newsUCIPEM n. 571 –8 novembre 2015

newsUCIPEM n. 571 –8  novembre 2015

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ABORTO VOLONTARIO               Meno di 100mila aborti l’anno.

ADOZIONE INTERNAZIONALE  Gioie e dolori della seconda genitorialità.

AFFIDO CONDIVISO                     Il genitore collocatario più abbiente versa un assegno all’altro.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO  Assegno di mantenimento ridotto se lui paga il mutuo.

BIOETICA                                        Un crimine da fermare.

CASA FAMILIARE                          Separazione e divorzio: niente assegnazione della seconda casa.

CHIESA CATTOLICA                    Se entrano le donne, siamo spacciati.

Nell’Antico Testamento il divorzio non era sempre un tabù.

Io l’unico italianoche firmail’impegno a non farsi dominare dal denaro

CINQUE PER MILLE                      Elenco dei pagamenti per gli anni finanziari 2012 e 2013.

CONSULTORI Familiari UCIPEM Latiano (BR) servizio sperimentale di welfare scolastico. 

Trento. Si festeggiano i 50 anni.

CORTE COSTITUZIONALE          La Consulta chiarisce il cambio di sesso.

DALLA NAVATA                            32° domenica del tempo ordinario – anno B -8 novembre 2015.

FECONDAZIONE                            Ringiovanire le ovaie per evitare eterologa.

FESTIVAL DELLA FAMIGLIA     Comunitàeducanti x il benessere socialee la competitività dei territori

FRANCESCO vescovo di ROMA    Papa: perdonare in famiglia rende meno spietata la società.

GOVERNO                                       Ministero della Salute. Relazione sull’attuazione L. 194/1978.

MATERNITÀ                                               La maternità nel femminismo.

NULLITÀ MATRIMONIALE         Becciu: “Il vescovo-giudice? Non è una novità, anzi…”

OMOFILIA                                       Gay si nasce o si diventa?

Nozze gay, ciò che viene prima

SCIENZA & VITA                           Relazione su legge 194/78 dati confortanti e motivi di riflessione.

SEPARAZIONE                                Se uno dei coniugi non vuole separarsi cosa bisogna fare?

SINODO SULLA FAMIGLIA          Aperti al cambiamento. La riforma del Sinodo ha convinto.

Francesco tace, ma un altro gesuita parla per lui.

I battezzati divorziati e risposati civilmente.

Intervento al Sinodo della prof.ssa Lucetta Scaraffia

UNIONI CIVILI                               La Chiesa ha legiferato prima.

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ABORTO VOLONTARIO

Meno di 100mila aborti l’anno.

Una soglia psicologica rilevante quella resa nota dalla Relazione sull’attuazione della legge 194 del 1978 trasmessa ieri al Parlamento che contiene i dati definitivi per il 2013 e quelli preliminari per il 2014.

Relazione e tabelle (anche tasso di fecondità)

www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=2428

Le cifre che arrivano dalle Regioni certificano infatti 97.535 casi di interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) nel 2014, con un calo del 5,1% rispetto al dato definitivo del 2013 (105.760). Valori sicuramente da inserire in un calo complessivo della natalità nel nostro Paese – se si fanno meno figli anche gli aborti sono destinati a ridursi -, ma che rappresentano un risultato consistente. I numeri sono più che dimezzati rispetto al 1982, anno in cui si è riscontrato il valore più alto in Italia e, considerando soltanto le Ivg effettuate da cittadine italiane, la riduzione si quantifica in un decremento percentuale del 70.9%, passando dai 234.801 del 1982 ai 68.382 del 2014. Per la prima volta in 33 anni quindi l’asticella scende al di sotto di 100mila interruzioni di gravidanza, sempre moltissime comunque, ma che rappresentano un evento significativo nel quadro del calo costante di questa drammatica contabilità.

Secondo quanto si legge nella Relazione, tutti i dati concorrono a confermare questo andamento: il tasso di abortività (numero delle Ivg per1000 donne tra 15-49 anni), che rappresenta l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza, nel 2014 è risultato pari a 7,2 per 1000, con un decremento del 5.9% rispetto al 2013 e del 58,5% rispetto al 1982 (17,2 per 1000).

Il valore italiano rimane tra i più bassi di quelli osservati nei Paesi industrializzati. Rimane elevato il ricorso all’aborto da parte delle straniere, a carico delle quali si registra un terzo delle Ivg totali in Italia (34%): da un lato è aumentata la loro presenza sul territorio italiano, dall’altro, pur nel permanere del dramma dell’aborto clandestino, la tracciabilità è massima grazie al maggiore accesso alle strutture del Servizio sanitario nazionale.

Tra le ombre della Relazione, se si guardano i dati che esplicitano la tipologia di donne che ricorrono maggiormente all’Ivg, balzano agli occhi caratteristiche che portano un’inevitabile riflessione sulle politiche economico-sociali: abortiscono di più le donne di età compresa tra i 20 e i 29 anni, di cui il 42,9% con un titolo di studio di scuola superiore e nel 43,6% con un lavoro. Quindi a scegliere di non portare avanti una gravidanza sono giovani donne istruite, verosimilmente neo-impiegate.

C’è da chiedersi quanto questa sia realmente una libera scelta. Resta da valutare il contributo dei cosiddetti “anticoncezionali di emergenza”, paragonabile a quello degli anni precedenti: il calo degli aborti infatti si riferisce al 2014 rispetto al 2013, anni in cui per la pillola dei cinque giorni dopo erano obbligatori ricetta e test di gravidanza. Bisognerà aspettare la prossima relazione per determinare l’impatto della liberalizzazione delle vendite di EllaOne.

Infine, i dati dimostrano l’infondatezza degli incessanti attacchi all’obiezione: su base regionale e, per la prima volta anche sub-regionale, non emergono criticità nei servizi. Considerando 44 settimane lavorative in un anno, a livello nazionale ogni non obiettore effettua 1,6 interruzioni di gravidanza a settimana, valore medio fra il minimo di 0,5 della Sardegna e il massimo di 4,7 del Molise. Tutto ciò a fronte di una costante diminuzione dei tempi di attesa e del fatto che la mobilità delle donne fra regioni è come quella delle altre prestazioni.

Emanuela Vinai         Avvenire 3 novembre 20015

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ADOZIONE INTERNAZIONALE.

Gioie e dolori della seconda genitorialità: la ‘magia’ di donare un fratello al primo figlio

Quando arriva un fratello o una sorella, per il primo figlio può essere un ‘evento’ “destabilizzante” sia in chiave positiva che negativa. Scattano inevitabilmente gelosie, competizione ma anche complicità e sostegno reciproco. E’ un arrivo a cui il primo deve essere preparato e accompagnato soprattutto quando ad essere accolto è un fratellino proveniente da un altro Paese per quanto risponda al desiderio condiviso da tutti di allargare la propria famiglia. Dalla newsletter di questo mese della Cina, riportiamo il parere della psicologa Francesca Facetti che analizza il delicato rapporto tra fratelli e la relazione tra questi e i genitori.

            A volte i genitori che hanno già adottato un bambino desiderano procedere con una seconda adozione, soprattutto per il desiderio di allargare la famiglia e di donare un fratello o una sorella al loro primo figlio. Le coppie, quindi, possono intraprendere il secondo iter adottivo, durante il quale vengono riattivate emozioni ed esperienze già vissute ed affrontate durante la prima adozione. Ci sono, tuttavia, alcuni particolari aspetti che si possono ritrovare nelle “seconde adozioni”.

            In questi casi i coniugi non intraprendono il percorso da soli, ma in famiglia è presente un figlio o una figlia che ha una propria storia e determinati bisogni. Bisognerà, perciò, cercare di ristabilire nuovi equilibri e di rielaborare tutti insieme un nuovo quadro della propria famiglia, che comprenda anche il bambino che arriverà. Un fratello è una delle cose migliori che ti possano capitare nella vita. Il figlio già presente in famiglia potrà essere entusiasta e felice all’idea dell’arrivo di un nuovo fratello, avere delle aspettative e immaginarsi di poter giocare insieme a lui/lei. Potrà desiderare ardentemente il suo arrivo e non vedere l’ora di avere un fratello o una sorella che sia un compagno di giochi, ma non solo, con cui scherzare, divertirsi e con cui crescere.

            Un fratello può essere amico, complice, consolatore e un compagno di avventure. Quando si ha un fratello o una sorella non si è più soli, si ha qualcuno con cui condividere tutto quello che capita in famiglia: dalle vacanze estive all’apertura dei regali a Natale, fino a tutto ciò che accade nella quotidianità.          Nonostante il bambino non veda l’ora dell’arrivo del fratello potrà, allo stesso tempo, nutrire una serie di timori e preoccupazioni, che farà più o meno fatica ad esprimere, a seconda del suo carattere e della natura del legame creato con i genitori. Le sue paure potrebbero essere legate al motivo per cui i genitori possono aver desiderato un altro bambino.

            Infatti, come scrive la psicologa Mariangela Corrias su “italia adozioni” il bambino potrebbe pensare di aver deluso i genitori o di non averli soddisfatti completamente, in quanto molto spesso un figlio adottivo si porta dietro un’insicurezza di fondo, legata alla sua storia, che potrà superare nel tempo ma che può essere riattivata in alcuni momenti cruciali della sua vita, come nel caso di una seconda adozione”. Il primo figlio adottato potrà temere di perdere la relazione esclusiva con i suoi genitori e preoccuparsi di dover dividere lo spazio, il tempo e gli oggetti con un altro bambino che sarà presente in famiglia per sempre. Per di più, di questo bambino non sa nulla, non può prefigurarselo in modo concreto nella sua immaginazione; non conosce, infatti, il sesso, l’età e i bisogni. Oltre a ciò, sarà un bambino che non gli assomiglia per niente, magari addirittura proverrà da un Paese diverso rispetto al suo paese di origine. Dovrà, quindi, sforzarsi di superare questi pensieri “concreti”, cosa che può risultare particolarmente difficile più il bambino è piccolo.

