culto musulmano – Cfcm), Demetrios Ploumios (presidente dell’assemblea dei vescovi ortodossi di Francia) e Antony Boussemart (copresidente dell’Unione buddista di Francia).
L’incontro si è svolto alla presenza di Juliette Part, capo dell’Ufficio centrale per gli affari religiosi del Ministero degli Interni.
Partecipando al dibattito, il giudice Édouard Durand, presidente della Ciivise, ha ammonito: «Moltiplicate per 50 le parole di un bambino per misurare il suo dolore e sarete ancora lontani dalla sua reale sofferenza»; aggiungendo poi «Chi proteggiamo? Le vittime o le istituzioni?»
È emerso dai vari interventi che la violenza sessuale è spesso preceduta dalla violenza spirituale e che processi simili si mettono in pratica qualunque sia la religione e la sua organizzazione.
L’incontro è stato animato dal desiderio di trovare insieme ambiti di collaborazione e di definire le rispettive priorità. Sono state così definite quattro vie di collaborazione interreligiosa che saranno oggetto delle prossime giornate di studio.
Redazione Riforms 21 settembre 2023
CITTÀ DEL VATICANO
Il Vicariato di Roma conclude la visita canonica al Centro Aletti
Il Vicariato di Roma annuncia la conclusione della visita canonica presso l’Associazione Pubblica di Fedeli della Diocesi di Roma “Centro Aletti”. L’indagine, condotta dal sacerdote Giacomo Incitti, professore ordinario di Diritto Canonico presso la Pontificia Università Urbaniana, era stata avviata il 16 gennaio scorso a seguito alle notizie diffuse da agenzie di stampa e dai comunicati a firma di padre Johan Verschueren, delegato del preposito generale per le Case Interprovinciali di Roma, in merito ad alcune vicende riguardanti padre Marko Rupnik, accusato di abusi nei confronti di religiose maggiorenni, e collegate anche al Centro Aletti. Obiettivo della visita era indagare “sulle dinamiche associative e sulla reale consistenza degli interrogativi sollevati da alcune istanze”.
Come informa un comunicato del Vicariato diffuso oggi, la visita canonica si è svolta avendo come obiettivo, in particolare, “l’accertamento delle modalità di conduzione dell’Associazione e dell’effettivo funzionamento dei suoi organi di governo; l’esame della vita associativa in tutti i suoi aspetti, compresi i rapporti dei membri con il fondatore e con il gruppo dei responsabili, nonché le dinamiche relazionali tra i membri stessi, con riferimento anche al periodo antecedente il 5 giugno 2019”. L’indagine, sottolinea la nota, “è stata condotta con diligenza e riservatezza, attraverso incontri comunitari e un rilevante numero di colloqui personali sia con gli attuali membri sia con molte persone che a vario titolo hanno avuto contatti con la vita e le attività del Centro”.
Relazione finale. Il 23 giugno 2023 il visitatore ha presentato la relazione finale, dalla quale – si legge – “emerge con chiarezza che in seno al Centro Aletti è presente una vita comunitaria sana e priva di particolari criticità. Il visitatore ha potuto appurare che i membri del Centro Aletti, benché amareggiati dalle accuse pervenute e dalle modalità con cui sono state gestite, hanno scelto di mantenere il silenzio – nonostante la veemenza dei media – per custodire il cuore e non rivendicare una qualche irreprensibilità con cui ergersi a giudici degli altri. Tutta la vicenda, a giudizio del Visitatore, ha aiutato le persone che vivono l’esperienza del Centro Aletti a rafforzare la fiducia nel Signore, nella consapevolezza che il dono della vita di Dio si fa spazio anche attraverso la prova“.
“Contemporaneamente, nuove esigenze, emerse e valutate anche alla luce della decisione della Compagnia di Gesù di uscire dalla compagine del Centro Aletti, hanno richiesto alcune prime necessarie modifiche allo Statuto che, tuttavia, hanno lasciato integre le finalità fondative”, prosegue il comunicato, spiegando ancora che “sulla base della relazione finale, il cardinale vicario, verificata la non sussistenza di alcun presupposto per ulteriori provvedimenti di propria competenza, ha decretato la chiusura della visita canonica”.
Esaminate le accuse. Infine, si legge, che “come da esplicita richiesta formulata nel decreto di nomina, tenuto conto delle ricadute sulla vita dell’Associazione”, il visitatore Incitti “ha doverosamente esaminato anche le principali accuse che sono state mosse al padre Rupnik, soprattutto quella che ha portato alla richiesta di scomunica. In base al copioso materiale documentario studiato, il Visitatore ha potuto riscontrare e ha quindi segnalato procedure gravemente anomale il cui esame ha generato fondati dubbi anche sulla stessa richiesta di scomunica. In considerazione della gravità di tali riscontri, il Cardinale Vicario ha rimesso la relazione alle Autorità competenti“.
Vaticannews 18 settembre 2023
www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2023-09/vicariato-di-roma-visita-canonica-centro-aletti-rupnik.html
Abusi nella chiesa, le vittime dell’ex gesuita Rupnik si oppongono alla sua riabilitazione
Questa relazione, che scagiona da ogni responsabilità Rupnik, ridicolizza il dolore delle vittime, ma anche di tutta la chiesa, mortalmente ferita da tanta tracotanza ostentata». Queste le parole di alcune vittime di Marko Rupnik, che in una lettera aperta al papa reagiscono con sdegno al rapporto finale della visita canonica sul Centro Aletti, diffuso ieri dalla diocesi di Roma. «I fatti e i comunicati che si sono susseguiti in questi ultimi giorni – l’udienza privata, resa poi pubblica attraverso immagini apparse in rete, concessa dal papa a Maria Campatelli, ex religiosa della Comunità Loyola e attuale presidente del Centro Aletti; e il comunicato diffuso con il report conclusivo della visita canonica realizzata alla comunità del Centro Aletti – tali fatti ci lasciano senza parole, senza più voce per gridare il nostro sconcerto, il nostro scandalo», scrivono le sopravvissute alle violenze dell’ex gesuita nella lettera pubblicata oggi sul sito di Italy Church Too il coordinamento contro gli abusi nella Chiesa cattolica, nato nel febbraio 2022 in sostegno di tutte le vittime della violenza clericale.
L’indifferenza della chiesa. Per le firmatarie, l’udienza papale a Campatelli e il rapporto diocesano che assolve l’operato del Centro Aletti sono un chiaro segno dell’indifferenza della Chiesa nei confronti delle vittime:
«riconosciamo che la “tolleranza zero sugli abusi nella chiesa” è stata solo una campagna pubblicitaria, a cui hanno invece fatto seguito solo azioni spesso occulte, che hanno invece sostenuto e coperto gli autori di abusi», si legge nel testo. Oltre al papa, la lettera – che si può sottoscrivere e che denuncia la doppia violenza subita dalle vittime, prima da Rupnik e poi dalla Chiesa, che le ha ripetutamente ignorate – è indirizzata anche al cardinale Angelo De Donatis, al presidente della Cei Matteo Zuppi e al cardinale João Braz de Aviz, prefetto del Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.
«Il comunicato della diocesi, avallando pienamente il lavoro del Centro Aletti riabilita anche il suo fondatore ed è l’ultimo sfacciato tentativo del cardinale De Donatis di salvare Rupnik, con la piena approvazione del papa», spiega a “Domani” Fabrizia Raguso, docente di psicologia all’università cattolica di Braga, in Portogallo, ex sorella della Comunità Loyola e prima firmataria della lettera aperta. Proprio dalla Comunità Loyola erano emerse, già nel 1994, le prime denunce di abuso a carico di Rupnik
La rete di protezione. Da questi fatti si era originata la spaccatura della Comunità: alcune sorelle erano rimaste con la superiora Ivanka Hosta e altre, fra cui la stessa Campatelli, avevano seguito Rupnik per fondare i il Centro Aletti a Roma. Hosta, si legge ancora nella lettera, «per trent’anni ha coperto le nefandezze di Rupnik, e ha ridotto in schiavitù spirituale coloro che si opponevano ai suoi disegni di rivincita». La Comunità Loyola è stata commissariata nel dicembre 2020 e la sua situazione canonica è al momento lasciata in sospeso dal Dicastero competente, nonostante la relazione conclusiva del commissario, il vescovo gesuita Daniele Libanori, che ha evidenziato gravi casi di manipolazione di coscienza da parte della superiora.
Emerge quindi chiaramente come il sacerdote sloveno abbia goduto di una rete di protezione da parte di diverse persone (non ultimo l’allora arcivescovo di Lubiana Alojzij Šuštar), che già trent’anni fa erano a conoscenza dei suoi abusi ma non hanno fatto nulla per fermarlo.
«Immagino che dietro questa difesa ad oltranza di Rupnik e delle sue seguaci ci siano anche interessi economici – continua Raguso – perché il Centro Aletti è un’associazione pubblica di fedeli della diocesi e incassa cifre importanti grazie alla produzione e alla vendita dei mosaici».
La risonanza mondiale delle denunce a carico dell’ex gesuita ha però già fatto calare le richieste di nuove opere e in diversi paesi, dalla Francia alla Svizzera e alla Gran Bretagna, si comincia a discutere dell’opportunità di rimuovere i mosaici usciti dall’atelier artistico del Centro Aletti.
La parola alle vittime. Alla lettera aperta hanno aderito anche alcune ex religiose che avevano testimoniato a “Domani” sotto pseudonimo e che ora hanno deciso di esporsi pubblicamente con il proprio nome. «Sono passati più di trent’anni dagli abusi subiti nella comunità Loyola – dice Gloria Branciani a “Domani” – un tempo insopportabile perché nonostante tutte le testimonianze, le denunce, i fatti narrati con fatica e dolore io oggi ancora non esisto per la Chiesa. I fatti sono prescritti ma le persone no, e neanche il nostro dolore. Per questo sento il diritto-dovere civico e morale di continuare a testimoniare la verità dei fatti, anche se a qualcuno possono sembrare sgradevoli e inappropriati». «Di nuovo ci vogliono costringere al silenzio ma la verità non si può cancellare», aggiunge un’altra sopravvissuta, Vida Bernard.
Papa Francesco, che il 15 settembre ha accolto con calore in Vaticano Maria Campatelli (un incontro «sbattuto in faccia alle vittime»), non ha invece mai risposto a quattro lettere che altrettante religiose ed ex religiose della Comunità Loyola gli avevano fatto recapitare nel luglio del 2021. L’amarezza delle vittime per la diversità di trattamento ricevuto dal papa è profonda: «non c’è posto in questa chiesa per chi ricorda verità scomode», concludono.
Federica Tourn “Domani” 20 settembre 2023
www.editorialedomani.it/fatti/marko-rupnik-chiesa-cattolica-gesuiti-papa-francesco-angelo-de-donatis-vescovo-centro-aletti-dgnmu5m9
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202309/230920tourn.pdf
Il caso Rupnik sta diventando un macigno sul pontificato di Francesco
Mentre il papa si reca a Marsiglia per un viaggio di due giorni dal forte carattere interreligioso, le ombre sollevate dal caso dell’ex gesuita Marko Rupnik, accusato di aver abusato in vario modo di diverse donne, religiose e laiche, nell’arco di circa un trentennio, non accennano a diradarsi. Da ultimo ha destato scalpore il comunicato del Vicariato di Roma con il quale si annunciava che la “visita canonica” condotta sul Centro Aletti di Roma, l’istituto-atelier a lungo diretto dallo stesso Rupnik, si era conclusa non riscontrando criticità e prendendosela, neanche a dirlo, con «la veemenza dei media».
Conclusione che contraddiceva platealmente sia quanto aveva riscontrato la Compagnia di Gesù che, dopo una lunga resistenza, aveva deciso di espellere dall’ordine l’artista-teologo di fama mondiale, (dando quindi credito alle tante testimonianze raccolte), sia le decisioni prese dall’ex Congregazione per la dottrina della fede che aveva fatto ricorso persino a una scomunica “latæ sententiæ”, cioè automatica, nei confronti del religioso di origine slovena, successivamente un po’ misteriosamente revocata (ufficialmente perché l’ex gesuita si sarebbe pentito).
Rupnik e Maciel. Il caso Rupnik, dunque, per l’impatto avuto sulla vita della Chiesa, può essere considerato l’equivalente per papa Francesco di ciò che fu la vicenda di padre Marcial Maciel, il tenebroso fondatore dei Legionari di Cristo, per Giovanni Paolo II? Il parallelo è pesante ma assai meno azzardato di quanto si pensi. Diversi elementi delineano una similitudine fra i due casi: gli abusi sessuali reiterati negli anni su diverse vittime, secondo le numerose testimonianze raccolte, uniti al prestigio di cui godeva Rupnik come artista-teologo ascoltato e rispettato, (così come di forte prestigio godeva Maciel anche in ambienti sociali altolocati), sia all’interno delle comunità da lui fondate, sia all’interno della chiesa a vari livelli.
La capacità di raccogliere fondi e costruire una ricchezza per sé stessi e le proprie organizzazioni, tale da garantirgli una certa autonomia operativa; le protezioni di cui hanno entrambi goduto per molti anni nell’ambito delle alte gerarchie ecclesiastiche i gravi ritardi con i quali sono stati perseguiti i due casi stanno lì a testimoniarlo (nella querelle su Maciel furono chiamati in causa oltre a Wojtyla i cardinali Angelo Sodano e Stanislaw Dziwisz, tra gli altri).
Mafia e insabbiamenti. Si ricorderà che padre Maciel operò indisturbato per diversi decenni, passando attraverso diverse epoche e pontificati, e che l’unico provvedimento contro di lui fu preso – una volta scomparso Wojtyla – da Benedetto XVI che nel 2006 gli impose «una vita riservata di preghiera e di penitenza». Venne comunque risparmiato al fondatore dei Legionari, a causa dell’età avanzata e delle condizioni di salute, il processo canonico.
Nel 2019, l’attuale prefetto del Dicastero per gli istituti di vita consacrata, il cardinale brasiliano Joao Braz de Aviz, in un’intervista al periodico spagnolo “Vida nueva” affermò che il Vaticano era in possesso delle prove degli abusi perpetrati da Maciel su minorenni, dal 1943 (Maciel si rivelò anche padre di diversi figli avuti con donne diverse, abusatore seriale e tossicodipendente). «Chi lo ha coperto era una mafia, non rappresentava la chiesa», ha chiosato poi il cardinale in una Dichiarazione di certo molto impegnativa a giudicare almeno da quanto gli insabbiamenti dello scandalo pedofilia-abusi ha scosso la chiesa universale.
E, appunto, i fondatori di comunità a movimenti nuovi, come anche Rupnik e la sua Comunità Loyola in Slovenia, si sono dimostrati nel tempo figure particolarmente a rischio. «L’abuso di autorità presuppone un carisma. Ad accecare è stato certamente – per quanti di loro erano preti – il loro ruolo, sacralizzato, in questi ambienti cattolici in cui non si poteva nemmeno concepire che “un uomo di Dio” potesse commettere abusi».
È quanto osserva Céline Hoyeu, giornalista francese del quotidiano La Croix, autrice del recente volume “Il tradimento dei padri”. Manipolazione e abuso nei fondatori di nuove comunità, curato nella versione italiana dalla direttrice di Adista Ludovica Eugenio.
«Le critiche che oggi pesano sulla chiesa istituzionale – si legge ancora – sono gravi. I vescovi sono accusati di aver lasciato mano libera a degli apprendisti stregoni, senza alcun controllo esterno, senza contropoteri, abbandonandoli alla loro onnipotenza».
I silenzi del papa. Nel caso Rupnik colpiscono alcuni aspetti: in primo luogo le reticenze e i sostanziali silenzi dello stesso pontefice, quasi non volesse credere che un gesuita, amico personale e artista di fama mondiale, potesse essere accusato di abusi da diverse religiose. Di questa incredulità c’è una traccia in quanto Bergoglio disse all’agenzia Associated press sul caso in questione: «Per me è stata una sorpresa, davvero. Questo, una persona, un artista di questo livello, per me è stata una grande sorpresa e una ferita».
D’altro canto non è la prima volta che il papa manifesta una certa diffidenza di fronte ad eventi simili; si ricordi quanto avvenne in Cile con il caso del vescovo Juan Barros, accusato di aver coperto gli abusi di un altro oscuro prete manipolatore, legato per altro in passato alla dittatura di Pinochet, Fernando Karadima. Francesco prima parlò di calunnie poi, di fronte all’evidenza delle prove, fece dimettere Barros e spretò Karadima (2018). Ma la prima reazione fu quella dell’evocazione del complotto contro la chiesa.
La trasparenza resta un optional. Nel caso Rupnik non sono bastate, evidentemente, le testimonianze di numerose vittime abusate e poi minacciate, che pure hanno portato la Compagnia di Gesù ad espellere il religioso dall’Ordine. Ancora, nel comunicato diffuso dal Vicariato lunedì scorso si affermava che anche la scomunica comminata a suo tempo dal Vaticano contro il religioso-artista, era frutto di «procedure gravemente anomale», senza naturalmente specificare quali.
È certo non è passata inosservata la notizia della rinuncia, resa nota ieri dal Vaticano, del cardinale Luis Ladaria, anch’egli gesuita, a partecipare al sinodo dei vescovi di ottobre (ha chiesto la dispensa al papa), da poco ex prefetto della Congregazione della dottrina della fede, e quindi responsabile del procedimento contro Rupnik.
Non vi è nessuna certezza in merito, ma certo la tempistica della rinuncia fa quantomeno ipotizzare una possibile relazione fra i due fatti. Sta di fatto che la trasparenza nei casi di abuso sessuale gestiti dall’autorità ecclesiastica, resta un optional, un rubinetto che si può aprire e chiudere a seconda della convenienza.
Il caso Rupnik comincia dunque a pesare come un macigno sulla coda di questo pontificato, mettendo in discussione anche quei passi avanti compiuti da Francesco nel contrasto delle violenze commesse dai chierici.
Francesco Peloso “Domani” 23 settembre 2023
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DALLA NAVATA
XXV Domenica del Tempo Ordinario- anno A
Isaia 55, 08. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.
Salmo 144, 18. Il Signore è vicino a quanti lo invocano, a quanti lo cercano con cuore sincero.
Paolo a Filippesi 01, 27 Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.
Matteo 20, 16. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».
Riflettiamo insieme
Avvertiamo in questa pagina come in altre del Vangelo, questa misteriosa musica che viene da lontano, che ci affascina ma rischia anche di darci una ebbrezza che ci fa perdere il senso del quotidiano, il valore delle misure a cui dobbiamo attenerci nel vivere. È bello sentirci dire che gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi. Chissà, qualcuno di noi sente in sé di essere, per certi versi, fra gli ultimi e quindi di essere come toccato da questo invisibile occhio misericordioso. D’altra parte, noi viviamo con la necessità, che è gravida di tribolazioni, di mettere ordine nel nostro modo di pensare e nel nostro modo di agire. Come potremo liberarci — lo vediamo anche in questi giorni per la provocazione di terribili cronache nazionali — da questa ferinità che dentro di noi è in agguato, da questa ferocia che portiamo in noi se non avessimo un ordine nel modo di pensare e nel modo di agire, se non avessimo una giustizia distributiva, per cui non è giusto dare a chi lavora un’ora sola quanto si dà a chi ha lavorato tutto il giorno. Con queste regole non si reggerebbe nessun sindacato! Come possiamo rinunciare alla distinzione fra le virtù e il vizio? Non capire che c’è una infinita distanza fra una donna onesta e una prostituta?
