UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 963 – 21 maggio 2023
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone
Le news sono strutturate:
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In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviate una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.com con richiesta di disconnessione.
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica
O2 ABUSI Gli scandali di Rupnik portano la cancel culture all’interno della chiesa
03 ASS.ne CONSULENTI FAMILIARI Giornata Nazionale della Consulenza Familiare
O4 BIBBIA Maternità nella Bibbia è più complessa e inclusiva di quello che dice papa Francesco
04 «La religiosità patriarcale esprime una “fede della retromarcia”»
05 Centro Internaz. Studi Famiglia Newsletter CISF – n. 19, 17 maggio 2023
07 CHIESA CATTOLICA nel mondo “Più pregiudizi che giudizi”
09 CHIESA IN ITALIA I preti diminuiscono. Forse sta nascendo una nuova Chiesa
10 Preti e omosessualità. La gente è pronta. La Chiesa no
12 CITTÀ DEL VATICANO Il papa romano e il papa copto è pace
13 Conferenza Episcopale Italiana Abusi: la Cei incontra le “sue” vittime. E per loro crea un osservatorio
14 CONSULTORI FAMILIARI Milano, online sito per assistere donne e minori vittime di violenza.
15 CONSULTORI UCIPEM Roma2-S. Costanza – webinar 26 maggio 2023.- “Mamma felicemente imperfetta”
16 DALLA NAVATA VII Domenica di Pasqua – Anno A
16COMMENTO Commento di biblista
17 ECUMENISMO 50 anni di comunione ritrovata
18 card. Nichols, “il dialogo ecumenico ha trasformato cattolici e anglicani”
19 FAMIGLIA Il nuovo volto della famiglia post-moderna
21 Un baratro tra etica sessuale e realtà
22 Pastorale coniugale? Creatività e innovazione
23 FRANCESCO VESCOVO ROMA La «conversione» di Francesco sugli abusi
24 Oltre le religioni /9. Fra nuova paganità e sana leggerezza umana
26 Post-teismo e dintorni. L’energia quantistica di Gesù
28 RIFLESSIONI Sull’animale: non bambino, forse “antenato”?
30 SESSUALITÀ Sesso e magistero: un dispositivo secolare e i terzi da custodire
32 SINODO La Chiesa di Germania non è scismatica
33 Sulla messa sinodale
ABUSI
Gli scandali di Rupnik portano la cancel culture all’interno della chiesa
Una cappa di silenzio avvolge la sorte di Marko Rupnik, il gesuita molto vicino a papa Francesco, accusato di aver abusato di almeno sedici persone in trent’anni. Da oltre due mesi sul noto artista è in corso un’inchiesta interna alla Compagnia di Gesù che potrebbe portare alla sua espulsione dall’ordine dei gesuiti, ma è difficile prevedere quando sarà presa una decisione. «Dipende da tanti fattori giuridici in corso – ha detto a “Domani” il diretto superiore di Rupnik, padre Johan Verschueren, delegato per le case e le opere interprovinciali della Compagnia a Roma – La mia speranza è che si riesca prima delle vacanze d’estate».
Ma se i gesuiti non si sbilanciano, si esprimono i committenti dei suoi mosaici, che più di ogni altra cosa hanno determinato la sua fortuna (e il suo potere) nella chiesa. A Lourdes, dove Rupnik nel 2007 ha realizzato la facciata della basilica del rosario, il rettore Michel Daubanes e il vescovo di Tarbes e Lourdes Jean-Marc Micas a fine marzo hanno costituito un gruppo di lavoro per decidere dell’opportunità di rimuovere i mosaici a causa «della sofferenza delle vittime che vengono al santuario in cerca di conforto».
L’opera e l’uomo. Sempre in Francia, il parroco di Montigny-Voisins le Bretonneux, vicino a Parigi, ha deciso d’accordo con il suo vescovo di rompere il contratto firmato con Rupnik per la decorazione della nuova chiesa di Saint-Joseph-le Bienveillant. A Fatima, in Portogallo, dove nel 2007 Rupnik ha realizzato l’interno del nuovo santuario della Santissima Trinità, il rettore fa invece «una chiara distinzione tra l’opera e l’uomo». «L’opera, di indiscutibile qualità estetica – ha spiegato a “Domani” padre Carlos Cabecinhas – va infatti separata dai fatti che coinvolgono padre Rupnik e che hanno portato al suo allontanamento pubblico, fatti che il Santuario di Fatima rifiuta totalmente, associandosi al dolore delle vittime». In Brasile, la Pontificia università cattolica del Paraná a febbraio ha deciso di revocare la laurea honoris causa che aveva conferito a Rupnik tre mesi prima, ritenendolo «indegno di tale onorificenza», ma ancora non si sa che cosa verrà deciso dei lavori in corso al monumentale santuario nazionale dell’Aparecida, nello stato di San Paolo, dove l’artista e la sua équipe hanno già finito le facciate nord e sud della basilica. Un conto, infatti, è togliere un titolo onorifico, un altro smantellare più di 2.300 metri quadri di mosaico. Oggi, i responsabili del santuario ammettono il loro imbarazzo dicendo che «stanno monitorando attentamente il caso e attendono indicazioni dalla chiesa su come procedere».
Il silenzio. La chiesa, però, tace. La Compagnia di Gesù, che pure ha ritenuto credibili le testimonianze delle vittime, come abbiamo detto stenta a prendere una decisione sul futuro del teologo sloveno, lasciando trasparire la delicatezza di un’operazione che non coinvolge soltanto i gesuiti o la diocesi di Roma ma arriva a toccare anche il Vaticano. Rupnik infatti, scomunicato latæ sententiæ (cioè con effetto immediato) dalla Congregazione per la dottrina della fede nel maggio 2020 per aver assolto in confessione una novizia con cui aveva avuto un rapporto sessuale, neanche un mese dopo si è visto revocare la scomunica dallo stesso dicastero.
Federica Tourn “Domani” 16 maggio 2023
www.editorialedomani.it/fatti/gli-scandali-di-rupnik-portano-la-cancel-culture-allinterno-della-chiesa-hmtk75v6
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202305/230517tourn.pdf
Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari
Giornata Nazionale della Consulenza Familiare
La Giornata Nazionale della Consulenza Familiare è una iniziativa dell’AICCeF per far conoscere al grande pubblico la Consulenza Familiare, le sue caratteristiche e la sua efficacia, e promuovere la figura del Consulente della Coppia e della Famiglia.
Tutti i Soci dell’AICCeF sono invitati a mettersi in gioco per questo scopo comune ed a organizzare manifestazioni, eventi, incontri, azioni creative, ed ogni altra iniziativa che sia utile a farci conoscere al grande pubblico
Questa Giornata Nazionale nasce nel 2019 con l’intento di far conoscere al grande pubblico la Consulenza Familiare quale intervento non direttivo a supporto del singolo , della coppia e della famiglia, dunque le sue caratteristiche principali e la sua efficacia. È al contempo occasione privilegiata per promuovere e diffondere la figura professionale del Consulente della Coppia e della Famiglia.
Nell’organizzazione di questo evento nazionale i Referenti Regionali sono punto di riferimento prezioso su tutto il territorio, con cui ogni Socio AICCEF potrà interfacciarsi e coordinarsi per organizzare manifestazioni, eventi, incontri, ed ogni altra iniziativa che sia utile a creare sinergie e contatti per la diffusione della Consulenza Familiare.
L’evento principale della Giornata Nazionale si terrà a Napoli dove la Presidente Stefania Sinigaglia condurrà, alla presenza del Sindaco e dell’Arcivescovo di Napoli, e di altre autorità, una mattinata di riflessione sulla figura del Consulente Familiare quale professionista socio-educativo al servizio della coppia e della famiglia e sulla Consulenza familiare, come risposta ai bisogni dei territori.
www.aiccef.it/it/news/la-giornata-nazionale-della-consulenza-familiare.html#cookieOk
BIBBIA
La maternità nella Bibbia è più complessa e inclusiva di quello che dice papa Francesco
«I figli sono un dono. Una società senza figli è depressa». Lo ha detto papa Francesco agli Stati generali della natalità, alla presenza di Giorgia Meloni. Al netto dell’ormai provata consuetudine che spinge spesso Bergoglio a usare parole ed espressioni comprensibili a tutti, mi permetto, sommessamente, di far notare che il commento biblico è assai più articolato e, soprattutto, consapevole dei riflessi psicologici della genitorialità.
Secondo la narrazione biblica, il primo figlio della storia umana è, come noto, Caino, la cui nascita è descritta in Genesi 4, 1: “E Adamo conobbe Eva, sua moglie, questa rimase incinta e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uomo col favore dell’Eterno»”.
Un atto egoistico. Spontaneamente siamo tutti portati a pensare che qui si sia di fronte ad una mamma che ringrazia il Signore per aver finalmente ricevuto un figlio. L’«uomo» di cui si parla nel verso sarebbe, dunque,
Caino. C’è, però, tutta un’altra tradizione di commento che lo identifica con Adamo. A conferma di questa lettura almeno due elementi.
Primo: il nome, Caino. Viene ricondotto al verbo ebraico liqnot, acquistare.
Secondo: tutto il verso è declinato al femminile. Caino è il nome che Eva ha attribuito al figlio, non è stato stabilito dalla coppia.
Allora si capisce perché l’«uomo» sia Adamo: la mamma usa il figlio per garantirsi la presenza del marito al suo fianco dopo che il loro rapporto era entrato in crisi a seguito della mangiata del frutto proibito. In termini psicoanalitici si direbbe che Caino è vittima di un desiderio incestuoso (castrante) da parte della madre.
Naturalmente, questo inciderà molto su quei sentimenti di invidia e gelosia che porteranno all’omicidio di Abele, che potrà godere di una libertà interdetta al fratello maggiore. E, sempre per la narrazione biblica, lo stesso si ripeterà con Isacco e Ismaele, Giacobbe e Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli.
Insomma, per come lo descrive la Torah, l’atto del generare non poggia affatto su sentimenti altruistici, lettura davvero figlia di un cristianesimo edulcorato, ma su esigenze di rassicurazione psicologica, o, come sarà chiaro per le matriarche, di riconoscimento sociale. In una parola, si diventa genitori, anzitutto per un atto egoistico.
Tendenze regressive. Di qui, anche questo è descritto con spietato realismo dalla Bibbia, l’amaro scontro con la realtà, che smentisce sempre le aspettative della fantasia. Argomenti tabù fino alla nascita della psicoanalisi dell’ebreo Sigmund Freud (per i rapporti fra Freud e l’ebraismo si veda il recente testo di Anna Barbagallo Toscano, edito da Belforte, La voce dell’altro. Ebraismo e psicoanalisi), e di tutta la cultura che ne è derivata. Basti solo vedere “Persona” (1966), di Ingmar Bergman.
Con ciò non si vuole certo negare il problema epocale della denatalità, che, tra l’altro, a sentire i demografi, non andrebbe affrontato in un’ottica di competizione nazionalistica per non ritrovarci un domani in dieci miliardi di persone senza risorse sufficienti e dover promulgare aberranti leggi sul figlio unico anche alle nostre latitudini.
DAVIDE ASSAEL(1976) ebreo, filosofo teoretico e teologo
“www.editorialedomani.it” del 15 maggio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202305/230515assael.pdf
Annamaria Corallo: «La religiosità patriarcale esprime una “fede della retromarcia”»
Si definisce una «biblista dell’inclusione»,
Annamaria Corallo, perché propone una teologia che «riconosce il volto di un Dio che ama a prescindere da identità di genere, etnia, orientamento affettivo, religione o altri parametri discriminatori». Formatrice “libera professionista”, si muove sulle piattaforme virtuali per raccontare «un Vangelo che si colloca in una logica di discontinuità liberante, che apre a nuove prospettive relazionali», come scrive nel suo libro “Gesù oltre gli stereotipi patriarcali” (La Meridiana). Originaria di Trani, Corallo viene da una famiglia credente; ha frequentato l’Azione cattolica e studiato Teologia a Napoli dai Gesuiti e poi a Roma, alla Pontificia università Gregoriana. La sua fede la sintetizza così: «Percepisco la presenza di Dio con estrema gratitudine».
Descrive un Gesù che schiva il ruolo del Messia per camminare a fianco dei fedeli e che è «sempre oltre»: «Ha sempre fretta di andare altrove, si muove anche in senso spaziale», spiega la teologa, «anche chi lo cerca nella tomba non lo trova. È l’imprendibile, nessuno può averne totale padronanza».
In questa prospettiva, «anche le mediazioni sono provvisorie», aggiunge, riferendosi al ruolo del clero e alla sacralizzazione della figura del sacerdote, che porta fraintendimenti nella crescita della comunità ecclesiale, togliendo respiro ai carismi dei laici. «La gente si sottomette ancora troppo spesso a una dimensione sacrale del prete, che dovrebbe essere superata», spiega Corallo. «Il devozionismo nutre questa cultura, che alimenta la minorità del laicato: i contesti ecclesiali non offrono strumenti che permettano un’emancipazione teologica». Una pietra d’inciampo per i credenti che hanno sete di una teologia liberante e che oggi vivono una grande frustrazione: «Si sentono esclusi nei contesti parrocchiali, dove sentono mortificato il loro desiderio di essere protagonisti. Soprattutto le donne», spiega la teologa.
«Il mio lavoro di formatrice è un osservatorio del disagio delle realtà ecclesiali, dove i laici toccano con mano la disparità dei ruoli: non hanno compiti decisionali o esecutivi nemmeno quando sono più intraprendenti e competenti del clero». La conseguenza? L’allontanamento, con sofferenza, dalla Chiesa. «Il Papa parla di sinodalità, ma le sue parole sono lontani anni luce dalla realtà», chiosa la teologa. L’origine del problema, insiste Corallo, è innanzitutto teologico, perché è la teologia che dà forma all’ecclesiologia, e l’idea che abbiamo di Dio plasma anche la nostra immagine dell’umano. «Se continuiamo a parlare di un Dio maschio che giudica e sanziona, questo messaggio autorizza il controllo morale delle persone da parte della gerarchia, che si sente in diritto di invadere anche la vita intima dei fedeli. Con queste premesse si giustifica l’approccio autoritario delle istituzioni religiose». Se a questo si aggiunge una formazione biblica praticamente inesistente, si capisce come persista una cornice patriarcale e sacralizzante che discrimina le donne e marginalizza i laici. «Si valorizza un approccio biblico letteralista e quindi infantilizzante», aggiunge Corallo. Lo stesso avviene in molti istituti religiosi femminili, dove si respira un «patriarcato introiettato» perché le suore si percepiscono meno importanti dei preti, e si assiste, assicura la biblista, «a un grandissimo spreco di energie e potenzialità».
La strada da percorrere porta invece al dialogo delle diverse espressioni cristiane e alla ricerca corale, in cui anche i laici hanno un ruolo decisivo. «I preti potrebbero essere meravigliati da quello che emerge da questo approccio», commenta la teologa. «Bisogna però essere disponibili a riconoscere la propria vulnerabilità». Cosa non facile per l’istituzione ecclesiastica, che si pensa “petrina” nel senso di “inamovibile“. Per la Chiesa, mettersi in discussione — anche di fronte ai grandi problemi che la attraversano, non ultimo quello degli abusi clericali — non è semplice perché, spiega Corallo, «bisognerebbe ammettere da un lato di essere instabili e dall’altro essere disposti a cambiare». Invece si preferisce mettersi in una posizione di difesa: «L’idea di avere un nemico, come per esempio l’inesistente “teoria gender”, permette alla Chiesa di porsi come perseguitata e di irrigidirsi, con la
conseguenza di professare più una fede “della retromarcia” che la fede in Colui che tutto muove e dà vita».
In questo contesto, è anche complicato fare proposte di formazione che vadano in una direzione liberante. Secondo Corallo, l’intero impianto del catechismo andrebbe rinnovato ed esteso agli adulti: «Oggi con il catechismo dei bambini ci si limita a creare dei meri ripetitori di concetti», chiosa la teologa, «e non c’è quindi da stupirsi che il più alto tasso di abbandono si verifichi nell’adolescenza, quando si arriva all’età della maturazione affettiva». Così, le domande esistenziali rimangono inesplorate. Eppure, ribadisce Corallo, «Dio è vitale e amante, e ci chiede di essere soltanto tutto quello che possiamo essere: vitali e amanti».
Federica Tourn “Jesus” maggio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202305/230519tourn.pdf
CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia
Newsletter CISF – N. 19, 17 maggio 2023
§ Birthgap-childless world: il documentario sulla caduta delle nascite nel mondo. Dopo l’importante evento degli Stati Generali della Natalità, che ha riportato l’attenzione pubblica sull’emergenza natalità in Italia, vi proponiamo il trailer del documentario “Birthgap Childless World” [www.youtube.com/watch?v=J2mSKhA4Y_s], che descrive la situazione mondiale. Perché i tassi di natalità sono diminuiti a ritmi diversi nel mondo industrializzato dagli anni ’70? Il documentario, realizzato da Stephen J. Shaw, ingegnere e presidente di una società statistica, ha impiegato quattro anni per scoprire i fattori comuni della denatalità in queste nazioni, così come le conseguenze sociali. Il film è stato presentato al New York Chelsea Film Festival, 2021 www.birthgap.org-
§ “Famiglia e digitale”, appuntamento a Vicenza. Da segnare in agenda un nuovo appuntamento dedicato al Cisf Family Report “Famiglia & Digitale, costi e opportunità“. Il prossimo 5 giugno (ore 20.30) Francesco Belletti, direttore Cisf, dialogherà con Natalia Sorrentino, psicologa e psicoterapeuta “Alinsieme”, con la moderazione della teologa Giulia Bin presso il Centro Onisto di Vicenza.