            Sono, per questi motivi, fondamentali le fasi della scelta di intraprendere una seconda adozione e quella dell’attesa dell’abbinamento, in quanto i genitori, con l’eventuale aiuto degli operatori che seguono la famiglia, possono cercare di capire ed interpretare le domande non dette da parte del figlio già presente in famiglia. La coppia può, quindi, rassicurare il bambino sulla possibilità di esprimere liberamente i timori e gli aspetti che lo preoccupano e contenere le sue ansie e le sue paure, aiutarlo a comprendere nel concreto come cambierà la vita di tutti i membri della famiglia all’arrivo del fratellino e, talvolta, ridimensionare le sue aspettative che altrimenti potrebbero essere ulteriori fonti di delusioni.

            L’attenzione e la cura dei genitori nel sostenere e rassicurare il primo figlio sui suoi specifici timori potrà rappresentare una risorsa e la seconda adozione potrà diventare un’opportunità per rafforzare i legami presenti all’interno della famiglia. Per di più, in questo modo, il primo figlio potrà vivere serenamente l’avventura dell’arrivo di un nuovo membro della famiglia e apprezzare a pieno tutti gli aspetti positivi e gioiosi del legame fraterno. Del resto, come tutti i fratelli e le sorelle ben sanno, il rapporto tra fratelli è spesso ballerino: si alternano momenti di scontro con altri di amore infinito, ma i fratelli sono sempre legati da qualcosa di profondo e magico che conoscono solamente loro. E anche se, da piccoli, ci sono pianti, spintoni e dispetti (per esempio, una bambola decapitata o una macchinina frantumata), quando si cresce e si diventa adulti insieme, ci si accorge, giorno per giorno, di quanto avere un fratello o una sorella sia davvero il dono più grande che mamma e papà abbiamo potuto riservare ad un figlio.

Ai. Bi. 5 novembre 2015                               http://www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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AFFIDO CONDIVISO

Tribunale di Milano: il coniuge collocatario più abbiente deve versare un assegno all’altro genitore.

            L’assegno perequativo va versato all’altro genitore per il tempo che il minore trascorre con lui. Il Tribunale di Milano è ormai convinto: non è detto che al genitore non collocatario non spetti alcunché. Anzi: se egli ha una condizione economica assai distante e svantaggiata rispetto a quella del coniuge collocatario, avrà diritto a un assegno perequativo per il tempo che il figlio minore trascorra insieme a lui.

            In tal senso vanno sia una sentenza del 19 marzo 2014 che due successive pronunce, sempre del giudice meneghino, del 3 novembre 2014 e del 15 maggio 2015. E l’orientamento è stato confermato anche dalla Corte d’Appello milanese, con un decreto dell’11 agosto 2014. La ratio è quella di tentare di garantire al minore il soddisfacimento delle sue esigenze essenziali, in relazione al tenore di vita goduto. L’obiettivo è quello di evitare che il minore si senta a proprio agio solo presso il collocatario e si allontani dall’altro genitore.

            Ciò, del resto, potrebbe ben accadere laddove presso un genitore si abbia una casa grande, giochi, tv satellitare e cibo di qualità mentre presso l’altro non si abbia neanche la certezza di un tetto sotto cui stare. Insomma: tollerare una situazione troppo sperequata tra i coniugi andrebbe in contrasto con il principio della bigenitorialità. In ogni caso, è chiaro che il contributo economico dato dal coniuge più ricco a quello in maggiori difficoltà deve soddisfare esigenze specifiche ed evidenti.

Valeria Zeppilli                      studio Cataldi 31 ottobre 2015

www.studiocataldi.it/articoli/19928-tribunale-di-milano-anche-al-genitore-non-collocatario-puo-spettare-un-assegno.asp

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Assegno di mantenimento ridotto se lui paga il mutuo.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 22603, 4 novembre 2015.

            Anche in caso di sproporzione tra i redditi dei due ex coniugi, l’eventuale peso gravante su uno dei due relativo al pagamento di un mutuo implica la drastica riduzione dell’assegno di mantenimento.

            Se lui guadagna quasi il doppio di lei, ma si è accollato un mutuo particolarmente oneroso può vedere ridotto drasticamente, se non annullato, l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento alla ex moglie. La sproporzione dei redditi tra i due coniugi e la maggiore disponibilità dell’uomo nulla può di fronte la prova delle spese da questi sostenute per poter acquistare un immobile in cui vivere. È quanto chiarito dalla Cassazione con una ordinanza di questa mattina. Sconfitta per la donna: niente assegno di mantenimento a suo favore nonostante il maggior reddito del marito, se tuttavia quest’ultimo deve anche far fronte ogni mese a un mutuo, con una rata di quasi mille euro. Ciò riporta in equilibrio, in sostanza, le forze economiche dei due coniugi.

            Assume molta importanza, allora, nell’ambito della causa di separazione o divorzio tra gli ex coniugi, portare sulla bilancia tutte le spese sopravvenute e da sostenersi in futuro: spese che potrebbero ridurre, di fatto, il reddito disponibile per il coniuge obbligato, con conseguente dimostrazione della sostanziale parità tra i due tenori di vita. Spese di alloggio (affitto, mutuo) o sanitarie (malattia sopravvenuta) o ancora la dimostrazione di una imprevista ridotta capacità lavorativa, con conseguente riduzione del reddito possono essere un valido elemento per ottenere un taglio dell’assegno di mantenimento.

sentenza          Redazione LpT                      5 novembre 2015

www.laleggepertutti.it/103501_assegno-di-mantenimento-ridotto-se-lui-paga-il-mutuo

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BIOETICA

Un crimine da fermare

Le vicende sociali conducono sempre più frequentemente a guardare verso la pratica dell’utero in affitto, che si allarga a macchia d’olio ed è ormai legittimata in diversi Stati ed eseguita “clandestinamente” in altri. Si tratta di una pratica disumana che disconosce diritti fondamentali della madre reale e del figlio e che implica forme inaccettabili di sfruttamento e di abuso. La donna che si sottopone alla maternità per conto di terzi è usata come mero strumento di produzione e non come persona, il figlio, inteso come un prodotto acquistato, non saprà mai le sue vere origini, i fornitori dei gameti che potranno essere in tutto o in parte diversi da quelli dei committenti, si sottraggono colpevolmente al principio di responsabilità che impone di rispondere delle conseguenze prevedibili della propria azione: in questo caso la nascita di un figlio che essi volontariamente abbandonano sin dall’inizio (inaccettabile conseguenza che è insita nell’infausta pratica della fecondazione eterologa e che sembra sfuggita alla nostra Corte costituzionale nella sua sentenza in merito del 2014).

Per questi motivi si può parlare a ragion veduta di un crimine contro la persona sia nella forma della depersonalizzazione della donna che effettua la gravidanza e partorisce, sia in quella del figlio che non conoscerà mai la madre gestante e non di rado neanche coloro che hanno fornito i gameti nel “commissionarlo”. Tutti questi aspetti congiurano nell’avvilire la dignità della persona umana nella madre surrogata, che, mettendo a disposizione il proprio corpo per bisogno finisce per configurare una situazione analoga a quella della prostituzione forzata, nel figlio, nei committenti che abbassano a rapporto commerciale la generazione di una nuova vita. In sostanza si va verso il mercato universale dei corpi e della generazione umana.

In Italia l’utero in affitto è vietato dalla legge 40, e al momento rimane uno dei pochissimi suoi paletti rimasti in piedi dopo che magistratura e Corte costituzionale hanno proceduto a rimuoverne numerosi altri. Fino a quando il divieto rimarrà in piedi, se non intervengono chiarimenti fondamentali? In effetti cominciano ad avvertirsi tentativi per scavalcare i divieti. Si pensa di aggirare l’aspetto più appariscente della pratica, ossia lo sfruttamento della donna, riconoscendole un compenso adeguato e non estorcendone il consenso prestato in condizioni di debolezza e di povertà. Ma questo è sufficiente per mettersi la coscienza a posto? Alcuni pensano di sì, poiché appunto si tratta dell’aspetto che colpisce di più l’opinione pubblica, la quale va invece abituata a valutare più attentamente.

            Il compenso stabilito per la prestazione può forse bastare a tacitare la coscienza di coloro che riducono ogni rapporto umano a rapporto economico. La questione è infinitamente più delicata e riguarda il diritto fondamentale di ogni essere umano di non essere considerato mezzo (la madre per terzi), di non essere inteso come il risultato di un contratto, e di sapere da dove si proviene. In Francia, esponenti di rilievo del Partito socialista hanno condannato senza messi termini l’utero in affitto, ed esponenti del femminismo di sinistra, tra cui Sylviane Agacinski e l’associazione “Collettivo per il rispetto della persona”, operano per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni. Il 2 febbraio all’Assemblea nazionale si svolgerà un convegno per l’abolizione universale dell’utero in affitto. Per esseri chiari e conseguenti ciò significa perseguire e punire i professionisti (medici, avvocati, intermediari) che lucrano da questo commercio di corpi e di bimbi. Perché non attivarsi e, finalmente, in modo trasversale, anche in Italia? Risulta urgente iniziare un’azione etica e legislativa dinanzi a istanze internazionali di vario ordine perché si arrivi alla fattispecie del crimine contro la persona e al reato universale dell’utero in affitto, così come esistono i crimini contro l’umanità. L’azione mi pare particolarmente significativa nei confronti del Parlamento europeo da tempo investito da una smania di espansione dei diritti di libertà, spesso meramente presunti, degli adulti, e nel contemporaneo misconoscimento dei diritti dei deboli e dei senza voce. È bene, dunque, elevare un appello a giuristi, politici, filosofi, perché sia possibile – e sia possibile presto – configurare presto la fattispecie del crimine contro la persona in ordine all’utero in affitto.

prof. Vittorio Possenti, università di Venezia                      Avvenire         30 ottobre 2015

www.avvenire.it/Commenti/Pagine/un-crimine-da-fermare.aspx

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CASA FAMILIARE

Separazione e divorzio: niente assegnazione della seconda casa.