Sono distinzioni fondamentali. Ecco che questa musica viene e scompone tutto. È un pericolo. C’è come una violenza anarchica — se posso usare parole tolte dal nostro linguaggio — in questo scompiglio provocato dalle parole evangeliche. Non dobbiamo fare come, per lo più, si fa con la musica che si ascolta in certe ore per sollazzo, per svago, per diletto. La vita però non è musica, per cui anche queste parole le ascoltiamo, accogliamo il loro senso mirabile, ma a condizione che non siamo adottate per scomporre la nostra vita. È un dualismo comodo a cui per lo più ci rifacciamo. Proviamoci invece, senza utilizzare in modo irrazionale e fumosamente mistico queste parole, ad articolarle in modo efficace con quello che è la nostra vita di cittadini di una città terrena che ha le sue regole economiche, giuridiche, etiche. Noi potremo ribattere al Dio che dice: «I miei pensieri non sono i vostri» che noi non abbiamo che questo pensiero a cui rifarci, la nostra ragione, la quale ci viene da Colui che ha creato tutte le cose. Potremmo obiettare a questo misterioso Padre che ci ricorda che le sue vie non sono le nostre vie che noi abbiamo delle vie che dobbiamo tracciare in risposta alla nostra stessa coscienza che è poi il Dio in noi, l’unico Dio tangibile a disposizione.
Io penso che l’invito che ci viene da queste pagine allettanti è di scendere un pochino di più in profondità non per arrivare a sovvertire le nostre regole e a disprezzare la nostra ragione ma per inserire nella nostra prospettiva di vita misure che non sono queste che pur sono necessarie. Noi vogliamo una giustizia distributiva — ci fosse! — per cui a ciascuno sia dato secondo il merito. Non possiamo farne a meno col pretesto che Dio fa come vuole. Noi non possiamo fare come vogliamo. Però quando io ascolto queste parole, che sono fra le più solenni che possono entrare nel mio orizzonte interiore — «Le mie vie non sono le vostre» — capisco che sono parole di grande liberazione perché relativizzano la nostra strategia necessaria. Noi dobbiamo costruire vie per il futuro, abbiamo una strategia, però queste parole ci ricordano che è possibile l’impossibile, che possono capitare eventi non previsti che scombinano totalmente le nostre prospettive. Allora il mio dovere non è di difendere l’organizzazione del mio progetto, ma di cambiarlo per misurarlo sulle nuove vie che sono apparse a partire dall’idea — a cui spesso faccio richiamo— che ciò che conosciamo di noi stessi, come individui – e come genere umano, è poca cosa. Dentro l’uomo ci sono vie che l’uomo non conosce, che si apriranno domani. C’è una dimensione di possibilità in noi che va custodita anche se adesso non sappiamo nominarla.
p. Ernesto Balducci, scolopio (1922-1992) “Gli ultimi tempi” vol.1 anno A
www.fondazionebalducci.com/24-settembre-2023-25a-domenica-t-o
ECUMENISMO
Ecumenismo – Cattolici e ortodossi: il nodo nazionalismo
- Riflessioni sul documento di dialogo firmato ad Alessandria
Il documento pubblicato dalla Commissione internazionale mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa (nel suo insieme) al termine della sua XV Sessione plenaria, tenutasi ad Alessandria di Egitto dall’1 al 7 giugno 2023, ha preso il nome di “Sinodalità e primato nel secondo millennio e oggi”.
Il documento pubblicato dalla Commissione internazionale mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa (nel suo insieme) al termine della sua XV Sessione plenaria, tenutasi ad Alessandria di Egitto dall’1 al 7 giugno 2023, ha preso il nome di “Sinodalità e primato nel secondo millennio e oggi” Già il titolo scelto mostra che la Commissione ha voluto in tale occasione portare a compimento il lavoro iniziato a Chieti nella Sessione plenaria del 2016 e conclusosi con il documento:” Sinodalità e primato nel Primo millennio. Verso una comune comprensione nel servizio dell’unità della Chiesa.”
L’intento unico d’ambedue i documenti è infatti quello di chiarire sul piano storico – dalle origini a oggi – l’evoluzione del rapporto tra articolazione sinodale/episcopale della Chiesa ed esercizio del primato e di trarne indicazioni per il futuro delle Chiese.
Non casualmente perciò l’Introduzione (nn. 2-3) del «Documento di Alessandria di Egitto» (DAE) parte proprio dal richiamo formale al «Documento di Chieti», definito come «un accurato studio della sinodalità e del primato nel primo millennio» (n. 1), e ne fa sua la conclusione, ovvero che nel primo millennio, «nonostante le numerose crisi, l’unità della fede e dell’amore fu mantenuta attraverso la pratica della sinodalità e del primato» (n. 2).
Nel primo millennio – ricorda – la comunione spirituale delle Chiese locali si manifestava attraverso i sinodi episcopali, lo scambio epistolare tra i vescovi e le visite reciproche, mentre a livello universale la ]comunione si esprimeva «attraverso la cooperazione tra le cinque sedi patriarcali, ordinate secondo una taxis» [sistemazione](n. 2; Regno-doc. 13,2023,428).
Un ordine (taxis) che vedeva al primo posto il patriarcato dell’antica Roma. Roma esercitava dunque un qualche limitato ruolo di primo tra i patriarcati; esso s’innestava nella strutturazione patriarcale delle Chiese e ne era un’espressione. Tutti i patriarcati, come del resto altre Chiese, esercitavano un qualche ruolo primaziale nel loro ambito proprio.3
Partendo da queste conclusioni del «Documento di Chieti» sul primo millennio, il DAE non può non constatare che all’inizio del secondo millennio divergenze e difficoltà reciproche cominciano a ferire la comunione, fino al 1054, quando l’allontanamento tra Oriente e Occidente inizia a estendersi (n 1 § 1).
Seguendo tale allontanamento, il documento comincia ad analizzare la crescita, secolo dopo secolo, della coscienza primaziale e dell’esercizio del primato da parte del patriarcato dell’antica Roma. Sono distinti quattro periodi: dal 1054 al Concilio di Firenze (1438-1439); dalla Riforma al XVIII secolo; sviluppi del XIX secolo; il XX e il XXI secolo: ressourcement [ritorno alle fonti] e riavvicinamento.
Tale analisi storica narra di fatto l’evoluzione del primato romano nel secondo millennio fino al culmine del concilio Vaticano I (1870) e i ripensamenti del secolo XX. Si tratta di un’interessante narrazione dalla quale emerge anche che lo sviluppo del primato romano non è casuale o puro frutto di una volontà di supremazia. Attraverso il consolidarsi del primato, Roma ha infatti operato decisamente per la salvaguardia e l’affermazione della libertà, dell’autonomia e dell’unità della Chiesa nel divenire culturale, sociale, religioso e politico dell’Occidente.
La prosecuzione del «Documento di Chieti» Non manca naturalmente la considerazione del percorso storico dell’ortodossia, fino alla caduta di Costantinopoli (1453) e i secoli successivi, specialmente i secoli XIX e XX. Si dedica particolare attenzione poi all’emergere del movimento del ritorno alle fonti (ressourcement) che connota tanto la teologia cattolica quanto quella ortodossa in questi secoli. Si richiamano la teologia russa della sobornost [collegialità], la cattolica Scuola di Tubinga, l’ecclesiologia eucaristica…
In questo contesto si mette via via in luce il contributo dell’ortodossia a un ripensamento cattolico dell’esercizio del primato romano e insieme si espone brevemente il complesso percorso ortodosso dagli anni Sessanta del secolo XX verso il Sinodo panortodosso, con l’emergere di una teologia ortodossa del primato e la sottolineatura dell’indispensabile ruolo del primato proprio in rapporto all’articolazione sinodale della Chiesa.
Si sottolinea poi che è dall’attenzione all’ortodossia che nascono le parole di Giovanni Paolo II sulla possibilità di una forma nuova di esercizio del primato (cf. DAE nn. 4 e 9), tale che esso diventi «un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (Ut unum sint, n. 95; EV 14/2867).
www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_25051995_ut-unum-sint.html
Nella stessa direzione sono letti i richiami di papa Benedetto XVI a Ignazio di Antiochia (la Chiesa di Roma che presiede alla comunione dell’agape) così come le parole di papa Francesco al n. 246 di Evangelii gaudium, dove si parla dell’opportunità di imparare dai fratelli ortodossi «qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità» (EV 29/2352).
La conclusione di questo percorso in quattro periodi è molto precisa. Dopo aver ulteriormente chiarito che i cattolici non pensano a una Chiesa piramidale con un primate che governa dall’alto, e che il primato degli ortodossi non è oggi inteso come puramente onorifico – ammesso che lo sia mai stato –, il documento afferma che per comprendere come articolare unitariamente in futuro sinodalità e primato bisogna guardare ai principi teologici, alle disposizioni canoniche e alle pratiche liturgiche del primo millennio (DAE, Conclusioni, n. 1).
Il primo millennio mostra chiaramente che «l’interdipendenza tra sinodalità e primato è un principio fondamentale della vita della Chiesa (…) Ciò che si richiede nelle nuove circostanze è una nuova e corretta applicazione dello stesso principio regolatore» (DAE, Conclusioni, n. 4).
Come realizzare questo? Quali vie concrete devono essere percorse? «Riconosciamo che una lettura comune delle fonti può ispirare la pratica della sinodalità e del primato nel futuro» (DAE, Conclusioni, n. 6; Regno-doc. 13,2023,437).
Il DAE dunque fa sua pienamente l’idea (non nuova per altro) che la pratica della sinodalità e del primato nel primo millennio possa, anzi debba ispirare quella del futuro. Lo fa in modo più consapevole del passato, perché sa bene che sulla comprensione del primato nel primo millennio non tutto è chiaro e condiviso. Per questo sottolinea che si deve operare una «lettura comune delle fonti», la quale «può» ispirare il futuro. Ovviamente ciò va mostrato nella concreta realtà del dialogo tra le Chiese.
Una concreta «lettura comune delle fonti». Esso sottolinea poi in particolare che le peculiarità amplificate del primato del romano pontefice potrebbero essere ricondotte più al suo stretto ministero patriarcale (come patriarca della Chiesa occidentale o latina), articolando in modo nuovo e specifico il servizio del primato alla comunione universale delle Chiese (cf. DAE, Conclusioni, n. 2).
L’ortodossia per altro emerge di fatto – nei due documenti – come maggiormente fedele alla pratica del primo millennio anche nella sua strutturazione attuale, come se l’ortodossia non avesse mai dovuto affrontare i limiti di tale strutturazione alla prova della storia. Così si dice infatti: «Nella Chiesa ortodossa, la sinodalità e il primato sono praticati a livello panortodosso, secondo la tradizione canonica, attraverso la celebrazione di santi e grandi concili» (ivi).
Si tratta di un’affermazione che non può non suscitare qualche perplessità, dato che il recente Concilio o Sinodo ortodosso di Creta (2016) ha mostrato quanto il modello tradizionale sia stato ferito dal ruolo crescente svolto dal nazionalismo nell’ambito dell’ortodossia.
Il DAE di fatto non sembra prestare sufficiente attenzione alla questione del nazionalismo negli ultimi secoli dell’ortodossia; si trovano pochi riferimenti a essa nei numeri 4 e 5. Sarebbe stata davvero opportuna una maggiore attenzione al fatto che la continuità storica del modello del primo millennio (nell’ortodossia) si è mostrata indifesa proprio nei confronti di quella che è la piaga più grave dell’ortodossia degli ultimi secoli, ovvero il nazionalismo o etnofiletismo. Il carattere transnazionale (o a-nazionale) dei patriarcati del primo millennio è stato in grande misura superato dalla estesa nazionalizzazione dei patriarcati del secondo millennio (tanto quelli storici quanto i più recenti), con tutte le serie conseguenze che tale fenomeno determina a tutti i livelli, specie nelle comunità ortodosse della diaspora ma non solo. Un carattere nazionale al quale anche il Patriarcato Ecumenico si sottrae con qualche difficoltà. Per questo si può avanzare qualche dubbio sull’utilità di ricorrere semplicemente al primo millennio come modello e fonte d’ispirazione. Ovviamente lo è e certamente deve esserlo, ma forse non dovrebbe essere trascurato il fatto che la strutturazione del primo millennio non si è mostrata capace di sottrarsi, in Oriente, al condizionamento nazionalistico.
Da tal punto di vista non dovrebbe passare inosservato il fatto che la pratica primaziale romana, anche se non ha eliminato tale condizionamento, ha tuttavia impedito e impedisce che le Chiese si configurino e si identifichino profondamente come Chiese nazionali.
Basilio Petrà
1 Il testo ufficiale inglese è in bit.ly/3RazJ3a. Si può leggere la traduzione italiana sul n.13 de Il Regno-documenti, alle pp. 428-437.
ilregno.it/attualita/2023/16/ecumenismo-cattolici-e-ortodossi-il-nodo-nazionalismo-basilio-petra
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/08/adalberto-mainardi-la-pentecoste-di.html
49a sessione ecumenica con la partecipazione delle teologhe
La 49a sessione di formazione ecumenica del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE), svoltasi dal 23 al 29 luglio ad Assisi, intitolata «Chiese inclusive per donne nuove e uomini nuovi. Edificati insieme per diventare abitazione di Dio (Ef 2,22)», è frutto della collaborazione tra il SAE e il Coordinamento Teologhe Italiane (CTI). Già in sintonia per lo spirito ecumenico che le anima e per le socie in comune, le due realtà hanno realizzato un progetto promettente.
«Per ascoltare un tempo di cambiamento come il nostro occorre fare attenzione alle voci che lo raccontano, lo patiscono, lo generano, lo rilanciano – ha esordito la presidente del CTI Lucia Vantini –. Le teologie femministe sono un sapere, portano una sapienza delle differenze a cui non dovremmo rinunciare, da cui dipende l’esito delle trasformazioni in atto». Ad Assisi l’ascolto delle voci c’è stato: attento, empatico, dialogante. A sessione conclusa abbiamo raccolto risonanze da alcune delle teologhe impegnate in relazioni e laboratori.
Genere ed ecumenismo. «La sessione ha cercato d’approfondire la Scrittura e d’ascoltare la contemporaneità. È stata una messa in campo di idee e modi di fare con il coraggio di sperimentare, un tavolo di lavoro per l’avvenire su questioni che non si limitano al genere. Le voci femminili che hanno preso la parola hanno mostrato che c’è un fermento di studi e di ricerca da conoscere e valorizzare – commenta la teologa valdese Ilenya Goss –. Abbiamo ascoltato una pluralità di voci sinfoniche nelle differenze, di sensibilità che hanno bisogno le une delle altre».
La vicepresidente del CTI, Simona Segoloni Ruta, ha trovato un ambiente stimolante: «Chi partecipa è disposto a pensare e a interrogarsi, avvengono incontri che suscitano novità. Per noi teologhe è stato bello ritrovarci in questo contesto accogliente e intelligente e in un clima d’amicizia. In altri ambiti ecclesiali facciamo fatica a parlare, a farci capire o a condividere le sofferenze; sembra che su certe questioni non si voglia pensare. Trovarsi in un ambiente aperto, ecumenico e interreligioso è molto liberante e apre il cuore alla speranza».
Alice Bianchi, consigliera nel CTI e nell’Azione cattolica, ha trovato la sua prima esperienza al SAE «molto preziosa, direi necessaria perché studiare le altre confessioni non è mai sufficiente. Nelle relazioni informali emerge la possibilità di confrontarsi senza la necessità della puntualizzazione accademica». La teologa è molto contenta che genere ed ecumenismo siano stati relazionati così fortemente perché questo legame è alla base del Coordinamento. «Una Chiesa che cammina verso l’unità fa i conti con tutte le minoranze di potere al suo interno e con tutte le varietà di forme e di vite che ci sono».
«Per quando riguarda il genere, si devono fare i conti sia con le donne sia con le situazioni delicate di marginalità vissute per orientamento sessuale e identità di genere e, mutatis mutandis, nelle Chiese si devono fare i conti con tutte le differenze ecclesiali che si mostrano».
Soddisfatta è anche la teologa valdese Letizia Tomassone che nella relazione «Per un futuro diverso» ha sostenuto l’importanza di cambiare le metafore e le immagini del divino. «Aspiriamo a una Chiesa inclusiva in cui il divino non sia nominato solo al maschile ma con linguaggi biblici e i nuovi linguaggi della fisica quantistica che ci parlano di correlazione tra le particelle e ci offrono delle nuove metafore per parlare del divino. Non si tratta di mettere al centro dei soggetti autosufficienti, come nella narrazione della modernità, ma soggetti che si costituiscono in una relazione di fede, di fronte a un Tu che li chiama fuori da sé, responsabili e liberi ma al tempo stesso dipendenti perché dentro una relazione».
La canonista cattolica Donata Horak ha incontrato alla sessione sia persone con una buona formazione, sia neofiti con molte domande, sia teologi e ministri che non conoscevano tutto il percorso fatto dal pensiero delle donne. «Non è facile trovare un ambiente ricettivo come il SAE dove le idee possono circolare. Nel laboratorio “Differenze e stereotipi di genere” con l’insegnante valdese Daniele Parizzi e la presidente della FUCI Allegra Tonnarini abbiamo fornito strumenti per sviluppare competenze e lettura della realtà. Partendo da un’analisi del lessico su testi di varie discipline, abbiamo visionato materiali desunti dai media, dalla letteratura e dal magistero cercando di cogliere gli stereotipi del maschile e del femminile e dei diversi orientamenti, spesso annidati in testi o immagini solo apparentemente femministi e progressisti».
Simona Segoloni, che ha condotto con il pastore metodista Luca Anziani e il presbitero ortodosso Gabriel Codrea il laboratorio «Famiglie/famiglia, maternità, paternità» spiega: «Quando emergono alcune questioni calde come le persone omoaffettive, le sensibilità e le storie diverse fanno percepire la fatica d’incontrarsi e di capirsi, ma allo stesso tempo tutti comprendono che bisogna andare verso una direzione inclusiva. Mi sembra che ci sia stata una grande condivisione sulla necessità di proseguire su questa strada con abbozzi iniziali di percorsi».
Nel laboratorio «Ecofemminismi e teologia» è emerso il tema dello sfruttamento del corpo femminile come oggetto e dello sfruttamento parallelo della terra che viene femminizzata e mercificata. «È una logica strumentale che rende tutto ciò che è classificato come femminile un oggetto da manipolare – spiega Tomassone –. A essa si sono ribellate le donne attive nel movimento femminista e nel movimento per la pace. Le radici italiane degli ecofemminismi si trovano a Comiso nella lotta contro i missili nucleari, a Seveso nella lotta contro le multinazionali. Anche Chernobyl è stato fondamentale per questa presa di coscienza».
Margherita Bertinat, socia aggregata del CTI e responsabile del gruppo SAE di Verona, fa parte del Gruppo animazione preghiera e liturgia. «Siamo un gruppo misto, cattolico e valdese, collaudato in diverse sessioni e affiatato. Il lavoro e il clima sono molto buoni. Abbiamo cercato insieme i testi attingendo anche al repertorio del Consiglio ecumenico delle Chiese con i necessari adattamenti; noi stessi abbiamo creato delle preghiere».
La teologa valdese Ilenya Goss ha condiviso la tavola rotonda «Umano plurale tra la Scrittura e l’oggi» con il collega cattolico Roberto Massaro: «Abbiamo mostrato come teologi di diverse confessioni possono dialogare felicemente sullo stesso tema». Con Piero Stefani e Sarah Kaminski, Goss ha condotto il laboratorio «Maschile e femminile nell’ebraismo e nel cristianesimo».
«Nei partecipanti è emersa la scoperta d’essere abitati dalla stessa questione. Il lavoro insieme ha reso coscienti che la differenza può essere arricchente e non distruttiva. C’è stata una grande richiesta di informazioni sulle due religioni e una condivisione sui temi più scottanti come la ministerialità che è stato uno dei punti forti di questa sessione».