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§ Genitori fattori chiave per l’istruzione. È il tema del messaggio che l’organizzazione Make Mothers Matter ha inviato alla 56a Commissione delle Nazioni Unite sullo sviluppo della popolazione, che si è svolta a fine aprile, con un focus su popolazione, istruzione e sviluppo sostenibile. La dichiarazione di Make Mothers Matter si è concentrata sul ruolo cruciale che le madri/genitori svolgono nell’educazione, trasmettendo valori essenziali per garantire la coesione sociale. “Anche i padri devono essere coinvolti e invitati ad assumersi la loro parte di responsabilità per il benessere di tutti in famiglia. L’istruzione fin dall’inizio è una leva significativa per una maggiore parità di genere e per rafforzare il riconoscimento dell’assistenza e dell’istruzione” (testo completo)
§ Francia, la Manif Pour Tous cambia nome. Il 24 marzo scorso la Manif Pour Tous è diventata “Syndicat de la Famille” e ha aperto alle adesioni pubbliche. Un cambio di nome ma anche di status, secondo le dichiarazioni di Ludovine de la Rochère, presidente dell’organizzazione francese. “Siamo un sindacato con l’obiettivo esplicito di difendere la famiglia”, ha detto alla stampa. Il vecchio movimento era considerato troppo semplicistico, in quanto era soprattutto “incentrato sulla difesa del matrimonio uomo-donna”, e riportato alle uniche manifestazioni del 2013 (anno di debutto della Manif). Il Sindacato della famiglia vuole ora promuovere “la cultura della famiglia”, vale a dire la difesa dei fondamenti della famiglia attraverso le differenze tra uomini e donne, paternità e maternità, e filiazione.
§ A Milano l’evento “Cuore & Parole“. La San Paolo ha organizzato a Milano (Auditorium don Alberione, via Giotto 36, ore 20.30) l’evento “Cuore & Parole”, che celebra i 10 anni di pontificato di papa Francesco. La serata si propone di essere una riflessione sul messaggio per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, “Parlare col cuore”, insieme a personaggi dello spettacolo, musicisti e comunicatori. Sarà presente Don Fabio Rosini, come ospite speciale, e presenteranno Beatrice Fazi e Filippo Solibello. Durante la serata sarà promossa la raccolta fondi promossa dall’Associazione Don Zilli per borse di studio a favore di giovani studenti della Facoltà paolina di comunicazione a Kinshasa (RDC) – www.donaperilfuturo.it
§ Dalle case editrici
- F. Ognibene (a cura di), “Di un amore infinito possiamo fidarci”. Carlo Casini, Testimone Profeta Padre, Cantagalli, Siena, 2023, pp. 464.
- P. Crepaz, Lo sport è ancora un gioco, Erickson, Trento, 2023, pp. 152.
- lena Mora, Un amore di nonna, Paoline, Cinisello B. 2022, pp. 190
Si dice Babicka in Slovenia, Nain in Galles, Gogo in Zulu, Bubbe in Yiddish, Bibi in Swahili, Bedstemor in Scandinavia, dove significa, letteralmente, “miglior mamma”: eccola, è la nonna declinata linguisticamente e soprattutto nella portata emotiva planetaria, quella dell’amore assoluto per i propri nipoti. Elena Mora, giornalista e scrittrice, ci regala un manuale divertente e scanzonato, sul filo della propria esperienza familiare (è nonna di due gemelli), ma anche dell’osservazione socio-familiare delle nonne contemporanee. (…) (B. Ve.)
§ Save the date
Evento (Bologna) – 18-23-27 maggio 2023. “Abitare un progetto nel mondo. Ricordando Andrea Canevaro“, iniziativa promossa dal comune di Bologna per ricordare Andrea Canevaro, maestro della Pedagogia Speciale scomparso un anno fa.
- Webinar (Eu) – 25 maggio 2023 (13.30-14.30 CEST). “Cities fit for the digital age”, a cura di Regional Studies Association www.rsaeurope.org/event/jrc-webinar-series-future-of-cities
- Convegno (Bari) – 26 maggio 2023 (9 -13). “La scuola, un cantiere sempre aperto sul futuro“, promosso dall’Ufficio Scuola CISM e USMI Nazionale.
- Incontro (Milano) – 27 maggio 2023 (9.45 -12). “Nel Cantiere di Betania. L’Arcivescovo incontra gli operatori della Pastorale Familiare“, promosso dall’Arcidiocesi di Milano.
www.chiesadimilano.it/servizioperlafamiglia/news/nel-cantiere-di-betania-8906.html
- Conferenza (Bruxelles) – 31 maggio 2023 (9 -13). “Grounded in the Present, skilled for the Future”, promosso da FAFCE.
www.fafce.org/conference-invitation-european-year-of-skills-2023-join-dialogue-conference-on-upskilling-training-and-education-in-the-eu-brussels-31-may-2023
Iscrizione http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.as
CHIESA CATTOLICA NEL MONDO
“Più pregiudizi che giudizi”
intervista a Johan Bonny, (α1955) vescovo di Anversa
Il suo intervento nel Cammino sinodale ha toccato molti. Il vescovo Johan Bonny e i suoi confratelli delle Fiandre hanno introdotto la benedizione alle coppie omosessuali. Senza opposizione da Roma. Che cosa fanno di diverso rispetto alla Germania? In marzo, il suo intervento come ospite all’assemblea generale del Cammino sinodale tedesco ha suscitato vivaci reazioni, dato che lei ha spiegato alla Chiesa tedesca perché i vescovi fiamminghi hanno potuto rendere pubblica una direttiva sulla celebrazione di benedizione alle coppie omosessuali senza ricevere alcuna opposizione dal Vaticano. Lei stesso già dal 2015 difende tali celebrazioni di benedizione. Pure per iscritto si è dichiarato come vescovo a favore, contro il volere del Vaticano, a cui comunque deve obbedienza. Lei dice che bisogna porre il problema in un altro modo, ma questo non la porta ad un conflitto di coscienza?
No, perché si tratta del papa. Non tutti gli uomini a Roma sono il papa. Ho parlato personalmente due volte con il papa su questi temi. Dai miei colloqui, so qual è la mia relazione con papa Francesco – parliamo “cum petro et sub petro” -. Ma non tutto il Vaticano è “cum petro et sub petro”. Anche in Vaticano ci sono diverse posizioni e diversi modi di procedere. Anche le facoltà teologiche a Roma appartengono al Vaticano e alla Chiesa cattolica a Roma. Roma non è solo un documento o un cardinale. No. Roma è anche unità nella diversità. A proposito dell’obbedienza al papa: nessuno di noi vuole essere disobbediente al papa. Sarebbe l’ultima cosa che voglio. Per questo ho avuto due volte un colloquio con il papa. Erano colloqui personali. Non dirò pubblicamente che cosa ha detto e come lo ha detto, ma so che io, che noi non andiamo contro il papa. Questo è molto importante per me e per gli altri vescovi nelle Fiandre.
Così ha anche ottenuto che finora sui suoi progetti di benedizione alle coppie omosessuali non sia giunta alcuna obiezione da Roma. Se si guardano i progetti della Germania, sembra che qui ci sia un conflitto permanente con il Vaticano. Dove sta la differenza? Che cosa è riuscito a fare che noi non siamo riusciti?
Noi siamo una piccola Conferenza episcopale. Siamo solo otto vescovi diocesani. Siamo di meno. E su questi temi siamo in perfetto accordo. Parliamo ad una sola voce. Non ci sono divisioni o sottogruppi su questo tema. Lo ha chiesto anche il papa a Roma se eravamo tutti d’accordo. E abbiamo detto che lo eravamo. Chiaramente ci sono sempre opinioni leggermente differenti tra noi, ma fondamentalmente siamo d’accordo. Per questo abbiamo anche voluto scrivere un unico testo e non otto testi diversi. Tutta la dinamica e le tensioni tra Roma e la Germania sul Cammino sinodale noi non le abbiamo. Il contesto non è problematico o gravoso, il che, penso, rende le cose un po’ più semplici. Siamo una piccola Conferenza, sui grandi temi siamo d’accordo. Potremmo anche dire: non siamo un grave pericolo per Roma.
A Roma non si legge il tedesco e ancor meno il fiammingo. È una lingua poco diffusa. Studenti di teologia, professori e vescovi tedeschi sono presenti in tutti i continenti, e anche a Roma. La voce dei tedeschi è più importante di quella dei fiamminghi. Penso anche che a Roma si veda meglio ciò che avviene in Germania. Ci sono anche diversi vescovi e cardinali tedeschi a Roma. Noi invece non ne abbiamo. Non abbiamo nessuno in Vaticano. Non abbiamo una grossa presenza in Vaticano di vescovi e cardinali. Questo ci rende le cose più facili, penso. Ciò che per me però è molto importante e in cui posso dare un contributo è questo: le tensioni tra la Germania e Roma non sono utili. Anche a Roma dovrebbero in un certo qual modo ascoltare meglio e non essere così critici. Questo non aiuta nessuno. Ci sono più pregiudizi che giudizi in questa discussione. Ci sono più pregiudizi, ferite personali, storie personali anche dei vescovi e dei cardinali a Roma. C’è una mescolanza di esperienze personali e ferite personali con questioni teologiche e differenze teologiche.
Forse il conflitto sta anche nella diversa mentalità? I tedeschi vogliono sempre tutto esatto al 100% e avere nero su bianco. Lei conosce le due parti, dato che anche lei ha lavorato per undici anni in curia.
Certo, e l’ho anche detto ai vescovi tedeschi nel mio saluto all’assemblea generale d’autunno 2022 a Fulda. Roma ha una mentalità latina, in tutti gli ambiti. La Germania è protogermanica e anche noi nelle Fiandre siamo germanici. C’è una grande differenza. A Roma si dice ad esempio: si fa, ma non si dice. Da noi invece ciò che si fa e ciò che si dice dovrebbero coincidere il più possibile. Nel sud non è così. Nel sud si deve fare “bella figura”. Qui da noi non è così, “fare bella figura” qui da noi non serve. Prima di tutto deve essere tutto giusto e corretto. Il “giusto” è da noi più importante del bello. Non deve apparire bello, ma deve essere giusto. Da noi un grande professore può fare lezione in jeans. In Italia no. Prima di tutto deve avere un aspetto adatto, e allora può anche parlare. Sono mentalità diverse. E la precisione tedesca con molte note a piè di pagina non è latina.
Entrambi i lati sono importanti. Entrambi i lati hanno qualcosa di buono, ma dovrebbero andare meglio d’accordo. Nei secoli scorsi ci sono state spesso tensioni che fondamentalmente non erano teologiche ma culturali. Tutta la Riforma nel XVI secolo era in fondo un problema culturale non teologico. È diventata un problema teologico più tardi, ma è iniziata dal punto di vista culturale. Ciò che Lutero chiedeva all’inizio era proprio germanico. Ma si è voluta trovare una soluzione latina al suo problema germanico, e questo non va. Proprio come noi oggi non possiamo trovare una soluzione tedesca alle questioni latine. Ma nella Chiesa entrambe devono in qualche modo incontrarsi – per il bene della Chiesa.
Torniamo ancora all’assemblea del Cammino sinodale e all’impulso che lei ha dato. Ci sono persone che hanno detto che proprio quell’impulso ha portato a far sì che la votazione sul tema della benedizione alle coppie omosessuali abbia avuto una maggioranza, perché molte persone nel plenum hanno visto che nelle Fiandre ha funzionato e che quindi anche noi potevamo forse fare quel passo. Trova positivo che la Germania abbia seguito le sue parole? Da un lato in questo modo si è posto un segno molto forte, dall’altro lato così si approfondisce ulteriormente il conflitto già esistente con Roma.
Non so se le mie parole abbiano cambiato la votazione. Non sono in grado di vedere all’interno dei cuori. Molti mi hanno poi detto grazie. Deve però succedere qualcosa. Se vogliamo essere una chiesa missionaria che esprime la buona notizia di Gesù in modo nuovo qui in Occidente, dobbiamo anche trovare una soluzione per il problema dell’omosessualità.
Non è così in Africa – non ancora – e neppure in Asia per ora. Arriverà anche là, ma qui si dovrebbe trovare comunque una soluzione per questo problema, che secondo l’opinione di tutti ha un fondamento nelle scienze umane e nella bibbia, e inoltre anche un fondamento teologico-morale e pastorale. Anche il papa lo sa. Deve essere pastore, padre per tutti. Lo comprendiamo. Non deve necessariamente dire sempre sì o no a tutte le domande. Il papato non esiste per dire sì o no a tutte le domande come nel Medioevo, ma perché ci sia un buon pastore, un buon padre per tutta la comunità, per tenere insieme la comunità. È un servizio per l’unità nella Chiesa, unità nella differenza. Deve tenere unita la famiglia. In una famiglia, i genitori e i nonni vogliono tenere uniti figli e nipoti. Ma non possono rispondere di sì o di no a tutte le domande. Possono però apparecchiare la loro tavola, la loro cucina, la loro casa in modo che tutti siano benvenuti e possano parlare tra loro in casa. Questo è il servizio per l’unità.
Senza differenze nella Chiesa, un papa non avrebbe alcun senso né alcun compito. In che cosa consisterebbe il suo compito, se non ci fosse alcuna differenza? La sua grandiosità sta nel saper creare comunità ed essere un luogo dove tutte le differenze si incontrano e vivono insieme. Non dobbiamo creare solo unità, dobbiamo creare anche differenza, e portare questa differenza a Roma, nella casa del padre, del papa.
Siamo anche nel corso di un processo sinodale a livello mondiale. In ottobre ci sarà il primo grande incontro a Roma. Quali sono le sue aspettative?
Le mie aspettative sono di speranza. Spero che lì possa essere detto anche tutto ciò che viene detto qui. Ho anch’io alcune domande sul modo in cui in qualche modo si possano trovare vie in questa diversità per un ulteriore sviluppo. E in modo speciale come si può di nuovo sostenere la competenza (la responsabilità) dei vescovi. Alla fine tutto ciò che è salito in alto dalla base, dai vescovi e dalle loro comunità deve anche poter giungere di nuovo in basso. E allora sono i vescovi con le loro comunità a dover trovare le migliori soluzioni. Il cammino deve finire lì dove è cominciato.
a cura di Renardo Schlegelmilch “www.domradio.de” 17 maggio 2023 (traduzione: www.finesettimana.org)
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202305/230517bonnyschlegelmilch.pdf
CHIESA IN ITALIA
I preti diminuiscono. Forse sta nascendo una nuova Chiesa
Nelle prossime settimane in Duomo verranno ordinati nove nuovi sacerdoti. Immagino grandi feste nelle comunità dove questi giovani sono nati e cresciuti e grande soddisfazione di una Chiesa, la nostra di Bergamo, che almeno per quest’anno ritrova numeri di ordinati da tempo smarriti. Di questo e di molto altro bisogna ringraziare il Signore.
Papa Francesco: “abbiate lo stile della vicinanza che è lo stile di Dio”
L’augurio ai novelli sacerdoti lo rivolgo con le parole che papa Francesco, nell’aprile di due anni fa, fece a nove giovani che ha ordinato nella Basilica di San Pietro:
Abbiate lo stile di vicinanza che è lo stile di Dio. Ma lo stile di Dio è anche uno stile di compassione e di tenerezza. Non chiudere il cuore ai problemi. E ne vedrete tanti! Quando la gente viene a dirvi i problemi e per essere accompagnata… Perdete tempo ascoltando e consolando. La compassione, che ti porta al perdono, alla misericordia. Per favore: siate misericordiosi, siate perdonatori. Perché Dio perdona tutto, non si stanca di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono.
Vicinanza e compassione. Ma compassione tenera, con quella tenerezza di famiglia, di fratelli, di padre… con quella tenerezza che ti fa sentire che stai nella casa di Dio. Vi auguro questo stile, questo stile che è lo stile di Dio. E poi, vi accennavo qualcosa in Sagrestia, ma vorrei accennarla qui davanti al popolo di Dio. Per favore, allontanatevi dalla vanità, dall’orgoglio dei soldi. Il diavolo entra “dalle tasche”. Pensate questo.
Siate poveri, come povero è il santo popolo fedele di Dio. Poveri che amano i poveri. Non siate arrampicatori. La “carriera ecclesiastica”… Poi diventi funzionario, e quando un sacerdote inizia a fare l’imprenditore della parrocchia perde quella vicinanza al popolo, perde quella povertà che lo rende simile a Cristo povero e crocifisso, e diventa l’imprenditore, il sacerdote imprenditore e non il servitore. Siate vicini al santo popolo fedele di Dio. Ma prima di tutto vicini a Dio, con la preghiera. Un sacerdote che non prega lentamente spegne il fuoco dello Spirito dentro. Vicinanza a Dio.
Una crisi di numeri inarrestabile. Dopo la festa, il conto. Occorre, cioè, guardare dentro i numeri. Per evitare illusioni e cominciare a sperimentare quello che, inevitabilmente, saremo costretti a fare tra non molto. Che piaccia o meno. I numeri restituiscono, brutalmente, anche nella nostra diocesi un dato: la continua, progressiva – e, a prima vista, inarrestabile – diminuzione dei preti.
I preti diminuiscono continuamente. I “curati” sono una razza in via di estinzione. Anno dopo anno, nonostante alcune eccezioni, il numero degli ordinati diminuisce. Un saldo negativo sempre più pesante. Tra i sacerdoti che muoiono e quelli che abbandonano (e non sono pochi nell’ultimo decennio) sono sempre meno e si alza la loro età media. Un numero ogni anno più grande di parrocchie non vede più la presenza del curato.