            L’immobile che non era stato destinato a tetto coniugale non può essere assegnato all’altro coniuge anche se vi sono figli.

Nel giudizio di separazione o divorzio tra coniugi, uno dei due può chiedere l’assegnazione della casa, benché di proprietà dell’altro, solo in presenza di una serie di condizioni:

  • la coppia deve avere avuto dei figli e tali figli devono essere minori o non ancora economicamente autosufficienti;
  • i figli devono essere stati affidati (il termine corretto è “collocati”) presso il coniuge che chiede la casa familiare;
  • detto immobile di cui si chiede l’assegnazione deve essere stato, durante il matrimonio, adibito a casa coniugale. Non si può, pertanto, chiedere l’assegnazione di un altro immobile (per esempio, la casa al mare). Ciò perché la funzione dell’assegnazione della casa non serve per garantire all’ex coniuge un reddito o un sostentamento economico, ma per far sì che i figli continuino a vivere nello stesso habitat domestico senza così subire traumi derivanti da un eventuale trasferimento. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza [n. 22581/2015. Nella vicenda in oggetto è stata respinta la richiesta dell’ex moglie di ottenere l’assegnazione della casa coniugale quando l’immobile non era stato oggetto della convivenza in passato.

La Cassazione [sent. n. 14554 del 4.07.2011] ha da sempre ribadito il principio secondo cui l’assegnazione della casa di proprietà esclusiva dell’altro coniuge non è possibile quando l’immobile in questione non sia mai stato adibito ad abitazione del nucleo familiare. L’assegnazione del tetto coniugale, infatti, risponde all’esigenza di conservare l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare. Ecco perché tale assegnazione è consentita solo con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza. Viene escluso ogni altro immobile di cui i coniugi avessero prima la disponibilità, come per esempio la seconda casa, la residenza estiva e sia anche un terreno edificabile.

            Per completezza, ricordiamo infine che l’assegnazione della casa familiare viene revocata nel caso in cui:

– il coniuge a cui era stata assegnata vada a vivere altrove (per esempio in un altro immobile o presso i propri genitori) oppure

– i figli siano divenuti autonomi economicamente o abbiano deciso di andare a vivere altrove.

Redazione LpT                      5 novembre 2015

laleggepertutti.it/103452_separazione-e-divorzio-niente-assegnazione-della-seconda-casa

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CHIESA CATTOLICA

Se entrano le donne, siamo spacciati.

            Quante volte mi sono ripetuta, nel corso di queste tre settimane di sinodo, per frenare l’impazienza ribelle che mi assaliva: in fin dei conti, mi hanno invitata – e mi hanno perfino lasciata parlare. Io, una “femminista storica”, decisamente poco diplomatica e neanche paziente – lo hanno certamente notato.

Per una donna come me, che ha vissuto il ’68 e il femminismo, che ha insegnato in una università statale e ha partecipato a comitati e a gruppi di lavoro di tutti i generi, questa esperienza è stata davvero inedita. Perché, anche se mi è capitato, quando ero giovane e le donne erano ancora rare in certi ambienti culturali e accademici, di ritrovarmi ad essere l’unica in mezzo a un gruppo di uomini, quegli uomini là almeno avevano qualche dimestichezza con le donne: erano sposati o avevano delle figlie.

Quello che maggiormente mi ha colpito in quei cardinali, quei vescovi e quei preti, era la loro perfetta ignoranza dell’universo femminile, la loro scarsa conoscenza delle donne, considerate inferiori, come le suore, che generalmente servivano loro da domestiche. Non tutti, evidentemente – ancor prima del sinodo, avevo fatto amicizia con alcuni di loro -, ma per la stragrande maggioranza, l’imbarazzo provato in presenza di una donna come me era palpabile, soprattutto all’inizio. E comunque, nessun segno di quella galanteria abituale che si trova ancora, in particolare negli uomini di una certa età – di cui fanno parte. Con la massima disinvoltura, mi tagliavano la strada sulle scale e mi passavano allegramente davanti al buffet durante le pause-caffè. Fino a che un cameriere, per pietà, mi chiedeva che cosa volevo bere. Poi, quando abbiamo cominciato a conoscerci meglio, in particolare durante le sessioni di lavoro in piccoli gruppi, gli altri ecclesiastici mi hanno a poco a poco mostrato la loro simpatia. A modo loro, certo: ero considerata come una mascotte, sempre trattata con paternalismo, anche se potevano avere la mia età, o erano più giovani di me.

Fin dal mio arrivo, tutto sembrava essere stato concepito perché mi sentissi un’estranea: nonostante i miei badge di accreditamento, ero sottoposta a controlli inflessibili. Cercavano perfino di requisirmi il tablet e il cellulare. Ogni volta, ero presa per un’altra: nel migliore dei casi per una giornalista o per una donna delle pulizie. Poi hanno cominciato a conoscermi e a trattarmi con rispetto e gentilezza. Quando, dopo tre o quattro giorni, le guardie svizzere in uniforme incaricate di sorvegliare l’entrata si sono messe sull’attenti davanti a me, mi sono sentita al settimo cielo! La mia presenza, comunque, era solo tollerata: non “timbravo il cartellino” prima di ogni seduta di lavoro come i padri sinodali, non avevo diritto di intervenire, se non alla fine, come veniva concesso agli uditori, e non mi era permesso neppure di votare. Neanche nelle sedute in piccoli gruppi. Non solo non avevo il diritto di votare, ma mi era vietato proporre modifiche al testo sottoposto al dibattito. In teoria, non avrei neanche dovuto parlare. Ma di tanto in tanto, ci si degnava di chiedere il mio parere; ho avuto bisogno di coraggio, ma ho cominciato ad alzare la mano e a farmi sentire. All’ultima riunione, sono perfino riuscita a suggerire delle modifiche!

Insomma, tutto contribuiva a far sì che mi sentissi inesistente. Ognuno dei miei interventi veniva respinto. Un giorno, ad esempio, ho voluto ricordare che al diciannovesimo capitolo del Vangelo secondo Matteo, Gesù parlava di “ripudio” e non di “divorzio” e che, nel suo contesto storico, quello significava “ripudio della donna da parte del marito”. E anche che l’indissolubilità difesa da Gesù non è un dogma astratto, ma una protezione concessa ai più deboli della famiglia: le donne. Ma loro hanno continuato a spiegare che Gesù era contro il divorzio. Avrei anche potuto tacere: parlavo nel vuoto.

Ho anche cercato di condividere le mie impressioni con le poche altre donne presenti al sinodo, ma loro mi guardavano sempre con stupore: per loro, quel trattamento era assolutamente normale. La maggior parte era invitata in quanto membro di una coppia – al momento degli interventi di chiusura ho ascoltato improbabili racconti di matrimonio narrati insieme al marito. La sola a sfuggire a questo clima di dimissioni era una giovane suora combattiva che aveva scoperto, nel corso di un colloquio con il papa, che le quattro lettere che la sua associazione gli aveva inviato –per reclamare più spazio per le religiose – non erano mai pervenute al pontefice. Ho capito che le suore, essendo numerose, molto più numerose dei religiosi maschi, fanno paura: se entrano loro, mi si diceva, noi saremo schiacciati. È quindi meglio fare come se non esistessero.

Sotto i miei occhi curiosi e stupefatti, la Chiesa mondiale ha preso corpo e identità. È certo, ci sono campi distinti tra coloro che vogliono cambiare le cose e coloro che vogliono semplicemente difendere lo statu quo. E la contrapposizione è molto netta. Tra i due, una sorta di palude, dove ci si adegua, si dicono cose vaghe e si aspetta di vedere come evolve il dibattito. Il campo dei conservatori assicura ai poveri fedeli che seguire le norme non è un fardello disumano perché Dio ci aiuta con la sua grazia. Hanno un linguaggio colorito per parlare del matrimonio cristiano, del “canto nuziale”, della “Chiesa domestica”, del “Vangelo della famiglia” – insomma, di una famiglia perfetta che non esiste, ma che le coppie presenti devono testimoniare raccontando la loro storia. Forse ci credono. In ogni caso, non vorrei essere al loro posto.