Diacone è possibile. Su questo tema l’ecclesiologa cattolica Serena Noceti ha tenuto una relazione magistrale focalizzando il discorso sul diaconato alle donne, «possibile e anche necessario non solo per le donne ma per la Chiesa» perché si tratta di «un ministero ordinato non sacerdotale e una modalità di vivere il ministero ordinato non sacrale. Questo costringe tutti i ministri ordinati a ripensarsi». Visto che nella Tradizione non rileva niente in contrario e che nell’antichità sono presenti attestazioni di donne diacono e riti di ordinazione, la teologa ritiene che «questo passaggio giovi alla Chiesa».
«Frequento il CTI da molto tempo così come il SAE; sono rimasta un po’ sulla soglia per osservare e capire e solo dopo ho deciso di abbracciarli totalmente», racconta Nausicaa Marchiori, cultore in Teologia all’Università del sacro Cuore di Milano e collaboratrice della rivista Studi ecumenici e dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della CEI (UNEDI). «Ho conosciuto il SAE attraverso il delegato diocesano per l’ecumenismo di Verona e partecipo al gruppo locale. Prima ignoravo l’esistenza delle altre confessioni cristiane; conoscerle mi ha permesso di vivere più pienamente il cristianesimo».
«Nel percorso personale di fede l’ecumenismo è una delle attenzioni che cerco di mettere specialmente nella preghiera personale così come presto attenzione di genere nella formulazione inclusiva delle preghiere dei fedeli – spiega Alice Bianchi –. I punti di vista del genere e dell’ecumenismo hanno avuto necessariamente un riflesso sul mio percorso di fede perché mi hanno consentito di leggere le liturgie o i gruppi a cui partecipavo almeno sapendo che in certi punti c’erano delle assenze». La teologa fa parte di un gruppo di rappresentanti di associazioni cattoliche convocati dall’UNEDI a un tavolo finalizzato a promuovere la sensibilità ecumenica e interreligiosa. «Essendo capillare, l’Azione cattolica è potenzialmente incisiva rispetto all’ecumenismo e al dialogo interreligioso. Quando organizza eventi a carattere nazionale coinvolge teologhe o teologi di altre confessioni per accendere negli associati il desiderio di fare qualche passo indietro rispetto a sé stessi e al monopolio del proprio territorio. Sull’ecumenismo è bello interfacciarsi con altre associazioni cattoliche: se non si è in grado di fare rete tra noi non riusciremo ad aprirci a una prospettiva più ampia».
Terminata l’esperienza della sessione, le teologhe del CTI guardano ai programmi futuri. Nel febbraio 2024 si terrà la IV edizione del corso on-line di Teologia delle donne dedicata alla pace e alla giustizia. Conclude la vicepresidente: «L’iniziativa è stata un’intuizione del consiglio precedente durante il lockdown. Ha avuto un grandissimo seguito che ha costituito il lancio delle edizioni successive. Nelle persone che vivono la vita ecclesiale l’esigenza di formazione oggi è molto alta».
Laura Caffagnini Il regno attualità 15 settembre 2023
dGESTAZIONE PER ALTRI
Procreazione: la genitorialità che cambia
Un’analisi specifica delle implicazioni etico-teologiche della gestazione per altri (Gpa) che però è anche una riflessione a trecentosessanta gradi sul tema della genitorialità nella società che cambia. Come già anticipato da Adista è stato inviato a tutte le comunità territoriali e pubblicato sul sito web www.chiesavaldese.org il documento “La gestazione per altri (Gpa) – Una prospettiva etico-teologica”, elaborato dopo mesi di lavoro dalla Commissione per i problemi etici posti dalla scienza delle Chiese battiste, metodiste e valdesi, coordinata dalla pastora valdese Ilenya Goss (α1978) laureata in filosofia, medicina, teologia, musicista
Le chiese locali avranno ora almeno un anno di tempo per discuterlo al proprio interno ed eventualmente proporre integrazioni e modifiche, in vista di una possibile approvazione da parte del prossimo Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi nell’agosto 2024 (come già avvenuto per altri due importanti documenti su temi eticamente sensibili, come le «famiglie plurali» e il fine vita.
Il punto di partenza della riflessione è la evidente constatazione che, in una società in movimento, anche l’idea di genitorialità si modifica, e diventa quindi non solo riduttivo ma anche pericoloso e soprattutto lesivo dei diritti dei bambini e delle bambine già nate bollare la Gpa con le espressioni «maternità surrogata» e «utero in affitto», magari rendendola «reato universale» – come piace al governo Meloni –, senza che questo significhi però un’apertura generalizzata e indiscriminata alla Gpa. «Essere genitori appartiene oggi a un’area di esperienza in cui l’intervento della medicina e i cambiamenti sociali e culturali hanno provocato cambiamenti molto profondi – si legge nel documento della Commissione –. La definizione tradizionale e più consueta di genitorialità, riferita alla procreazione della coppia eterosessuale e giuridicamente sposata (talvolta con riconoscimento di tipo religioso) che genera figli attraverso il rapporto sessuale e la gravidanza, è ormai insufficiente a ricomprendere i diversi modelli di famiglia resi possibili dall’avanzamento tecnologico e ritenuti accettabili in molti Paesi dal punto di vista culturale, sociale e giuridico».
«La riflessione teologica proposta nel sintetico testo che presentiamo allo studio interno ed esterno alle nostre chiese – spiega la pastora Goss – si concentra sulla dialettica tra dono e responsabilità da un lato, rivendicazione di diritti e relazioni sbilanciate dall’altro. Le relazioni in gioco tra genitori committenti, gestante e bambino sono il punto nevralgico in cui si realizza oppure si tradisce la dinamica del dono, del rispetto e in definitiva dell’amore; per un credente, inoltre, la genitorialità non è pensata in termini di diritto ma di gratitudine e di responsabilità, all’interno di un vissuto di fede. Al di là del tema specifico della GPA, ci sarebbe da aprire tutta una discussione, ancora da articolare, sul modo in cui pensiamo l’esistenza teologica della donna e la sua speciale modalità di vivere l’identità e la piena realizzazione al di fuori di schemi culturali che oggi non sentiamo più corrisponderci».
Aggiunge la diacona Alessandra Trotta, (α1968) moderatora (riconfermata allo scorso Sinodo) della Tavola valdese, l’organo esecutivo dell’Unione delle chiese metodiste e valdesi: «Le nostre chiese sono abituate ad affrontare temi delicati e complessi che interrogano le coscienze dei credenti sulla base di un’adeguata riflessione teologica e di fede, nella consapevolezza che il loro intreccio con difficili nozioni tecnico-scientifiche e problematiche giuridiche e le loro profonde implicazioni umane e sociali rendano serio un dibattito solo se preceduto dalla fatica di un’adeguata informazione e condivisione di spazi curati per il confronto, accessibili a tutti e tutte».
Pubblichiamo l’intero documento della Commissione per i problemi etici posti dalla scienza delle Chiese battiste, metodiste e valdesi.
Luca Kocci Adista Documenti n° 31 23 settembre 2023
La gestazione per altri. Prospettiva etico-teologica
Commissione per i problemi etici Chiese battiste, metodiste e valdesi 16 settembre 2023
Introduzione. Essere genitori appartiene oggi a un’area di esperienza in cui l’intervento della Medicina e i cambiamenti sociali e culturali hanno provocato cambiamenti molto profondi. La definizione tradizionale e più consueta di genitorialità – riferita alla procreazione della coppia eterosessuale, giuridicamente sposata (talvolta con riconoscimento di tipo religioso) che genera figli attraverso il rapporto sessuale e la gravidanza – è ormai insufficiente a ricomprendere i diversi modelli di famiglia resi possibili dall’avanzamento tecnologico e ritenuti accettabili in molti Paesi dal punto di vista culturale sociale e giuridico.
La gestazione per altri (d’ora in avanti GPA) rientra nel quadro delle possibilità attualmente a disposizione di coloro che, per varie ragioni, non sono in condizioni o non desiderano avere un figlio secondo le modalità a cui solitamente si pensa quando si parla di riproduzione. La GPA è una possibilità aperta dallo sviluppo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), ma solleva questioni etiche specifiche anche per chi, come la nostra Commissione, si colloca in una posizione sostanzialmente favorevole all’applicazione della tecnologia biomedica al problema dell’infertilità o della sterilità umana.
Nell’affrontare questo tema è necessario innanzitutto fare chiarezza sulla terminologia adottata: per indicare la pratica della GPA a livello divulgativo e mediatico si utilizzano talvolta espressioni come utero in affitto o maternità surrogata che solo apparentemente nominano l’oggetto in modo neutrale. Pur mediaticamente efficace e molto utilizzata l’espressione utero in affitto fa riferimento a un organo dell’apparato riproduttivo femminile associandolo a un termine commerciale. Questa espressione risulta immediatamente svalutativa, degradando la gestante a una funzione fisiologica legata alla sua anatomia. Essa sembra inoltre trascurare che la GPA non è necessariamente una prestazione di carattere commerciale, ma può essere un atto solidale e altruistico privo di corrispettivo economico (Commercial Surrogacy vs Altruistic Surrogacy).
L’espressione maternità surrogata (dall’inglese Surrogacy) afferma invece implicitamente che la gestante sia una “finta madre” facente funzione per la madre non gestazionale, ma reale del nascituro. Stante la risonanza debole nella nostra lingua della parola “surrogata” si avverte anche in questa espressione un accento svalutativo basato sull’assunto non esplicitato che la gravidanza sia di per sé già sempre e comunque maternità.
Preferiamo dunque adottare l’espressione gestazione per altri per almeno tre motivi:
- la precisione del termine che circoscrive il discorso alla gravidanza e non si estende al campo della maternità, evidentemente molto più ampio e non esclusivamente biologico;
- la neutralità del termine che non fa necessariamente riferimento a eventuali utilizzi a scopo di lucro;
- l’uso invalso nella letteratura medica e scientifica italiana.
Definizione. La GPA è una specifica modalità di utilizzo delle tecniche di PMA.
Le tecniche di PMA oggi utilizzate sono:
- inseminazione semplice (la fecondazione avviene in vivo);
- la fecondazione in vitro: FIVET (fecondazione in vitro ed Embryo Transfer);
- ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoo a cui segue il trasferimento dell’embrione nell’utero materno).
La gestante per altri è una donna che porta avanti una gravidanza in cui la fecondazione o il concepimento sono avvenuti attraverso tecniche di procreazione medicalmente assistita e il nascituro è a tutti gli effetti considerato (contrattualmente nei Paesi dove ammesso, con altri passaggi giuridici altrove) figlio/a di una coppia o di una persona “committente”, chiamata anche “intenzionale”.
Qualora la GPA avvenga con una fecondazione in vivo le tecniche di PMA sono dette di primo livello (inseminazione “semplice”) e in tal caso la gestante per altri risulta anche donatrice del gamete femminile (mentre quello maschile può provenire o da un componente della coppia committente o da un donatore, anonimo o meno).
Qualora la GPA si realizzi con concepimento in vitro (tramite tecniche di secondo e terzo livello come FIVET e ICSI) la gestante per altri sarà esclusivamente gestante, e può verificarsi la situazione in cui il gamete femminile sia quello della madre committente (che in tal caso sarà anche madre genetica).
I problemi sollevati da tale applicazione delle tecniche di PMA sono di varia natura. Innanzitutto epidemiologici, dal momento che occorre valutare l’incidenza di malattia legata a tale pratica su periodi di tempo congrui con follow-up adeguati. Questi dati sono attualmente molto limitati sia per la novità di questa applicazione sia per la difficoltà di raccolta dei dati stessi, ma soprattutto perché su questa materia assai controversa le dispute ideologiche finiscono inevitabilmente per condizionare il discorso scientifico.
Esistono poi una serie di problemi etici e giuridici, ma anche filosofici e teologici, che riguardano: la legittimità di un simile uso delle tecnologie riproduttive (che si estende alla questione più generale della legittimità delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita, per esempio riguardo alla fecondazione eterologa); i criteri di accesso che eventualmente si vorranno adottare (coppie sterili o infertili, coppie omosessuali, genitori single); il modello di GPA ammesso (solo altruistico, altruistico e commerciale, nessuno dei due); il modello giuridico che regola la genitorialità (che riguarda ad esempio il rapporto tra genitore intenzionale e nascituro e le questioni legate all’anonimato del/dei donatore/i di gameti); il modo in cui viene concepita la genitorialità in prospettiva etica, antropologica e teologica.
Osservazioni cliniche. Nella maggior parte dei casi per ottenere l’embrione ci si avvale della fertilizzazione in vitro, utilizzando i gameti dei genitori intenzionali oppure gameti di donatori esterni alla coppia. Solo raramente la gestante per altri è anche la donatrice dell’ovulo che viene fertilizzato tramite inseminazione intrauterina con lo sperma del padre intenzionale o del donatore: in questo caso la gestante ha infatti anche un rapporto genetico, oltre che gestazionale, con il feto. Questa seconda situazione si verifica con minor frequenza, anche in ragione del fatto che il legame genetico rende la situazione giuridicamente più complessa.
Dal punto di vista medico le procedure da seguire sia prima sia durante la gravidanza sono complesse. Alcune Società scientifiche, in particolare la Società Americana di Medicina Riproduttiva, hanno pubblicato raccomandazioni dettagliate che riguardano le fasi che precedono la GPA, la scelta della gestante, gli accertamenti cui sottoporre i soggetti coinvolti, gli aspetti psicologici e legali da considerare6, quali:
- l’età della gestante per altri (tra 21 e 45 anni il rischio ostetrico è minore);
- assenza di precedenti parti prematuri, per rischio alto di ricorrenza;
- stabilità emotiva;
- obbligo di screening per malattie infettive per la gestante, il suo partner, la donatrice dell’ovulo e il donatore dello sperma per minimizzare il rischio sia di trasmettere l’infezione al feto, sia che l’embrione impiantato possa trasmettere infezioni alla gestante. La tempistica degli accertamenti infettivologici è piuttosto stingente e ben codificata dalle Raccomandazioni (entro i 30 giorni dalla raccolta dell’ovulo per la donatrice dello stesso e dall’impianto per la gestante, entro 7 giorni dalla raccolta per il donatore dello sperma);
- controllo del gruppo sanguigno e del titolo anticorpale per malattie infettive quali rosolia e varicella, e la presenza di sostanze stupefacenti nelle urine;
- screening per tumore del seno, dell’utero e del colon.
La preparazione dell’utero della gestante è attuata con vari farmaci tendenti a massimizzare la probabilità dell’impianto dell’embrione. Ciò comporta dapprima il controllo del ciclo mestruale mediante pillola anticoncezionale, poi la totale soppressione dell’ovulazione spontanea tramite un farmaco somministrato intramuscolo per alcune settimane (leuprolide), a cui segue la stimolazione ormonale dapprima con estrogeni, poi anche con progesterone per preparare la mucosa uterina a ricevere e far crescere l’embrione. A questi farmaci ne vengono generalmente associati altri, in particolare l’acido acetilsalicilico a basse dosi per aumentare la possibilità dell’impianto, un antibiotico prima del trasferimento dell’embrione per ridurre la probabilità di infezione e un cortisonico (metilprednisolone) per inibire reazioni immunitarie e aumentare la possibilità di impianto. Se si instaura una gravidanza con l’impianto dell’embrione, la terapia farmacologica con estrogeni, progesterone e acido acetilsalicilico a basse dosi viene generalmente continuata fino alla 12° settimana. Dai dati attualmente noti risulta che le complicanze della GPA, oltre a quelle possibili in qualsiasi gravidanza, sono soprattutto legate al fatto che, per favorire la nascita di un bambino, vengono spesso impiantati più embrioni, con le conseguenti problematiche legate a gravidanza gemellare (o pluri-gemellare) e parto prematuro.
Le 2 fasi successive alla preparazione (generazione dell’embrione e preparazione dell’utero a riceverlo)
possono essere effettuate in successione (e l’embrione congelato in attesa della preparazione dell’utero ricevente), oppure in continuità temporale tra generazione e trasferimento dell’embrione: in questo caso è necessario sincronizzare farmacologicamente i cicli mestruali della donatrice dell’ovulo e della ricevente.
Il percorso di una gestazione per altri non è semplice né privo di rischi e richiede pertanto un impegno notevole di “risorse di salute” da parte della donna. Questo rende particolarmente importante che tale percorso venga intrapreso all’interno di luoghi sicuri dal punto di vista sanitario (cosa che attualmente non sempre accade, soprattutto nei Paesi a basso reddito) e che venga riservata particolare attenzione a un consenso informato che renda la gestante pienamente consapevole dei rischi per la salute, anche di tipo oncologico, connessi a questo tipo di pratica. Per quanto riguarda il nascituro invece al momento non disponiamo di dati affidabili sufficienti per una valutazione a lungo termine di eventuali rischi di salute che lo riguardino.
3. Discussione etica e giuridica. Ritenendo che in ambito sociale la libertà debba avere la precedenza sul divieto e che a chi intende vietare una pratica spetti l’onere di dimostrarne l’illegittimità ci poniamo in via preliminare la seguente domanda:
- vi sono fondate ragioni per ritenere la GPA intrinsecamente inaccettabile dal punto di vista morale?
Vi sono ragioni per ritenere che essa sia un atto degradante, che viola sempre e comunque la dignità umana di coloro che lo realizzano, a prescindere dalle loro motivazioni e dalle conseguenze positive o negative che esso può produrre? La pertinenza della domanda è testimoniata dal fatto che nella discussione sulla GPA (con maggior frequenza nella sua forma commerciale, ma non di rado anche nella sua forma altruistica) emerga frequentemente l’appello al concetto di dignità umana.
Considerando la GPA nella sua forma oblativa e puramente altruistica, affermare che mettere a disposizione il proprio corpo per consentire ad altri di avere figli sia un atto intrinsecamente inaccettabile e contrario alla dignità umana è un’affermazione che si regge sulla sacralizzazione della famiglia cosiddetta “naturale” e del processo procreativo difficilmente sostenibile in una società plurale. Non a caso molti di coloro che osteggiano la GPA, anche nel nostro Paese, sono contrari anche alla procreazione medicalmente assistita nella maggior parte delle sue forme (in particolare la fecondazione eterologa). Che i processi riproduttivi naturali possiedano una qualche forma di sacralità che li rende indisponibili deriva da una visione antropologica che non può essere attribuita a tutti i membri di una società pluralistica e democratica senza violare un fondamentale principio di laicità. Al contrario, riteniamo che in specifiche e determinate circostanze, e nella sua forma oblativa, la GPA possa configurarsi come un atto solidaristico compatibile con un’etica laica, ma anche non necessariamente in contrasto con la fede cristiana. Anche perché, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche e dell’analisi sociologica non disponiamo di prove che la GPA influisca negativamente sul benessere psico-fisico del nascituro.
La questione della liceità della GPA commerciale è invece più controversa. Ciò che sembra spaventare molte persone è che, grazie ai progressi della tecnica biomedica e ai mutamenti del costume, la gravidanza oggi sembra poter diventare un mestiere. É inoltre comprensibile l’inquietudine di coloro che paventano che l’intera esistenza umana, in particolare la dimensione intima connessa alla riproduzione, possa essere ridotta a logiche di tipo economico e commerciale.