Secondo i dati della CEI dello scorso anno i sacerdoti italiani sono 31.793, con una riduzione di 6.416 in trent’anni (il 16,5% in meno rispetto agli anni post guerra), con una diminuzione dell’11% solamente negli ultimi dieci anni.
Catastrofe? No, un parto. Una situazione di questo genere è vista da molti come una catastrofe, una rovina. Ho più volte scritto che a me piace immaginarla, invece, con un’altra immagine: quella del parto. Si sono rotte le acque, la disgregazione del precedente equilibrio è in funzione di uno nuovo. Ciò che sta accadendo nelle chiese d’occidente non è la fine del mondo ma la fine di un certo mondo e l’inizio di un mondo nuovo. Non è la fine del cristianesimo ma di un certo cristianesimo. E se uno ha gli occhi della fede può cominciare a intravedere i germi di un ricominciamento.
Il prete uomo dell’unità. È tutto il resto va lasciato agli altri che lo sanno fare meglio di lui. Mi chiedo infatti se la cosiddetta crisi vocazionale sia piuttosto un segno dei tempi con cui Dio vuole parlare ad una chiesa distratta per costringerla a prendere decisioni inedite ma epocali, adeguate alle esigenze del presente per rispondere in tempo all’anelito di Dio che sale dalle viscere del mondo.
Quante volte lo diciamo: finché le parrocchie resteranno centrate sul clericalismo, nessuna pastorale smuoverà l’immobilismo in cui ci si trova. È necessario che il prete bergamasco, figlio di una storia generosa e straordinaria, impari una buona volta a non assommare in sé tutti i ruoli funzionali: leader, liturgo, economo, organizzatore, animatore ecc., ma riservi a sé il servizio dell’unità, della preghiera e della Parola, lasciando tutto il resto a chi può e sa farlo meglio di lui.
Non è forse giunto il momento di cominciare a mettere in pratica tutto questo?
Daniele Rocchetti La barca e il mare 18 maggio 2023
Preti e omosessualità/La gente è pronta. La Chiesa no
Anche l’omosessualità fatica ad essere compresa da parte di buona parte della Chiesa. Ma qualcosa di nuovo si muove.
“Con tutto il cuore”. Crediamo che una visione più limpida sull’orientamento sessuale, scientificamente fondata e spiritualmente in ascolto delle chiamate di Dio, possa portare maggiore serenità alla Chiesa; essa permetterebbe a tutti i suoi presbiteri e religiosi di stare a testa alta con tutti ed essere più pacificati e riconciliati, sinceri, perché meno gravati da pregiudizi e più liberi. Sarebbe un dono per tutti, omosessuali ed eterosessuali presenti nei presbiteri e nelle comunità religiose; sarebbero eliminate le falsità nei rapporti coi confratelli; crescerebbe per tutti la capacità di ascolto e la sensibilità.
Tra i contributi di gruppi sinodali che sono stati inviati alla Conferenza episcopale italiana e alla Segreteria del Sinodo dei vescovi nell’aprile 2022 c’è anche questo documento, intitolato “Con tutto il cuore”, che è il risultato della condivisione di una cinquantina di preti con orientamento omosessuale o bi-sessuale, che si sono incontrati tra febbraio e marzo 2022. I partecipanti al gruppo sono convinti che «di grande aiuto potrebbe essere un documento ufficiale sul tema, frutto di un serio lavoro sinodale come questo».
Omosessualità di preti e religiosi. Argomento ancora tabù. Con altri temi di cui la Chiesa Istituzione parla poco c’è questo della omosessualità dei preti e dei religiosi. L’ultima “Ratio” per la formazione dei sacerdoti del 2016 (sic!) conferma un documento del 2005 che vieta di ordinare sacerdoti gli omosessuali, con giudizi in merito scientificamente sbagliati e con una chiusura netta.
È evidente che per la Chiesa l’omosessualità è ancora sinonimo di disordine, incontinenza, minaccia per la famiglia tradizionale, quando non addirittura pedofilia. Purtroppo la Chiesa Istituzione, specialmente dopo la Riforma protestante, ha contribuito all’atteggiamento violento e discriminatorio delle persone nei confronti degli omosessuali.
Nei seminari, raccontano i preti estensori del documento, la formazione dà l’impressione di essere pensata per persone asessuate, il sesso è sempre pericolo e peccato. L’unica possibilità rimane la confessione e l’incoraggiamento a non costruire relazioni e amicizie. Evidentemente questo non fa maturare le persone né sul piano psicologico né sul piano umano. E così il fingere e il nascondersi paiono l’unica soluzione. Molti di loro diventano poi, consapevolmente o meno, spietati nemici della omosessualità, specialmente nei confronti dei religiosi.
Secondo inchieste americane ed europee circa il 30% dei religiosi è gay e questo si spiega abbastanza facilmente. Il mondo maschile non insegna o predilige atteggiamenti di mitezza, comprensione, gentilezza, che anzi rischiano di venire bullizzati. Un uomo poi sempre senza fidanzata o compagna spesso viene “sospettato” di essere gay. Così gli ordini religiosi e sacerdotali hanno offerto riparo a persone con queste caratteristiche. Caratteristiche tra l’altro pienamente umane come l’estro artistico in ogni sua manifestazione. Gay o etero, purtroppo queste doti così cristiane vengono svalutate e scoraggiate nei maschi fin da piccoli.
Chiamati a lavorare nella vigna del Signore. E spesso si dimentica anche che queste persone gay, sono dei chiamati da Dio a lavorare nella sua vigna, chiamati proprio loro, nella loro interezza e quindi anche nella loro omosessualità. In molte parrocchie i fedeli capiscono i loro preti e li amano e li apprezzano ugualmente, anche perché quasi sempre sono bravissimi preti.
Recentemente qualcosa si sta muovendo, anche se in ordine sparso e secondo la lungimiranza delle autorità diocesane. In una diocesi emiliana un parroco ha fatto coming out e ha convissuto per un po’ con il fidanzato. Poi è tornato dal suo vescovo dicendo che era e restava gay, ma il desiderio di essere prete era più forte. Quel saggio vescovo lo ha rimandato in una parrocchia come parroco, riconoscendogli una vocazione vera.
In una diocesi lombarda invece un amatissimo curato che ha fatto coming out, ma vorrebbe rimanere prete, è stato cacciato malamente, mandato in un’altra città a fare altro, in attesa… di cosa non si sa ancora.
Capisco le situazioni spinosissime e la difficoltà richiesta nel discernere e nell’accompagnare, ma il dolore causato è stato tale, in alcuni casi, da portare alla disperazione e al suicidio.
Speriamo che da questo Sinodo venga fuori qualcosa di buono, intelligente e misericordioso. Anche in questo caso, la gente spesso capisce, la Chiesa, spesso, no.
Carlotta Testoni La barca e il mare 17 maggio 2023
CITTÀ DEL VATICANO
Il papa romano e il papa copto è pace
Due papi – Francesco, guida della Chiesa cattolica, e Tawadros II, papa copto di Alessandria e patriarca della sede di San Marco – hanno firmato in Vaticano una dichiarazione importante per la riconciliazione teologica tra Chiese contrapposte e nemiche per quindici secoli.
Per capire il presente, dobbiamo ripercorrere il passato. Tra il quarto e quinto secolo i primi Concili ecumenici (formati da vescovi dell’impero romano d’Oriente e d’Occidente) descrissero le tre “persone” divine, Padre, Figlio e Spirito santo; e, nel 451, al Concilio di Calcedonia, presso Bisanzio, definirono Gesù «veramente Dio e veramente uomo».
Ma gli egiziani (= copti), poi seguiti da armeni e siri, pur avendo in sostanza la stessa fede, rifiutarono quelle parole; perciò da latini e bizantini furono considerati “monofisiti”, cioè convinti che in Cristo ci fosse una sola “natura” (in greco “fusis”), mentre il Concilio ne proclamava due, una divina ed una umana.
Dunque, “eretici” secondo Roma e Costantinopoli! La lite, con accuse reciproche, durò secoli. La situazione cominciò a mutare nel 1973, quando Shenouda III, l’allora papa copto, venne a Roma dove firmò con Paolo VI una dichiarazione nella quale essi affermavano che, pur con parole diverse, proclamavano la stessa fede in Cristo. Dunque – sottinteso – ammettevano che per un tragico equivoco, dovuto a presunzione teologica, le due Chiese avevano mantenuto per quindici secoli uno scisma sciagurato. Analoga dichiarazione hanno firmato i successori dei due papi e anche, cinque giorni fa, Tawadros e Francesco. Questi, nel 2017, era stato al Cairo e là aveva incontrato il papa egiziano, ancora molto turbato perché tre settimane prima due chiese copte (in una lui stesso stava celebrando) erano state assaltate da seguaci, secondo la polizia, del Daesh, l’autoproclamato “Stato islamico”. Bilancio: quarantaquattro vittime e centoventisei feriti.
La Chiesa copta in Egitto – dove conta, ufficialmente, dieci milioni di fedeli, ma sono molti di più – è la più antica comunità cristiana; gli arabi musulmani arrivarono solo nel settimo secolo, col tempo diventando la religione oggi più diffusa nel Paese (il 90% dei cento milioni di abitanti). Per lo più essi sono rispettati, ma sovente, soprattutto nelle campagne, subiscono vessazioni.
Francesco ha manifestato grande rispetto per i “martiri” copti. Salutando mercoledì Tawadros, presente in un posto di onore all’udienza generale, aveva ricordato, in particolare, i venti (più un ghanese) trucidati il 15 febbraio 2015 su una spiaggia libica da seguaci del sedicente Daesh. Precisando: «Questi martiri sono stati battezzati anche nel sangue, che è seme di unità per tutti i seguaci di Cristo. Sono lieto di annunciare oggi che, con il consenso di Vostra Santità, essi saranno inseriti nel Martirologio Romano come segno della comunione spirituale che unisce le nostre due Chiese». Parole che rafforzano anche la reciproca, e un tempo impensabile, vicinanza teologica.
Luigi Sandri “L’Adige” 15 maggio 2023
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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Abusi: la Cei incontra le “sue” vittime. E per loro crea un osservatorio
Un incontro tra il presidente CEI card. Matteo Zuppi e il segretario generale mons. Giuseppe Baturi con «alcune vittime, familiari e sopravvissuti ad abusi compiuti da chierici e operatori pastorali in ambito ecclesiale avvenuti in tempi recenti e passati» è avvenuto il 10 maggio scorso presso la sede della Cei, a Roma.
www.chiesacattolica.it/tutela-minori-e-adulti-vulnerabili-incontro-con-vittime-e-sopravvissuti
L’incontro, a cui ha partecipato anche mons. Lorenzo Ghizzoni, responsabile del servizio tutela minori della Cei, si è svolto in un clima «sereno ma intenso», scrive in un comunicato il direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, Vincenzo Corrado, aggiungendo che «è stato un momento molto importante e significativo in cui ciascuna vittima ha condiviso la propria storia di dolore esprimendo, al tempo stesso, il desiderio di assistere e accompagnare la Chiesa in Italia per far sì che questi episodi non si ripetano e per tutelare sempre meglio minori e adulti vulnerabili» e che «l’ascolto e l’accoglienza delle vittime costituiscono una linea d’azione importante della Chiesa», addirittura una «priorità» che è «già un primo atto di prevenzione», afferma citando le Linee guida della Cei, perché «solo l’ascolto vero del dolore delle persone che hanno sofferto questo crimine ci apre alla solidarietà e ci interpella a fare tutto il possibile perché l’abuso non si ripeta». L’incontro rappresenta – è sempre Corrado a raccontare – «la prima tappa verso la costituzione di un gruppo operativo, formato da vittime di abusi in ambienti ecclesiali e da loro familiari». Sarà una sorta di «osservatorio, composto da persone che hanno generosamente dato la loro disponibilità ad offrire, a titolo personale e nella massima libertà, un contributo propositivo per migliorare e rendere più efficaci le attività di formazione e prevenzione messe in atto dalle Chiese in Italia attraverso la rete territoriale dei Servizi tutela minori», direttamente dipendente dalla presidenza Cei.
Vittime di serie A e di serie B? Tutto bene dunque? A scavare un po’, si scoprono molte crepe. Intanto, nella scelta di non consultare le vittime della Rete L’Abuso, unica associazione in Italia ad avere elaborato, in quasi 15 anni di lavoro, un prezioso database dei casi di pedofilia e ad avere accompagnato numerose vittime nel percorso di giustizia. Zuppi, che ha incontrato due volte il suo presidente Francesco Zanardi, non appare più intenzionato a cercare il dialogo con la Rete L’Abuso, tanto da non averla nemmeno informata di questa iniziativa: ci sono vittime di serie A e di serie B? «La domanda è: che cosa farà in concreto per queste persone?», si chiede Zanardi (Ansa, 10 maggio), definendo l’iniziativa un’opera di «propaganda». «Noi li abbiamo denunciati, al governo, all’Unione Europea e all’Onu, in quanto garante per i diritti dell’infanzia».
Anche lo Stato è sotto accusa: ci sono «tante problematiche che lo Stato italiano fa finta di non sapere: dalla difficoltà delle denunce, alle possibili modalità di insabbiamento, fino alla mancanza di una commissione nazionale indipendente per fare luce sugli abusi».
Quale prevenzione senza verità sul passato? E questa è l’altra grossa crepa nell’iniziativa CEI: quale prevenzione è possibile, quale ascolto autentico delle vittime è possibile in mancanza di una totale trasparenza sul passato, raggiungibile soltanto con una inchiesta indipendente? Una misura chiesta da tempo anche dal Coordinamento #ItalyChurchToo contro gli abusi nella Chiesa, per il quale la prevenzione può passare soltanto dalla verità e dalla giustizia. Ma che la CEI non abbia la minima intenzione di dare mandato a una commissione indipendente di fare una ricerca seria sul passato, come negli altri Paesi europei, lo aveva già chiarito oltre ogni dubbio, oltre a Zuppi, lo scorso anno, quando presentò “la via italiana” alla lotta agli abusi, anche qualche mese fa Ghizzoni, quando a un convegno della Pontificia Università Lateranense disse testualmente, alludendo alla Francia e alla Commissione Ciase: «Non faremo proiezioni di dati o campionamenti come si fa in altre realtà ecclesiali, con cifre che piacciono a chi vuole seminare zizzania», e che gli enti indipendenti di ricerca «hanno fatto danni», ribadendo che la CEI non costituirà «una commissione nazionale composta da persone che non sanno nulla della vita della Chiesa» e ridicolizzando l’iter di verità e giustizia affermando che alla CEI «non interessa mettere alla berlina preti e vescovi».
L’intervento di Ghizzoni arrivava a due giorni dalla presentazione del I Report della Cei, lacunosissimo, sugli abusi, nel quale i dati sui casi erano molto poveri, provenendo da appena 30 centri d’ascolto diocesani, attivi da meno di due anni (gli unici che avevano ricevuto segnalazioni) su un totale di 90 (su 226 diocesi, di cui alcune accorpate). Addirittura un quarto delle diocesi totali (sessanta) si era sottratto all’indagine, in alcuni casi persino dove sono in corso processi penali contro preti accusati di pedocriminalità. Con tutto ciò, occorre rilevare che, nonostante il limitato arco temporale di esame, i numeri del Report CEI erano preoccupanti: pur in un periodo in cui la pandemia ha limitato i contatti (biennio 2020-2021), si parlava infatti di ben 89 presunte vittime e 68 presunti autori: un numero rilevante.
Il contro-report pubblicato il primo febbraio dalla Rete L’abuso portava le cifre relativa a 13 anni di monitoraggio: 88 preti non noti segnalati dalle vittime che, per improcedibilità spesso legata alla prescrizione, non sono conosciuti alle autorità civili; 166 preti accusati, attualmente denunciati, indagati, in attesa di giudizio o in attesa di sentenza definitiva in Italia, compresi coloro che si sono salvati grazie alla prescrizione; 164 condannati in via definitiva, per un totale di 418. Dati che sarebbero utili alla Cei: «Nei due incontri che ho avuto col cardinale ero disposto a consegnare i dati dei non procedibili. Ma non li hanno voluti», ha detto Zanardi.
Le carenze della “via italiana”. Le vittime «ascoltate» da Zuppi, con ogni probabilità, sono tra quelle che si sono rivolte ai centri d’ascolto, e che dunque accettano, senza metterla in discussione, la “via italiana” del cardinale. Ben diverso l’approccio e la posizione di Zanardi. Durante la conferenza stampa di chiusura dell’assemblea Cei del 27/5/2022, il presidente della Rete L’Abuso aveva rivolto domande piuttosto pressanti al cardinale sulla linea che la CEI aveva deciso di adottare per contrastare la pedofilia clericale, ottenendo da Zuppi la promessa di vedersi successivamente. Durante gli incontri, avvenuti durante l’estate, che «in alcuni momenti sono stati anche piuttosto turbolenti» (Il Post, 9/9), è emersa la distanza di vedute riguardo alle modalità dell’indagine, tanto per ciò che riguardava lo spazio temporale che la Cei intendeva mettere sotto la lente d’ingrandimento, giudicato troppo breve, quanto per il rifiuto dei vescovi di prevedere risarcimenti economici alle vittime di abusi, quanto per l’indipendenza dell’istituzione (l’Università cattolica di Piacenza) incaricata di esaminare i dati raccolti. Senza parlare dell’inefficacia degli stessi centri d’ascolto, cui manca il requisito della terzietà indispensabile per garantire un ascolto obiettivo: «Il 70-80% delle persone che subiscono abusi – rilevava su Il Post (9/9) Zanardi – non si rivolge alla Chiesa, non arriva quindi agli sportelli diocesani, costituiti nel 2019»; «Le vittime spesso vengono sottoposte a un ostracismo tale che si tirano indietro. In quegli sportelli non ottengono risarcimenti, spesso nemmeno processi e l’allontanamento del prete. La denuncia rimane tra l’altro riservata perché, è stato detto da parte delle istituzioni della Chiesa, bisogna evitare giustizialismo e gogna mediatica. È giustissimo, ma in qualche modo bisogna pur far capire che quel determinato prete è pericoloso». La chiave di lettura, insomma, deve essere quella del principio di “Interesse superiore del minore”, all’interno del quale la Rete l’Abuso agisce anche sul piano delle azioni verso lo Stato italiano e verso gli organismi sovranazionali come Unione europea e Onu.