Ci sono più sfumature nel campo dei progressisti. I più audaci arrivano a parlare di donne e di violenza coniugale. Li si distingue facilmente perché invocano incessantemente la misericordia. Naturalmente, le famiglie perfette non hanno bisogno di misericordia. “Misericordia” è stata la parola chiave del sinodo: nel gruppo di lavoro, gli uni lottano per toglierla dai testi, gli altri la difendono con vigore e cercano al contrario di moltiplicarla. In fondo, non è molto complicato. Mi ero immaginata una situazione teologicamente più complessa, più difficile da decifrare dall’esterno. Ma a poco a poco ho capito che si stava operando un cambiamento profondo: accettare che il matrimonio sia una vocazione, analogamente alla vita religiosa, è un grande passo avanti. Significa che la Chiesa riconosce il senso profondo dell’Incarnazione, che ha dato valore spirituale a ciò che viene dal corpo, e quindi anche alla sessualità considerata come un mezzo spirituale, sia nella castità che nella vita coniugale. Anche l’insistenza sulla vera intenzione della fede, sulla preparazione al sacramento è molto importante: basta con l’adesione di facciata, senza una scelta in coscienza. Il grande precetto di Gesù, secondo il quale solo l’intenzione del cuore conta, entra progressivamente nella vita pratica. E questo vuol dire che progrediamo in maniera significativa nella comprensione della sua parola. Nelle migliaia di polemiche sulla dottrina e sulla normatività, sembra che non esista niente di tutto questo, ma, guardando più da vicino, il cambiamento è percepibile, ed è senza dubbio positivo.

Durante le lunghe ore di dibattito dell’assemblea, ho osservato, affascinata, l’eleganza ecclesiastica: tutti “in uniforme” con le tonache profilate di viola o di rosso, gli zucchetti dello stesso colore, alcuni con cappe elaborate con lunghi cordoni e bottoni colorati. Gli orientali sfoggiano copricapi di velluto ricamati d’oro o d’argento, o cappelli neri o rossi. Il più elegante portava una lunga tunica viola – alla fine ho scoperto che si trattava di un vescovo anglicano. Talvolta, da lontano, un domenicano in tunica bianca veniva preso per il papa, che democraticamente, si univa a noi per la pausa-caffè.

È vero che arrivano da tutti gli angoli del mondo, è vero anche che la Chiesa è cattolica: in generale, i vescovi dei paesi anticamente colonizzati parlano la lingua del vecchio conquistatore: il francese, l’inglese, il portoghese. Quelli che vengono dall’Europa dell’est parlano italiano. Mi rendo conto di quanto siano numerosi i vescovi in India e in Africa. Ognuno rappresenta un pezzo di storia e di realtà, sia che parlino di difficoltà concrete o che si accontentino di tirate teoriche a favore della famiglia. E scopro così anche che i difensori più rigidi della tradizione sono quegli stessi che vivono nei paesi dove la vita è più difficile per i cristiani, come gli orientali, gli slavi o gli africani. Quelli che hanno conosciuto le persecuzioni comuniste propongono di resistere con lo stesso rigore e la stessa intransigenza al fascino della modernità; coloro che vivono in paesi tormentati e insanguinati dove l’identità cristiana è minacciata, pensano che è solo restando saldi sulle regole che si può difendere la religione contro le minacce di cui è oggetto.

Tranne poche rare eccezioni, che hanno la mia preferenze, tutti parlano un linguaggio autoreferenziale, quasi sempre incomprensibile per chi non appartiene alla ristretta cerchia clericale: “affettività” per dire “sessualità”, “naturale” per dire “non modificabile”, “sessualità matura”, “arte dell’accompagnamento”. Quasi tutti sono convinti che sia sufficiente seguire buoni corsi di preparazione al matrimonio e forse anche un po’ di catechismo prima delle nozze per superare tutte le difficoltà. Eppure, dal mondo reale sorgono tante situazioni diverse e complesse. In particolare la questione dei matrimoni misti che si ritrova ovunque nel mondo. I problemi sono molteplici e vari, ma ce n’è uno che è presente in tutti i casi: la religione cattolica è la sola a porre l’indissolubilità del matrimonio. E quindi i poveri cattolici si ritrovano spesso abbandonati e nell’impossibilità di risposarsi. Quanti ecclesiastici difendono con orgoglio le loro famiglie tradizionali senza pensare che nella maggioranza dei casi si tratta di situazioni che penalizzano le donne.

Ma le donne sono quasi invisibili. E quando ne parlo, con forza, nei miei interventi, lamentandomi della loro assenza mentre si tratta di discutere della famiglia, mi trovano “molto coraggiosa”. Vengo applaudita, perfino ringraziata a volte; sono un po’ sorpresa, poi capisco che, parlando chiaramente, li ho dispensati dal farlo loro.

Sommersa da queste ondate di sensazioni contraddittorie – tra la collera suscitata da un’evidente esclusione e la soddisfazione, comunque, di essere lì – non potevo fare a meno di pensare che era una cosa fuori dal comune partecipare ai nostri giorni ad un’assemblea che si apre con il canto del Veni Creator Spiritus e termina con il Te Deum. Ma proprio per questa ragione soffro ancor di più per l’ingiusta esclusione delle donne da una riflessione che, in linea di principio, riguarda il rapporto dell’umanità nel suo insieme, quindi uomini e donne, con Dio.

Lucetta Scaraffia, professore associato di Storia contemporanea presso l’Università di Roma

“Le Monde”, 27 ottobre 2015 (traduzione:                                    www.finesettimana.org

http://www.c3dem.it/tag/lucetta-scaraffia

Nell’Antico Testamento il divorzio non era sempre un tabù.

Le Sacre Scritture ci dicono che il divorzio è ammesso? Ci sono casi di matrimonio finiti con la separazione tra i coniugi? Oppure, per la Bibbia il divorzio era considerato un tabù?

            Don Bruno Ognibeni docente ordinario di Teologia biblica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, attraverso il suo volume “Il matrimonio alla luce dell’Antico Testamento” di prossima pubblicazione ci aiuta a sciogliere l’interrogativo.

            La moglie “in stato servile”. Nell’Antico Testamento, infatti, il divorzio è ammesso. C’è la facoltà della moglie di “stato servile” (cioè una donna data in sposa ad un uomo dalla sua padrona) di lasciare il marito-padrone nel caso che lui non le dia ciò che le spetta in quanto moglie (Es 21,10-11). Se decide di avvalersi di tale facoltà, la donna riacquista lo statuto di libera e perde quello di maritata, mentre il marito perde allo stesso tempo sia una serva che una moglie, senza alcuna compensazione pecuniaria.

            I casi di Hagar e Levita.  Si tratta infatti senza alcun dubbio di scioglimento del vincolo matrimoniale, come accade a Hagar (Gen 21,14), non però per volontà sua, ma per decisione congiunta della sua padrona e di suo marito. Lascia il marito pure la concubina del Levita di cui abbiamo letto nel libro dei Giudici, (Gdc 19,2), ma non sappiamo se lo fa perché ritiene di essere stata lesa nei suoi diritti.

            La moglie “libera”. Se ha diritto di lasciare il marito inadempiente la moglie di stato servile, allora tanto più può godere di questo diritto la moglie libera (cioè senza una padrone che l’ha data in sposa ad un uomo). Una conferma ci viene dalla storia di Michal, la moglie che Davide abbandona quando deve fuggire per mettersi in salvo da Shaul: suo padre si ritiene libero di darla in moglie ad un altro (Sm 25,44).

            Gli obblighi del marito.  Come lui, agisce il suocero di Sansone, che se ne era andato via dopo la settimana nuziale: “ho creduto che l’avessi presa in odio e l’ho data al tuo amico” (Gdc 15,2). Un marito che se ne va di casa non adempie gli obblighi che ha preso nei confronti di sua moglie. Così facendo la libera da qualsiasi obbligo nei suoi riguardi e le dà il diritto di andare in moglie ad un altro uomo. Ambedue questi esempi mettono in evidenza l’importanza dell’atto formale di scioglimento del matrimonio.

            Una scelta anche maschile.  Va rilevato, in ogni caso, che la scelta di divorziare è a disposizione sia dell’uomo che della donna. Nel codice deuteronomico si legge del novello sposo che “prende in odio” la sposa accusandola di non essere arrivata vergine alle nozze (Dt 22,13).

I contratti di Elefantina.  Il divorzio molto probabilmente, spiega il biblista, avveniva persino con un atto formale, nel senso di una dichiarazione davanti a testimoni, come attestato dai contratti matrimoniali di Elefantina, che risalgono al V secolo a.C. In essi è infatti prevista l’eventualità che in futuro il marito oppure la moglie dichiari davanti alla comunità riunita di aver “preso in odio” il proprio coniuge, al quale deve conseguentemente versare “l’argento dell’odio”, una pena pecuniaria in cui incorre quello dei coniugi che prende la decisione di rompere il matrimonio.

            I tre matrimoni.  Nell’Antico Testamento (Dt 24,1-4), si evidenzia anche una legge che limita il diritto di risposarsi dopo aver divorziato. Un marito che scopriva in sua moglie un comportamento indegno e per questa ragione decideva di divorziarla, consegnava un documento certificante questa sua volontà e la mandava via da casa sua. Quella stessa donna, da lui divorziata, poteva andare allora in moglie ad un altro, il quale pure, per motivi che non sono specificati, aveva facoltà di divorziarla e mandarla via da casa sua dopo averle rilasciato l’apposito certificato, oppure dopo la morte lasciarla libera automaticamente di contrarre un terzo matrimonio. A quel punto la donna poteva contrarre le terze nozze ma non poteva mai risposarsi con il primo marito.