In una prospettiva etica e sociale di stampo liberale invece la GPA può essere vista come un utilizzo della conoscenza scientifica al fine di migliorare la qualità di vita di individui autonomi: essa rappresenta la possibilità di rispondere alla richiesta di aiuto di persone altrimenti impossibilitate ad avere figli. La progressiva affermazione del principio di autonomia rispetto alle scelte riguardanti il proprio corpo e la propria salute, avvenuta sin dalla metà del secolo scorso nel mondo occidentale, fa sì che molte persone considerino pienamente lecito che una donna consapevole e informata possa, se lo desidera, diventare gestante per altri dietro corresponsione di un compenso economico. Il rischio, in entrambi i casi, è di elevare a universale una visione antropologica particolare – che si tratti del divieto di commercializzazione dei processi riproduttivi o dell’ideale dell’autodeterminazione individuale – applicandola a realtà storiche, sociali e culturali che sono profondamente diverse da quelle occidentali contemporanee e che dunque non condividono affatto tale visione.
La questione è ulteriormente complicata dalle statistiche che dimostrano come la maggioranza delle donne che accettano di intraprendere un percorso di gestazione per altri provengano da Paesi a basso reddito in cui la pratica è scarsamente regolamentata, mentre, all’inverso, la maggioranza degli individui committenti appartiene a Paesi economicamente più forti, disegnando palesemente una situazione in cui lo squilibrio e lo sfruttamento sono da ritenersi un dato di fatto.
Questo genere di problemi si riflette sulla regolamentazione giuridica della GPA che non a caso, a livello internazionale, è molto diversificata: alcuni Paesi vietano la GPA in ogni sua forma, altri la consentono sia nella versione altruistica sia nella forma commerciale, altri ancora ammettono unicamente la GPA altruistica tramite una legislazione che in linea generale consente che la gestante venga rimborsata delle spese sostenute, ma esclude qualsiasi forma di remunerazione (è il caso di Paesi come il Canada, alcuni Stati USA, alcuni Stati europei).
In Italia la GPA è vietata in ogni sua forma dalla legge n. 40/2004 in materia di Procreazione Medicalmente Assistita, con la quale si è voluto prevedere una sanzione penale particolarmente aspra per chiunque, in qualsiasi forma, realizzi, organizzi o pubblicizzi la commercializzazione di gameti o di embrioni o la GPA. Dal punto di vista civilistico il contratto di GPA ad oggi è considerato illecito, tuttavia le sanzioni non si applicano a chi ricorre a tale pratica all’estero e si ricorda come già la stessa Legge sulla procreazione medicalmente assistita aveva previsto una tutela per i nati mediante tecniche di PMA riconoscendo lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti dalla coppia che aveva espresso la volontà di ricorrere a tali tecniche, inibendo il disconoscimento di paternità o l’anonimato materno. Il tema del riconoscimento in Italia dei figli nati tramite GPA all’estero è ancora molto dibattuto. Il problema si pone soprattutto per il genitore intenzionale – all’interno di una coppia dello stesso sesso – che non abbia legami biologici con il bambino. Il voler osteggiare il ricorso alla GPA oggi si ripercuote, infatti, sul nato all’estero con tale tecnica, in quanto al momento del rientro è possibile che l’ordinamento italiano non riconosca come esercenti la responsabilità genitoriale le persone indicate nell’atto di nascita estero come genitori.
4. Note per un pensiero teologico sulla GPA. Una riflessione teologica su una questione così complessa come l’esperienza della procreazione e della genitorialità non può limitarsi a enunciare un certo numero di principi generali e astratti che non tengono abbastanza in conto la complessità della vita umana. Il tema della GPA solleva interrogativi teologici a cui non si può rispondere col semplice appello all’autonomia e ai diritti. Due aspetti teologicamente rilevanti sono l’idea di dono nell’orizzonte della genitorialità e la relazione che si instaura tra i committenti e la gestante.
- Il primo aspetto mette a confronto le nozioni di dono e di diritto. Avere figli non costituisce un obbligo né un diritto in una prospettiva credente: la genitorialità si inserisce piuttosto nel quadro di una esistenza che si percepisce destinataria di doni e di responsabilità e si vive innanzitutto nella gratitudine. Una esistenza credente, interpretata alla luce della relazione con Dio anche nelle tensioni, nell’incertezza e talvolta nel dolore di situazioni sgradite, vive il diventare genitore come una grazia e come un compito, talvolta come un progetto che deve integrarsi con altri aspetti relazionali ed etici della vita. L’impossibilità di procreare, dovuta a condizioni patologiche, alla fine dell’età fertile, o semplicemente alla fisiologia dei corpi maschili di una coppia omosessuale, non è di impedimento a una vita piena, realizzata negli innumerevoli modi in cui la creatività esistenziale può esprimersi: per questa ragione non si può avallare dal punto di vista della fede un progetto procreativo che abbia come postulato la rivendicazione di un diritto a essere genitori.
Non riteniamo tuttavia che ciò si presti a giustificare una distinzione generale, empirica e normativa, tra la riproduzione naturale e la riproduzione artificiale. Riteniamo piuttosto che qualsiasi atto riproduttivo sia sempre un intreccio di progettualità e gratuità, che lo rende nello stesso tempo un atto programmato con responsabilità e un evento accolto con gratitudine. Sotto questo profilo, che è rilevante sotto l’aspetto etico, la riproduzione artificiale non si distingue, nella sua essenza, dalla riproduzione naturale. Un figlio frutto delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita, allo stesso modo di un figlio naturalmente concepito, è un dono liberamente accolto e scelto, fatto di molteplici aspettative, desideri e sentimenti, tra i quali la gratitudine verso Dio. Del resto anche la riproduzione naturale porta necessariamente con sé un elemento di progettualità nella misura in cui tale modalità procreativa può essere decisa e intenzionalmente realizzata in accordo con i ritmi della fisiologia riproduttiva.
Quando per svariate ragioni avere figli non è possibile, il desiderio di genitorialità dovrebbe potersi realizzare anche facilitando le procedure di adozione, perché proprio un concetto ampio di genitorialità apre a situazioni in cui l’aspetto biologico e genetico non sono necessariamente decisivi: tenendo in considerazione questa prospettiva la GPA evidentemente non è l’unica opzione possibile per chi sente di volersi donare attraverso la relazione di cura e di amore che costituisce il legame dei membri di una famiglia.
- Il secondo aspetto riguarda le relazioni interpersonali. Un tema assai delicato della GPA sotto il profilo etico-teologico è costituito infatti dal tipo di relazioni che vengono a stabilirsi tra i genitori committenti, il figlio desiderato e la gestante. In prospettiva teologica è da considerarsi illegittima ogni funzionalizzazione di un essere umano, se possibile ancora più fortemente di quanto già sia vero dal punto di vista etico: la relazione con Dio e con gli altri è il cuore stesso dell’esperienza di fede, e ogni forma di relazione in cui l’altro sia ridotto a oggetto oppure a mezzo è da considerare in contraddizione con una vita pienamente umana.
Osservata da questo punto di vista la pratica della GPA non sarebbe di per sé escludente da un orizzonte di fede se vissuta da tutti i soggetti che vi partecipano, come committenti e come gestante in vista del bene del nascituro, in modo autenticamente libero, all’interno di relazioni rispettose e valorizzanti in cui la cura e la volontà di vita piena per tutte e tutti sia al centro dell’attenzione e delle intenzioni.
Dal punto di vista della gestante riteniamo che soltanto la donna possa valutare per sé l’opportunità, le motivazioni e il beneficio o meno di tale scelta, e non riteniamo dunque di poter entrare con divieti in un processo decisionale che risulta di per sé affidato alla sua libertà di soggetto etico; proprio nel considerare ogni essere umano come chiamato a responsabilità e coinvolto dall’annuncio di liberazione dell’evangelo ogni donna deve ricevere pieno riconoscimento della autorità decisionale a lei affidata nel carattere specifico delle potenzialità della sua fisiologia, del proprio orizzonte di senso ed eventualmente di fede.
Compito della società e delle chiese è accompagnare le situazioni complesse e rilevare le situazioni in cui le donne siano poste in condizioni di farsi gestanti per altri perché costrette da ragioni economiche o di altra natura, senza una piena consapevolezza del rischio della pratica dal punto di vista fisico, emotivo, psichico, affettivo, spirituale. Se da un punto di vista etico si può guardare con ottimismo alle possibilità che la biotecnologia ci mette a disposizione, lo sguardo teologico suggerisce di verificare se mettere in atto questa possibilità non comporti un prezzo imposto ad altri che una remunerazione pecuniaria potrebbe non compensare realmente.
Conclusioni. All’interno della nostra Commissione non è stato possibile raggiungere unanimità di vedute riguardo alla questione se la GPA nella sua forma commerciale debba considerarsi eticamente (e giuridicamente) legittima oppure no. Il tema del profitto legato a tale pratica in cliniche estere specializzate solleva anche la questione della disuguaglianza che si stabilisce tra chi può sostenere la spesa e chi no. La differenza di pareri riflette del resto la pluralità di posizioni presenti all’interno della società civile, a dimostrazione del fatto che la disputa tra i fautori e gli avversari della GPA non è necessariamente una disputa che divide i credenti dai non credenti.
La Commissione è invece concorde nel ritenere che: – sia opportuno distinguere tra GPA altruistica e GPA commerciale – la GPA in forma altruistica sia eticamente legittima – tale pratica vada in ogni caso strettamente regolamentata, a livello nazionale e internazionale, tramite precise linee-guida che definiscano le regole di accesso sia per i committenti sia per le gestanti – occorra garantire la massima tutela dei soggetti deboli a livello sociale ed economico, in particolare la gestante ed il minore – sia eticamente inammissibile qualsiasi norma di legge che, a scapito dell’interesse del minore, per disincentivare la pratica della GPA faccia ripercuotere negativamente sul nato le condotte degli adulti che hanno scelto di utilizzare la GPA.
Tratto da: Adista Documenti n° 31 del 23 settembre 2023
Il presente Documento è stato approvato dalla Commissione il 18 agosto 2023: esso è l’esito di un’ampia discussione a cui hanno partecipato tutti i membri della Commissione. Estensori: Anita Ammenti, Ilenya Goss, Silvia Rostain, Luca Savarino.
PASTORALE
Quello che conta davvero
Lettera pastorale sul futuro delle Chiese di Torino e Susa
All’inizio del suo ministero episcopale nell’arcidiocesi di Torino, il neo-vescovo e teologo Roberto Repole aveva invitato le diocesi di Torino e Susa a riflettere sulla «questione essenziale, per la nostra Chiesa, di ripensare il nostro modo di essere presenti ed esistere come comunità cristiana sul territorio» e sulla «necessità anche urgente di ridisegnare il nostro modo di esistere, come Chiesa, sul territorio, al fine di continuare qui e ora a essere ciò che dobbiamo essere e a offrire il Vangelo alle donne e agli uomini che incontriamo e lo desiderano» (cf.
A un anno di distanza, il 16 luglio, è stata pubblicata la Lettera pastorale sul futuro delle Chiese di Torino e di Susa, che annuncia «qualche passo concreto di cambiamento della nostra presenza sul territorio»: a livello parrocchiale, dove s’introdurranno delle équipe-guida di comunità; a livello di curia diocesana, che sarà ridisegnata; a livello di ministeri laicali e clericali.
«Ciò che stiamo vivendo e che ci viene chiesto è qualcosa di bello e avvincente. L’obiettivo è uno solo: essere una Chiesa fatta di comunità vive, nelle quali non solo si parla, ma si sperimenta davvero il regno di Dio, di cui la Chiesa è come un germe».
Carissimi fratelli e sorelle delle diocesi di Torino e Susa,
il Vangelo di Luca riporta alcune parole di Gesù piuttosto decise e dure. «Diceva ancora alle folle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: ‘Arriva la pioggia’, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: ‘Farà caldo’, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo?» (Lc 12,54-56).
Quanto Gesù lamenta è il fatto che chi lo ascolta vede ciò che accade esteriormente, ma è incapace di leggere in profondità il tempo che sta vivendo: il tempo della vicinanza e della presenza di Dio, quello del compimento della promessa, il momento unico dato dal fatto che il Figlio di Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi. Questa parola di Gesù non è rivolta solo ai suoi contemporanei, ma è indirizzata anche a noi. Anche oggi la Chiesa è chiamata a riconoscere la presenza viva di Cristo, per lasciarsi guidare da lui: non esiste nessun tempo, neppure il nostro, che non sia bello e fecondo, in quanto Cristo è presente, ci conduce e guida l’umanità intera.
- Anche oggi, dunque, siamo chiamati a domandarci con sincerità, fiducia e docilità: che cosa sta accadendo?
- Quali cambiamenti stanno investendo la vita della Chiesa e quella di noi cristiani?
- Più in profondità dobbiamo chiederci: dove ci sta conducendo Cristo?
- Quali passi dobbiamo compiere per poter dire con onestà di essere ancora alla sua sequela?
È in quest’orizzonte che, all’inizio del mio ministero episcopale, ho scritto una breve lettera, nella quale invitavo la Chiesa torinese (che già conoscevo per esserne parte da sempre) a prendere atto della situazione del nostro essere cristiani oggi. Un contesto nel quale non si deve porre l’accento – come verrebbe spontaneo – soltanto sulla contrazione del numero e l’invecchiamento dei preti, ma anche sul fatto che i cattolici non coincidono più con la totalità della popolazione.
A partire da qui ponevo la questione essenziale, per la nostra Chiesa, di ripensare il nostro modo di essere presenti ed esistere come comunità cristiana sul territorio. Dobbiamo infatti prendere consapevolezza in modo lucido che mantenere semplicemente e stancamente il modello attuale significa condannarci a non essere più una presenza capace di trasmettere la ricchezza inesauribile e coinvolgente del Vangelo alle donne e agli uomini di oggi, tanti dei quali hanno una sete immensa di vita, di senso, di amore e di relazioni calde, in una parola, di Dio.
Per questa ragione, ciò che stiamo vivendo e che ci viene chiesto è qualcosa di bello e avvincente. L’obiettivo è uno solo: essere una Chiesa fatta di comunità vive, nelle quali non solo si parla, ma si sperimenta davvero il regno di Dio, di cui la Chiesa è come un germe. È il Signore, vivente in mezzo a noi, che ci chiede di essere cristiani gioiosi, a motivo di quella relazione con lui e tra di noi che ci è data di vivere e, dunque, testimoni credibili del fatto che vale la pena lasciare tutto e seguirlo.
Lo sappiamo bene: questo mondo e questo tempo non sanno che farsene di cristiani stanchi, lamentosi, accidiosi, parte di un ingranaggio che si muove secondo la logica del «si è sempre fatto così», forse senza neppure più sapere perché si fanno determinate cose… Il cammino di ascolto reciproco, compiuto quest’anno, aveva lo scopo di riconoscere in noi e intorno a noi tutto quello che ci appare come promettente, un «germoglio» appunto di comunità cristiane vive e impegnate nell’annunciare il Vangelo.
A partire da quanto è emerso, si tratta ora di muovere qualche passo concreto di cambiamento della nostra presenza sul territorio; di modificare qualcosa di quel che può concorrere a tal fine; e di dare il via a qualche nuova iniziativa in questa direzione.
Il nostro centro è Gesù. A me spetta, in quanto pastore della Chiesa di Torino e di Susa, indicare taluni criteri a partire dai quali pensare il cambiamento e accennare ad alcune scelte operative, che trovano concretezza in alcuni cambiamenti già annunciati e che chiedono di essere accompagnate da un impegno ecclesiale intelligente e ricco della corresponsabilità di tutti i cristiani.
Vorrei però sgomberare sin da subito il campo da una possibile tentazione: quella di accostare quanto segue con l’atteggiamento dell’attesa messianica, quasi che ci si possa aspettare la salvezza da scelte concrete, inevitabilmente limitate e storicamente condizionate da fattori che spesso non dipendono da noi.
Dobbiamo invece vivere i passi che proveremo a delineare nella fiducia profonda che l’Atteso è Cristo e soltanto lui; e che tutto quello che facciamo e scegliamo serve se ci aiuta a rimanere nell’attesa della sua venuta, se ci è di sostegno a vivere nella speranza ardente che egli venga e che verrà presto. Noi non attendiamo delle scelte o dei cambiamenti; noi facciamo delle scelte e dei cambiamenti per rimanere sempre meglio in attesa della venuta di nostro Signore Gesù Cristo. Noi siamo come in esilio, come afferma san Paolo (cf. 2Cor 5,6); e viviamo in questo mondo da stranieri e pellegrini (cf. 1Pt 2,11), come dice san Pietro. È l’attesa del Signore ed è il vivere di lui, sin da ora, che debbono rimanere il criterio di verifica permanente di tutte le nostre scelte. Senza questo, tutto ciò che chiamiamo pastorale rischia di essere vanità!
Tre criteri per essere Chiesa. Vorrei indicare tre criteri di fondo:
- l’ascolto della parola viva di Dio e la formazione;
- la centralità dell’eucaristia nel giorno del Signore;
- la fraternità tra di noi, che si espande su tutti coloro che incontriamo.
Questi criteri, presi insieme, ci consentono di verificare che cosa è indispensabile per essere autentiche comunità cristiane e, allo stesso tempo, di modulare modi diversi di essere comunità, oltre che di strutturare legami efficaci e duraturi tra le comunità.
- Perché ci sia una comunità cristiana è indispensabile che ci sia un ascolto costante della parola di Dio, che non può essere ridotto a una conoscenza biblica di tipo intellettualistico, ma deve corrispondere a un ascolto di Dio che continua a parlarci in modo vivo e a chiamarci costantemente alla fede in lui. E ci deve essere un nutrimento costante, dal livello intellettuale a quello della orazione, della fede dei credenti che, specie oggi, se non viene alimentata, si perde o non è aderente alle profonde trasformazioni della nostra esistenza. Ciò si può concretizzare in esperienze diverse, come percorsi di catechesi per ogni età, esperienze di preghiera, cammini di lectio divina, proposte di conoscenza della Scrittura che sboccino in un dialogo personale e comunitario con il Signore che parla.
- Ma perché si possa parlare di comunità cristiana è anche indispensabile che ci si incontri nel giorno del Signore nella celebrazione eucaristica e che si viva la festa di questo incontro e di questo giorno. È infatti in forza del dono del corpo di Cristo che noi diventiamo il corpo di Cristo che è la Chiesa. È cibandoci di lui che noi diventiamo una cosa sola con lui e tra di noi. E per rimanere quello che siamo, abbiamo bisogno ogni domenica di nutrirci della vita che ci offre Cristo, di fare l’esperienza della vita nuova che sgorga da quell’incontro, di sperimentare che, pur essendo diversi tra noi per età, cultura, censo, sensibilità, luoghi di provenienza, in lui diventiamo una cosa sola. Il fatto poi che sia il presbitero a presiedere l’eucaristia evidenzia che tocca a lui presiedere la comunità cristiana e che la sua presidenza è indispensabile perché si possa parlare di comunità cristiana in senso pieno.
- Infine, ciò che nasce dall’ascolto costante della Parola e dalla celebrazione eucaristica è una fraternità che deve essere reale, nel senso che ci fa fare l’esperienza concreta del sentirci in cammino con altri, di percepirci responsabili della loro fede e interpellati dai loro bisogni, di qualunque genere essi siano (da quello dell’amicizia e dell’ascolto a quello economico), di sentire che noi stessi siamo oggetto di cura e di attenzione reale da parte di altri, e custoditi dai fratelli nella fede. Non solo: questa esperienza di fraternità – così necessaria in un mondo individualista come il nostro – è l’unica vera anima e l’unico vero motore di ogni attività caritativa e sociale. Nel senso che se non c’è questa reale esperienza fraterna tra noi, che nasce dal sentirci una cosa sola in Cristo, ci potrà essere volontariato uguale a molto altro volontariato o filantropia uguale a tanta altra filantropia… ma non è detto che ci sia ancora la caritas cristiana!