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 18 20 maggio 2023
www.adista.it/articolo/69994
CONSULTORI FAMILIARI
Milano, online sito per assistere donne e minori vittime di violenza.
Proseguono le azioni del progetto di Rete “Raise – Sistema antiviolenza” voluto dalla cordata di diciassette Consultori familiari privati, accreditati e contrattualizzati Ats (Agenzia di tutela della salute) Milano Città Metropolitana, ossia Fondazione “Centro per la famiglia cardinal Carlo Maria Martini, Fondazione Guzzetti, Fondazione fare famiglia e Centro per la famiglia”.
“Una rete di enti che per similitudine già dialogano e collaborano, all’interno della cornice della Federazione Felceaf – Federazione lombarda dei centri di assistenza alla famiglia e che si stanno adoperando – spiega un comunicato – per dotarsi di un modello di intervento comune nella prevenzione, presa in carico ed eventuale invio ad altri servizi preposti di donne vittime di violenza o di minori vittime di violenza”.
Dopo una prima fase di attività formativa e di aggiornamento per gli operatori interni sui temi della violenza – psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, pedagogisti, operatori dell’area prevenzione ed educazione alla salute, legali, ginecologi, ostetriche, assistenti sanitari – “è ora la volta della messa online della piattaforma www.raise-antiviolenza.org”. “Un sito agile e di facile navigazione in cui è possibile, attraverso una mappa geolocalizzata, entrare in contatto con i servizi dei Consultori privati e accreditati facenti parte della sperimentazione, nonché i servizi territoriali esistenti, quali ad esempio: Centri antiviolenza, Consultori pubblici, Pronto soccorsi ospedalieri dell’area di Milano Città Metropolitana, Sud Brianza e una piccola parte del territorio bergamasco”.
“Siamo orgogliosi di aver realizzato questa piattaforma online – dichiara Luciano Colleoni, direttore generale della Fondazione Centro per la famiglia cardinal Carlo Maria Martini Onlus. Con questo strumento vogliamo favorire l’emersione della richiesta d’aiuto delle donne e dei minori vittime di violenza, permettendo loro di orientarsi tra i servizi, sapendo di poter contare, nei diversi territori di competenza della cordata di enti, su spazi pronti ad accogliere, personale sociosanitario qualificato e luoghi di ascolto e di emersione. Raise è per noi anche la narrazione di un percorso interno che sta facendo emergere la capacità tangibile dei nostri Consultori privati e accreditati di sapersi mettere in rete tra loro e con i servizi esistenti”.
A breve l’apertura anche di “una pagina Instagram dedicata che, rivolgendosi perlopiù ad un target di adolescenti, giovani donne e uomini, cercherà di dialogare con loro attraverso un linguaggio che sia da essi riconoscibile e attraverso il quale poter aprire a spazi di confronto, ascolto, fino all’eventuale presa in carico”.
Il sito www.raise-antiviolenza.org, da poco online, verrà presentato ufficialmente giovedì 25 maggio dalle 18.00 alle 19.00, in modalità online (per chi desiderasse prendere parte all’evento, è possibile farlo accedendo al seguente link https://bit.ly/432lgcp).
(G. B .) Agenzia SIR 18 maggio 2023
www.agensir.it/quotidiano/2023/5/18/consultori-familiari-milano-online-sito-per-assistere-donne-e-minori-vittime-di-violenza-colleoni-favorire-lemersione-delle-richieste-daiuto
CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Roma2 – S. Costanza APS webinar 26 maggio 2023
Si tratta di un webinar gratuito online dal titolo “Mamma felicemente imperfetta“.
Il webinar è stato creato per tutte le mamme che vogliono celebrare la bellezza dell’imperfezione e imparare a godersi il percorso della genitorialità senza sentirsi sopraffatte dalle pressioni sociali e dalle aspettative irrealistiche.
Durante il webinar, si esplorerà insieme l’importanza di abbracciare la nostra autenticità come mamme e di trovare equilibrio tra le nostre responsabilità quotidiane e il prendersi cura di noi stesse.
Questo evento è aperto a tutte le mamme (e a tutte le persone comunque interessate all’argomento) indipendentemente dal numero di figli o dall’età dei bambini. Sarà un’opportunità per connetterti con altre mamme che condividono le tue esperienze e che vogliono creare un momento di supporto e comprensione reciproca.
Per partecipare al webinar, che si terrà il 26 maggio 2023 dalle ore 16,00 alle ore 20,00, è sufficiente registrarsi entro il 22 maggio 2023 utilizzando il link sottostante. Una volta completata la registrazione, arriverà una conferma via email con tutti i dettagli necessari per accedere al webinar.
DALLA NAVATA
Ascensione del Signore – Anno A
Atti Apostoli 01, 01. Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Salmo responsoriale 46, 06. Ascende Dio tra le acclamazioni, il Signore al suono di tromba. Cantate inni a Dio, cantate inni, cantate inni al nostro re, cantate inni.
Paolo a Efesìni 01, 17. Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore.
Matteo 28,16. In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
COMMENTO
Il Vangelo di Matteo non dice nulla riguardo all’assunzione di Gesù al cielo. Il testo matteano finisce qui, con l’ultima assicurazione che Gesù fa ai suoi discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Come conciliare questo con il racconto di Marco e Luca, che invece descrivono Gesù mentre viene elevato in cielo nei pressi di Gerusalemme (secondo Luca «verso Betania»)? Sono i due aspetti di una stessa «realtà» o forse, meglio dire, due «effetti» della risurrezione.
Da una parte l’assunzione di Gesù risorto alla destra del Padre indica il compimento ultimo della salvezza: l’entrata dell’umanità risorta del Figlio nel seno del Padre, porta aperta e «luogo» di accesso per tutta l’umanità. Dall’altra, tale «assunzione» non implica una distanza, un allontanamento, ma permette al contrario una «permanenza» del Risorto che abbraccia in sé tutta la storia umana, ogni «istante», «tutti i giorni fino alla fine del mondo».
Ai discepoli non rimane che annunciare al mondo questa «buona novella»: le porte del «cielo», la comunione e la pienezza di vita con il Dio della vita, per sempre, è una realtà «umana», aperta a tutti. Questo, ovviamente, comporta la risposta di ciascuno, quel «potere», come dice Giovanni nel prologo, di accogliere nella libertà tale buona notizia: «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome» (Gv 1,12).
Analizziamo un po’ più da vicino quanto Gesù chiede ai suoi discepoli: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato».
Il primo invito è quello di «andare», ovvero di essere in cammino: la comunità dei credenti, la Chiesa, è dunque di per sé missionaria. Un termine che racchiude in sé due aspetti; il primo è che «essere missionario» significa «essere inviato» (dal latino missus = mandato); l’altro aspetto è il carattere dinamico, di movimento, di cammino che l’«essere mandato» comporta in sé.
La seconda richiesta di Gesù è «fate discepoli tutti i popoli», promuovendo così un’apertura universale ad accogliere il suo messaggio di salvezza. E questo, di conseguenza, implica necessariamente l’aprirsi a tutte le etnie e alle loro espressioni linguistiche e culturali. Il «fare discepoli» comporta però, per coloro che lo diverranno, ricevere il battesimo «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», cioè, come accennato sopra in riferimento a Giovanni, implica la libera adesione di ogni persona ad accogliere l’invito da parte di Dio di diventare suoi «figli».
Solo questi primi elementi potrebbero essere una buona base per riflettere su quale è stata nei secoli l’azione missionaria della Chiesa, che cosa comporta l’«essere in cammino», che cosa sia davvero l’inculturazione «evangelica»; ma andiamo avanti.
L’ultimo elemento che «produce» il discepolato è «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato». Il discepolato richiede una conoscenza e una formazione adeguata, senza le quali non vi può essere una vera condizione di libertà, che permetta una decisione consapevole e responsabile nell’aderire al dono della «figliolanza» che il battesimo produce. Centrali dunque sono la formazione, l’insegnamento, e la conoscenza che da questi deriva.
A questo proposito è illuminante il passo molto famoso, ma anche spesso e volentieri non compreso correttamente, di sant’Agostino: «Intellege ut credas, crede ut intellegas» (Comprendi per credere, credi per comprendere; Sermones 43, 7, 9). Ed è lo stesso Agostino a spiegarne il senso: «Voglio dirvi brevemente come si debba intendere l’una e l’altra espressione perché si eviti il contrasto. Comprendi la mia parola, affinché tu possa credere; credi alla parola di Dio per poterla comprendere».
Vi è dunque una mediazione umana, utile e indispensabile proprio perché necessaria a comprendere, che i discepoli (di ieri come di oggi) devono offrire a tutti coloro che lo desiderano; una formazione che non sostituisce, ma anzi apre alla propria libera adesione di fede, ovvero alla possibilità di comprendere la parola di Dio, l’annuncio evangelico.
Il mandato missionario, l’azione evangelizzatrice che il Risorto affida ai suoi discepoli non può pertanto prescindere, ma anzi si fonda sull’importanza di offrire una vera e sostanziale formazione affinché, nella libertà che la conoscenza produce, ci possa essere un’autentica adesione di fede. C’è allora da chiedersi: quanto, nella Chiesa, si è investito o si investe nella formazione del popolo di Dio? E quanto questa mancanza ha a che fare con una sempre maggiore carenza di «fedeli»? Forse dovremmo ancora riflettere su quanto, in un altro passo, sant’Agostino scrive: «La fede richiede istruzione» (Sermones 272, 1).
Ester Abbattista, biblista
ECUMENISMO
50 anni di comunione ritrovata
I due rami principali della Riforma protestante del ’500, quello luterano – che come dice il nome stesso deriva dal riformatore tedesco Martin Lutero – e quello riformato, frutto dell’opera dello svizzero Zwingli (e in seguito del francese Calvino), si erano divisi sin dal 1529, quando al colloquio di Marburgo tra Lutero e Zwingli emersero insanabili divergenze, in particolare sulla comprensione della Cena del Signore. Per Lutero infatti nel pane e nel vino della Cena si doveva ravvisare una “presenza reale” di Cristo, mentre per Zwingli si trattava di una presenza spirituale.
Questa diversa concezione della Cena e altre piccole differenze hanno impedito per secoli la piena comunione tra luterani e riformati, anche se non è mai mancata, tra di loro, una solidarietà di fondo, e sin dal XIX secolo sono state create Chiese protestanti unite, come quelle di alcune regioni della Germania. Poi, nel 1948, le Chiese regionali luterane, riformate e unite hanno creato un unico organismo, la Chiesa evangelica in Germania (Ekd). Ma la controversia del XVI secolo è stata superata globalmente e completamente solo cinquant’anni fa, nella primavera del 1973, quando i rappresentanti delle chiese luterane, riformate e unite di tutta Europa (e di alcuni altri paesi), riunite a Leuenberg presso Basilea hanno sottoscritto la cosiddetta Concordia di Leuenberg, che sancisce la piena comunione ecclesiale tra i due rami storici della Riforma, e il conseguente pieno riconoscimento dei rispettivi ministri.
Con la Concordia del 1973 le chiese hanno riconosciuto che le differenze dottrinali del passato – oltre che sulla Cena, anche su taluni aspetti della cristologia e sulla predestinazione – non hanno più rilevanza oggi. Certo, il documento constata che «rimangono considerevoli differenze tra le nostre chiese nelle forme del culto, nei tipi di spiritualità e nella disciplina ecclesiastica» (Concordia di Leuenberg, § 28). Ma tali differenze non costituiscono fattori tali da impedire la piena comunione. Ecco perché, a trent’anni dalla sottoscrizione della Concordia, nel 2003, le chiese firmatarie hanno costituito una vera e propria comunità di chiese, la “Comunità di chiese protestanti in Europa” (Cpce), a cui aderiscono 105 chiese in rappresentanza di circa 50 milioni di fedeli.
Ma perché è importante la Concordia di Leuenberg? Perché rappresenta un modello di unità praticabile subito, senza aspettare tempi “biblici”; un’unità che non è uniformità livellante, che non appiattisce tutte le differenze ma consente di essere uniti anche nella diversità. Lo ha spiegato bene il teologo valdese Fulvio Ferrario intervenendo recentemente alla rubrica evangelica “Tempo dello Spirito” della Radio Svizzera Italiana: «La Concordia stabilisce che ci sono delle differenze teologiche che possono rimanere, senza che esse abbiano un significato tale da dividere la chiesa. In altre parole, il messaggio di Leuenberg è questo: la diversità è positiva, la divisione è negativa».
Dopo un primo simposio teologico che si è svolto a marzo, le vere e proprie celebrazioni del cinquantenario avranno luogo il 4 e 5 luglio a Vienna, con un incontro dei leader delle chiese membro sul tema: «La missione delle Chiese protestanti in Europa oggi»
Luca Maria Negro, pastore “Riforma” 19 maggio 2023
settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202305/230516negro.pdf
Card. Nichols, “il dialogo ecumenico ha trasformato cattolici e anglicani”
Il card. Vincent Nichols (α1945) arcivescovo di Westminster
“I rapporti della Chiesa cattolica di Inghilterra e Galles con la Chiesa d’Inghilterra, fondata da Enrico VIII, di solito, sono molto buoni. C’è stato un cambiamento radicale nel corso della mia vita. Quando ero ragazzino, poiché ero cattolico, mi veniva proibito di entrare in qualunque chiesa che non appartenesse alla Chiesa di Roma. C’era una regola precisa, che i cattolici dovevano seguire, che diceva che non potevamo frequentare altre chiese cristiane e pregare con altri cristiani”. A qualche giorno dall’incoronazione del sovrano britannico, durante la quale ha benedetto il nuovo re Carlo III, il cardinale Vincent Nichols, primo primate cattolico della storia del Regno Unito a compiere questo gesto, fa un bilancio dei rapporti tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di stato inglese, fondata da Enrico VIII, nel 1534, in un atto di ribellione a Roma.
“Il cambiamento, nei rapporti tra le due Chiese, è cominciato negli anni precedenti il Concilio Vaticano II ed è stato poi pienamente espresso, nella Chiesa cattolica, con il decreto sull’ecumenismo del Concilio. Dagli anni Quaranta questo cambiamento è stato pensato ed esplorato. Da allora la collaborazione tra le due Chiese è cresciuta in continuazione e ha dato vita a tante iniziative comuni, non soltanto tra cattolici e anglicani, ma anche con tutte le altre chiese cristiane di questo Paese”, spiega Nichols al Sir. “Ecco perché mentre durante l’incoronazione di Elisabetta II, nel 1953, sarebbe stato impensabile, per un primate cattolico, partecipare a questa cerimonia, oggi, nel 2023, sarebbe stato impensabile, per un primate cattolico, non partecipare. E questo è il modo in cui i rapporti sono cambiati nel corso di settant’anni”.
Come procede, oggi, la collaborazione tra le due Chiese?
C’è un dialogo strutturato, costante, tra la comunione anglicana e la Chiesa cattolica, che avviene nella Commissione internazionale anglicana-cattolica “Arcic”. Qui vengono esplorate le questioni dottrinali. Poi c’è un livello molto locale, che coinvolge i leader delle due Chiese e le parrocchie e i fedeli, dove la collaborazione è costante. L’organizzazione che si occupa di questa dimensione, promuovendo preghiere, attività sociali e progetti di collaborazione comuni tra le varie Chiese cristiane è “Churches Together in Britain and Ireland”. Oggi è normale, per noi cattolici, lavorare con gli altri cristiani e, per me, incontrare regolarmente il primate anglicano Justin Welby.
Direbbe, quindi, che il progresso, nel dialogo ecumenico tra le due Chiese, durante la sua vita, è stato straordinario?
Sì. Direi che ha trasformato le nostre due Chiese.
E se dovesse dire qual è la questione più importante, dal punto di vista dottrinale, che deve essere risolta?
Penso che, per noi cattolici, è l’Eucarestia che fa la Chiesa e la Chiesa che fa l’Eucarestia e, quindi, per noi, la cosa più importante è la comprensione del dono che è l’Eucarestia.
Che cosa pensa dello stato di salute del cattolicesimo in questo Paese?
Penso che, negli anni più recenti, la comunità cattolica sia cresciuta nel suo contributo che dà alla società civile. Con 2.000 scuole pubbliche, primarie e secondarie, sovvenzionate dallo Stato britannico, ma gestite dalla Chiesa, siamo presenti, in modo significativo, nel settore dell’istruzione. La Chiesa cattolica può contribuire a una società britannica in profondo cambiamento nella sua composizione demografica e sociale perché siamo una comunità composta da persone che arrivano da tutto il mondo.