            Divorzio “raccomandato”. Nei libri sapienziali, insomma, il divorzio è tranquillamente accettato, anzi raccomandato in alcuni casi. Interessante è soprattutto Sir 25,26, poiché menziona come causa di divorzio non l’infedeltà, ma l’insubordinazione della moglie

Gelsomino Del Guercio                     Aleteia                        2 novembre 2015

http://it.aleteia.org/2015/11/02/antico-testamento-divorzio-non-sempre-tabu

            «Io l’unico italiano che firmai quell’impegno a non farsi dominare dal denaro»

È uno dei pochi partecipanti italiani al Concilio ancora viventi[è l’unico vescovo cattolico italiano presente al Concilio Vaticano II oggi vivente; Joseph Aloisius Ratzingerera consulente dell’arcivescovo di Colonia cardinale Josef Frings e poi perito del Concilio]. E fu l’unico italiano a firmare il Patto delle catacombe. A 92 anni monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, non ha perso la verve di rilanciare i contenuti di quel documento.                                                                      https://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Bettazzi

Perché aderì al Patto?

«Io venni avvisato da un amico di quell’iniziativa. Facevo parte del gruppo dei vescovi ‘Amici di Charles de Foucauld’, eravamo una ventina. Ci interessava costruire una Chiesa attenta e vicina ai poveri. Quella del Patto fu una proposta che partiva dal gruppo dei vescovi cosiddetti ‘belgi’, perché si riunivano al collegio belga di Roma. E infatti fu un vescovo belga, Himmer, colui che tenne l’omelia alla messa. Poi ciascuno si impegnò, una volta tornato a casa, a far firmare anche altri fratelli vescovi».

Cosa ricorda di quella celebrazione?

«Fu una cerimonia molto semplice. Noi ci impegnammo personalmente a sottoscrivere i vari punti del Patto. Poi, negli anni, il senso di quel gesto e la sua portata, devo dire la verità, si sono un po’ persi. È stato alcuni anni fa, in occasione del 50° anniversario dell’inizio del Concilio, che dalla Germania mi hanno cercato per chiedermi informazioni sul Patto, proprio perché ne ero stato uno dei firmatari e uno degli ultimi ancora viventi. E dissi di cercare negli archivi di monsignor Himmer, perché sicuramente lui, che ne fu uno dei più forti sostenitori, ne sapeva qualcosa».

Quale l’aspetto del Patto che resta più attuale?

«La vicinanza ai poveri seguendo lo stile di vescovo che papa Francesco ci propone oggi. Ovvero, un servizio episcopale più semplice e che non si immischi con i soldi. Papa Francesco non ha partecipato al Concilio e quindi non era presente alla firma del Patto. Ma il suo porsi come pontefice manifesta un’adesione impegnata ai punti di quel documento».

Una curiosità. Nel Patto si dice che i vescovi non vogliono più chiamarsi ‘monsignore’. Lei però è rimasto con questo appellativo.

(Ride). «Eh, sì. Perché dopo aver firmato ho pensato che il Vangelo ci dice: ‘Non fatevi chiamare padre, perché uno solo è il padre che sta nei cieli’. E così.».

Intervista a Luigi Bettazzi di Lorenzo Fazzini                      Avvenire 7 novembre 2015

Tra i firmatari, nomi noti come dom Hélder Câmara, arcivescovo di Recife (Brasile), l’arcivescovo di Nazaret, Hakim, Massimo IV, patriarca di Antiochia, Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba (Ecuador), famoso per la sua difesa dei campesinos; Enrique Angelelli, ausiliare di Cordoba (Argentina), ucciso durante la dittatura e punto di riferimento per l’allora padre Jorge Mario Bergoglio; il vescovo di Tournai (Belgio), Charles-Marie Himmer, che tenne l’omelia quel giorno

www.avvenire.it/Cultura/Pagine/CATACOMBE-.aspx

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CINQUE PER MILLE

Elenco dei pagamenti per gli anni finanziari 2012 e 2013.

Pubblicato sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali l’elenco delle disposizioni di pagamento per gli anni finanziari 2012 e 2013

Sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è possibile consultare gli elenchi dei beneficiari del cinque per mille per i quali è stato disposto il pagamento per gli anni finanziari 2012 (154 enti nel 4° elenco) e 2013 (40 enti nel 1° elenco e 30.917 enti nel 2° elenco).

Per l’anno 2012 si ricorda che sono disponibili gli elenchi degli enti che non hanno comunicato le coordinate bancarie per l’accredito (elenco dei beneficiari privi di IBAN – NoIBAN).

http://www.lavoro.gov.it

http://www.lavoro.gov.it/AreaSociale/CinquePerMille/Pages/elenco_pag_2013.aspx

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Latiano (BR) servizio sperimentale di welfare scolastico.      

Il Consultorio Familiare Beato Bartolo Longo, attivo dal 1983 nel territorio brindisino, d’intesa con il secondo istituto comprensivo “M. Montessori – V. Bilotta” della città di Francavilla Fontana, ha avviato, per il secondo anno consecutivo, il servizio sperimentale di welfare scolastico.

Il Servizio è rivolto prioritariamente ai ragazzi, ai loro problemi, alle loro difficoltà, ma è anche un possibile spazio di incontro e confronto per i genitori ed i docenti, e offre una molteplicità articolata e composita di interventi specialistici, erogati da uno Staff multiprofessionale.

Gli interventi previsti sono i seguenti:

  • Spazio di Ascolto psico-socio-pedagogico, rivolto a studenti, genitori e docenti;
  • Interventi a favore del Gruppo Classe, volti a far emergere e rilevare, con tecniche appropriate, bisogni e dinamiche del contesto, o informare e formare il gruppo classe su tematiche specifiche;
  • Orientamento: interventi professionali di orientamento nella scelta del percorso di studi superiore o post diploma, o nella ricerca di un possibile inserimento lavorativo;
  • Formazione Continua per i Docenti: cicli di incontri formativi, con workshop specifici, volti ad offrire linee guida di intervento adeguate e specifiche;
  • Scuola Genitori: piano di incontri formativi con sessioni per i genitori;
  • Mediazione Scolastica: interventi di gestione del conflitto, in ambito scolastico, tra i ragazzi, e le diverse componenti della Comunità Scolastica;
  • Consulenza Specialistica “BES”: supporto ai docenti nella individuazione dei “Bisogni Educativi Speciali” e nella predisposizione degli opportuni interventi socio educativi.

Il servizio sarà operativo dal mese di dicembre 2015, ogni mercoledì, dalle ore 09.00 alle ore 13.00.

Referenti del servizio saranno la dott.ssa Maria Concetta Leozappa, psicologa, e la dott.ssa Antonella Petronella, pedagogista.

Comunicato stampa                                      http://www.beatobartololongo.it

Trento. Si festeggiano i 50 anni.

Martedì 1 dicembre 2015 presso la Sala Falconetto del Comune di Trento, ore 20.30, si festeggiano i 50 anni di Ucipem con una conferenza/spettacolo per ascoltare la sua storia, che si interseca con tante altre storie degli ultimi 50 anni e per sorridere con i Social Clown NasoNaso.

1965-2015 con Monica Ronchini, ricercatrice Fondazione Museo Storico di Trento

Francesco Belletti, direttore Centro Internazionale Studi Famiglia di Milano

Associazione NasoNaso Social Clown

Introduce         Fulvio Gardumi, giornalista

Il libro che racconta i nostri primi 50 anni, presentato dall’autrice, ispirerà la riflessione di Francesco Belletti e l’interpretazione improvvisata e giocosa di attori professionisti.

La serata sarà introdotta dai saluti istituzionali e da un video di presentazione del consultorio.

www.ucipem-tn.it

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CORTE COSTITUZIONALE

La Consulta chiarisce il cambio di sesso.

Sentenza n.221           – 5 novembre 2015.

La Corte costituzionale ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Trento sulla legge 164 del 1982 relativa alla rettificazione di anagrafica del sesso. Il ricorso faceva leva su un’interpretazione secondo cui la norma subordinava la rettificazione di attribuzione di sesso alla modificazione dei caratteri sessuali della persona attraverso un intervento chirurgico.

Ma in realtà spiega la sentenza della Consulta, redatta dal giudice Giuliano Amato la mancanza di un riferimento testuale esplicito nel testo normativo alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti a una situazione congenita), attraverso cui si realizza la modificazione, «porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico».

La sentenza si richiama ai «diritti della persona ai quali il legislatore italiano, con l’intervento legislativo in esame, ha voluto fornire riconoscimento e garanzia».

La protagonista all’origine della vicenda esaminata dal tribunale di Trento, e rimessa alla Corte costituzionale, è una donna senza figli, mai sposata e che dichiarava di aver percepito, sin da bambina, un’identità di genere maschile lamentando «frustrazione e disagio» dovuti al fatto che nei documenti di identità risultava donna.

La sentenza della Corte costituzionale cita anche la recente decisione della Cassazione (Prima Sezione civile del 20 luglio 2015, n. 15138) che aveva esaminato il caso di una persona transessuale, autorizzata all’intervento chirurgico ma che vi aveva poi rinunciato e che chiedeva comunque la rettificazione dello stato civile. La Cassazione aveva riconosciuto il diritto, stabilendo che per ottenere il cambio di sesso all’ anagrafe l’intervento chirurgico di adeguamento degli organi sessuali non è obbligatorio.

Il Sole 24 Ore             6 novembre 2015

www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do

http://www.giurcost.org/decisioni

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DALLA NAVATA

32° domenica del tempo ordinario – anno B -8 novembre 2015.

1 Re                  17, 13 «Elia le disse: Non temere; va a fare come hai detto.»

Salmo              146, 06 «Il Signore rimane fedele per sempre.»

Ebrei                 09, 28 «Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta.»

Marco               12, 44 «Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere.»

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FECONDAZIONE

Ringiovanire le ovaie per evitare eterologa.