Come cambieranno le parrocchie. Tutti sappiamo che tante esperienze ecclesiali hanno esaurito la loro stagione vitale. Eppure noi abbiamo bisogno, per essere Chiesa, di fare in modo che i tre criteri ora indicati continuino a essere i pilastri solidi della nostra vita. A tal fine, dovremo cercare di mantenere vive le comunità laddove finora ci sono state parrocchie anche piccole, soprattutto se c’è ancora qualche elemento significativo, in modo che non si perda quell’esperienza di prossimità e di legame fraterno nel Signore che lì si può creare e custodire. Del resto, anche nei contesti più piccoli si possono tranquillamente svolgere alcune attività importanti, come ad esempio mantenere aperta la chiesa, pregare insieme al mattino e alla sera, disporre di un ufficio o di uno sportello in cui raccogliere le esigenze di diverso tipo, conservare qualche proposta catechistica, svolgere un’attività caritativa proporzionata alle forze disponibili e comunque raccogliere le esigenze che ci sono, incontrare gli anziani e prendersi cura dei malati.
Al contempo, però, è necessario che alcune altre dimensioni vitali siano svolte a un livello diverso, per testimoniare in maniera efficace la novità del Vangelo. In questo senso dobbiamo guardare a territori più vasti, sempre più in sintonia con i luoghi di vita dei cristiani e di quelli ai quali vogliamo rivolgerci: penso, per esemplificare, ai complessi scolastici frequentati dai ragazzi e dai giovani; ai luoghi di lavoro in cui convergono gli adulti; ai centri sanitari e ad altri servizi a cui si fa riferimento nella vita di ogni giorno.
Anche in relazione a tutto ciò, possiamo immaginare che alcune dimensioni della nostra vita comunitaria possano trovare un respiro più ampio rispetto a quello delle parrocchie tradizionali. Si può pensare, per esempio, che un percorso serio e avvincente rivolto ai giovani non si esaurisca più a livello di singole parrocchie, ma coinvolga comunità diverse, scegliendo anche le strutture (per esempio l’oratorio) in cui convergere. Sempre per esemplificare, si può immaginare che un’attività caritativa che sia davvero l’espressione di una fraternità cristiana vissuta sia organizzata a livello di più comunità limitrofe, individuando risorse umane, organizzative ed economiche provenienti dalle diverse parrocchie e il luogo adeguato in cui convergere.
Dobbiamo curare l’eucaristia. Qualcosa di analogo e di ancora più decisivo va detto in riferimento alla celebrazione eucaristica domenicale. Non possiamo più limitarci, come si è fatto spesso in passato, a garantire la possibilità della messa domenicale più comoda, soprattutto se ciò ha come conseguenza celebrazioni poco curate (dalle letture all’omelia e al canto), che non sono l’espressione di una comunità cristiana in tutte le sue componenti (dai ragazzi agli anziani) e che non permettono di esperire la gioia di incontrarsi tra fratelli.
Si deve pertanto avviare un processo che ci porti gradualmente a strutturare una rete di comunità presiedute da un prete, possibilmente coadiuvato da altri preti e da diaconi, costruita intorno a un «centro eucaristico», cioè a quel luogo in cui le comunità convergono per la celebrazione eucaristica domenicale. So bene che questo obbligherà qualcuno a spostarsi; ma so altrettanto bene che viviamo in una società nella quale ci si muove per ogni cosa (dalla spesa, al lavoro, al medico…). Se ci teniamo alla nostra vita cristiana, potremo dare più rilievo al valore di una celebrazione eucaristica viva e coinvolgente che alla fatica di qualche spostamento.
A piccoli passi, ma decisi. Sono cosciente che questi cambiamenti dovranno realizzarsi in modi e tempi differenti a seconda dei luoghi in cui ci troviamo. Le nostre diocesi, nell’insieme, sono molto vaste e differenziate e ciò implica che si dovrà tenere conto dei contesti diversi, come si può evincere dal fatto che le scelte concrete annunciate nelle settimane scorse esprimono anche modelli in parte diversi di presenza della Chiesa. Sarebbe ideologico e astratto un piano di ripensamento che coinvolga tutte le comunità allo stesso modo. Stiamo avviando qualche progetto in alcuni luoghi determinati, ben consapevoli che si tratta di processi che esigono un accompagnamento che implica la corresponsabilità mia, dei vicari, dei parroci, dei diaconi, di altri ministri e delle comunità tutte.
Il riordino della curia. Promuovere un simile mutamento esige anche la trasformazione di quelle realtà che devono servire a tale scopo. Penso, in primo luogo, alla curia diocesana. Mi pare di poter dire che essa necessiti per diversi motivi di un cambiamento.
- Il primo è che essa è per molti aspetti ancora strutturata secondo uno schema di uffici che avevano la loro ragion d’essere negli anni immediatamente successivi il concilio Vaticano II, ma che oggi risultano pleonastici, sia in termini di servizi offerti sia di costi sostenuti. Mancano, invece, servizi di cui oggi ci sarebbe estrema necessità.
- Il secondo motivo è che essa deve prevedere una maggiore assunzione di responsabilità da parte di laici, donne e uomini.
- Il terzo è che deve diventare sempre più chiaro ciò che così chiaro non è sempre, cioè che la curia è a servizio del ministero del vescovo e della vita della Chiesa locale, e non all’inverso. Su questa base è indispensabile avviare un processo di cambiamento, che chiederà ulteriori sviluppi e il contributo fattivo del personale che lavora in essa. Esso è già stato delineato e prenderà corpo nei prossimi mesi.
Un modo nuovo di essere preti. Queste trasformazioni richiederanno mutamenti anche nel modo di concepire il ministero ordinato; coinvolgeranno le consacrate e i consacrati attivi nella nostra Chiesa; e ci sproneranno a consolidare alcuni ministeri laicali e a suscitarne di nuovi.
Tutto ciò implicherà, infatti, che il ministero dei preti sia pensato, dove possibile, secondo un modello diverso rispetto a quello classico del prete di una sola parrocchia o di più parrocchie, ciascuna delle quali però rimane un mondo chiuso in sé stesso. Esso dovrà poi anche essere – talora in misura prevalente – un ministero di presidenza di altre ministerialità diaconali e laicali, chiedendo a tutti una collaborazione stretta e – mi auguro – arricchente.
Quanto al ministero dei diaconi, andrà pensato come un ministero «plastico», che preveda cioè modi di attuazione diversi, anche in relazione alle possibilità e ai talenti di ciascuno. Si può immaginare un ministero che sia in primo luogo a servizio della cura di quel tessuto di relazioni tra i credenti tra loro e dei credenti con gli altri, che nel tempo passato era scontato e costituiva il presupposto delle comunità cristiane, e che nel contesto attuale, invece, va continuamente ricreato.
Per quanto concerne le consacrate e i consacrati, ritengo indispensabile che il tentativo di ripensarci sul territorio coinvolga anche loro nel domandarsi anzitutto dove orientare la propria presenza, affinché la vita consacrata possa essere percepita ovunque come un elemento determinante per il realizzarsi della Chiesa. In particolare, in questo processo di rinnovamento, potrà essere molto feconda la presenza di comunità religiose che aiutino tutti a ricordare e a mostrare l’assoluto di Dio nella vita concreta delle nostre comunità cristiane.
L’Istituto per la formazione dei laici. Il cambiamento implicherà anche la possibilità e la necessità di nuovi ministri laicali istituiti, attraverso un percorso di formazione almeno biennale, con un processo di discernimento che coinvolgerà anche il vescovo attraverso i suoi collaboratori. Tali ministeri verranno istituiti per la durata di cinque anni: il limite di tempo servirà a fare in modo che i laici che assumono un servizio non debbano farlo in perpetuo e a tenere viva la necessità che anche altre laiche e altri laici si rendano disponibili.
Tra questi ministeri ci saranno quello del lettore, dell’accolito, del coordinatore dell’annuncio e della catechesi, dell’animatore-coordinatore della carità e quello, particolarmente importante, di membro dell’équipe-guida di comunità.
Quest’ultimo è un servizio indispensabile laddove ci siano piccole comunità in cui non è possibile la presenza costante del presbitero. Non si tratterà di un servizio svolto da un singolo, ma da un gruppo ministeriale composto da almeno tre persone, in modo che sia evidente che il servizio della presidenza è svolto sempre e solo dal prete.
Al fine di avviare tutto ciò sarà eretto, a partire da novembre prossimo, un nuovo Istituto di formazione, per fornire gli strumenti indispensabili per svolgere questi ministeri e che, in prospettiva, dovrà diventare il centro propulsore e coordinatore di tutte le iniziative formative delle diocesi.
Il banco di prova, la fraternità. Invito, in conclusione, tutti e ciascuno ad accogliere i cambiamenti indicati con un profondo segno di fiducia nella presenza di Cristo e, perciò, nel presente e nel futuro delle nostre Chiese.
Propongo che nel prossimo anno pastorale ci si concentri sul tema della fraternità, da intendersi come dono che riceviamo da Gesù, il Primogenito tra molti fratelli (cf. Rm 8,29), e al contempo quale compito nel quale sentirci incamminati. Essa potrà concretizzarsi in pratiche di condivisione, solidarietà, benevolenza reciproca, misericordia degli uni nei confronti degli altri, responsabilità fattiva nei confronti del bisogno altrui.
Si tratta poi di una fraternità da accogliere e far crescere in diverse direzioni. Anzitutto tra i preti, che sono chiamati a partecipare alle diverse occasioni d’incontro e di formazione proposte come opportunità di vita fraterna. Quindi tra i preti e i diaconi, con l’obiettivo di imparare sempre di più e meglio a cogliere che, all’interno dello stesso ministero ordinato, ci sono ministerialità diverse e complementari. Una fraternità, poi, da far crescere tra i presbiteri, i diaconi e le comunità di consacrati, religiose e religiosi presenti sul territorio; e da aprire alle nuove ministerialità laicali, affinché sia sempre più evidente che tutti noi siamo solo servi e mai padroni della Chiesa, corresponsabili, pur in modo differenziato, della comunità cristiana.
Anche tra le comunità, specialmente fra quelle che cominciano un cammino insieme, dovrà essere implementata una reale fraternità. Potremmo ricorrere a uno slogan: sarà importante avere cura del campanile ma non cadere nel campanilismo. Avere cura del campanile, cioè della comunità in cui viviamo, perché lì sul territorio possa continuare a essere una testimonianza di fratelli e sorelle in Cristo.
Ma bandire ogni campanilismo, mostrando che la comunità è arricchita dal fatto di camminare insieme ad altre comunità. Ciò ci aiuterà, peraltro, ad aver sempre più chiaro che le comunità sono tali solo perché parte della Chiesa locale presieduta dal vescovo. Solo se ci collochiamo in questo orizzonte possiamo parlare di comunità cristiane.
Il volto della Chiesa, la carità. Infine si tratta di crescere nella consapevolezza che tutte le nostre azioni caritative e sociali debbono essere il riverbero della carità e della fraternità che viviamo tra di noi. Se non c’è questo, non c’è vera caritas! Il servizio caritativo nei confronti di chi è emarginato e fragile – dobbiamo ribadirlo con forza – è elemento essenziale della vita della Chiesa! Tuttavia esso è tanto più vero e autentico quanto più è espressione di cristiani che vivono tra loro come fratelli e sorelle.
Costituisce in tal senso un sentiero da percorrere con passione quello presente in un passo di “Ad gentes”, n. 12. Trattando della presenza della carità come aspetto fondamentale della missione ecclesiale, il testo del Vaticano II afferma: «La presenza dei cristiani nei gruppi umani sia animata da quella carità con cui ci ha amato Dio, il quale vuole che anche noi reciprocamente ci amiamo con la stessa carità».
Il servizio caritativo, di cui le nostre Chiese sono così ricche, è e deve sempre più essere il riverbero della carità con cui Dio ci ama e nella quale noi cristiani ci amiamo tra noi.
Che il Signore benedica il nostro cammino ecclesiale e Maria santissima, consolata e consolatrice e Signora del Rocciamelone, vegli con sguardo materno su ciascuno di noi.
Dall’arcivescovado, 13 luglio 2023. Roberto Repole
Regno Documenti, n.15/2023, 01 settembre 2023, pag. 502
ilregno.it/documenti/2023/15/quello-che-conta-davvero-mons-roberto-repole-arcivescovo-di-torino-e-vescovo-di-susa
Parrocchia si cambia, ma come?
A memoria potremmo dire che sono almeno 30 anni che nella Chiesa italiana si parla della riduzione del clero. E contemporaneamente si è messa in moto qualche iniziativa nella linea dell’unificazione delle parrocchie. Allora, però, c’erano ancora preti tra i 50 e i 60 anni e dunque il tema era far sì che qualcuno acconsentisse a non essere più parroco, come pure convincere i seminaristi, che ancora c’erano, a non pensare di diventare parroci subito.
Tutto questo però in ordine sparso, per via di sperimentazioni e di alchimie tra preti, e qualche volta, religiose. E, soprattutto, senza mai guardarsi indietro: chi stava arrivando?
In questo contesto la lettera del vescovo di Torino ↑ apre strade e offre l’occasione per qualche considerazione di diverso tenore. Nel contesto della lettera sembra chiara la consapevolezza che le piccole comunità non sono abbandonate, sono collegate tra loro e a loro è offerto un centro eucaristico per una celebrazione degna del nome, ma anche per un esercizio della carità e della formazione di respiro ampio.
Ḕ assolutamente vero che si impiega l’auto per tutto, e per le nostre comunità la distanza del luogo della celebrazione non dovrebbe far problema. D’altra parte, c’è una pigrizia nei confronti del luogo e dell’orario di celebrazione insostenibile e per nulla giustificata.
Molte comunità però sono anziane, soprattutto quelle dei piccoli centri, perciò sorge la domanda se, per loro, sarà efficace lo spostamento. E poi il Piemonte ha montagne, e in generale l’Italia con le sue Alpi, Prealpi, Appennini, è fatta di tanta montagna… e qui entra in gioco la fattibilità concreta.
Neve e ghiaccio, acqua? L’instabilità del clima ci suggerisce fenomeni molto più forti del solito producendo situazioni in cui è sconsigliato spostarsi. In questo caso, il rischio è di tornare ancora alla messa in tv, magari con la diretta streaming del centro eucaristico della zona.
Ma tutte queste difficoltà, tecniche e via via affrontabili, diventano in realtà elementi significativi perché lo sfondo in cui questa strutturazione della vita delle comunità viene a collocarsi è quella di uno schema tradizionale: il prete è presidente di fronte al popolo di Dio.
Sì ci sono ministri, e ci sarà il trio dei laici responsabili nei piccoli centri, ma l’unicità della presidenza deve essere preservata. E difatti i compiti del trio si riducono a poco: tener aperta la chiesa e genericamente far pregare. L’aspetto convincente è di essere un trio e di avere una durata determinata dell’incarico. Il numero dispari serve per giungere alla decisione.
Si è sentita ipotizzare come naturale l’idea di una coppia di sposi che fosse responsabile della comunità. Quest’ultima idea, invece, ha veramente molti elementi negativi: sottolinea ulteriormente come, nelle nostre comunità cristiane, chi non è sposato non sia considerato come figura significativa. Un’ipotesi del genere, poi, dimostra di non conoscere bene le dinamiche di una famiglia; il lavoro dei genitori e l’impegno pastorale di entrambi come condizionano la vita di coppia e la vita di famiglia?
Ma la debolezza dei compiti affidati al trio e la preoccupazione della presidenza fanno un po’ effetto. Che ne è, per esempio, dell’antica ma sempre utile “cura d’anime”, la visita ai malati, e altro: pensiamo ancora che sia tutto sulle spalle di un unico presidente?
E poi nella famosa domenica in cui raggiungere la messa potrebbe essere impossibile, la comunità non potrà vivere la comunione ecclesiale con una liturgia della Parola, affidando magari al catechista il compito di “presiedere”? In molte comunità c’è questa abitudine della preghiera con la distribuzione dell’eucarestia, che, se diventa prassi, è un orrido liturgico. E bene ha fatto il vescovo Repole a non evocare questo. Detto questo, rimane però la domanda: il popolo di Dio non può celebrare con dignità liturgica la Parola?
Ci sono diverse soluzioni per affrontare il calo numerico dei preti. La diocesi di Milano, per esempio, per la cura delle unità pastorali ha pensato lo strumento della “diaconia”. La presidenza è sempre chiaramente del parroco, ma la presenza di incaricati dei vari settori (ministri, religiosi, laici), in dialogo con il consiglio pastorale, e in obbedienza a esso, prospetta – almeno sulla carta – una prassi di cammino insieme che è interessante. Tuttavia, questa struttura prevede ancora una presenza significativa di popolo e ministri.
La vera obiezione a proposte diverse alla fine rischia di essere sempre più legata al ruolo e al significato della presidenza nella comunità… e questo perché, nonostante tutto, qualche presidente ogni anno viene pur sempre ordinato. Effettivamente, è questo il versante che non muta e, invece, dovrebbe mutare. Se il pastore deve condurre ed essere con le pecore, in tutto questo c’entra anche il percorso! Fuor di metafora: non dev’essere ripensato il ministero del presbitero?
Le titubanze sopra indicate mostrano come, ad ora, non sia bastata la sempre più evidente mancanza di ministri per incentivare la riflessione. In ordine alla partecipazione del laicato, il papa ha dato un aiuto istituendo il ministero del catechista, presenza molto importante in altri luoghi del mondo. Ma la ministerialità diffusa, il sacerdozio battesimale, sono talenti ancora poco trafficati. E poi il prossimo Sinodo sulla sinodalità…
L’impressione, però, è che, finché la situazione delle comunità non ci porta a rileggere il ministero, non possiamo che sperare nella tenuta psico-fisica e spirituale dei pastori. Un uomo così preso da mille incombenze, fosse solo per coordinare, riuscirà ad avere il tempo per riflettere da solo o con altri su come stare nell’oggi e avere quella paziente delicatezza per avvicinarsi alle persone lontane che, in qualche modo, interpellano la vita ecclesiale?
Ma ripensare la configurazione del ministero non è compito di un singolo vescovo e neppure di una diocesi. Nel cammino sinodale italiano la questione è stata messa a tema, speriamo che si vada verso la capacità di raccogliere gli aspetti più convincenti proposti finora, che portano in sé i connotati del territorio ma anche aspetti ecclesiologici che riguardano tutte le Chiese.
Elsa Antoniazzi Settimana news 11 settembre 2023
www.settimananews.it/parrocchia/parrocchia-si-cambia-ma-come
SACERDOTI
Preti celibi e sposati nella Chiesa cattolica
Don Basilio Petrà al convegno del movimento Vocatio
(α1946) Basilio Petrà, professore stabile ordinario di teologia morale fondamentale e di morale familiare presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale dal 1981
«Sono maturi i tempi teologici e in generale ecclesiali perché si passi al riconoscimento formale che il Signore chiama tanto uomini celibi quanto uomini sposati all’esercizio del ministero presbiterale in tutta la Chiesa cattolica». Si è tenuto a Roma dal 24 al 26 marzo il convegno di Vocatio, associazione che dal 1981 dà sostegno ai preti che hanno dovuto abbandonare il ministero essendosi sposati, e che chiede l’abolizione dall’obbligo del celibato per il ministero presbiterale.
Don Basilio Petrà, teologo esperto di Chiese ortodosse e presidente dell’Associazione teologica italiana per lo studio della morale (ATISM), nella sua relazione dal titolo «Verso un presbiterato celibatario e uxorato in tutta la Chiesa cattolica» parte dal presupposto che la Chiesa cattolica è una realtà comunionale, frutto dell’unità di 22 Chiese sui iuris – tra cui quella latina –, che contemplano al loro interno clero sia celibe sia uxorato. Anche la Chiesa latina riconosce al suo interno forme particolari di sacerdozio uxorato, da cui consegue che tale stato di vita rappresenta una vocazione teologicamente fondata (anche se, ufficialmente, tollerata). «La Chiesa cattolica sa che Dio chiama tanto uomini celibi quanto uomini sposati al servizio ministeriale. Ogni chiamata ha la sua dignità e il suo modo di esprimere la dedizione piena al servizio della Chiesa».