Nell’arcidiocesi di Westminster, da me guidata, spesso i cattolici provengono da trenta o quaranta diverse nazionalità. Siamo il simbolo di una società integrata. Penso anche che i cattolici, in questo Paese, siano sicuri della loro fede, anche se sanno che sono un po’ diversi. Diversi perché sono sopravvissuti a centinaia di anni di persecuzioni. Soprattutto nel sedicesimo secolo molti preti hanno vissuto il martirio e molte famiglie cattoliche sono state imprigionate e hanno subito violenze. Questa memoria storica è ancora viva e, per questo motivo, i cattolici, nel Regno Unito, non danno per scontata la loro fede e accettano di essere diversi, un po’ segnati rispetto al resto della società. Ci vuole coraggio per vivere con tutto questo e penso che i cattolici di questo Paese ce l’abbiano.
Silvia Guzzetti Agenzia SIR 19 maggio 2023
www.agensir.it/europa/2023/05/19/regno-unito-card-nichols-il-dialogo-ecumenico-ha-trasformato-cattolici-e-anglicani
FAMIGLIA
Il nuovo volto della famiglia post-moderna
Una Chiesa che ha il coraggio di farsi domande anziché imporre risposte.
È questo il profilo che emerge da “Famiglie alla ricerca di Dio”, il nuovo libro di
Philippe Bordeyne, (α1959 – vocazione ad ulta), che, coerentemente con il percorso intrapreso dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di cui è preside, propone teoria e pratica della famiglia, affiancando la teologia e la pastorale, la riflessione dottrinale al confronto concreto con la realtà delle famiglie, prendendo di petto questioni scottanti come divorzio, omosessualità, convivenza, ma anche edonismo, individualismo, secolarizzazione, teoria gender, abusi sessuali e l’accusa rivolta alla Chiesa di voler mantenere un dominio sulle coscienze.
Con una scelta di grande significato Bordeyne ha voluto che a presentare il libro all’Istituto Jp2 fossero due studenti laici – l’ucraina Lidiia Batig e il canadese Julian Paparella – entrambi dottorandi, in una singolare conferenza guidata da Vincenzo Rosito e Riccardo Prandini nella quale, in un’ottica sinodale, è stato lasciato anche lo spazio per discussioni in gruppo.
«La famiglia discende dal matrimonio o prescinde dal matrimonio?», si chiede il teologo francese. Che prende atto di come, nonostante l’impulso pastorale del Concilio Vaticano II, la Chiesa fatichi ancora a «risvegliare il desiderio di matrimonio » a partire delle «realtà familiari già vissute al crocevia dei misteri dell’amore e della vita».
«La Chiesa deve insegnare alla famiglia ma anche imparare dalla loro esperienza»,
osserva Lidiia Batig
«Ma come fa la Chiesa, che vive di stabilità, ad adattarsi a una società ultra accelerata in cui l’unico punto fermo è il cambiamento?», si chiede
Riccardo Prandini (α1997), ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi- Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Università di Bologna
Bordeyne invita a liberarsi di una visione romantica e chiusa dell’amore, evocando una famiglia aperta al mondo anche nell’impegno civile, e chiama in causa la difesa dell’ambiente e dei diritti sociali (con esempi concreti, come l’acquisto dei prodotti a chilometro zero e la giusta retribuzione per la babysitter), analizza la tensione in cui vive la coppia «tra ricerca di autonomia e ricerca del legame», sposta l’accento da una visione idealistica del matrimonio alla realtà concreta delle famiglie, in tutta la loro imperfezione: «Il fatto che l’amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale», recita Amoris Lætitia. «Il segreto della felicità – scrive Bordeyne – consiste quindi nell’accettare questa fragilità per poterla gestire al meglio». Occorre poi inventare nuovi modi di presentare la sessualità, mentre oggi «viene offerta ai giovani come un insieme di azioni orientate alla performance e al piacere ma scollegate dal vero amore. Dopo i primi momenti in cui predomina un’attrazione marcatamente sensibile, si passa al gusto della reciproca appartenenza, poi alla comprensione della vita intera come progetto di entrambi e alla capacità di porre la felicità del proprio matrimonio come un bene per la società».
Il preside del Jp2 cita Johann-Baptist Metz, che cinquant’anni fa lanciava l’appello per una “teologia della vita vissuta” e Lisa Sowle Cahill che già nel 1996 sosteneva l’importanza di dare supporto al «lavoro morale che fanno le famiglie monogenitoriali, quelle ricostituite dopo un divorzio e le coppie omosessuali costituite in famiglia attraverso l’adozione».
Bordeyne si sofferma anche sull’importanza della liturgia e dell’inculturazione, citando il teologo nigeriano Stan Chu Ilo, ricorda l’importanza di «una pastorale dell’accoglienza, della misericordia e della riconciliazione», per chi vive nelle periferie esistenziali. Insiste sull’importanza di ascoltare le persone «impegnate in stili di vita diversi da quanto viene raccomandato dalla Chiesa, sospendendo il giudizio preventivo». «In un mondo in cui oltre il 40% delle unioni nei paesi occidentali finisce con il divorzio, non è più possibile ignorare che la separazione è un orizzonte possibile per il matrimonio»; e sottolinea il valore, in un percorso di crescita, «di ogni forma di unione civile stabile».
Se Giovanni Paolo II invocava la «pedagogia della Chiesa», volta a vigilare affinché i fedeli «sinceramente
si impegnino a osservare le norme», Francesco pone l’accento sulla responsabilità dei soggetti nonostante i loro limiti, con «una pastorale familiare che tiene maggiormente conto della diversità delle traiettorie familiari».
Julian Paparella, da parte sua, racconta una parabola che mette a confronto due famiglie; una cattolica praticante in cui i genitori sono assenti e i figli passano il tempo sullo smartphone, e una non religiosa, con matrimonio civile e nessun sacramento, ma in cui tutta la famiglia fa volontariato insieme: «Quale delle due famiglie è alla ricerca di Dio ed è testimone più credibile del Vangelo di Gesù?».
Arnaldo Casali Avvenire 14 maggio 2023
www.istitutogp2.it/wp/wp-content/uploads/AVVENIRE_Bordeyne_14052023.pdf
Un baratro tra etica sessuale e realtà
Le coppie che oggi si presentano all’altare per pronunciare un “sì” per sempre, sono davvero consapevoli di ciò che significa il matrimonio cristiano? Oppure, come è convinta
Julia Knop, (α1977), docente di teologia dogmatica all’Università di Erfurt, in Germania, auspicano «in un senso piuttosto indeterminato protezione e benedizione per la relazione». Una posizione, osserva la teologa, che ci dimostra come si sia ormai spezzato il rapporto tra modello e realtà, tra dottrina e vita, tra le rappresentazioni sociali e le concezioni ecclesiali della vita di coppia e di famiglia. Di conseguenza, quando le norme ecclesiali perdono plausibilità di fronte ai cambiamenti sociali, occorre pensare a come preparare una svolta credibile. Per approfondire un tema tanto complesso l’esperta ha scritto un saggio, “Teologia delle relazioni. Matrimonio, vita di coppia, famiglia” (Queriniana, pagg. 373), in cui partendo dal dibattito innescato da Amoris lætitia, si chiede come la teologia possa accompagnare le trasformazioni in corso per avviare «un dialogo costruttivo tra vita e dottrina, esperienze umane e rito ecclesiali, sviluppi della società e riti della Chiesa». Una riflessione che, a suo parere, deve cominciare dallo stesso lessico impiegato. Oggi nel linguaggio comune, spiega Julia Knop, il termine “famiglia” non designa più soltanto l’unione di genitori sposati con figli, ma “la “famiglia” può essere compresa a partire dalla genitorialità fisica o sociale o, in senso ancora più ampio, a partire dalla solidarietà cosciente di una comunità che unisce più generazioni». Un pluralismo di significati che non può lasciare indifferente il pensiero della Chiesa sul tema. «Una teologia adeguata al nostro tempo – scrive – non può esimersi dall’affrontare anche questo evidente baratro tra l’etica sessuale e la teologia del matrimonio proposta dal magistero, da una parte, e la vita vissuta e responsabile della (maggior parte) dei fedeli dall’altra, e analizzare le tensioni che ne derivano». Da qui la necessità di svolte coraggiose – come appunto quelle avviate da due sinodi sulla famiglia poi sintetizzate nell’esortazione postsinodale di papa Francesco – e di proposte nuove che riescano a concretizzare quanto lo stesso pontefice ha chiesto nell’introduzione di “Veritatis Gaudium” per «contribuire alla comprensione, alla traduzione e all’inculturazione della fede nel nostro tempo e nei nostri contesti».
In questa prospettiva Knop indaga le opzioni offerte dall’ecumenismo, affronta il percorso dell’antropologia cristiana dalla “Casti Connubi” di Pio XI (1930) fino a papa Francesco che con “Amoris lætitia” (2016) ha messo al centro la vita di coppia e di famiglia senza trascurare i cambiamenti in atto. Tanti, in questo excursus, gli approfondimenti proposti dalla teologa che meriterebbero di essere ricordati: dal paragrafo sull’omosessualità a quello sulla pianificazione familiare. Due temi a lungo dibattuti, con tutto il loro carico di problematicità e di connessioni etiche, tra le resistenze al cambiamento e il dovere di prendere atto della realtà che, inesorabile, si incarica di mostrare come la forbice tra direttive dottrinali e coscienza soggettiva sia sempre più vasta. Nel saggio si prendono in esame altre questioni non ancora abbastanza considerate dalla teologia, a cominciare dalla condizione dei single che oggi, in molte società, rappresentano almeno un terzo della popolazione, considerando le tante relazioni interrotte, i fallimenti, le situazioni che intervallano le storie personali secondo una biografia sentimentale della discontinuità a cui è sempre più difficile applicare le norme morali della sessualità.
A fronte di un quadro sociale sempre più variegato, quasi impossibile da determinare in base ai vecchi schemi del giuridicismo, la teologa si chiede quando sia umanamente ragionevole «parlare in modo normativo su questioni sessuali e di etica della relazione», «giudicare le deviazioni da tale norma e punirle con sanzioni, per esempio, in questioni relative al diritto ai sacramenti (ammissione all’Eucaristia e al matrimonio)». Importanti anche le questioni sollevate nell’ambito delle prospettive bibliche e teologico-dogmatiche, in capitoli densi di riferimenti e di citazioni. Tra i tanti interrogativi quello relativo alla raccomandata estensione sacramentale della vita comune degli sposi. Un conto spiega Julia Knop, è il matrimonio sacramentale come realtà di fede, un altro è descrivere tutta l’esistenza della coppia come “sacramento permanente”. Si tratta, spiega ricollegandosi a vari passaggi di Amoris lætitia, di una richiesta eccessiva. «La promessa accordata con la benedizione e il sacramento non è la sacralizzazione di una biografia (di coppia) o di una forma di vita». Sullo sfondo la grande questione della coscienza a cui papa Francesco, riprendendo il Vaticano II, è tornato ad attribuire rilevanza irrinunciabile, sollecitando un cambiamento di mentalità aperto alla complessità e alla varietà esistenziale. In questa disponibilità all’accoglienza e alla comprensione della vita di coppia in tutte le espressioni della sua fragilità, conclude la teologa, si gioca la credibilità della proposta “familiare” della Chiesa nel XXI secolo.
Luciano Moia Avvenire 14 maggio 2023
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Pastorale coniugale? Creatività e innovazione
«Oggi non è più possibile affidarsi a una teologia e a una pastorale del matrimonio come quelle praticate fino ad ora: occorre percorrere nuove strade più creative e mettere al centro la vita quotidiana, prima di presentarlo come sacramento». In “Famiglie alla ricerca di Dio”, pubblicato da Studium, Philippe Bordeyne affronta tutte le grandi questioni della famiglia nel mondo contemporaneo affiancandole a proposte concrete, come la gestione del battesimo dei figli di coppie non sposate, una cerimonia religiosa per le adozioni o celebrazioni per la festa di San Valentino, matrimoni collettivi a costo zero come quelli che si svolgono in Kenya e la “festa dell’alleanza” in cui gli sposi sono accompagnati dalla loro prole.
«Il vero amore – scrive il teologo, già direttore dell’Istituto Cattolico di Parigi – vede la sessualità come un
“diritto alla felicità” di ciascun essere umano».
- Cas. Avvenire 14 maggio 2023
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
La «conversione» di Francesco sugli abusi
La crisi degli abusi nella Chiesa, di una gravità tale che «ha in gran parte causato le dimissioni di Benedetto XVI», è un problema ancora aperto, ma il processo sinodale in corso può dare un grande contributo alla sua soluzione. il canonista e officiale del Dicastero per la dottrina della fede Jordi Bertomeu Farnós ha ricostruito il percorso di coscientizzazione della Chiesa cattolica, nelle sue istituzioni e nei suoi leader, nei confronti del grave problema degli «abusi sessuali, di potere e di coscienza» (secondo la definizione di Francesco) al suo interno. Percorso nel quale ha avuto un ruolo decisivo quella che il papa stesso ha definito in una recente intervista come la propria «conversione». La ricostruzione offre l’occasione all’autore per evidenziare alcuni «aspetti specifici ancora da analizzare e risolvere», nonché per osservare che «l’attuale esperienza sinodale come “espropriazione pneumatologica” può essere una metodologia ottimale per approfondire la risposta agli abusi».
Proponiamo un estratto del saggio, rimandando a «Documenti» di maggio per la lettura completa. (D.S.)
La crisi degli abusi e una chiesa «ingenua». Benedetto XVI, sulla base della sua esperienza di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (CDF) e di papa, ha evidenziato nel 2019 che la causa del fenomeno della pedofilia clericale, con un aspetto marcatamente omosessuale, è stata il crollo della morale cristiana dopo il «maggio 1968».
Un anno prima, durante l’Incontro mondiale delle famiglie in Irlanda, Francesco aveva affermato davanti a un gruppo di gesuiti: «Ho capito molto chiaramente una cosa. Questo dramma degli abusi, soprattutto quando è di grandi proporzioni e produce un grande scandalo, ha alle spalle situazioni ecclesiali segnate dall’elitarismo e dal clericalismo; l’abuso sessuale non è il primo, ma lo è quello del potere e della coscienza» (25 agosto 2018).
Senza cedere a un’interessata e sterile contrapposizione, le due diagnosi permettono di porsi l’interrogativo sull’origine e lo stato attuale della crisi degli abusi.
La «conversione» di un papa ottuagenario. Il fenomeno della crisi degli abusi è scoppiato nel 2002, e fino al 2012 è stato un fenomeno anglosassone e mitteleuropeo. Invece Francesco l’ha visto diffondersi in Spagna, Italia, Portogallo, Francia, America Latina e in alcuni paesi africani e asiatici. Accade in un’«era digitale»: la sua influenza va oltre la liquidità delle relazioni (Zygmunt Bauman), poiché le tecnologie dell’informazione e della comunicazione favoriscono anche nuovi paradigmi politici. Tra questi l’emergere di potenze antiliberali come la Cina o la Russia e il populismo autoritario che, attraverso l’ingegneria sociale, s’infiltra nelle democrazie occidentali. Tali correzioni alla profetizzata «fine della storia» o all’imposizione della democrazia liberale (Francis Fukuyama) sollevano nuovamente la questione dell’esercizio del potere e dei suoi abusi.
In questo nuovo contesto storico il papa, di matrice gesuitica, non solo ha gestito i nuovi casi di abuso come hanno fatto i suoi due immediati predecessori. Ha fatto un passo in più: quando ha scoperto il loro «insabbiamento» in una Chiesa a volte sorda o contaminata dalla mondanità e dalla corruzione, in età avanzata ha reagito.
Il dialogo con Nicole Winfield. Come lui stesso ha affermato di recente, «è lì che mi sono convertito, nel viaggio in Cile»: «Sono dovuto intervenire, e questa è stata la mia conversione, durante il viaggio in Cile. Non ci potevo credere. Sei stata tu a dirmi sull’aereo: “No, non è questo il modo di procedere, padre”. Sei stata tu. Ho detto: “È una ragazza coraggiosa, vero?”, ricordo. Ce l’ho davanti. E sono andato avanti e ho detto: “Cosa devo fare?”. La testa così (fa un gesto di esplosione). È stato allora che è esplosa la bomba, quando ho visto in questo la corruzione di tanti vescovi. Bene, per cominciare, pregare. Ho chiamato qui tutti i vescovi e abbiamo iniziato un lavoro che non è ancora finito. Ma lì hai visto che io stesso mi sono dovuto svegliare di fronte a casi che erano stati tutti insabbiati, giusto? Bisogna scoprire ogni giorno di più» (Intervista a Nicole Winfield dell’Associated Press, 24 gennaio 2023).
Abuso ecclesiale: solo un «aneddoto»? Far parte di una cultura abusiva fondata su ideologie che distruggono la dignità delle persone non è una scusa per gli abusi ecclesiali e la mondanità. Senza essere sistemica, poiché la Chiesa è la comunità dei peccatori toccati dalla grazia del Risorto, la passività davanti alle vittime mostra gravi difetti strutturali che atrofizzano la proposta evangelica. Uno di questi è la tendenza al corporativismo: sarebbero casi specifici, aneddotici, anche imprudenze o semplici comportamenti inappropriati. Tuttavia un singolo caso può distruggere il tessuto della fiducia ecclesiale e delle iniziative pastorali più consolidate.