            ‘Ringiovanire’ le ovaie per tentare di realizzare il sogno di una gravidanza, senza ricorrere alla fecondazione eterologa, quella che richiede l’uso di gameti esterni alla coppia. Una sorta di ‘ultimo tentativo’ prima dell’ovodonazione, soprattutto per le donne più avanti con gli anni, che viene effettuato in forma sperimentale e gratuita dalle cliniche Ivi e dall’Hospital La Fe di Valencia. Con i dati raccolti si sta portando avanti uno studio clinico che sarà pubblicato per documentare l’efficacia della tecnica. “Sono tre in particolare – spiega all’Adnkronos Salute Daniela Galliano, direttrice del centro Ivi di Roma – le terapie più innovative allo studio: il trapianto di cellule staminali ovariche (Scot), la frammentazione ovarica per l’attivazione follicolare (Offa) e Augment, che mira proprio a ringiovanire gli ovuli”. Gli ultimi dati ufficiali indicano che è in crescita il numero di donne italiane che ricorrono a trattamenti medici per poter avere un figlio: 54.000 (+77% in 7 anni) nel 2012. In aumento di ben il 168% invece le nascite ottenute a seguito di procreazione medicalmente assistita fra il 2005 e il 2012. E’ noto che il livello di fertilità femminile si riduce drasticamente e in modo più che lineare una volta superati i 30 anni di età, arrivando ad azzerarsi praticamente poco dopo i 40 anni. “E’ proprio attorno a questa età che le coppie devono ricorrere alla fecondazione eterologa per coronare il sogno di un figlio, ma prima c’è un tentativo che si può fare per aumentare la qualità degli ovociti della donna”, evidenzia Galliano.

Per le donne che vogliono essere madri e non riescono a farlo naturalmente “esistono trattamenti di fertilità assistita – sottolinea l’esperta – come la Fiv (fecondazione in vitro), che richiede la stimolazione delle ovaie con ormoni per ottenere ovuli. Tuttavia ci sono molte donne che a causa dell’età, della menopausa precoce o perché non riescono ad avere una risposta adeguata ai trattamenti ormonali non producono abbastanza ovociti per la fecondazione in vitro e hanno anche bassi tassi di gravidanza. Oggi non esiste una soluzione per la bassa risposta ovarica, anche se è un problema comune: da qui l’importanza della ricerca di nuovi trattamenti volti a ringiovanire le ovaie con l’obiettivo finale di rendere queste pazienti madri con i propri ovuli, vale a dire senza dover ricorrere alla donazione di ovociti”. In cosa consistono le differenti opzioni terapeutiche? “L’obiettivo degli studi sul trapianto di cellule staminali ovariche (Scot) e sulla frammentazione ovarica per l’attivazione follicolare (Offa) – spiega la ginecologa – è quello di favorire la risposta ovarica al trattamento ormonale della Fiv incrementando la quantità dei follicoli mentre Augument vuole migliorare la qualità degli embrioni”. L’attivazione follicolare nelle pazienti con bassa risposta ovarica attraverso la frammentazione del tessuto ovarico “consiste nel ‘preparare’ l’ovaio prima di realizzare un ciclo di Fiv. Per fare questo, si estrae un pezzo di corteccia ovarica mediante laparoscopia e si frammenta. La frammentazione favorisce la crescita dei follicoli (ovociti immaturi) che in circostanze normali sono ‘dormienti’ e così si ottimizza la riserva ovarica. In seguito, nello stesso atto chirurgico, si re-impiantano i frammenti di ovaio nella paziente. Il trapianto di cellule staminali comporta un procedimento di auto-trapianto di midollo osseo (ottenuto da cellule staminali madri del sangue periferico) per rigenerare l’ovaio ed è in grado di promuovere la crescita di follicoli che danno luogo alla formazione degli ovociti”.

C’è infine la tecnica chiamata ‘Augment’: “Gli embrioni generati a partire dagli ovuli di donne in età avanzata – spiega Galliano – oltre a presentare in percentuale molto elevata anomalie cromosomiche, presentano anche una qualità scarsa. Per migliorarla si realizza una microiniezione autologa dei mitocondri (che sono responsabili della generazione dell’energia richiesta dalle cellule) di cellule staminali madri ovariche nello stesso momento in cui viene fecondato l’ovulo”. I mitocondri sono “una sorta di ‘terzo attore’ al momento della fecondazione in vitro. Successivamente si possono impiegare tecniche di screening delle anomalie cromosomiche che all’Ivi vengono in ogni caso proposte anche associate a procedimenti standard come la Fiv”. Ecco i risultati a oggi: 11 pazienti hanno realizzato il trapianto ‘Scot’, 6 di loro sono arrivate al ciclo di Fiv e due hanno raggiunto la gravidanza (una in forma spontanea). Sono state trattate 4 pazienti con Offa e una di loro è rimasta incinta. Precedenti esperienze sviluppate in altri centri hanno invece portato a compimento 14 nascite di bambini sani con Augment. “Nei prossimi mesi avremo più dati a disposizione per pubblicare lo studio, per il quale stiamo offrendo gratuitamente questi trattamenti alle pazienti fino ai 42 anni di età”, conclude l’esperta.

Aduc – Salute N. 44                06 novembre 2015

http://salute.aduc.it/notizia/fecondazione+ringiovanire+ovaie+evitare+eterologa_131768.php

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FESTIVAL DELLA FAMIGLIA

Comunità educanti per il benessere sociale e la competitività dei territori.

4° edizione del Festival della famiglia 4 e 5 dicembre 2015 – Riva del Garda.

L’Italia è attraversata da una grande emergenza educativa. Lo si dice ormai da tanto tempo, forse troppo, con il rischio che le parole perdano forza e si svuotino di significato, che l’emergenza si radichi o, ancor peggio, che si impari a convivere con una situazione di progressivo impoverimento sociale, culturale ed economico.

Con l’educazione è in gioco il futuro del Paese, quindi il benessere individuale e collettivo; per questo occorre andare oltre la denuncia spesso generica, acritica e passiva per avviare una (ri)costruzione partecipata e collettiva attorno alle questioni epocali che oggi interrogano da vicino le vite degli individui, delle famiglie e delle comunità. La storia dimostra che non bastano le deleghe ai deputati “tradizionali” e agli esperti: per paradosso, infatti, l’affidamento esclusivo della questione educativa a genitori, insegnanti e alle agenzie formative specializzate finisce spesso per trasformarsi in un loro abbandono, in un senso di solitudine e disorientamento.

Pensare ad una comunità educante, per converso, significa ricollocare l’educazione come questione cruciale della polis , poiché riguarda tutti – ciascuno nel proprio ruolo, con le proprie competenze e risorse e il proprio sguardo sul presente – e a tutti chiede di partecipare. Dare credito politico all’educazione significa allestire contesti dove le persone, le organizzazioni – pubbliche, private, sociali, economiche – e la comunità tutta sentono di potersi nuovamente riappropriare di un ruolo e di una responsabilità sociale. Contesti dove, fuori da ogni retorica, sia possibile confrontarsi, riconoscersi, comprendere, immaginare, per poi co-costruire e agire – ciascuno a partire dal proprio ambito di riferimento – una visione comune di futuro, accrescendo e curando, al tempo stesso, il capitale umano e il capitale sociale di un territorio, ovvero le componenti strategiche per promuoverne il benessere, la generatività, la coesione e la competitività.

            La manifestazione è ideata e organizzata dall’Agenzia per la famiglia in partnership con il Distretto Famiglia Alto Garda, il Comune di Riva del Garda e il Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Quest’anno avrà inoltre due partner d’eccezione: Educa e Il Trentino dei bambini.

Focus del Festival sarà di provare a dare risposta a determinati quesiti:

  • Comunità educante: una sfida per il futuro. Si proverà ad interrogarsi su come l’educazione possa diventare impegno collettivo; come si raccordano le politiche per il benessere familiare con quelle educative e, infine, se esista un nesso tra politiche per il benessere familiare e quelle per lo sviluppo;
  • Le politiche familiari in Italia. L’Italia è interessata da una grave crisi demografica, non si fanno più figli ed il Paese diventa sempre più vecchio. Questo fenomeno impatterà significativamente sui bilanci pubblici poiché i costi sociali e previdenziali sono drammaticamente destinati ad aumentare. La sessione intende esaminare il tema delle politiche familiari nel contesto nazionale per individuare possibili strategie di intervento anche innovative;
  • Quali scenari per la famiglia? Il Piano nazionale per la famiglia approvato nel 2012 è lo strumento di riferimento per il sistema italiano delle politiche familiari. Come si raccordano le strategie nazionali con quelle europee e con quelle locali? Qual è il ruolo dell’associazionismo familiare per promuovere le politiche a sostegno del benessere della famiglia? Quali scenari evolutivi è possibile mettere in atto tenendo conto della cronica scarsità delle risorse finanziarie?

Sono già aperte le iscrizioni, il modulo online per iscriversi all’edizione 2015 sul sito:

www.festivaldellafamiglia.eu

www.trentinofamiglia.it/Festival-della-Famiglia/edizioni/2015/Programma

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Papa: perdonare in famiglia rende meno spietata la società.

Se si impara il perdono reciproco in famiglia, a chiedere scusa prima che sia troppo tardi, si rende più “solida” la famiglia stessa e “e meno crudele la società”. Il Papa ha rilanciato questo insegnamento nella catechesi dell’udienza generale in Piazza San Pietro. Che il prossimo Giubileo, ha concluso Francesco, insegni sempre più alle famiglie “a costruire strade concrete di riconciliazione”.