Quello che oggi dirò nasce da un’intenzione precisa: dimostrare che sono maturi i tempi teologici e in generale ecclesiali perché si passi al riconoscimento formale che il Signore chiama tanto uomini celibi quanto uomini sposati all’esercizio del ministero presbiterale in tutta la Chiesa cattolica, e che ogni Chiesa della comunione cattolica dovrebbe operare coerentemente con tale riconoscimento. Sottolineo subito il mio punto di vista: la questione del clero sposato non è una questione sociologica né un problema di migliore utilizzazione delle risorse umane nella Chiesa; essa è innanzitutto una questione teologica. Ciò significa che ha questa forma: il Signore chiama anche uomini sposati all’esercizio del ministero ordinato nella Chiesa oppure no? Se infatti il Signore fa questo, allora la Chiesa può solo accogliere questo dono di Dio e non rigettarlo.
Per poter dimostrare che è così, tuttavia, fin dall’inizio devo ricordare a tutti voi una verità elementare quanto regolarmente trascurata.
La Chiesa cattolica è una comunione di circa ventidue Chiese, tutte con un proprio diritto (sui iuris). Una di esse è la Chiesa di rito latino; ci sono poi numerose Chiese di rito orientale, quelle che hanno origine dalle tradizioni alessandrina, antiochena, armena, caldea, costantinopolitana. La struttura comunionale della Chiesa cattolica è resa evidente, in particolare, anche dal fatto che non ha un solo codice di diritto canonico, ma due codici, uno per la Chiesa di rito latino (CIC) e uno per le Chiese orientali (CCEO), ambedue dotati della stessa dignità e sanzionati dalla stessa autorità. La dualità dei codici è dovuta al fatto che, pur nell’unità della fede, tra le diverse Chiese in comunione ci sono diversità disciplinari, liturgiche, spirituali e teologiche.
Questa peculiare struttura comunionale determina un fatto di grande rilievo: un’affermazione può essere detta rappresentativa della comunione cattolica solo se esprime una realtà condivisa nell’intera esperienza delle Chiese della comunione cattolica, e può essere detta di interesse cattolico solo se riguarda l’intera comunione cattolica. Altrimenti non può essere detta adeguatamente cattolica, ma solo propria di una Chiesa sui iuris o concernente solo una o più Chiese di proprio diritto. Ovviamente, il presupposto essenziale di questa comunione tra le Chiese è che non può darsi contraddizione teologica tra le particolarità proprie delle singole Chiese.
La Chiesa cattolica, come ben sappiamo, ha un centro visibile di unità. È il centro costituito dal ministero petrino esercitato dal vescovo di Roma, che nell’esercizio di tale diaconia apostolica viene coadiuvato dalle congregazioni e dagli organismi di curia. Il principio che abbiamo sopra ricordato vale tanto per il ministero petrino quanto per la curia. Se parlano di qualcosa che non riguarda l’intera Chiesa cattolica, parlano come espressione di una Chiesa sui iuris, fosse anche solo quella latina.
Vi prego di tenere presente questo principio perché nelle considerazioni che seguono ricorderò alcune circostanze nelle quali emerge chiaramente che le congregazioni romane continuano ancora a operare come se Chiesa latina e Chiesa cattolica si identificassero semplicemente, anche se piccoli segni di cambiamento cominciano a farsi strada.
1. La Chiesa cattolica ha due forme di clero. La Chiesa cattolica nella sua cattolicità ha due forme di clero, quella celibe e quella uxorata, ne accetta pienamente l’esistenza e la considera del tutto legittima. Si tratta di un fatto oggettivo evidente. Non considero qui il diaconato – sul quale non c’è contestazione (quasi del tutto), ma solo il presbiterato.
Infatti, tutte le Chiese orientali cattoliche (escluse le due Chiese indiane: siro-malankarese e siro-malabarese, almeno nell’attuale disciplina) hanno le due forme di clero, celibe e uxorato. La larga maggioranza del clero parrocchiale in tali Chiese è uxorato.
Inoltre, la stessa Chiesa latina ha le due forme di clero. Si sa che in casi eccezionali (ma non rari) si accolgono ministri uxorati provenienti da altre confessioni cristiane e che qualora non siano stati validamente ordinati vengono ordinati ex novo da vescovi cattolici, rimanendo sposati e senza alcun cambiamento nella disciplina della loro vita coniugale.
Dunque, i due tipi di clero oggi sono cattolicamente accettati come vere, legittime, valide forme di clero. Sottolineo, l’accettazione ufficiale è indubbia. Ciò non toglie che sia ancora di fatto contraddetta a livello della concreta prassi ecclesiale cattolica e anche nell’esercizio concreto dell’universale attività pastorale della Chiesa. In altre parole, tutti gli organi che articolano un servizio cattolico nella Chiesa sembrano ancora muoversi prevalentemente su una linea che contraddice tale coscienza cattolica.
Ci sono cose che tutti conosciamo, come le grandi difficoltà incontrate dalle Chiese orientali cattoliche per ottenere che i loro fedeli fossero seguiti nella diaspora da ministri uxorati delle loro Chiese o la difficoltà di collocare il clero uxorato nei sistemi di remunerazione del clero in vari paesi, compresa l’Italia.
L’acme della contraddizione a parer mio si è raggiunto nei due Sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015. Non sono state prese in considerazione le famiglie sacerdotali cattoliche né il clero uxorato orientale. L’unico prete orientale chiamato a far parte dei sinodali è stato un prete copto cattolico celibe.
È stato l’acme della contraddizione de facto. Forse, dico forse, sta cominciando un cammino diverso. Lo dico perché verso la fine del secondo Sinodo ci sono state alcune reazioni da parte orientale, specie dopo un mio intervento sul blog “Indice del Sinodo”, e forse si deve a tali reazioni che Amoris lætitia è diventato il primo documento cattolico di altissimo livello magisteriale e pastorale che invita cattolicamente a valorizzare una qualche competenza dei «preti sposati». Penso che conosciate bene questo testo ma è opportuno richiamarlo.
Si trova al n. 202 di AL e così suona: «Il principale contributo alla pastorale familiare viene offerto dalla parrocchia, che è una famiglia di famiglie, dove si armonizzano i contributi delle piccole comunità, dei movimenti e delle associazioni ecclesiali». Insieme con una pastorale specificamente orientata alle famiglie, ci si prospetta la necessità di «una formazione più adeguata per i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, per i catechisti e per gli altri agenti di pastorale». Nelle risposte alle consultazioni inviate a tutto il mondo, si è rilevato che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati».
Il riferimento è chiaramente aggiunto a posteriori, dal momento che non si capisce bene se si vuole dire che anche i sacerdoti sposati hanno dovuto ricevere o ricevono una formazione adeguata, oppure se si intende dire che essi possono aiutare i celibi e gli altri ad avere una formazione adeguata, con la loro esperienza, ovvero come esperti della vita familiare. Probabilmente si intende dire la seconda cosa. Certo, non è molto. Tuttavia si dicono implicitamente alcune cose significative:
- primo, che sono veri sacerdoti (sono così chiamati infatti);
- secondo, che l’esperienza di vita che hanno consente loro di capire meglio la condizione coniugale e familiare;
- terzo, la loro disciplina ha a fondamento una tradizione di lunga durata. Si sarebbe potuto valorizzare di più il ruolo delle famiglie presbiterali ma sarebbe stato chiedere troppo.
Piccolo segno di svolta, ma forse vero segno di svolta.
2. Una consolidata tradizione anche latina. Questa odierna accettazione cattolica ufficiale della duplice forma di clero non è il frutto del caso o di pure dinamiche di politica ecclesiastica, ma è il risultato prima di una consolidata tradizione anche latina concernente il rapporto tra matrimonio e ministero ordinato, quindi di alcune decisioni disciplinari preconciliari fatte proprie dalla diaconia pastorale petrina nella Chiesa cattolica, infine della dottrina conciliare del concilio Vaticano II.
Non potendo trattare qui formalmente e pienamente questo discorso mi limiterò a ricordare alcune affermazioni conciliarmente fondate delle quali offro la prova nei miei libri, ai quali rimando.
- Non è più legittimo rimanere legati a una visione preconciliare del sacerdozio uxorato, come «condizione giuridicamente tollerata». Tale visione è preconciliare nel senso preciso che non corrisponde più all’autocoscienza della Chiesa in questo momento e alla sua autoproiezione nel futuro. Si veda quello che ha detto lo stesso card. Alessandro Sandri, prefetto della Congregazione delle Chiese orientali, nella conferenza che tenne al Pontificio Collegio Pio Romeno il 18 aprile 2013 sul tema: “Il Concilio e gli orientali”
www.korazym.org/6249/le-chiese-orientali-e-il-concilio-vaticano-ii-un-cammino-di-unita-ed-ecumenismo
- Per il Concilio il sacerdozio uxorato è vero sacerdozio al pari di quello celibatario; all’uno e all’altro si applica tutto quello che vale del vero sacerdozio in generale. Tutto quello che si dice del sacerdozio in quanto tale, come essenza e funzioni, vale per l’una e per l’altra forma di sacerdozio. Il sacerdozio ministeriale infatti non è connesso per sua natura né con il celibato né con il matrimonio, ma può associarsi all’una o all’altra condizione, secondo la volontà del Signore e il discernimento della Chiesa.
- Per il Concilio, proprio perché è vero sacerdozio ministeriale, il sacerdozio uxorato nasce da una divina chiamata confermata dalla Chiesa, al pari della chiamata al sacerdozio celibatario. È anch’essa «santa vocazione». Uso la dizione «santa vocazione» per indicare la vocazione ministeriale, perché “Presbiterorum ordinis” 16 la richiama in modo formale con riferimento al clero uxorato così come dice chiaramente che il sacerdozio uxorato è una forma di piena dedizione della vita al gregge. Si legge infatti nel primo paragrafo di quel numero 16: «La perfetta e perpetua continenza per il regno dei cieli, raccomandata da Cristo Signore nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale. Essa è infatti segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale, nonché fonte speciale di fecondità spirituale nel mondo. Essa non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali, nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i vescovi scelgono con l’aiuto della grazia il celibato, vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati: per questo il nostro sacro Sinodo, nel raccomandare il celibato ecclesiastico, non intende tuttavia mutare quella disciplina diversa che è legittimamente in vigore nelle Chiese orientali, anzi esorta amorevolmente tutti coloro che hanno ricevuto il presbiterato quando erano nello stato matrimoniale a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato (mio corsivo)».
- Conciliarmente parlando, la distinzione tra le due forme dell’unico sacerdozio non risiede nel ministero sacerdotale in quanto tale (ovvero nella natura del sacerdozio) ma nella condizione esistenziale diversa nella quale sono chiamati a vivere il sacerdozio coloro che ricevono la santa vocazione.
Tutto questo fa parte delle acquisizioni conciliari, pienamente riprese successivamente nel CCEO.
3. Diverse forme di vocazione. Proprio perché il ministero uxorato nasce da una santa vocazione ovvero da una vocazione divina riconosciuta dal discernimento della Chiesa, cattolicamente vale l’affermazione che il ministero ordinato uxorato è uno degli stati di vita ai quali il Signore può chiamare.
Questo punto può essere meglio illustrato richiamando quello che leggiamo in un recente documento legato a un grande avvenimento della Chiesa che sarà il Sinodo su Giovani, la fede e il discernimento vocazionale del 2018. Se andiamo infatti a vedere il Documento preparatorio e questionario pubblicato nel gennaio di quest’anno, al punto II, 2, ove si parla del discernimento vocazionale, vi leggiamo: «Tenendo presente ciò, ci concentriamo qui sul discernimento vocazionale, cioè sul processo con cui la persona arriva a compiere, in dialogo con il Signore e in ascolto della voce dello Spirito, le scelte fondamentali, a partire da quella sullo stato di vita. Se l’interrogativo su come non sprecare le opportunità di realizzazione di sé riguarda tutti gli uomini e le donne, per il credente la domanda si fa ancora più intensa e profonda. Come vivere la buona notizia del Vangelo e rispondere alla chiamata che il Signore rivolge a tutti coloro a cui si fa incontro: attraverso il matrimonio, il ministero ordinato, la vita consacrata? E qual è il campo in cui si possono mettere a frutto i propri talenti: la vita professionale, il volontariato, il servizio agli ultimi, l’impegno in politica?».
I tre stati di vita (matrimonio, ministero ordinato, consacrazione religiosa) sono dati per paralleli e separati tra loro in quanto stati di vita. Ciò non corrisponde alla realtà ecclesiale cattolica. Il presupposto infatti è che non si possa dare una chiamata al ministero ordinato uxorato: tale presupposto non è corretto dal punto di vista cattolico proprio per i motivi che abbiamo sopra ricordato. Dal momento infatti che le due forme di ministero, celibe e uxorato, sono vere, legittime, pienamente accettate vocazioni divine nella Chiesa cattolica, ambedue le forme devono essere prese in considerazione in tutti i documenti di valore cattolico.
Ciò è tanto più necessario in questo momento nel quale si danno comunità cattoliche di rito orientale in moltissimi paesi nei quali tradizionalmente non esistevano. Tanto la pastorale vocazionale quanto la cura delle vocazioni – nella loro forma cattolica – devono tener conto di questa dualità delle forme esistenziali dello stesso sacerdozio ministeriale, se vogliono essere coerentemente cattoliche.
Un limite analogo appare anche in un documento così importante come la Ratio fundamentalis Institutionis sacerdotalis pubblicato l’8 dicembre 2016 dalla Congregazione per il clero, sotto la presidenza del card. Beniamino Stella, con il titolo Il dono della vocazione sacerdotale.
Ebbene, il documento dichiara esplicitamente che quanto dice non si applica alle Chiese orientali cattoliche, le quali, in questa materia, «devono preparare le loro norme, a partire dal proprio patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare» (Il dono della vocazione sacerdotale, «Norme generali», 1) e quando prende in esame il caso in cui ci siano seminari latini con presenza simultanea di seminaristi orientali, al n.110, si preoccupa di precisare: «Nel caso che nei seminari latini vengano ammessi seminaristi delle Chiese orientali cattoliche, per quanto riguarda la loro formazione al celibato o al matrimonio siano osservate le norme e le consuetudini delle rispettive Chiese orientali».
www.clerus.va/content/dam/clerus/Ratio%20Fundamentalis/Il%20Dono%20della%20vocazione%20presbiterale.pdf
Non si può non notare che questa forma di apparente rispetto delle tradizioni orientali si capovolge de facto in una sorta di collocazione di tali tradizioni in riserve di tipo indiano, come se la visione «cattolica» fosse un altro mondo.
Così nel numero stesso – il 110 –, nel quale con le poche parole surricordate (nemmeno un rigo su 29 righe di testo; un rigo di nota su 19 righe di note) si accenna ai seminaristi cattolici che sono formati al matrimonio e che possono essere nello stesso seminario con seminaristi formati al celibato, si dedicano molte parole e molte citazioni a parlare del significato spirituale e pastorale del celibato latino e nessuna parola al significato spirituale e pastorale del ministero uxorato.
Si noti: si tratta di un documento cattolico nel quale si è consapevoli che ci sono seminaristi cattolici che vengono formati al celibato e seminaristi cattolici che vengono formati al matrimonio. Eppure, mentre per gli orientali si rinvia alle loro Chiese senza dire «cattolicamente» nulla, ci si sofferma invece ampiamente a legittimare la disciplina della Chiesa latina – esplicitamente ricordata come «Chiesa latina» – affermando la speciale convenienza della «continenza perfetta nel celibato» come «segno di [questa] dedizione totale a Dio e al prossimo».
Ci si può chiedere perché una congregazione cattolica dedichi tanto spazio a sottolineare il valore «speciale» della prassi celibataria latina che è prassi solo di alcune chiese cattoliche e perché non dica nulla sul valore di segno di dedizione a Dio e alla Chiesa proprio del sacerdozio uxorato nella maggior parte delle chiese appartenenti alla comunione cattolica? O si ritiene ovvio tale valore teologico ordinario e generale del sacerdozio uxorato, non da sottolinearsi particolarmente, e si pensa che nella chiamata celibataria ci sia solo una speciale sottolineatura di quel carattere della dedizione alla Chiesa che è proprio di ogni sacerdozio cattolico; oppure si ritiene che soltanto nella chiamata al sacerdozio continente nel celibato ci sia una vera e adeguata dedizione alla Chiesa. Se è corretta la prima interpretazione, allora lo si dica formalmente e si dica che ogni ministero ordinato cattolico è segno della dedizione piena a Dio e alla Chiesa, uxorato o celibatario che sia; se si intende la seconda, si è in una posizione che non corrisponde al Concilio e alla prassi di gran parte delle Chiese cattoliche, per non ricordare la testimonianza delle Chiese ortodosse.
Viene il fondato sospetto che le congregazioni romane siano ancora troppo abituate a operare con una mentalità solo «latina», ovvero non siano ancora adeguatamente «cattoliche». Esse sembrano continuare a operare identificando «naturalmente» tradizione cattolica e tradizione latina, ovvero ritenendo ancora la præstantia o superiorità preconciliare del rito latino, come se solo il rito latino possedesse la «piena» verità del ministero ordinato.
Questo modo di porsi ha ultimamente effetti negativi sulla capacità stessa della Chiesa latina di corrispondere ai doni di Dio in rapporto alla sua stessa vita. Per chiarire questo punto vorrei venire a una quarta considerazione.
4. Anche nella Chiesa latina. La storia della Chiesa latina dimostra che, pur essendoci stati molti tentativi in questo senso, mai si è posta la condizione coniugale come impedimento intrinsecamente dirimente della validità dell’ordinazione ministeriale. Si ricordi che nello stesso CIC del 1983, can. 1042 § 1 si dice che lo sposato «è semplicemente impedito di ricevere gli ordini» (così anche CIC del 1917, can. 987 § 2). Su questa base largamente tradizionale Pio XII ha preso alcune decisioni che hanno consentito alla Chiesa latina di aprirsi all’accoglienza dei ministri non cattolici, riconoscendo in questo una precisa volontà divina. Analoga sapienza hanno mostrato i padri conciliari accogliendo il diaconato uxorato. Paolo VI e i papi successivi – in continuità con Pio XII e alla luce del chiaro insegnamento conciliare – hanno operato un discernimento in forza del quale si prendeva atto che il Signore chiedeva alla Chiesa latina di accettare ministri uxorati o addirittura li ordinava, nel caso di conversione da confessioni non cattoliche.
Sottolineo questo punto: questi atti d’accoglienza e ordinazione non sono stati e non sono atti di politica ecclesiastica, ma atti di discernimento ecclesiale in forza dei quali si prende atto di una volontà divina per la Chiesa latina. Si poteva, ad esempio, chiedere a tali ministri o comunità di associarsi a Chiese orientali cattoliche, ma non lo si è fatto.
Questi atti di discernimento, resi possibili dalla tradizione e dalla dottrina conciliare, sono una prova chiara che anche la Chiesa latina sa e riconosce che Dio può chiamare persone all’esercizio del ministero uxorato anche nella Chiesa latina e che in questo non c’è alcun conflitto con l’affermazione di uno speciale significato simbolico della continenza nel celibato sacerdotale, dal momento che il Signore stesso non vi vede alcun conflitto e continua a chiamare a tale ministero insieme celibi e uomini sposati nella Chiesa «cattolica».