Invece di avere all’orizzonte una «cultura della cura», cercando di non esporre il popolo di Dio al pericolo di soprusi e scandali, alcuni si mantengono in una modalità autoreferenziale, paralizzati dalla paura dello scandalo, e diventano insensibili alle vittime. Con dissimulazioni, eufemismi e anche con una certa paranoia, spiegano il fenomeno come una persecuzione ideologica. In altre occasioni, certe richieste di perdono o altisonanti annunci di forzate misure legali o preventive sono percepiti come egoistici, opportunistici e insinceri.
Crisi di abuso o crisi di fede? Come afferma Francesco nelle sue fondamentali “Lettere della tribolazione” (2018), la mediocrità spirituale impedisce la conversione personale e, quindi, la soluzione dei problemi causati dal nostro peccato. Senza un serio discernimento spirituale o compassione o misericordia, le vittime continuano a essere etichettate come nemici ecclesiali e i loro aggressori come soggetti imprudenti che vanno tollerati per le loro trasgressioni del celibato.
Dov’è l’amore e l’obbedienza a Gesù Cristo, l’unico che può indicarci la retta via? La mancanza di misura morale del nostro mondo edonistico e relativista è un sintomo inequivocabile dell’assenza di Dio. È una società di adulti che vuole vivere l’eterna giovinezza, il nuovo Peter Pan che rinuncia a generare e accompagnare nuove vite perché vuole vivere solo senza preoccupazioni (Armando Matteo).
Tra molte altre deviazioni sessuali, ci sono alcuni individui che sono attratti eroticamente dai minori. Un fenomeno diverso è quello dei pedofili, che compiono abusi criminali anche senza sentirsi sessualmente attratti dalle loro vittime. La crisi che hanno causato alcuni religiosi pedofili non è semplicemente disciplinare. Da un lato manifestano la stessa malattia di una civiltà che non reagisce al suicidio demografico, che promuove l’aborto come tecnica contraccettiva o che giustifica i rapporti sessuali con minori, per definizione vulnerabili. Dall’altra, come intuì a suo tempo il card. Joseph Ratzinger, è una crisi di fede.
Cercare le cause con coraggio e onestà. Spesso ci si lamenta della mancanza d’incidenza della proposta cristiana e si diventa sempre più irrilevanti in un mondo bisognoso di senso. Perdiamo credibilità, a volte a passi da gigante, senza voler riconoscere che la crisi degli abusi sessuali ha molto a che fare con questo. Perché un mondo che in modo insensato promuove il sesso libero fin dall’adolescenza agisce poi con tanta violenza contro la pedofilia clericale? È per ipocrisia? Se «evangelizzare è penetrare nella cultura dell’uomo» (Paolo VI), non possiamo ignorare che ciò che oggi è intollerabile, per molti, non è il sesso con minori ancora immaturi che hanno bisogno di scoprire le vere potenzialità del pudore e dell’amore oblativo. L’insormontabile «linea rossa» è quella di minacciare la loro libertà presente e futura, di fare ciò che vogliono con il sesso. A maggior ragione se l’aggressore è un chierico, «stereotipo moralizzatore onnipresente» (Marco Marzano).
Affrontare la crisi degli abusi dal punto di vista del ricco patrimonio dottrinale e morale della Chiesa non indebolisce l’istituzione. È piuttosto l’occasione provvidenziale per mettere in luce quei difetti strutturali che impediscono l’annuncio gioioso del Vangelo in un mondo abusivo: dinamiche autoritarie inconciliabili con la sensibilità attuale, che nascondono vulnerabilità, decisioni senza trasparenza o coerenza con quanto annunciato nel nome di Cristo.
Jordi Bertomeu Farnós (α1968) Canonista – officiale Dicastero Dottrina della fede
RELIGIONE
Le religioni /9. Fra nuova paganità e sana leggerezza umana
Nona puntata del percorso di riflessione teologica sul post-teismo, nuovo e affascinante volto della ricerca teologica contemporanea, curato da Giusi D’Urso, aderente all’Osservatorio Interreligioso sulle violenze contro le donne (OIVD).
In questo numero un articolo di Sandrino Minerbi, nato a Faenza nel 1988, membro della Chiesa valdese, dottorando in studi giuridici. Al momento si occupa di agricoltura, recuperando la tradizione di famiglia.
Essere cristiano oggi e per giunta protestante, può esercitare una forte curiosità, presso chi non lo è, curiosità che degrada in un sentimento superficiale e un poco naif. Non è affatto sempre così. Per me che vivo nell’Appennino tosco-romagnolo, essere protestante vuol dire vivere la propria religiosità in una sorta di anonimato, che mano a mano si disvela, per divenire stimolante per il prossimo.
Per molti cristiani, oggi accerchiati da questo post-modernismo globalizzante, sarebbe invece più utile sentirsi come a volte mi sento io: un briciolo di lievito, frammezzo dell’impasto sociale. La mia cristianità, mi pesa non poche volte, perché il messaggio di Gesù gode di una pretesa etica quasi assoluta ma costantemente bilanciata, da una buona consapevolezza del limite umano. Forse è questa tensione che mi sorregge e tuttavia mi spinge costantemente verso qualcosa di più leggero, di più spiritualmente praticabile. Avete notato quanto le tradizioni orientali vadano oggi? Mi sono domandato il perché: oltre agli insegnamenti dottrinali, lo yoga, il buddismo, per non spostarci sulle correnti neopagane, trasmettono pratiche. Sì! Metodi di esercizio, conoscenza, controllo della propria energia vitale. Ecco che il corpo diviene un tuo alter-ego con cui parlare. La natura da oggetto, acquista una soggettività che quanto meno, ti fa sentire meno solo, con la tua esigenza etica. La senti co-partecipe dell’esistenza. A volte penso che se anche il cristianesimo si fosse concentrato più sull’ascolto sincero del cuore, il necessario mettere in asse quest’ultimo con la ragione, piuttosto che immensi studi teologici, apologetica, mistica, aspirazioni di santità, una visione politica della cristianità, ora invece, avrebbe potuto competere seriamente, col risveglio di queste religioni levantine e autoctone. Nella pratica si sarebbe rivelata un’esegesi costante del ragionevole amore di Dio.
Dico ragionevole poiché per quanto la teologia si impegni a farci sentire la grandiosità del suo amore, l’amore di Dio è semplice. Una semplicità disarmante fatta di sentire cuore a cuore e di costante rovesciamento delle nostre intuizioni, sul prossimo, sulla vita, sul fine ultimo. Questa consapevolezza, trasmessa al prossimo, varrebbe molto più di incantesimi e meditazioni profondissime. Sarebbe essa stessa, incantesimo e meditazione costante. Permetterebbe di riscoprire la sacramentalità della vita cristiana oltre i sacramenti storici, oltre i riti e le teologie. Sapere che se spezzo il pane fra amici c’è Gesù; perdonarsi reciprocamente con amore fraterno è già sacramento della riconciliazione; intingere il boccone al nemico è sacramento dell’amore, quindi connettere il tutto, alla propria energia, al proprio vissuto, cambierebbe il modo di vivere il cristianesimo di oggi: così politico, così razionale, così impegnato, così ignavo perché chiuso in estenuanti riflessioni su ciò che sia abbastanza cattolico, abbastanza ortodosso, abbastanza riformato, abbastanza umano.
Il pensiero di Gesù deve ancora essere scoperto nella sua vera dimensione culturale: la pedagogia. Ancora ne parliamo addirittura quale scienza teologica o dottrina. Io invidio un poco i neo-pagani, che seppur non avendo Gesù “danno del tu” alla Terra. Invidio gli orientali che abitano l’infinito nel proprio corpo e nel pensiero. Tante volte vorrei pensare meno a Gesù, meno adeguarmi a quello che potrebbe essere il suo pensiero e semplicemente vivermelo ed esercitare la Sua vitalità con il cuore dell’uomo, esattamente come le streghe di oggi vivono e respirano in sé medesime la natura; come i sufi, baciano l’eterno senza vergognarsi di essere meno logici. Trovare nella scienza un riflesso della sapienza evangelica ed amore alla verità, senza per questo essere visto come scientista.
Vorrei quindi essere strega, sufi e scienziato, filosofo greco perché amo tutte queste cose, non come le amano i loro praticanti, ma come le amerebbe Gesù: incondizionatamente e con spirito di verità. Già questo anelito ti rende lievito fra gli esseri umani.
Voglio soffermarmi ulteriormente sul concetto di pedagogia evangelica. Certamente non è la prima volta che questa parola emerge in ambito cristiano ma un conto è farla permutare da un ragionamento teologico, e un conto è estrarre la pedagogia umana direttamente dagli evangeli.
Cosa cambia? Il metodo. Nel primo caso la teologia, come forma autonoma di pensiero rispetto a tutte le altre prodotte dall’uomo, si pone a garanzia della comprensione del testo e del disposto divino. Ciò sottende alla necessità di evitare che il pensiero umano coincida esattamente con il pensiero di Dio, l’eternamente altro da noi. Tuttavia la teologia nasce applicando la filosofia alla Scrittura e in certi casi anche alla tradizione ecclesiastica.
Qui il punto: perché non applicare l’arte della pedagogia alla comprensione delle scritture evangeliche? Mi si potrebbe ribattere che già la teologia può supplire a ciò oppure che la stessa è più indicata. Qui però non si sta parlando di sostituzioni di materie con altre ma di avvicinarsi ulteriormente al significato del testo. Gesù, il maestro, non ha insegnato semplicemente una forma di pensiero o una interpretazione della realtà, ma ha sottolineato anche (e soprattutto) modi di sentire il mondo, ha fornito esempi comportamentali.
Insomma, a oggi, che sono emerse già da due secoli le cosiddette scienze umane, è probabilmente per mezzo di esse, tra cui in primis la pedagogia, che vanno riletti gli episodi di Gesù. La teologia può forse dirci i perché ma in che modo, l’essere umano che Gesù vuole emerga in noi, ci può essere meglio pennellato da un approccio “umano a umano”, fra noi oggi e Gesù.
Perché privilegiare la pedagogia? Perché non è un’arte che insegni idee o che trascini pensieri e folle, mancante di un’impostazione ideologica (altrimenti sarebbe banale istruzione) la pedagogia spinge a far nascere in noi le verità che ci sorreggono. Il docente infatti è colui che ci “duce”, conduce. I piani dell’umano coinvolti divengono due: il profondo del nostro sé e il piano orizzontale della relazione. La relazione, dimensione totalmente sofferente in questi tempi, spinge a conoscere e uscire da noi, divenendo altro.
Pensateci bene: è il processo che Dio ha compiuto nel farsi uomo. È uscito da come Dio può essere ragionevolmente pensato dall’uomo, per farci vedere cos’è nel suo profondo, assumendo la natura umana. Non è forse questo un metodo pedagogico? Se questa esperienza umana abbia nel profondo cambiato Dio, questa è una supposizione che quasi tutte le teologie non ammettono. Come se parlassero tutti giorni col Signore, da sapere i suoi pensieri circa il suo trascorso vissuto terreno!
Tuttavia, è lecito pensare che nella vicenda del suo Figlio, il Signore ha portato a compimento un suo ragionamento, che non è un soliloquio ma un dialogo tra sé stesso e la realtà tutta: la libera creazione. Dialogo che ci impegna e ci educa. Il Signore ha dimostrato quanto meno di saper portare avanti le proprie convinzioni sull’uomo; non si è semplicemente limitato a confermarle. Questo ahimè lo sanno fare troppo bene le religioni e le ideologie. Il Signore ha fatto ciò toccandoci nel vivo della nostra essenzialità.
Ecco che i segni della Chiesa non possono più rimanere semplici “uffici” divini. Non possono neppure divenire profonde consapevolezze da applicare a gesti liturgici che non cambiano mai. Questo lasciamolo alle altre fedi. Il cristianesimo in Gesù è una fede di atti e fatti, prima ancora che di concetti e programmi di azione. È forza che trasforma il reale, senza snaturarlo. I segni della chiesa vanno reinterpretati esattamente come Dio ha saputo reinterpretare, in piena coerenza se medesimo in Gesù Figlio. Di qui il ragionamento a superna, sul pentimento, l’eucarestia. I segni del fedele, della chiesa, sono pedagogia quotidiana e non misterica.
Considerando l’andamento delle cose nella cristianità, e osservando la tensione anche dei nuovi movimenti cristiani a volersi riorganizzare attorno alle proprie certezze, riaffermare le proprie strutture decisorie (magari svecchiandole un poco o facendo miscugli improbabili), la responsabilità di fare questo passo profondo e deciso, invece, verso una nuova interpretazione del “fare il sacro” e vivere il sacro, spetta alle Chiese riformate e protestanti in senso stretto. Loro hanno iniziato la faccenda, loro presero a cuore la questione del contenuto, prima ancora che delle forme, passando dal come si debba leggere la Sacra Scrittura. A loro sta riscoprire la pedagogia di Gesù.
Ciò lo si può fare solo ascoltando le nuove forme di sapere, umanistiche e scientifiche, considerate ma valutate ancora in una funzione ancillare ed avulsa dal Vangelo. Occorrerà anche, e in particolar modo, riallacciarsi alle proprie tradizioni del passato (proprie ed ecumeniche) perché si possa creare, questa volta, un linguaggio condiviso e comprensibile tra le varie confessioni. Nel nuovo si entra rinnovando anche l’antico e reinterpretandolo e non snobbandolo. Non si tratta di reagire alle scelte delle altre fedi, accentuando le differenze ma di fare scelte cariche di significato che indichino sentieri da battere, con l’aiuto dello Spirito Santo.
Sandrino Minerbi Adista Segni Nuovi n° 17 13 maggio 2023
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Post-teismo e dintorni. L’energia quantistica di Gesù
Il post-teismo è un nuovo paradigma, un movimento di rinnovamento in campo teologico di matrice prevalentemente anglosassone che ha aperto un dibattito largo e articolato con la pubblicazione di un volume di autori vari dal titolo “Oltre le religioni”, una nuova epoca per la spiritualità umana, pubblicato dalle Edizioni Gabrielli nel 2016.
Il nucleo del post-teismo sta nel superamento del modello teistico e dualistico del mondo. Nella modernità non è più credibile, né intellegibile sia l’idea di un Dio “personale” prodotto di una narrazione mitica e patriarcale concepita migliaia di anni fa e ancora in vigore nel magistero ufficiale e nella teologia predominante, né il dualismo naturale/soprannaturale, trascendente/immanente, materia/spirito. Dall’immagine tradizionale di Dio il post-teismo passa all’affermazione di Dio come Mistero indicibile, inconoscibile ed eterno, come “matrice” da cui emerge tutta la realtà.
La crisi che il cristianesimo sta attraversando da tempo – crisi interna ed esterna – ha portato i teologi post-teisti ad affrontare la questione e a farsene carico ripensando il cristianesimo alla luce delle nuove posizioni scientifiche, filosofiche e antropologiche. Comprendere questa corrente teologica – dai concetti difficili e destabilizzanti per chi ha avuto un’educazione cattolica classica – non è facile, anche se molti ritengono impellente la necessità di superare l’immobilismo religioso e una tradizione che troppo a lungo è rimasta bloccata in un’interpretazione, se non proprio letterale, quantomeno superata dai tempi.
Riguardo a quello che è il fatto fondante della fede cristiana – la Resurrezione – il post-teismo sta cercando di dare risposte che non risuonino miracolistiche o inaccettabili per l’uomo del terzo millennio. In questo senso sta tirando le conclusioni di tutto un lavoro scientifico fatto nel Novecento sulla Bibbia.
Il teologo gesuita Paolo Gamberini, professore alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale a Napoli, seguace delle posizioni del post-teismo, afferma che l’uomo contemporaneo non crede più nella Resurrezione come ci è stata presentata fino ad oggi, non essendo un evento storico e scientificamente verificabile. È necessario presentare le verità di fede con un’altra logica e un altro linguaggio, in particolare alle giovani generazioni ormai lontanissime da quella religiosità che ci è stata insegnata in passato e assolutamente scettiche su qualsiasi cosa che abbia del miracolistico. La Resurrezione è un fatto sovrastorico nato nella psiche e nell’immaginazione dei discepoli e le stesse apparizioni sono solo testimonianze di fede dei discepoli, risultato di riflessioni intime più profonde, oppure dei veri e propri midrash.
La fede pasquale ha fatto fare ai discepoli una rilettura degli avvenimenti successi e guardare alla vicenda e all’identità di Gesù illuminandola di una luce nuova. Dopo il 30 (anno della morte e Resurrezione) e il 70 d. C. (anno della distruzione di Gerusalemme e del Tempio e della diaspora degli ebrei) inizia un nuovo periodo per i seguaci di Gesù: il tempo delle esperienze nello Spirito.
Le riflessioni del post-teismo, secondo Gamberini, fanno parte di un cammino umano in continua evoluzione del dato di fede. Oggi non si può affermare altro che: “Gesù vive, Gesù è la vita”: questo è il modo di credere oggi alla Resurrezione, un’idea appartenente alla cultura ebraica, ma non più alla nostra. Fin dal tempo dei Maccabei Israele pensava che fosse possibile risorgere e questa credenza era ancora viva ai tempi di Gesù. Si pensava che ci fosse per certi personaggi, oltre a quella finale, anche una resurrezione “anticipatoria” Quindi la Resurrezione non era un fatto inconcepibile per un giudeo del I secolo.