Società che sono un deserto piuttosto esteso di malanimo, di visioni negative che non salvano nulla e nessuno e che non di rado sfociano in odio più o meno dichiarato, società che Francesco non esita a definire spietate. E in mezzo a tale aridità, l’oasi di quelle famiglie che, insegnando il perdono al loro interno, lo esportano come un antidoto al di fuori, migliorando il vissuto degli altri.

La grande palestra del perdono. Famiglie del genere, spiega il Papa alla folla dell’udienza generale, sono in fondo la traduzione pratica del “rimetti a noi i nostri debiti” del “Padre Nostro”. Sono “una grande palestra di allenamento al dono e al perdono reciproco, senza il quale – assicura – nessun amore può durare a lungo”: “Non si può vivere senza perdonarsi, o almeno non si può vivere bene, specialmente in famiglia. Ogni giorno ci facciamo dei torti l’uno con l’altro. Dobbiamo mettere in conto questi sbagli, dovuti alla nostra fragilità e al nostro egoismo. Quello che però ci viene chiesto è di guarire subito le ferite che ci facciamo, di ritessere immediatamente i fili che rompiamo nella famiglia. Se aspettiamo troppo, tutto diventa più difficile”.

Il segreto “semplice”: chiedere subito scusa. Non è difficile invece il “segreto” del sapersi perdonare, dice Francesco, perché si basa su una semplice parola di cinque lettere, che mamme, papà, figli, nonni possono imparare a scambiarsi quando serve, un semplice “scusa”: “Se impariamo a chiederci subito scusa e a donarci il reciproco perdono, guariscono le ferite, il matrimonio si irrobustisce, e la famiglia diventa una casa sempre più solida, che resiste alle scosse delle nostre piccole e grandi cattiverie. E per questo non è necessario farsi un grande discorso, ma è sufficiente una carezza: una carezza ed è finito tutto e rincomincia. Ma non finire la giornata in guerra! Capito?”.

Il perdono “ovunque”. Il bello e il vantaggio di imparare a chiedersi scusa in famiglia – sottolinea Francesco – è che si è spinti a farlo anche all’esterno, “dovunque ci troviamo”. Il Papa comprende lo scetticismo di chi, “anche tra i cristiani”, ritiene il perdono “un’esagerazione”, “belle parole” impossibili da “metterle in pratica”. “Grazie a Dio non è così”, obietta, perché “è proprio ricevendo il perdono da Dio che, a nostra volta, siamo capaci di perdono verso gli altri”: “Fa parte della vocazione e della missione della famiglia la capacità di perdonare e di perdonarsi. La pratica del perdono non solo salva le famiglie dalla divisione, ma le rende capaci di aiutare la società ad essere meno cattiva e meno crudele. Sì, ogni gesto di perdono ripara la casa dalle crepe e rinsalda le sue mura”.

Famiglia e Giubileo. La famiglia è tema di quel Sinodo appena terminato, del quale Francesco dice di aver voluto che ne fosse pubblicato il testo “perché tutti fossero partecipi del lavoro” degli ultimi due anni, anche se sulle sue “conclusioni”, soggiunge, “devo io stesso meditare”. Ma è anche tema giubilare e lo sguardo del Papa si spinge all’Anno Santo con un augurio che è anche una preghiera, rivolta a quelle famiglie la cui fede e il cui perdono può aiutare a crescere anche la “grande famiglia della Chiesa”: “Davvero le famiglie cristiane possono fare molto per la società di oggi, e anche per la Chiesa. Per questo desidero che nel Giubileo della Misericordia le famiglie riscoprano il tesoro del perdono reciproco. Preghiamo perché le famiglie siano sempre più capaci di vivere e di costruire strade concrete di riconciliazione, dove nessuno si senta abbandonato al peso dei suoi debiti”.

Notiziario Radio vaticana – 4 novembre 2015                     http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

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GOVERNO

Ministero della Salute. Relazione sulla attuazione della legge 194/1978.

Dati preliminari 2014            e dati definitivi 2013              Roma, 26 ottobre 2015         passim

(…)      – Prosegue l’andamento in diminuzione del fenomeno. – Per la prima volta il numero di IVG è inferiore a 100.000: nel 2014 sono state notificate dalle Regioni 97.535 IVG (dato provvisorio), con un decremento del 5.1% rispetto al dato definitivo del 2013 (102.760 casi), e un dimezzamento rispetto alle 234.801 del 1982, anno in cui si è riscontrato il valore più alto in Italia.

Gli altri indicatori confermano questo andamento: il tasso di abortività (numero delle IVG per 1.000 donne tra 15-49 anni), che rappresenta l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza al ricorso all’IVG, nel 2014 è risultato pari a 7.2 per 1000, con un decremento del 5.9% rispetto al 2013 (7.6 per 1000) e un decremento del 58.5% rispetto al 1982 (17.2 per 1000). Il valore italiano rimane tra i più bassi di quelli osservati nei paesi industrializzati (vedi par.1.2). – Il rapporto di abortività (numero delle IVG per 1000 nati vivi) nel 2014 è risultato pari a 198.2 per 1000 (dato provvisorio) con un decremento del 2.8% rispetto al 2013 (204.0 per 1000), e un decremento del 47.9% rispetto al 1982 (380.2 per 1000).                  (…)

Dati definitivi 2013.

Caratteristiche delle donne che fanno ricorso a IVG. I tassi di abortività più elevati sono fra donne di età compresa tra i 20 e i 29 anni. Per quanto riguarda la distribuzione percentuale, nel 2013 il 42.9% delle donne che hanno abortito era in possesso di licenza media superiore, e il 43.6% risultava occupata. La percentuale delle nubili (54.9%) era superiore a quella delle coniugate (38.2%) per le italiane, al contrario delle donne straniere (48.7% le coniugate, 44.9% le nubili). Il 39% delle donne che ha eseguito una IVG non aveva figli.

IVG di donne straniere. Nell¡¯ultimo decennio soprattutto è aumentato il peso delle cittadine straniere, sia come conseguenza della loro maggiore presenza che del loro maggiore ricorso all’aborto rispetto alle donne italiane: 34.0% nel 2013 (nel 1995 era il 7%), con un tasso di abortività del 19.0 per 1000, corrispondente a una tendenza tre volte maggiore, in generale, e quattro volte per le più giovani (v. par.2.6). Il contributo delle donne straniere si è stabilizzato negli anni in termini percentuali ed è diminuito in valore assoluto (33.685 nel 2013 rispetto a 35.388 nel 2012 e 40.224 nel 2007).

Considerando solamente le IVG effettuate da cittadine italiane, la riduzione per le donne italiane dal 1982 ha subito un decremento percentuale del 70.9%, passando da 234.801 a 68.382.

Aborti fra le minorenni. Tra le minorenni, il tasso di abortività per il 2013 è risultato essere pari a 4.1 per 1000 (nel 2012 era 4.4 per 1000), con livelli più elevati nell’Italia settentrionale e centrale; i 3.339 interventi effettuati da minorenni sono il 3.2% di tutte le IVG. Come negli anni precedenti, si conferma il minore ricorso all’aborto tra le giovani in Italia rispetto a quanto registrato negli altri Paesi dell’Europa Occidentale. Ad esempio nel paragone con i più recenti valori di altri paesi (paragrafo 2.1) per le donne con meno di venti anni si osserva quanto segue: in Italia nel 2013 questo tasso di abortività è stato pari al 6.1 per 1000; nello stesso anno in Inghilterra e Galles 17.7, in Norvegia 10.1, in Spagna 12.2, in Olanda 7,5, nel 2012 in Svezia 18.8 e nel 2011 in Francia 15.2. Tassi minori si sono registrati solo in Svizzera, con 4.4 (2012) e in

Germania con 4.8 (2013).

Aborti clandestini. Per quanto riguarda la quantificazione degli aborti clandestini nel Paese, l’Istituto

Superiore di Sanità ha effettuato una stima degli aborti clandestini per il 2012, utilizzando lo stesso modello matematico applicato nel passato. Il numero di aborti clandestini per le donne italiane è stimato compreso nell’intervallo tra 12.000 e 15.000 casi, cifre che indicano una stabilizzazione del fenomeno negli ultimi anni.

Aborti ripetuti. La percentuale di IVG effettuate da donne con precedente esperienza abortiva è risultata pari al 26.8%, valore simile a quello rilevato negli ultimi 10 anni. Le percentuali corrispondenti per cittadinanza sono 20.9% per le italiane e 38.0% per le straniere (20.8% e 37.7%, rispettivamente, nel 2012). La percentuale di aborti ripetuti riscontrata in Italia è la più bassa a livello internazionale (dati più dettagliati sono riportati nel par. 2.7.3).

(…)      Anche per il 2013 il consultorio familiare ha rilasciato più documenti e certificazioni (41.6%) degli altri servizi.

(…) Consultori familiari. Grazie al grande lavoro delle Regioni, il 79% dei consultori ha fornito dati su alcune attività svolte per l’IVG, registrando una maggiore adesione rispetto allo scorso anno. In generale il numero degli obiettori di coscienza nei consultori, pur nella non sempre soddisfacente copertura dei dati, è molto inferiore rispetto a quello registrato nelle strutture ospedaliere. Il fatto che il numero di colloqui IVG sia superiore al numero di certificati {documenti è la terminologia usata dalla legge}rilasciati, potrebbe indicare l’effettiva azione per aiutare la donna “a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza” (art. 5 L.194/78). {maggiore sarebbe se i medici pro live obiettassero solo per l’intervento abortivo.ndr}.