Il discernimento che da Pio XII è stato fatto nei confronti delle vocazioni ministeriali dei ministri in conversione dovrebbe diventare possibile anche nei confronti di uomini sposati che mostrino segni positivi di vocazione divina al ministero. Si tratta di passare da una prassi certo occasionale ed eccezionale, ma fondata su un principio teologico, a una prassi che assume esplicitamente e formalmente il principio stesso, prendendone pienamente atto. Ciò renderebbe possibile anche per la Chiesa latina di articolare più ampiamente le forme di esercizio del ministero e di mettersi in condizione di provvedere ai bisogni sacramentali e ministeriali delle comunità (come, ad esempio, istituendo i presbiteri di comunità).
Non si vede perché dovrebbe essere scandaloso avere una Chiesa latina, che come all’inizio del secondo millennio, preveda comunità di presbiteri praticanti la vita comune sotto una regola, presbiteri sposati rettori di comunità, monaci ordinati. Ciò potrebbe convivere, io credo, anche con una preferibilità latina tradizionale per il clero celibe e con il celibato «consigliato» ma non «obbligatorio».
La teologia della sessualità. Dal momento che uno dei motivi che ha condotto alla normativa latina del celibato obbligatorio è stata la pratica della lex continentiæ e la soggiacente visione della sessualità e del matrimonio, bisogna dire qualcosa sulla salute della quale gode oggi tale principio. Per lex continentiæ si intende la legge per la quale nel primo millennio grosso modo gli uomini sposati che ricevevano gli ordini maggiori si impegnavano alla sospensione dei rapporti sessuali. Sull’origine, l’estensione, l’accettazione di tale legge ci sono dibattiti storici non piccoli.
In qualunque modo stiano storicamente le cose, bisogna dire chiaramente che la visione conciliare e post-conciliare della sessualità e del matrimonio è assai diversa da quella del primo millennio e di gran parte del secondo. La sessualità è parte del progetto divino dell’amore coniugale; gli atti coniugali stessi poi hanno piena dignità e significato, come scrive esemplarmente Gaudium et spes 49: «Questo amore [coniugale] è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall’esercizio degli atti che sono propri del matrimonio. Ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano e arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi». Amoris lætitia, poi, come si sa, vede anche l’eros come forma nella quale prende corpo la carità coniugale. Si veda anche solo il suo n. 120.
La teologia attuale della sessualità e del matrimonio ci consente poi di dire con molta chiarezza che la condizione di vita coniugale non contraddice l’ordinazione presbiterale dell’uomo, anzi possiamo dire che l’ordinazione offre la possibilità di un qualche compimento del senso sacramentale stesso del matrimonio e della famiglia. Il matrimonio, infatti, nella dottrina attuale della Chiesa quale si esprime in Familiaris consortio e in Amoris lætitia, non è semplicemente un’istituzione naturale che riceve la benedizione divina in ordine alla procreazione e educazione della prole. È molto di più: è un luogo nel quale si esprime la Chiesa stessa, è una manifestazione della Chiesa, è Chiesa domestica. I coniugi sono ministri di un sacramento che li colloca attraverso il loro stesso amore al servizio di Dio e della Chiesa, perché sono appunto Chiesa che si realizza nella e attraverso la comunione coniugale e familiare. La comunione coniugale simbolizza la totalità di relazione che lega Cristo e la Chiesa, e la esprime vivendo le dimensioni dell’amore coniugale in pienezza; la comunione familiare – che nasce da quella coniugale – è poi un simbolo vivo dell’amore trinitario, chiamata a essere una comunione di vita e di amore che si apre verso gli altri, la comunità ecclesiale, il mondo. Essa partecipa al ministero profetico, sacerdotale e regale della Chiesa; è e deve essere famiglia aperta, accogliente, missionaria, ecc.
Oggi si consegna il crocifisso alle famiglie missionarie che vanno nelle missioni al servizio della Chiesa e che lasciano la loro terra, portando con sé i figli. Oggi ci sono coppie che gestiscono centri pastorali e sono al servizio pieno della comunità. E potremmo continuare. Mai come oggi diventa possibile comprendere come il matrimonio e la vita familiare non solo non contraddicono il ministero sacerdotale, ma possono trovare in esso un modo in cui attuare anche il senso cristiano del matrimonio e della famiglia, la realtà di un matrimonio aperto al servizio della Chiesa e del Vangelo. In altre parole, si dà una possibile continuità sacramentale tra il matrimonio cristiano e il ministero sacerdotale uxorato, proprio perché quest’ultimo può configurarsi come un peculiare modo mediante il quale la coppia/la famiglia danno attuazione alla missione profetica, sacerdotale e regale che è propria di ogni coppia/famiglia cristiana e su di essa si innesta.
Ho utilizzato molto fino a qui il linguaggio della Familiaris consortio, articolato sui tria munera Christi, ma qualcosa di simile può ben essere detto anche nel linguaggio dell’ Amoris lætitia, che utilizza maggiormente quello della «Chiesa domestica». La prospettiva infatti è simile e lascia intravedere allo stesso modo che non c’è alcuna contraddizione tra matrimonio/famiglia e ministero ordinato. Mi limito a richiamare un testo di Amoris lætitia, il n. 324: «Sotto l’impulso dello Spirito, il nucleo familiare non solo accoglie la vita generandola nel proprio seno, ma si apre, esce da sé per riversare il proprio bene sugli altri, per prendersene cura e cercare la loro felicità. Questa apertura si esprime particolarmente nell’ospitalità, incoraggiata dalla parola di Dio in modo suggestivo: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli” (Eb 13,2). Quando la famiglia accoglie, e va incontro agli altri, specialmente ai poveri e agli abbandonati, è “simbolo, testimonianza, partecipazione della maternità della Chiesa”. L’amore sociale, riflesso della Trinità, è in realtà ciò che unifica il senso spirituale della famiglia e la sua missione all’esterno di sé stessa, perché rende presente il kerygma con tutte le sue esigenze comunitarie. La famiglia vive la sua spiritualità peculiare essendo, nello stesso tempo, una Chiesa domestica e una cellula vitale per trasformare il mondo».
Amoris lætitia, poi insiste molto su quel che si potrebbe chiamare la struttura familiare della comunità parrocchiale e della vita ecclesiale. Si veda ad esempio AL 202, ove è formalmente detto che la parrocchia è «famiglia di famiglie».
Dio chiama sia celibi sia sposati. L’insieme di queste considerazioni va verso una conclusione precisa: la Chiesa cattolica sa che Dio chiama tanto uomini celibi quanto uomini sposati al servizio ministeriale. Ogni chiamata ha la sua dignità e il suo modo di esprimere la dedizione piena al servizio della Chiesa. Le Chiese orientali cattoliche si muovono da sempre sulla base di questa consapevolezza; la Chiesa latina negli ultimi cinque secoli ha deciso di operare in modo diverso fino al secolo XX, quando si è ricordata sempre più chiaramente che il Signore chiama anche uomini sposati all’ordine non solo diaconale ma anche presbiterale. Oggi è giunto il momento di assumere questa consapevolezza pienamente, e semplicemente seguire – in questa consapevolezza odierna – la volontà del Signore.
La teologia ha in questo momento una grande responsabilità, specialmente la teologia del sacerdozio. Deve smettere di essere una teologia che de facto trasforma una larga parte del ministero ordinato della Chiesa in un’inspiegabile professione utile praticamente alla Chiesa e perciò tollerata per salvare la bellezza del sacerdozio celibatario e diventare finalmente una teologia fedele alla vita della cattolicità della Chiesa, mostrando la bellezza diversa e complementare nella quale si articola la divina chiamata al ministero ordinato nella Chiesa.
www.ilregno.it/documenti/2017/11/preti-celibi-e-sposati-nella-chiesa-cattolica
SESSUOLOGIA
Eros e persona
Abbiamo visto nell’articolo precedente in “Rocca” (31 luglio 2023) come una concezione più moderna la sessualità non possa avere come unico scopo la procreazione: essa infatti ha capacità di costruire relazioni personali d’amore, dà la forza di modificare l’intera personalità e il coraggio di fare scelte altrimenti impensabili.
Già nel testo di Genesi 1, 26-28, usato a lungo come giustificazione dell’idea che la sessualità avrebbe come unico scopo la procreazione, è presente in nuce l’idea che sia la sessuazione ad avere a che fare con Dio e non la fecondità (“ad immagine di Dio li creò, maschio e femmina li creò”). Essere maschi e femmine secondo quel testo sembra riferirsi primariamente all’essere fatti a immagine di Dio e non anzitutto alla fecondità.
Il testo di Genesi 2 poi integra la sessualità molto di più rispetto a Genesi 1. Assai più chiaramente qui fa la sua comparsa quello che oggi intendiamo con “sessuazione”. In tale testo non c’è nessun riferimento alla fecondità, la sessuazione non appare finalizzata alla riproduzione, ma alla mutualità. In Gen 2 si dice infatti che il significato dell’esistenza sessuata è la relazione, l’essere l’uno per l’altro. La relazione, dunque, è il significato di ogni esistenza umana, di ogni uomo e di ogni donna, ed è costitutiva per ogni essere umano – non la relazione sessuale, tantomeno la procreazione.
Dal Vaticano II fino alla Amoris Lætitia il magistero stesso si è mosso sempre più verso il recupero di questo significato unitivo della sessualità. Dobbiamo ad una donna, Luz Maria Longoria Gama (α1924-ω2o19), presente al Concilio come uditrice assieme al marito, la riflessione e l’accento posto sull’espressione sessuale come espressione dell’amore coniugale. Durante la discussione su un testo della Gaudium et Spes, sentendo parlare reiteratamente della definizione del matrimonio come “rimedio alla concupiscenza” questa donna diede una lezione ai celibi padri conciliari: “Con tutto il rispetto, vi dico signori padri conciliari che le vostre madri vi concepirono senza questo timore della concupiscenza […] Io personalmente ho avuto molti figli senza alcuna concupiscenza: essi sono tutti frutto dell’amore”. Dobbiamo dunque a lei uno dei testi più belli sulla sessualità umana che ci ha lasciato il Vaticano II, Gaudium et Spes 49-52. Luz Maria ha vissuto fino a 94 anni e immaginiamo che, come tutte le donne, anche lei abbia continuato dopo la menopausa ad avere rapporti sessuali soddisfacenti con il compagno che amava.
Benché accusato di pansessualismo, l’accusa pseudoscientifica più dura a morire, Freud ha costituito con le sue ricerche mediche una grande rivoluzione culturale per la concezione della persona: secondo la psicoanalisi, la sessualità è qualcosa che investe tutta la persona, fin dalle fasi iniziali del suo essere in vita. L’eros ha diverse modalità di manifestazione, costituendo la forza relazionale fondamentale dell’essere umano. Non è solo il nostro corpo ad avere istinti sessuali che andrebbero fuori controllo e che sarebbero da reprimere da parte della mente, ma la nostra stessa mente è interamente spinta da desideri, mossa da oggetti libidici e richieste di amore, motivata da riconoscimento e relazione fin dalla tenera età, in primis nei confronti della madre.
La parola sessuazione aiuta a concepire il fatto che la persona è sempre tutta sessuata, determinata cioè nelle sue caratteristiche generali non solo dal sesso con cui nasce, ma soprattutto dalla sua energia desiderante, erotica, che la spinge a uscire da sé e intessere quella rete di relazioni con sé, con gli altri e con Dio che prende il nome di amore. Parlare di sessuazione implica accettare che la sessualità determini sempre tutta la nostra persona e ne sia parte costitutiva. In questa modalità di chiamare il corpo nella sua determinazione sessuale, si intende anche la sessualità in maniera più ampia, costituita da un ampio complesso di eros, emozioni, attrazione sessuale, affettività, consapevolezza e simbolizzazione, cioè in definitiva di personalizzazione. La sessuazione corrisponde al modello antropologico secondo il quale il sesso negli esseri umani non è una dimensione puramente biologica, corporea, secondaria o bestiale, ma è collegata a tutta la persona e a tutti i livelli della sua sfera identitaria, compresa quella spirituale, come hanno sempre saputo la mistica e il Cantico dei Cantici.
Ne consegue che lo sguardo teologico e morale sull’esercizio della sessualità dovrà rielaborare sempre meglio la scia aperta dalla GS 51 e convergente in AL 142- 156 che afferma che “l’indole sessuale e la capacità di generare nell’essere umano sono meravigliosamente superiori a quanto avviene negli stadi inferiori della vita” perché l’eros abbraccia tutta la persona, compresi l’intelletto e lo spirito, e che l’erotismo è un linguaggio interpersonale, inseparabile dall’amicizia coniugale (AL 156). Già Platone, il maestro dell’eros in Occidente, affermava che l’eros è una forza che riguarda tutte le parti dell’anima e le potenze della persona, compresa quella razionale (cfr. La Repubblica IV). La spiritualità aiuta a vivere la sessualità portandoci a educare i desideri, collocandoli in un orizzonte di senso e liberando le pulsioni vitali dai fattori che potrebbero essere nocivi per noi stessi e per gli altri. In questo modo la sessualità non sarà vissuta in modo distruttivo nei confronti di noi stessi e degli altri, ma diventa un luogo di relazionalità, amicizia, vicinanza, affetto, fedeltà, cura, creatività, gioia e mistica.
L’eros che attraversa tutte le dimensioni della persona e che costituisce la spinta all’estasi da sé, all’uscita da sé per la ricerca di un rapporto con l’altro di reciprocità e di amicizia è da ultimo l’energia che sovrintende il desiderio di Dio e apre all’esperienza mistica. Esso comporta quindi una fecondità non solo procreativa, ma generativa in senso lato, come già spiegava anche Platone nel Simposio, perché laddove l’eros raggiunge il suo scopo, e cioè l’incontro con l’alterità, diventa sempre esperienza di moralità, bellezza, crescita nel bene, creatività e pienezza.
Una persona che ama un’altra persona – indipendentemente dal sesso cui è direzionata la sua affettività – deve entrare necessariamente anche in un rapporto erotico con l’altro tramite gesti che accrescono il legame nella coppia, anche omoaffettiva. Non essendo le persone unicamente anima ma anche corpo, la costruzione del rapporto amoroso dovrà manifestarsi tramite la gestualità di tenerezza, affetto, unione tra i corpi (cfr. AL 36).
Parlare di sessuazione pertanto significa integrare la distinzione sessuale, la genitalità, l’affettività e la sessualità quali elementi costitutivi della persona. Infine: dare consapevolmente piacere ad un altro è un atto esclusivamente ed eminentemente umano.
Qualcuno preoccupato si chiederà: ma allora la castità? La castità non è affatto la castrazione della nostra energia sessuale, che se nascosta in cantina, da lì dominerà con effetti imprevedibili sul resto dei comportamenti umani. Castità è la capacità di gestire gli impulsi sessuali in ordine all’amore, alla costruzione della relazione d’affetto, al rispetto dell’altro. “Il sesso senza consenso è stupro”, diciamo oggi.
Per parafrasare Agostino la nostra preghiera oggi dovrebbe essere così: Dio donaci la castità e subito! Sono già troppe le vittime di una concezione predatoria e scissa del sesso che anche la Chiesa ha contribuito purtroppo a generare.
Selene Zorzi Rocca n. 19, pag.28 21 settembre 2023
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/09/selene-zorzi-eros-e-persona.html
SINODALITÀ
«La sinodalità è il modo di vivere la comunione nella Chiesa»
«La sinodalità è il modus operandi della comunione ecclesiale, la partecipazione anche su questioni e decisioni di governo, su aspetti della vita della chiesa. Il sinodo sulla sinodalità è un sinodo su come si vive in modo evangelico la comunione ecclesiale, il camminare insieme di tutti i membri del popolo di Dio». Con queste parole, in un’intervista con i media vaticani, il cardinale Christoph Schönborn,(α1945) arcivescovo di Vienna,
sintetizza il punto focale dell’ormai prossima assemblea sinodale, facendo notare il collegamento tra il sinodo che la chiesa sta vivendo e quello del 1985 dedicato alla comunione ecclesiale. Una sottolineatura che fa comprendere come la comunione e il tendere all’unità —ut unum sint— venga prima delle differenti posizioni, con l’augurio che ne determini anche il modo di presentarle e discuterle.
Eminenza, sta per avere inizio il primo dei due sinodi sulla sinodalità: che cosa si aspetta che possa emergere da questo lavoro comune?
Tante cose possono accadere in questo sinodo, non lo sappiamo. Papa Francesco ci ha messo su una strada abbastanza unica, quella dell’ascolto e del discernimento. Sono cose sempre da fare, sono cose elementari per la vita della chiesa, ma il Papa ha messo un accento molto più esplicito sulla questione del discernimento: che cosa ci mostra il Signore? Che cosa vuole per noi oggi, per la chiesa? E dunque il sinodo è un tentativo di approfondire, di imparare, di sperimentare questo cammino del discernimento.
Nella chiesa di Vienna, qualche anno fa, avete celebrato un sinodo diocesano. Che cosa è avvenuto?
Devo correggerla un po’, perché non è stato un sinodo diocesano. Il sinodo diocesano ha regole molto precise stabilite nel diritto canonico. Io avevo l’idea, e l’abbiamo condiviso con molti, di prendere un altro cammino, quella delle assemblee diocesane. Ne abbiamo fatte cinque, ognuna con 1.400, 1.500 delegati provenienti dalle parrocchie, dalle istituzioni, dagli ordini, da tutte le realtà della diocesi. L’idea direttrice è stata quella che Papa Francesco ha accennato parecchie volte, quella del Concilio degli Apostoli, che leggiamo negli Atti. Ho proposto alla diocesi: parliamo tra noi in un modo ordinato su ciò che abbiamo sperimentato del cammino con il Signore, che cosa Dio ci ha fatto percepire nella nostra vita, nelle nostre parrocchie.
Che cosa l’ha colpita di più dello svolgimento del processo?
La metodologia è stata quella degli Atti degli Apostoli. A quel tempo c’era un problema, quello dei pagani diventati cristiani: bisognava battezzarli oppure no? E se si battezzavano, dovevano anche assumere la legge ebraica o bastava la fede in Cristo? Per risolvere questa drammatica questione, hanno ascoltato le esperienze e hanno fatto il discernimento. Pietro ha parlato, dopo Paolo e Barnaba hanno parlato e finalmente tutta l’assemblea ha ascoltato e ha pregato. Alla fine sono arrivati a questa conclusione: «Lo Spirito Santo e noi abbiamo deciso…». Quando Papa Francesco mi ha chiesto di fare la prolusione per il 50° anniversario dell’istituzione del sinodo nel 2015, nell’aula Paolo VI , prima del suo famoso discorso sulla sinodalità, io ho dovuto fare una sintesi di ciò che è il sinodo è ho parlato innanzitutto dell’esperienza della chiesa primitiva. E penso che questa strada — Papa Francesco l’ha ripetuto spesso — la strada del raccontare, ascoltare e discernere sia buona per il cammino del sinodo che viviamo adesso.
Qual è il bilancio delle assemblee diocesane?
Ciò che abbiamo cercato di fare in diocesi ha certamente approfondito la comunione tra di noi, ha incoraggiato le iniziative pastorali. Non abbiamo votato, non abbiamo fatto risoluzioni né pubblicato testi: solo abbiamo condiviso la vita della chiesa alla luce delle nostre esperienze. Questo è stato il metodo di queste cinque assemblee diocesane. È stata un’esperienza molto positiva, in un tempo difficile, perché è avvenuto tutto il dramma degli abusi e la crisi della credibilità della chiesa. Ma veramente abbiamo fatto una forte esperienza di fede e di comunione e questo ha aiutato certamente ad andare avanti senza scoraggiarsi.
«Sinodo sulla sinodalità»: può apparire un titolo lontano dalla sensibilità della gente, un titolo un po’ tecnico. Che cosa ne pensa?