Premesso questo, a differenza dei post-teisti credo che la Resurrezione, le apparizioni e i miracoli siano realmente avvenute, siano stati un fatto reale, anche se non verificabili. Forse è proprio dalla fisica quantistica che in futuro ci verrà una risposta in merito. È dall’inizio del XX secolo che abbiamo compreso le straordinarie analogie tra quanto veniva predicato dalle antiche tradizioni mistiche orientali e quanto si andava scoprendo grazie alla moderna fisica quantistica. La scienza ha rivoluzionato l’intera concezione della realtà. La fisica nucleare ci ha aperto a verità sorprendenti sulla materia affermando che tutto è energia, che ogni atomo vibra intorno al nucleo in una sorta di “danza cosmica”; che l’energia che ruota più lentamente è spessa, corporea e dà vita alla materia, mentre quella che ruota più velocemente è più sottile e dà vita agli stati spirituali. È tutto un mondo che sta al di là delle nostre percezioni sensoriali. Ci ha rivelato la sostanziale unità dell’universo le cui componenti non possono essere scomposte: tutto è collegato, tutti siamo collegati. Indagando sulla natura essenziale delle cose si è scoperta una realtà diversa dietro l’apparenza visibile.
In questa nuova visione cosmologica Dio è un tutt’uno con l’evoluzione del cosmo, è in ogni sua più piccola parte; è un’energia potente ed amorevole che pervade tutto l’universo. E cos’è questa energia amorevole? La fisica quantistica risponde: è una massa di campo quantico, infinita ed eterna.
Nessuno sa cosa sia realmente successo in quella tomba dove era deposto il corpo inanime di Gesù. La Resurrezione – quella che i discepoli chiamano “vittoria sulla morte”– potrebbe essere, per noi oggi, non tanto la testimonianza della vittoria, quanto della non esistenza della morte e le apparizioni la prova che essa è solo un passaggio da un mondo a un altro, da uno stato energetico a un altro, non a quel nulla di cui tanti parlano. Tutto nel creato è vita. È possibile che il Nazareno sia passato da questa dimensione fisica a una spirituale e che abbia assunto un “corpo etereo”, come dicono gli orientali, o un “corpo glorioso, di luce”, come diciamo noi? Se i discepoli non hanno riconosciuto il loro maestro nelle apparizioni, significa che la modalità di presenza di Gesù era cambiata. Ha sempre un corpo, ma diverso da quello di quando era in vita: ora il suo è un corpo sottile, energetico che può attraversare la materia, apparire e scomparire. Vive in una nuova dimensione non più soggetta alle leggi del tempo e dello spazio. È entrato nella vita di Dio ed è divenuto eternamente vivente. Anche i miracoli potrebbero essere spiegati in diverso modo rispetto al passato: Gesù è un’anima così perfettamente realizzata da vivere in un’unità inscindibile con l’Energia divina. Questo gli permette di essere padrone della materia e di poter superare quei limiti che appartengono alla sfera umana. Non potrebbe essere possibile che, se tutta l’energia è connessa, l’Energia divina o Spirito divino con la quale Gesù– l’uomo perfetto, il tutt’uno con l’Assoluto – ha un rapporto di particolare connessione, si sia riconnessa col corpo immoto e la carne, ricevuto il contatto, abbia ripreso vita?
D’altra parte lo stesso Gesù quando nei Vangeli dice: “Io e il Padre siamo Uno”, afferma un concetto proprio della fisica quantistica. Se le cose fossero davvero andate così, la Resurrezione non sarebbe più nell’ambito del miracoloso, ma sarebbe un fatto appartenente a una realtà che ancora non riusciamo a decifrare scientificamente. La Sindone stessa ci può illuminare su questo avvenimento straordinario. Dagli studi fatti sul telo, oggi sappiamo che il cadavere di Gesù non rimase più di 36-40 ore nella sindone perché sul lino non è rimasta traccia di putrefazione. Inoltre, l’analisi dei coaguli di sangue ci dice che quel corpo parrebbe uscito dalla fasciatura senza alcun movimento fisico, come se gli fosse stato possibile passare attraverso il telo. La stessa proiezione dell’immagine sembra dovuta ad un “irradiamento di protoni” emessi dal corpo sotto l’effetto di un’energia luminosa, sconosciuta: l’effetto foto radiante, Un’energia quantica sembra essere esplosa nel sepolcro. È solo un’ipotesi, ma non priva di un qualche fondamento.
Potrebbero esserci anche altre risposte, completamente diverse rispetto a quelle sopra descritte. Forse cercare di uniformarci alla razionalità contemporanea potrebbe rilevarsi una strada sbagliata. Una società come la nostra, che si basa esclusivamente sul metodo empirico, crede solo a ciò che è verificabile. E pur tuttavia sappiamo che nel mondo esiste anche il Mistero, qualcosa di indecifrabile che non sappiamo spiegare e davanti al quale possiamo solo rimanere in silenzio, in atteggiamento mistico. Il termine Mistero oggi non è molto amato: si ritiene che appartenga a un mondo arcaico, ormai superato. C’è però anche chi la pensa diversamente. Afferma lo psicanalista Massimo Recalcati: «L’esperienza religiosa del mondo è l’esperienza di un Mistero. Il mondo è uno splendore atroce impenetrabile».
P. Guidalberto Bormolini, monaco, teologo e antropologo, scrive: «La vita è più invisibile che visibile: o entri dentro di te alla ricerca dell’invisibile o non vivi la vita». Anche “Il Piccolo Principe” di Antoine de Sant’Exupéry lascia spazio al Mistero quando dice che «L’essenziale è invisibile agli occhi».
Daniela Nucci è studiosa di Storia locale e di Sacra Scrittura, ha lavorato nel Comune di Firenze nella segreteria del Gruppo Consiliare dei Verdi; è socia fondatrice dell’Associazione fiorentina Ecologia e Salute e del Gruppo Il Campano di Carmignano con il quale promuove iniziative di tipo culturale; dal 2020 pubblica articoli per l’inserto pistoiese dell’“Avvenire”, “Vita Nuova” e la rivista “Koinonia”.
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RIFLESSIONI
Sull’animale: non bambino, forse “antenato”?
“Il nous faudra suivre de plus près ce passage du mond muet au mond parlant”
M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible.
Il modo di dare le notizie, quando emergono da un contesto ritenuto autorevole e comunque posto sotto l’occhio della attenzione pubblica, porta spesso ad una distorsione enorme e incontrollata: una battuta (non felice, ma decontestuata) di papa Francesco su una “benedizione rifiutata” ad un cagnolino ha sollevato un grande scontro tra posizioni polarizzate: lo scandalo per la benedizione e lo scandalo per lo scandalo. La reazione raccontata dal papa riguarda il fatto che una signora gli abbia chiesto, en passant, di “benedire il suo bambino” che era un cagnolino. E il papa, perdendo la pazienza, ha risposto: “Signora, tanti bambini hanno fame e lei col cagnolino…”. La questione vera è la confusione/opposizione tra bambino e cagnolino, tra vita umana e vita animale. Questo è un punto su cui non è facile pensare.
Una lunga tradizione, infatti, ha usato il “genere” dell’animale per definire – per contrasto – ciò che è specifico dell’uomo. Si trova un inizio illustre di questo in Aristotele, con la famosa definizione dell’uomo come “zòon lògon échon” (Politica,1253 a: “animale che ha la parola”). Ma lungo i secoli tale impostazione ha incontrato rielaborazioni molteplici, che si sono caratterizzate per una sostanziale conferma della comprensione di questa “differenza” tra uomo e animale, individuata nella “coscienza”, nel “pensiero” e nella “parola”. Sarebbe la “interiorità” a distinguere sostanzialmente il genere umano dal genere animale. Anche Hegel, nella sua dura critica alla filosofia della religione di Schleiermacher, conferma il modello classico di relazione uomo-animale, dicendo: “Se nell’uomo la religione si fonda soltanto sul sentimento, … allora il cane è il miglior cristiano”
L’assenza nell’animale di “parola” e di “pensiero” – ossia la mancanza della facoltà della rappresentazione nel “logos” mediatore e la riduzione della esperienza animale alla “vox” che esprime la immediatezza del piacere-dispiacere – crea la “differenza” decisiva rispetto a cui l’uomo si definisce. Da questa differenza nascono, solo nell’uomo, parola, pensiero, tempo, cultura.
Nel corso del pensiero tardo-moderno, questo modello classico è stato assunto o capovolto, ma mai veramente contestato, nemmeno dal riduzionismo positivistico ed evoluzionistico. La riduzione dell’uomo a coscienza “non più animale”, o dell’uomo ad “animale interessato alla – e attrezzato per la – sopravvivenza” procedono, in fondo, nel medesimo solco e con la stessa logica. Creano tra animale e uomo una assoluta discontinuità – o una totale continuità – senza comprendere a fondo la delicata relazione tra animale e uomo sul piano del “rapporto simbolico con l’ambiente”.
Nel pensiero del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty (α1908-ω1961) troviamo, invece, un tentativo illustre di ripensamento di tale relazione in una “comunità naturale” tra animale e uomo che merita di essere riscoperta, senza alcun cedimento ai nuovi riduzionismi e monismi materialistici, ma anche senza alcuna via di fuga in ontologie o metafisiche che pretendano di risolvere il problema a monte della stessa domanda. Una rappresentazione originaria starebbe – in questo caso – alla base di questa “differenza” tra rappresentazione e sentimento, sancendo un “primato a priori della rappresentazione” che renderebbe piuttosto fragile la distinzione stessa.
In un testo del 1948, che riproduce sette trasmissioni radiofoniche, andate in onda tra l’ottobre e il novembre di quell’anno per il secondo canale della Radio francese – e che è stato pubblicato solo nel 2002, essendo stato ritrovato soltanto allora nel cassetto della sua scrivania, non essendo mai stato pubblicato prima – alcune delle intuizioni che prenderanno forma più compiuta nel 1958, vengono anticipate, sia pure in contesto “divulgativo” e “popolare”. In questi sette capitoli, che delineano una rapida e intensa presentazione della fenomenologia, il capitolo IV è centrale e si intitola: “Esplorazione del mondo percepito: la animalità”. Dopo aver parlato di un “risveglio del mondo percepito” l’autore aggiunge che questo fenomeno, tipico della filosofia e dell’arte moderna, può essere compreso meglio se si tiene conto di una condizione che egli esprime con un doppio passaggio:
“…impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi da cui ci eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo meritasse di esser preso in considerazione. […] In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso” (M. Merleau Ponty, Conversazioni, SE, Milano, 2002, 43-44.)
Il tema dell’animale introduce la differenza di “mondi”: accanto al “mondo adulto” appare ai nostri sensi – restituiti alla loro originaria autorità – un “mondo animale”, un “mondo infantile”, un “mondo primitivo” e un “mondo pazzo”. Questi “mondi” coesistono e in qualche modo costituiscono il sostrato e la articolazione del mondo “adulto”. Ciò è tanto più importante per il fatto che il pensiero classico non ha minimamente valorizzato nessuno di questi “soggetti”: animali, bambini, primitivi e pazzi sono considerati come “diminuzioni dell’uomo” e non come sue componenti.
Dietro a questa riscoperta dell’animale e del suo “mondo” si mostra una critica del pensiero classico e della sua “antropologia compiuta”: l’animale non è semplicemente l’altro da noi, ma è anche, paradossalmente, il “medesimo”. Che gli animali sia “privi di mondo” è una evidenza antica, che arriva fino ad Heidegger. Alla quale reagisce una nuova attenzione alla “comunità naturale” tra animale e uomo. Vita umana e vita animale non possono contrapporsi perché la prima è inclusa nella seconda. Nell’animale scopriamo il nostro “fondo”, allo stesso tempo limpido e oscuro. La differenza umana rispetto a questo “fondo comune” non si può perdere, anche se deve essere pensata non come una opposizione, ma come uno sviluppo interno ad una comunanza originaria.
Il cane, o il gatto, non sono figli o bambini. Stanno invece nella direzione degli antenati piuttosto che in quella dei discendenti. Nel contesto di un discorso sulla “denatalità” la sostituzione dell’animale al figlio è ovviamente problematica. Se la signora avesse detto “può benedire questo nostro antenato” avrebbe forse ottenuto una risposta diversa. D’altra parte anche i bambini, quelli veri, non sono forse ciò da cui tutti noi veniamo? I figli non sono forse per noi tutti non solo il segno del futuro, ma anche simbolo insuperabile del comune passato? È certo che in questione non vi è la benedizione dell’animale, ma la confusione tra il cucciolo di cane o di gatto e il cucciolo di uomo: l’animale che è senza peccato può sempre illudere sulla superiorità della assenza di libertà. La perfetta aderenza tra essere e dovere, che l’animale incarna inesorabilmente e magicamente, consola e spiazza. Dunque, sulla differenza da custodire non si può dubitare, soprattutto se il tema di cui si intende parlare è la denatalità. Purché sappiamo assicurare che il passaggio tra il “mondo muto” e il “mondo parlante” non sia pensato né come semplicistica identità, né come un salto senza continuità, ma neppure come una preziosa differenza senza comunità naturale.
Per chi volesse approfondire la questione rimando a due testi: al volume che appare come immagine di questo post e che è il frutto di un Convegno organizzato presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo (Ph. Nouzille (ed.),-
- L’animale, Roma, Aracne, 2017)
- il grande testo di J. Derrida, L’animale che dunque sono, Milano, Rusconi 2021.
Andrea Grillo blog: Come se non 16 maggio 2023
www.cittadellaeditrice.com/munera/sullanimale-non-bambino-forse-antenato
SESSUALITÀ
Sesso e magistero: un dispositivo secolare e i terzi da custodire
La trasformazione della sessualità (matrimonio paritario, procreazione responsabile, identità omosessuale, autorità pubblica femminile) è uno dei terreni su cui il cattolicesimo rischia di legare la propria identità alle logiche della società chiusa. Occorre comporre “Humanæ vitæ” e “Dignitatis humanæ”.
Se osserviamo con cura la storia degli ultimi duecento anni, possiamo notare come le posizioni del magistero cattolico abbiano patito l’impatto con il mondo tardo moderno, nei suoi aspetti più qualificanti: la società aperta mette in crisi le forme classiche di esercizio della autorità, di produzione, le forme e i tempi del vivere, le relazioni sessuali e i diversi modi della identità sociale. In tutto questo grande ambito di concezioni, forse quello che fin dall’inizio è parso come prioritario è sembrato il campo della concezione del matrimonio, della vita sessuale e dell’esercizio della libertà. Potremmo dire che l’intreccio tra esercizio della autorità e vissuto della sfera affettiva e sessuale, costituiscono un plesso decisivo per intendere le sfide principali di fronte a cui il cattolicesimo sente di essere sfidato in profondo, dal almeno 150 anni.
Vi è un “filo rosso” che unifica, sotto traccia, l’emergere di un matrimonio “paritario”, la possibilità di una maternità responsabile, l’emergere di orientamenti sessuali omoaffettivi in cerca di riconoscimento sociale, la possibilità che il sesso femminile acquisisca un riconoscimento di autorità.
Ciò che unifica tutte queste diverse fattispecie è un nuovo e spesso inaudito “bisogno di riconoscimento”, che elabori diversamente la correlazione tra cultura e Vangelo, sfuggendo alla trappola di una presunzione pericolosa: ossia quella che pensa di poter identificare in una “cultura contingente” il Vangelo stesso, in forma se non infallibile, quanto meno definitiva. Proviamo a soffermarci brevemente su ciascuno di questi ambiti.
a) La autorità che riconosce le unioni legittime è solo la Chiesa? questo è il timore profondo, che ha inaugurato una serie di Encicliche, che da Leone XIII nel 1880 arrivano fino ad “Amoris Lætitia”, nel 2016. Il nuovo mondo della “sentimentalizzazione” del matrimonio, che inizia dal XIX secolo, scopre gradualmente la pari dignità di uomo e donna. La forza di questa nuova rappresentazione culturale, nella quale la “patria potestà” viene sostituita dalla “potestà genitoriale” trasforma anche il rito della Chiesa cattolica. Si passa dall’unico anello, che il marito infila nel dito della moglie, allo “scambio degli anelli”. E la benedizione, che da molti secoli riguardava esclusivamente la sposa, diventa “benedizione degli sposi”. La traccia evidente della “pari dignità” della donna ottiene, almeno in termini formali, una completa recezione. La differenza sessuale si coniuga con una eguaglianza battesimale e civile. Qui i passi, almeno sul piano positivo, sono stati compiuti. Sul modo di affrontare le crisi ancora permane un modello di “concorrenza tra ordinamenti giuridici paralleli” che impone spesso la ricostruzione mistificata dei vissuti e la applicazione troppo facile di “fictiones iuris”, per far tornare i conti.
b) Le forme della convivenza, del matrimonio civile e del matrimonio sacramentale elaborano una “sapienza” sul bene, che vede affermarsi forme sempre più sofisticate e sicure di “paternità e maternità responsabile”. L’uso dei “metodi di controllo delle nascite” implica uno spazio di discernimento nel quale la Chiesa ritiene di poter decidere “a priori” su quali siano i metodi leciti e quelli illeciti. Già con “Casti connubii” (1930) vi era stata una forte ripresa della esclusiva facoltà di Dio nel decidere sulle nascite. Ma nel 1968 “Humanæ vitæ” ritiene di assumere una iniziativa forte contro l’impiego di anticoncezionali che non rispettino il “metodo naturale”. La esclusione di uno spazio prudenziale affidato ai soggetti del rapporto sessuale, e la sua sostituzione con una decisione “in contumacia” da parte del magistero, rende molto difficile distinguere il “bonum prolis” dal “bonum coniugum”, stabilendo un vincolo “naturale” tra atto sessuale e generazione. Non solo in genere, ma in specie. Una comprensione “biologistica” del sesso è ancora alla radice di una posizione troppo marginale, frutto di una teologia da scrivania e non da strada.
c) In modo simile il magistero affronta con diversi documenti, tra gli anni 70 del XX secolo e gli anni 20 del secolo XXI, la questione del riconoscimento dei “vissuti omosessuali”: non solo degli atti, ma delle condizioni e dei progetti. La tentazione di giungere ad una “definizione” del comportamento omosessuale in termini di “autocompiacimento” – universalmente chiuso ad ogni possibilità di autentica relazione, se non in termini di castità – delinea, anche in questo campo, una lettura estrinseca della cultura e la convinzione che la tradizione, con le sue fonti storicamente limitate, sia in grado di venire a capo delle questioni nuove in modo autonomo e incondizionato. Una chiesa che non sa benedire i percorsi, ma solo i soggetti, non è esemplare e fatica a riconoscere la realtà.
d) In modo ancora più evidente, la relazione tra autorità e sesso appare limpidamente limitata nel modo con cui viene impostata (e si crede di risolvere) la questione dell’accesso del “sesso femminile” al sacramento dell’ordine. La dissimulazione dell’immobilismo sotto la figura di una “obbedienza e fedeltà ecclesiale alla volontà del Signore” esclude, a priori, ogni spazio per il riconoscimento della pur minima trasformazione nella identità e nella percezione della “donna”, al di fuori degli stereotipi essenzialistici, spesso tradotti addirittura in “principi”, su cui si sono costruiti grandi pregiudizi, felici barzellette e infelicissime incomprensioni o violenze. La pretesa di risolvere la questione dell’accesso delle donne al ministero ordinato, sostituendo all’argomento “contra naturam” quello ” contra historiam” appare segnato da un tratto ancora più viscerale, sebbene sia in linea con quanto osservato fin qui.
La prudenza ecclesiale, che non può mai venir meno, non si identifica mai con l’immobilismo. La esigenza di trovare risposte adeguate su ognuno di questi piani riguarda esattamente l’esercizio di questa prudenza. Per essere prudenti bisogna evitare di cadere nell’errore di ritenere che l’unica possibilità sia quella di difendere anche le scelte inopportune o sbagliate addirittura. Come Amoris Lætitia ha segnato una tappa nuova rispetto all’assetto magisteriale che da Arcanum divinæ sapientiæ arrivava fino a Familiaris Consortio, subendo in modo troppo smaccato la identificazione tra “pastorale” e “gestione giuridica del rapporto”, cosi occorre che la considerazione della sessualità non venga giustificata soltanto in relazione alla generazione (anche se questa non può mai essere esclusa), che la tendenza omosessuale di ogni soggetto non venga semplicemente sottoposta ad una riduzione al peccato, che la considerazione della donna sappia riconoscere e valorizzare anche la donna nella chiamata al carisma profetico, al carisma di governo nonché al carisma di culto e santificazione. Anche le forme fragili con cui il magistero perpetua la incomprensione del munus docendi, regendi e sanctificandi delle donne riposa su una questione sessuale non sufficientemente elaborata e risolta quando va bene con principi di comodo, quando va male con un carico di violenza indifferente e di discriminazione efficace che è tanto più pesante in chi la subisce quanto meno è consapevole in chi la infligge.
In tutti questi 4 casi, dove di mezzo vi è sempre una visione del significato globale del sesso come “coscienza sessuale dei soggetti”, la obbedienza della teologia al magistero deve diventare responsabile di dare la parola ai “terzi”. Una vera obbedienza, se diventasse indifferenza verso i terzi o riduzione dei loro vissuti a stereotipi senza cuore, diventerebbe un pessimo servizio alla Chiesa. Le famiglie effettivamente esistenti, le forme della generazione responsabile, le relazioni omosessuali e le possibili chiamate femminili al ministero ordinato non possono essere risolte senza una triangolazione strutturale: parola magisteriale, riflessione teologica ed esperienza vissuta si richiamano e chiedono una diversa integrazione, che metta in gioco, contemporaneamente, la capacità magisteriale di ascolto della esperienza per offrire una lettura fedele della parola di Dio, la elaborazione di categorie nuove da parte della teologia, in grado di mediare pensiero, parola e azione e infine la veridicità con cui ogni uomo e ogni donna, fuori da ogni cattura ideologica, interna o esterna alla Chiesa, possa valorizzare in pieno la propria vocazione
Andrea Grillo blog: Come se non 21 maggio 2023
www.cittadellaeditrice.com/munera/sesso-e-magistero-un-dispositivo-secolare-e-i-terzi-da-custodire/
SINODO
La Chiesa di Germania non è scismatica
La rivista il Regno delle donne ha pubblicato un’ampia sintesi del documento conclusivo della V assemblea tenutasi a Francoforte del Sinodo tedesco (Der Synodale Weg). Stefano Russo, vescovo di Velletri-Segni, inviato come osservatore all’assemblea per la Conferenza episcopale italiana ha osservato che il percorso intrapreso dalle comunità cattoliche della Germania è stato oggetto di grande attenzione da parte dei media tanto che le deliberazioni approvate hanno portato a «letture frammentarie e forse a volte superficiali».
Decisioni che sono state definite scismatiche, vicine alle posizioni dei protestanti e spesso troppo democratiche, tanto che il vescovoGeorg Bätzing, presidente della Conferenza episcopale tedesca, ha dovuto affermare con forza che «la Chiesa di Germania non vuole né lo scisma né essere una Chiesa nazionale».
L’assemblea, composta da 230 delegati, si è data un proprio statuto e ha costituito quattro gruppi di lavoro: potere nella Chiesa, dimensione esistenziale del prete, ministeri delle donne nella Chiesa, morale sessuale.
I testi proposti sono stati discussi, rielaborati tenendo presenti i diversi emendamenti e approvati dopo due letture. Il cammino ha preso avvio dallo scandalo degli abusi sessuali e dal loro occultamento e, nonostante abbia vissuto momenti difficili e non sempre ci sia stato un consenso comune, sono stati approvati documenti che «propongono azioni concrete e che sono sostenuti da testi di fondamento teologico».
Nel corso degli incontri della tappa continentale europea del sinodo, svoltasi a Praga lo scorso febbraio, si è rilevato che le questioni analizzate in Germania sono state oggetto di confronto anche negli altri stati d’Europa. Si è precisato che molte decisioni non possono entrare in vigore senza il consenso di Roma, ma i testi ormai ci sono e difficilmente si può tornare indietro, come, così ha affermato il vescovo di Osnabrück Franz-Josef Bode, «non si può far rientrare il dentifricio nel tubo da cui è uscito». Diversi ponti sono stati gettati a partire dall’apertura, per le donne, a tutti i ministeri ordinati, pur riconoscendo come priorità il diaconato. Le problematiche relative all’ordinazione sacramentale per le donne verranno comunque portate nell’assemblea della Chiesa universale e i vescovi tedeschi si sono impegnati a difendere il testo elaborato affinché si ponga fine alla discriminazione della figura femminile nella Chiesa.
Il documento predisposto dalla prima sessione, il Potere e divisione dei poteri nella Chiesa. Partecipazione comune e progettazione missionaria, ha messo in evidenza l’impegno volontario, entro i limiti previsti dalla dottrina vincolante sulla fede e dall’ordinamento giuridico della Chiesa, del vescovo o del parroco a rispettare le decisioni dell’organo sinodale. A questo consiglio viene data facoltà di opporsi, con maggioranza di due terzi, al voto del vescovo o del parroco.
In un altro testo si rileva che a laici e laiche sono conferite, in diversi luoghi, mansioni relative all’annuncio della Parola. Si propone allora che si conceda loro, in particolare alle donne, di commentare il Vangelo e di manifestare la testimonianza della loro fede nelle chiese e negli oratori. I vescovi sono stati sollecitati dalla seconda assemblea a elaborare un regolamento e a chiedere (e ottenere) un permesso dalla Santa Sede al fine di consentire che l’omelia sia affidata «anche nelle celebrazioni eucaristiche della domenica e dei giorni festivi, a fedeli qualificati dal punto di vista teologico e spirituale».
In riferimento al celibato dei presbiteri, l’assemblea sinodale invita il papa Francesco a riconsiderare il legame tra conferimento dell’Ordine sacro e l’obbligo del celibato. Si è deliberato, come già era stato espresso dal Sinodo amazzonico, di riflettere sull’ipotesi dell’ordinazione di viri probati, ma anche di «esaminare se sia opportuno aprire anche ai sacerdoti già ordinati la possibilità di svincolarsi dalla promessa del celibato senza dover rinunciare all’esercizio del loro ufficio».
L’ultima sessione ha invitato i vescovi a consentire che nelle loro diocesi siano benedette ufficialmente, con una cerimonia liturgica, diversa dal matrimonio ministeriale, le coppie dello stesso sesso, sullo sfondo di una rivalutazione dell’omosessualità come variante normale della sessualità umana. Coppie che, ad esempio, si sono unite in un matrimonio civile o di divorziati risposati. Le celebrazioni di questo tipo di cerimonia potranno essere presiedute da ministri ordinati o persone alle quali il vescovo ha affidato l’incarico di celebrare funzioni religiose. Non vi sarà obbligo per nessuno e nessun pastore di anime che celebra una benedizione di questo tipo in Germania dovrà più temere provvedimenti disciplinari. Si precisa altresì che «chi per ragioni di coscienza preferisce non presiedere a questo tipo di cerimonia, indirizzerà la coppia a colleghi/colleghe o referenti diocesani/e, i quali la aiuteranno a trovare un/una celebrante».
Sul sito Der Synodale Weg sono pubblicate le letture dei documenti approvati dai gruppi di lavoro, le mozioni e le proposte con le relative motivazioni a testimoniare quanto sia stato acceso il dibattito e quanto sia state sofferte, e allo stesso tempo accettate, alcune decisioni nelle diverse commissioni.
Cesare Sottocorno la voce delle donne, pag.4 18 maggio 2023
Sulla messa sinodale
Qui l’introduzione a questo testo. Cominciamo dalla cosa meno importante (oppure più importante). Che in ogni chiesa ci sia la toilette. C’è, nascosta, dentro la sacrestia. Ma che sia ben indicata, perché in chiesa ci vanno i corpi, insieme alle anime. Specialmente i corpi vecchi.
Poi, che la chiesa non sia monumento e museo, oppure lo sia per i turisti, se merita, ma per l’eucaristia sia una casa abitabile. Perché se l’ambiente è una platea e un palco, non è una chiesa. Chiesa, ekklesia, vuol dire riunione, con-vocazione, per mangiare la cena del Signore Gesù: «Fate questo in memoria di me». Non è un sacrificio, se non nel senso generoso, di chi muore per salvare altri in pericolo, ma non nel senso di chi viene sacrificato per placare un crudele Signore offeso. Così è stato inteso troppo a lungo, ed è una offesa a Dio, buono e misericordioso. Nei libri liturgici ufficiali, la parola “sacrificio” ritorna martellante, anche del tutto fuori luogo, e deviante. Pochi preti correggono i libri.
Nella Cena del Signore anzitutto si ringrazia (eucaristia, ringraziamento) di conoscerlo, di ascoltarne la parola, poi si mangia insieme il pane che lui spezza per noi e il vino che ci offre. Sono segni molto densi, ma non è antropofagia, non è mangiare il suo corpo e bere il suo sangue. Come ci si nutre di pane e di vino, ci si nutre del suo intero donarsi a noi, fino a morire per fedeltà al messaggio di vita: un morire così vivo che attraversa la morte. E che non si manchi di dare anche il vino. Sono falsi problemi le difficoltà. Se si capisce e si vuole, si può. L’intinzione è sicura igienicamente.
Bastano due o tre di noi, riuniti nel suo nome, e lui è presente, non occorrono le folle. Perciò la chiesa sia una stanza, una sala, dove ci si siede vedendoci tra noi, non guardando uno spettacolo recitato dal prete.
Quindi, la messa ha un carattere sociale e conviviale. Non dipende tutta dal prete. La tradizione cattolica, la necessità di un uomo consacrato e unico autorizzato a celebrare l’eucaristia, è rispettabile, ma non sia più vincolo e impoverimento della comunità, non metta limiti alla presenza attiva di Gesù, per mano di tutti noi, se siamo disponibili. Gesù non ha messo tante condizioni: «Fate questo in memoria di me». Se non ci sono tutte le condizioni canoniche, c’è la sua presenza e il nostro bisogno. Per le eucaristie domestiche durante la pandemia, ha detto il vescovo Bettazzi: «Come c’è il battesimo di desiderio, c’è l’eucaristia di desiderio». {vale anche per gli impediti}.
E che non ci sia l’altare, il quale, come dice la parola, è l’antica ara dei sacrifici, dove si sgozzavano gli animali offerti ad una avida divinità, invece di offrire noi stessi, gli uni per gli altri. Quella di Gesù è una mensa: si è invitati, si siede attorno, come in una casa. Il concilio staccò l’altare dal muro, dove il “sacerdote” se la vedeva da solo con Dio, e lo rivolse al popolo, ma è rimasto come un palco, o una cattedra. Ora, un altro passo: il popolo è chiamato a sedere alla mensa di Gesù. Si siede attorno, quanti più vicino possibile. Perché il popolo dei fedeli è profeta, sacerdote e re: non solo assiste, non solo partecipa, ma celebra la memoria presente e attuale della Cena, alla mensa comune. Il pane di Gesù è ancora quel cerchietto che non è pane. È anche adorato, fuori dalla Cena, sotto vetro, tra raggi d’oro. Ma Gesù ha detto «Prendete e mangiate». Il corpo di Cristo siamo noi in comunione con lui, mandati a vivere per gli altri, e quel pane rende noi corpo suo, non rinchiude Gesù lì dentro. Corpo di Cristo che ci fa corpo suo, è anche l’atto di lavare i piedi, di servire umilmente: noi siamo le sue mani quando serviamo chi ha bisogno.
La più visibile e avvertita delle rivoluzioni del Concilio è stata nella messa. La liturgia eucaristica migliorò molto, eppure fu frequentata sempre meno, fino ad oggi. La riforma conciliare non basta più, per fare quel che Gesù ci chiese: «Fate questo in memoria di me». Un documento della rete “Viandanti”, nel cammino sinodale in corso (una specie di concilio di base), affronta bene, con franchezza, le riforme oggi necessarie per adeguare la messa al suo significato, nella fede. Partecipazione, omelia, linguaggio, comunità, ministeri, liturgia e vita, preghiera e rapporto con il mistero, sperimentazione, chiesa popolo di Dio, comunità di comunità, riforma del diritto canonico.
Io distinguo le messe “lette” dalle messe “dette”. Le prime: tutto già scritto nel librone, basta leggerlo, impersonale, prefissato. Nelle messe dette, parlate, chi presiede è un essere vivente, che segue certamente un rito, in comunione con tutti gli altri, ma lo vive con i presenti, in questo momento, nelle situazioni di oggi. E non parla solo lui, e non sono solo parole, ma anche silenzi e attese. Ed è la messa di oggi, non uguale a quella di ieri.
Poi l’omelia. In pratica, è l’unica cosa che ricordi (se la ricordi) e giudichi. Troppo lunga, troppo teorica, o moralistica, o noiosa. Oh, questa volta vivace, ma politica, provocatrice, o troppo personale. Mai contenti. Quanto arriva, nelle omelie, del frutto di una lettura attenta e vitale, comunitaria, della Scrittura? Sì, in certi casi arriva. Poi ci sono preti che dicono messa come semplice rapido supporto per rifilare l’omelia forte al pubblico, come il loro comizio, o una lezione accademica. Prima e dopo l’omelia, messe senza mistero, senza silenzi, né raccoglimento. Altri fanno il contrario: tutto mistero, senza la parola di oggi.
Nella messa decide tutto solo il prete? Ci sono qua e là esperienze di vera partecipazione, celebrazione comunitaria, preghiere eucaristiche varie, e dette anche dal popolo, omelie a volte affidate a laici, uomini e donne. Esperienze isolate, mi pare, nate dalle contestazioni più o meno radicali. Ma anche serie ricerche comunitarie, non arrabbiate. Ci sono piccole tradizioni, ormai decennali, di ospitalità eucaristica tra cattolici ed evangelici (gli ortodossi non accettano): nessuna rivoluzione, ma un cammino, ancora piccolo. È il vero ecumenismo, questo: uniti nell’atto essenziale, non fusione di istituzioni e organizzazioni. È bene che la chiesa sia varia, plurale, unita nella pluralità. E dunque nell’eucaristia, culmine e fonte della vita cristiana.
Deve avere un abito speciale chi presiede l’eucaristia? Se è come in una festa sociale e in un momento serio, sì, è possibile. Una cosa bella e semplice, per memoria degli altri momenti e luoghi: basta un segno, una sciarpa, una stola. Non roba sacra, preziosa e sfarzosa, non teatro, non distacco. E specialmente i vescovi: cappello su, cappello giù… per carità…
E poi, il pane di Cristo va portato ai malati. È incarico di chi si presta ed è capace, non solo del prete, ovviamente, ed è segno dell’attività comune. Insomma, non si tratta di abolire il ceto dei preti, ma di fare emergere il carattere sociale e conviviale dell’eucaristia, di assorbire la gerarchia nella fraternità, nella piramide rovesciata.
E tutto ciò ricordando bene che Gesù, quella sera a noi sempre presente, sapeva di andare a morire per odio del potere, del clero e dell’impero, e accettava di morire per essere fedele al suo compito di verità, e che quel morire era un così grande vivere, che lui vive ora attorno a noi, e in mezzo a noi. Nella sua Cena ci chiama a vivere per gli altri, e dunque a rinascere sempre.
Enrico Peyretti Adista Documenti n° 18 20 maggio2023
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