Ho partecipato al sinodo del 1985 non come vescovo ma come teologo, ero uno dei teologi che hanno collaborato a questo sinodo che si teneva vent’anni dopo la chiusura del Concilio e il tema era la comunione, la communio, parola essenziale del Vaticano II . Anche quel sinodo non aveva un tema specifico ma era quasi un sinodo sulla comunione: la communio, come nota essenziale della chiesa, come caratteristica della vita ecclesiale. E penso che il sinodo sulla sinodalità sia qualche cosa di simile. La sinodalità è molto semplice: è il modus operandi della comunione ecclesiale, la partecipazione anche su questioni e decisioni di governo, su aspetti della vita della Chiesa. Quello sulla sinodalità è un sinodo su come si vive in modo evangelico, in modo corrispondente alla vita del vangelo, la comunione ecclesiale, il camminare insieme del popolo di Dio, di tutti i membri del popolo di Dio. Certo, si può dire che la maggior parte dei sinodi dopo il 1965 hanno avuto un tema più specifico: ad esempio la penitenza o la famiglia, come l’abbiamo avuto nel 2014-15. Ma penso che questo tema della sinodalità sia un ulteriore passo nella ricezione del Concilio Vaticano II , la communio e il modus operandi della communio, la sinodalità. Non bisogna poi dimenticare che il camminare insieme della sinodalità non avviene solo nella contemporaneità, ma anche nella storia. E dunque sinodalità vuol dire anche far memoria del cammino di chi ci ha preceduto nella fede.
Papa Francesco insiste nel sottolineare che il sinodo è fatto di preghiera, ascolto della voce dello Spirito Santo, ascolto reciproco e discernimento. Ed è diverso dai lavori di un parlamento — altrettanto positivi — che sono soggetti alle logiche di maggioranza e minoranza.
Lei ha detto che i lavori di un parlamento sono una cosa positiva. Siamo grati per tutti i Paesi che hanno un parlamento, un vero parlamento, una democrazia parlamentare. Vorrei aggiungere una piccola nota. Certo, il parlamento non invoca esplicitamente lo Spirito Santo: in alcuni parlamenti esiste la tradizione della preghiera, sono rari ma esistono. Ma io penso a quel discorso stupendo di Papa Benedetto al parlamento di Londra, dove ha mostrato che anche nella democrazia parlamentare c’è qualcosa del discernimento… Aveva parlato della coscienza di Thomas Moore che ha dovuto assumere un atteggiamento contrario al re, ma anzitutto aveva parlato di una decisione del parlamento di Londa, quello dell’abolizione della schiavitù, mostrando come era avvenuto nelle discussioni parlamentari un progresso della presa di coscienza che la schiavitù è contraria alla dignità umana. Per questo vorrei aggiungere una parola positiva sul lavoro del parlamento. Anche se certamente il sinodo non è un parlamento, ciò non vuol dire che il lavoro del parlamento non sia una cosa buona.
Può spiegare questa differenza tra sinodo e parlamento?
La differenza è quella che la sinodalità, la vita nella Chiesa, è sempre una ricerca dell’unanimità non nel senso parlamentare che tutti devono votare allo stesso modo — come accade nelle dittature o nel comunismo — ma come tensione all’unità. È ascolto della voce dello Spirito Santo che va avanti nella ricerca della verità, nella ricerca del bene fino ad arrivare ad una quasi unanimità. È ciò che hanno fatto i concili e anche i sinodi che ho conosciuto: la regola del sinodo è che vi siano votazioni, ma queste devono ottenere due terzi dei voti. Non dimentichiamo inoltre che il sinodo è consultivo, non è un organo di legislazione. Serve per l’ascolto, l’ascolto comune della voce dello Spirito Santo. Per questo motivo il Papa ha voluto sia per il sinodo sulla famiglia come anche per questo sulla sinodalità, due tappe o parecchie tappe, quelle locali, continentali, etc. E alla fine due riunioni dell’assemblea sinodale perché è un cammino verso una unanimità che deve sempre essere ut sint cor unum et anima una, come si dice della chiesa primitiva: erano un cuor solo e un’anima sola. Questa concordia è il segno dello Spirito Santo.
Che cosa significa, concretamente, «ascoltare la voce dello Spirito»?
Il Papa ci ha insegnato — e lo pratichiamo già con buon frutto — il metodo della conversazione spirituale. In che cosa consiste? È ascoltare gli uni gli altri con rispetto, con accoglienza, per arrivare a un discernimento, per comprendere quale sia la volontà di Dio. E per me è stato impressionante che nel documento “Querida Amazonia” Papa Francesco abbia proposto una sua eco al sinodo sull’Amazzonia, al quale ho potuto partecipare. Lui in certi punti ha detto: qui mi sembra che sia mancato il discernimento, ci vuole più discernimento. Come sapere che abbiamo fatto il discernimento necessario per arrivare a una decisione? Questa certo è l’arte del governo del Papa ma anche della concordia del sinodo, dei membri sinodali. E dunque penso che andremo a vivere una forte esperienza di ecclesialità in questo ascolto. Certo, su molte domande e molte tematiche l’elenco delle questioni è lungo e ci sarà molto tempo da dedicare alla discussione e allo scambio su questa o quest’altra questione, ma sempre nella prospettiva dell’ascolto dello Spirito.
Una caratteristica sicuramente nuova di questo sinodo è stato il tentativo di coinvolgere e ascoltare in modo ampio le chiese locali, facendo partecipare ai lavori le comunità e anche chi si è allontanato dalla chiesa. È importante questo metodo e, se sì, perché?
Sì, è importante ascoltare anche la voce di quelli che non sono “dentro”, che si sono allontanati, perché questa eco ci permette un migliore discernimento. E poi ascoltare la voce dei fedeli. Basta leggere il famoso piccolo libro di san John Henry Newman sull’ascolto dei fedeli in materia di fede. Questo piccolo libro scritto intorno al Concilio Vaticano I è molto importante per la nostra situazione della ricerca della sinodalità.
Cosa vuol dire ascoltare la fede del popolo di Dio?
È il sensus fidei. Certo, questo non si scopre nelle statistiche. Se non facciamo questo lavoro dell’ascolto del sensus fidei non siamo in ascolto dello Spirito Santo perché ciò che nel sensus fidei del popolo di Dio vive, si percepisce, questo è il nodo, il cuore della fede della Chiesa. Penso a un’esperienza personale, quando ero giovane studente di teologia e ci insegnavano tutte le idee di Bultmann e della Entmythologisierung (demitizzazione, ndr). Una messa in questione radicale della fede cristiana. Io, venendo a casa, ne ho parlato a mia madre che mi ha ascoltato e dopo un certo tempo mi ha guardato in modo un po’ sorpreso e mi ha detto semplicemente questo: «Ma se Gesù non è il figlio del Dio vivente, la nostra fede è vuota». Ho sempre detto che questa lezione di mia madre è stata per me quell’ascolto del popolo di Dio, della fede dei semplici, la fede del popolo di Dio. Per questo l’insistenza di Papa Francesco sulla religiosità popolare, sulla fede della gente — un’insistenza che troviamo già nel documento di Aparecida — è davvero importante. Mi ricordo quella famosa predica dell’allora cardinale Ratzinger nel periodo della crisi con Hans Küng, quando disse: la teologia che non si mette umilmente al servizio, all’ascolto della fede del popolo di Dio, non serve, è la gnosi ma non è il servizio della fede. Perciò penso che il metodo di coinvolgere un gran numero di fedeli e anche le persone che si sono allontanate dalla chiesa sia importante per il discernimento.
Un’altra caratteristica è la partecipazione di membri non vescovi, con l’inserimento di un numero significativo di fedeli laici e in particolare di donne. Come cambia la fisionomia del sinodo e quali saranno, secondo lei, le conseguenze?
Nei sinodi già da 50 anni sempre vi sono stati laici, uomini e donne, che partecipavano come esperti, come uditori e uditrici. Ora per la prima volta sono un buon numero di laici, uomini e donne, sono membri del sinodo a pieno titolo. Penso che sostanzialmente non cambi la fisionomia del sinodo, perché certo è un sinodo di vescovi, la maggioranza rimangono i vescovi, perché la tradizione sinodale è anzitutto quella dell’incontro dei vescovi della regione, della nazione, etc. Ma questa partecipazione dei fedeli laici è certamente importante per migliorare l’ascolto. Ho partecipato a un buon numero di sinodi e ricordo interventi di uomini e donne, laici, tra gli esperti, tra gli uditori, che hanno avuto un impatto profondo sui lavori. Questa volta si fa un passo di più per il coinvolgimento di queste voci. Ci saranno ancora in questo sinodo, saranno ancora presenti, gli esperti anche i delegati delle altre chiese fraterne. Penso che sia semplicemente un arricchimento. Dobbiamo poi ricordare ancora una volta il sinodo creato da Paolo VI più di 55 anni fa. Questo sinodo è concepito come la voce dell’episcopato della chiesa universale presso il Successore di Pietro. Lo sappiamo bene, ci sono votazioni e votazioni molto significative, ma queste votazioni sono espressione del sensus fidelium, anche delle attese del popolo di Dio che alla fine vengono trasmesse al Papa per il suo ulteriore discernimento. Questa nuova partecipazione non cambia nella sostanza il senso di un sinodo post-conciliare.
Una conseguenza di quest’ampia partecipazione è stato l’inserimento, nell’Instrumentum laboris sinodale, di molti temi sui quali si discute da decenni. Ad esempio la richiesta di riforme specifiche per una maggiore partecipazione dei laici e delle donne alla vita della chiesa, o un ripensamento su alcuni temi legati alla teologia morale. Quanto sono destinati a pesare nel sinodo?
Non saprei rispondere, lo vedremo. Ciò che ho percepito è che i sinodi continentali e anche l’eco di numerose conferenze episcopali nel mondo certamente insistono sulla questione della partecipazione dei laici alla vita della chiesa. Si tratta di un tema già centrale nel Concilio Vaticano II . La partecipazione dei laici è al cuore delle intenzioni del Concilio e c’è ancora molto da imparare e da fare. Già san Giovanni XXIII aveva detto che il tema della donna nella vita della chiesa è uno dei segni dei tempi, è una delle grandi domande che emergono in tutto il mondo e questo tema certamente sarà presente. Io però sono un po’ scettico sul fatto che l’elenco dei temi molto dibattuti soprattutto nel mondo occidentale secolarizzato siano così centrali per tutta la chiesa. Faccio un esempio. Al sinodo sull’Amazzonia c’è stata da certi gruppi una forte pressione per arrivare a una decisione sui viri probati, l’ordinazione sacerdotale di uomini sposati. Forse sarò criticato per ricordarlo, ma è stato detto al sinodo. Alcuni si sono chiesti: come è possibile che vi siano ben 1.200 preti della Colombia, Paese che ha molte vocazioni sacerdotali, che vivono negli Stati Uniti e in Canada? Perché un centinaio o duecento di loro non vanno in Amazzonia? Il problema della mancanza dei preti sarebbe risolto. Dunque penso che a volte ci voglia un po’ più di discernimento e anche di onestà nel vedere la complessità delle tematiche. In questo senso sono fiducioso che il sinodo sarà una bella e forte occasione, un’opportunità per discernere insieme su queste tematiche.
La secolarizzazione avanza nelle società occidentali, la trasmissione della fede che prima avveniva in famiglia sembra essersi interrotta. Come si torna ad annunciare il vangelo in questi contesti? Come il prossimo sinodo potrà aiutare in questo?
Lei l’ha detto, la trasmissione della fede avveniva in famiglia. È vero che se non avviene questa trasmissione nella famiglia, la trasmissione della fede non è impossibile ma è molto più difficile. Per questo il doppio sinodo del 2014-15 sulla famiglia è molto importante per la trasmissione della fede. Ho fiducia che la trasmissione della fede avvenga e avviene perché è l’opera del Signore. È il Signore che chiama, che invita, è il Signore che agisce nel cuore delle persone, che attira come Gesù ha detto: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Questa attrazione di Gesù è operante in tutto il mondo ma c’è bisogno anche coloro che aiutano a cogliere questa chiamata, quest’opera del Signore. Certo, la secolarizzazione è una grande sfida. Ma ancora una volta io richiamo Benedetto XVI che ha detto cose sorprendenti sulla società secolarizzata. Ricordo che quando si è recato nella Repubblica Ceca, un Paese molto molto secolarizzato, aveva detto: qui ci sono anche delle opportunità per lo Spirito Santo per agire, per essere operativo. E questo è vero. Dunque la secolarizzazione non è solo uno svantaggio, ha anche una parte positiva, nel senso che le questioni esistenziali personali si pongono in modo forse più diretto. E dunque il Signore è operante. Questo è il vangelo: è forza di vita, suscita la vita e in questo senso sono fiducioso che questo sinodo, nonostante tutte le critiche che già si fanno, sarà un passo per portare avanti la comunione della chiesa.
Andrea Tornielli Osservatore Romano 19 settembre 2023
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/09/la-sinodalita-e-il-modo-di-vivere-la.html
Sinodi diocesani
Padova, ripresi i lavori dell’Assemblea sinodale diocesana
Sono ripresi sabato 16 settembre i lavori dell’Assemblea sinodale diocesana di Padova, dopo la pausa estiva, per il primo incontro della quarta sessione di lavoro. Dopo il voto positivo dell’Assemblea sinodale dello scorso 25 giugno sul proseguire il lavoro sull’istituzione dei ministeri battesimali – considerati una leva di cambiamento per il futuro della Chiesa di Padova e un cambiamento significativo nelle scelte pastorali della Diocesi – la presidenza del Sinodo diocesano, riferisce una nota della diocesi, ha composto un testo che quest’estate ha vissuto una prima fase di suggerimenti individuali proposti liberamente dai singoli membri dell’Assemblea.
L’incontro di sabato è iniziato con il benvenuto del vescovo, mons. Claudio Cipolla, che ha ricordato come il percorso del Sinodo diocesano sia ormai in fase avanzata (la conclusione è prevista per il 17 dicembre 2023) e ha sottolineato il delicato compito dell’Assemblea sinodale, al lavoro, per delineare il domani di una Chiesa diocesana che annuncia il Vangelo della vita.
Nella sessione di sabato 16 settembre tutti i membri dell’Assemblea sinodale, hanno lavorato divisi nei consueti 26 gruppi, ciascuno su alcune parti del documento e sui suggerimenti giunti durante l’estate. Ogni parte del documento è stata analizzata da almeno due gruppi di lavoro, con l’obiettivo di trasformare i suggerimenti in emendamenti da votare nel prossimo incontro assembleare. Tutti gli emendamenti sono stati consegnati alla presidenza del Sinodo che li ordinerà e li proporrà al voto in occasione della prossima sessione sinodale, il prossimo sabato 1° ottobre 2023.
La bozza del testo sui ministeri battesimali (che risponde a una delle proposte – la n. 17 Individuare e formare persone ai ministeri battesimali – emerse dal lavoro delle Commissioni sinodali), così come proposto all’Assemblea consta di otto paragrafi più un’appendice, che a partire dalla parrocchia, come riferimento della vita cristiana, sottolineano la peculiarità dei ministeri battesimali come leva di cambiamento per la parrocchia del futuro.
(D.R.) Agenzia SIR 19 settembre 2023
www.agensir.it/quotidiano/2023/9/19/diocesi-padova-ripresi-i-lavori-dellassemblea-sinodale-diocesana/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2
SINODO UNIVERSALE
Le lettere del card. Grech
La quarta lettera del segretario generale del Sinodo perché la preghiera sia sempre più parte dell’Assemblea sinodale.
Attenzione all’ecumenismo e ai presbiteri «apatici»
Non è la prima volta che il card. Mario Grech prende carta e penna da quando è segretario generale del Sinodo dei vescovi.
Nell’ottobre 2021 si rivolse ai vescovi responsabili nelle proprie conferenze episcopali dell’ecumenismo e, firmando assieme al card. Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, chiese che si ponesse una specifica attenzione ecumenica nel percorso sinodale appena iniziato.
Nel marzo 2022, assieme al prefetto della Congregazione per il clero mons. Lazzaro Hu Heung Sik, si rivolse ai presbiteri, specialmente agli «apatici», agli incerti, ai timorosi del fatto che la macchina sinodale avrebbe fatto perdere la loro ragion d’essere, se tanta enfasi veniva posta sul sacerdozio battesimale.
Ai vescovi «dubbiosi». A quasi un anno di distanza (gennaio 2023), questa volta assieme al relatore generale card. Jean Claude Hollerich, scrisse ai vescovi, alla vigilia degli incontri continentali, soprattutto per far capire ai pastori che non vedevano di buon occhio il fatto che «i confini del tema non siano stati così definiti» che il «processo» sinodale sarebbe stato ancora lungo e che non vi sarebbero state agende preordinate imposte da nessuno. Magari nel frattempo qualcuno di questi vescovi dubbiosi esternava le proprie ambasce a qualche giornalista o a qualche editore…
E poi l’ultima – in ordine di tempo – lettera è quella uscita venerdì scorso, 15 settembre, rivolta sempre ai vescovi e firmata dal solo Grech su un tema cruciale: il Sinodo e la preghiera.
Senza preghiera non ci sarà Sinodo. L’invito è quello di pregare per il Sinodo e in particolare per l’Assemblea che tra un paio di settimane prenderà il via a Roma, perché, come dirà il papa nella sua intenzione di preghiera per il mese di ottobre, il cui tema è stato preannunciato, «senza preghiera non ci sarà Sinodo».
Una preghiera che è ascolto della Parola per diventare «una Chiesa dell’ascolto»; di adorazione, come «stupore di ciò che Dio dice alla sua Chiesa»; di intercessione verso una realtà che «sta a cuore», nei confronti della quale si è interessati e della quale, quindi, siamo partecipi; di ringraziamento per tutto ciò che Dio opera nella Chiesa.
Concretamente, «per facilitare la partecipazione e sollecitare il sostegno con la preghiera dei membri dell’assemblea da parte delle comunità locali, la Segreteria generale del Sinodo ha preparato una “Benedizione solenne” da recitare, in particolare, al termine delle messe domenicali insieme a delle intenzioni di preghiera».
Un’intenzione per le donne nella Chiesa. Già a partire dal 2021 è stato realizzato un sito Internet (www.prayforthesynod.va) in collaborazione con la Rete mondiale di preghiera del papa e l’Unione internazionale delle superiore generali, che «propone ogni primo lunedì del mese un tempo di preghiera specifico per il Sinodo»; inoltre il 30 settembre si terrà una Veglia ecumenica di preghiera (www.together2023.net), presentata la settimana scorsa in Sala stampa vaticana; infine è stato organizzato un ritiro spirituale per i membri dell’Assemblea prima dell’apertura dei lavori (1-3 ottobre 2023), guidato dal maestro generale emerito dei domenicani, Timothy Radcliffe.
Sotteso a tutto questo c’è il dibattito tra chi vede il Sinodo più come un’assise in cui prendere decisioni mettendole ai voti (il cosiddetto modello parlamentare) e chi pensa che si potrebbe evitare questo aspetto (come ad esempio qui www.ncronline.org/opinion/guest-voices/if-synod-isnt-parliament-voting-should-be-dropped#
per dedicarsi a una costruzione del consenso tramite discussioni di gruppo e tramite la preghiera.
Di certo il fatto che, pur in minoranza, un gruppo di donne potrà esprimersi per la prima volta tramite il voto in un Sinodo «dei» vescovi, pare un buon passo, anche se imperfetto, verso una Chiesa sempre più sinodale. Spero che ci sia un’intenzione anche per questo.
Maria Elisabetta Gandolfi, Caporedattrice attualità per “Il regno”
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