            Prevenzione. Alla luce dell’evidenza, ormai acquisita negli anni, che l’aborto rappresenta nella gran parte dei casi l’estrema ratio e non la scelta d’elezione, la prevenzione del ricorso all’aborto può essere esplicata in tre diverse modalità, come già indicato nel Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI) del 2000.

  1. Prima tra tutti con programmi di promozione della procreazione responsabile nell’ambito del percorso nascita e della prevenzione dei tumori femminili (per la quota in età feconda della popolazione bersaglio) e con programmi di informazione ed educazione sessuale tra gli/le adolescenti nelle scuole e nei conseguenti “spazi giovani” presso le sedi consultoriali.
  2. Un secondo contributo è rappresentato dall’effettuazione di uno o più colloqui con membri di una équipe professionalmente qualificata, come quella consultoriale, al momento della richiesta del documento, per valutare le cause che inducono la donna alla richiesta di IVG e la possibilità, in applicazione degli articoli 2 e 5 della Legge 194/1978, di implementare misure necessarie per il loro superamento, sostenendo le maternità difficili, e la promozione dell’informazione sul diritto a partorire in anonimato, nonché su tutta la legislazione a tutela della maternità. Va sottolineato che i consultori familiari sono i servizi di gran lunga più competenti nell’attivazione di reti di sostegno per la maternità in collaborazione con i servizi sociali dei comuni e con il privato sociale. {anche quelli di ispirazione cristiana.ndr}.
  3. Una terza possibilità di prevenzione riguarda la riduzione del rischio di aborto ripetuto, attraverso un approfondito colloquio con le donne che hanno deciso di effettuare l’IVG, mediante il quale si analizzano le condizioni del fallimento del metodo impiegato per evitare la gravidanza e si promuove una migliore competenza. Tale colloquio dovrebbe essere molto opportunamente svolto nel consultorio a cui la donna, ed eventualmente la coppia, dovrebbe essere indirizzata in un contesto di continuità di presa in carico, anche per una verifica di eventuali complicanze post-aborto.

Conclusioni

  • la prevenzione dell’IVG è obiettivo primario di sanità pubblica;
  • dal 1983 l’IVG è in diminuzione in Italia; attualmente il tasso di abortività del nostro Paese è fra i più bassi tra quelli dei paesi occidentali;
  • rimane elevato il ricorso all’IVG da parte delle donne straniere, a carico delle quali si registra un terzo delle IVG totali in Italia: un contributo che è andato inizialmente crescendo e che si sta stabilizzando come percentuale, mentre il numero assoluto e il tasso di abortività sono diminuiti negli ultimi anni;
  • in generale sono in diminuzione i tempi di attesa, pur persistendo una non trascurabile variabilità fra le regioni;
  •  riguardo l’esercizio dell’obiezione di coscienza e l’accesso ai servizi IVG, si conferma quanto osservato nella precedente relazione al Parlamento: su base regionale e, per la prima volta, per quanto riguarda i carichi di lavoro per ciascun ginecologo non obiettore, anche su base sub-regionale, non emergono criticità nei servizi di IVG. In particolare, emerge che le IVG vengono effettuate nel 60% delle strutture disponibili, con una copertura soddisfacente, tranne che in due regioni molto piccole. Il numero dei punti IVG, paragonato a quello dei punti nascita, mostra che mentre il numero di IVG è pari a circa il 20% del numero di nascite, il numero di punti IVG è pari al 74% del numero di punti nascita, superiore, cioè a quello che sarebbe rispettando le proporzioni fra IVG e nascite. Confrontando poi punti nascita e punti IVG non in valore assoluto, ma rispetto alla popolazione femminile in età fertile, a livello nazionale, ogni 5 strutture in cui si fa una IVG, ce ne sono 7 in cui si partorisce. Infine, considerando le IVG settimanali a carico di ciascun ginecologo non obiettore, considerando 44 settimane lavorative in un anno, a livello nazionale ogni non obiettore ne effettua 1.6 a settimana, un valore medio fra il minimo di 0.5 della Sardegna e il massimo di 4.7 del Molise. Questo stesso parametro, valutato a livello sub-regionale, mostra che anche nelle regioni in cui si rileva una variabilità maggiore, cioè in cui si rilevano ambiti locali con valori di carico di lavoro che si discostano molto dalla media regionale, si tratta comunque di un numero di IVG settimanali sempre inferiore a dieci, cioè con un carico di IVG per ciascun non obiettore che non dovrebbe impegnare tutta la sua attività lavorativa. Il numero dei non obiettori nelle strutture ospedaliere risulta quindi congruo rispetto alle IVG effettuate.
  • il numero degli obiettori di coscienza nei consultori, pur nella non sempre soddisfacente copertura dei dati, è sensibilmente inferiore rispetto a quello registrato nelle strutture ospedaliere;
  • al fine di consolidare la qualità dei dati raccolti dal sistema di sorveglianza IVG utili a monitorare l’applicazione della L.194/78, il Ministero della Salute ha finanziato un progetto CCM della durata di 12 mesi, coordinato dal Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità. In particolare, verranno esaminate insieme ai referenti regionali le criticità presenti a livello locale per quanto riguarda la raccolta dati e l’applicazione della L.194/78, e verranno realizzati incontri formativi per i referenti regionali sulle tecniche di controllo dei dati, sulla stima del bisogno a livello locale e sulle principali criticità emerse. Tale attività si svolgerà entro la prossima primavera, mentre la prima riunione organizzativa si è già svolta in data 21 maggio 2015, a Roma, presso il Ministero della Salute, e ha visto il coinvolgimento di tutte le regioni italiane e delle due province autonome di Trento e Bolzano.
  • il Ministero invita le Regioni a continuare un approfondimento dettagliato dei dati, predisponendo anche una reportistica dedicata all’IVG nella propria regione, per individuare i bisogni del territorio, utilizzando possibilmente gli stessi parametri individuati nella presente relazione, al fine di avere dati comparabili fra le diverse aree territoriali prese in considerazione, fra le regioni e all’interno delle regioni stesse, e per individuare eventuali criticità in maniera puntuale.

Beatrice Lorenzin, ministro.

Dati preliminari anno 2014                          (…)

Il totale di IVG risulta essere pari a 97.535 (Tab. A), con un decremento del 5.1% rispetto al dato definitivo del 2013 (102.760 IVG) e un decremento del 58.5% rispetto al 1982.

Diminuzioni percentuali particolarmente elevate si osservano in Valle D’Aosta, Bolzano (sebbene si tratta di numeri molto piccoli), in Umbria e Marche. Si ricorda comunque che questi dati possono essere ancora incompleti e saranno controllati, ed eventualmente integrati, con quelli provenienti dai modelli D12/Istat e dalle Schede di Dimissione Ospedaliera, non appena saranno disponibili. Nel corso del 2014 sono stati registrati due decessi di donne avvenuti successivamente a IVG: una IVG eseguita con metodo farmacologico e l’altra con metodo chirurgico. Al momento, i due casi sono in corso di approfondimento, circa la sussistenza del nesso causale, e i risultati verranno riportati nella prossima relazione relativa ai dati definitivi 2014.

Il tasso di abortività, calcolato utilizzando le stime della popolazione femminile fornite dall’Istat, è risultato pari a 7.2 per 1000 donne di età 15-49 anni (Tab. B), con un decremento del 5.9% rispetto al 2013 (7.6 per 1000) e con una riduzione del 58.1% rispetto al 1982.

Il rapporto di abortività è stato calcolato utilizzando i dati provvisori dei nati vivi del 2014 forniti dall’Istat (492.121, valore di molto inferiore rispetto al 2013) ed è risultato pari a 198.2 IVG per 1000 nati vivi (Tab. C), con una riduzione del 2.8% rispetto al 2013 (204.0 per 100) e un decremento del 47.9% rispetto al 1982.              (…)

3. Modalità di svolgimento dell’IVG.           3.1 Documentazione e certificazione.                       (pag. 33)

Quando la donna si rivolge a una delle strutture previste per legge per l’iter pre-IVG, viene redatto dal medico un documento firmato anche dalla donna, a cui viene rilasciata una copia, in cui si attesta lo stato di gravidanza e la richiesta della donna di interrompere la gravidanza, oltre all’invito a soprassedere per sette giorni (Art.5 della legge 194/78). Trascorso tale periodo la donna può presentarsi presso le sedi autorizzate per ottenere l’interruzione di gravidanza, sulla base del documento rilasciato. Il rilascio del documento avviene dopo gli accertamenti e i colloqui previsti dall’Art.5. Questo documento spesso chiamato impropriamente certificato, dalla dizione presente nel modello D12/Istat. {è invece una semplice attestazione di avvenuto colloquio e non esprime il parere del medico. Quindi come indicato dal Tar Puglia (sentenza n. 3477, 14 settembre 2010) non fa parte dell’obiezione di coscienza. ndr}. In realtà il certificato viene rilasciato solo quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria o il medico di fiducia riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento o in caso di IVG oltre i 90 giorni, secondo le modalità previste dalla legge.

Anche per il 2013 il consultorio familiare ha rilasciato più documenti e certificazioni (41.6%) degli altri servizi (Tab. 16). Valori di molto superiori alla media nazionale, in Piemonte (66.2%), nella PA di Trento (56.8%) e in Umbria (53.3%). In generale si osservano percentuali più basse nell’Italia meridionale ed insulare, probabilmente a causa della minor presenza dei servizi e del personale. (..)

Da diversi anni si è osservata una tendenza all’aumento del ruolo dei consultori familiari, prevalentemente determinato dal contributo delle donne straniere, le quali, come rilevato dalla tabella precedente, ricorrono più frequentemente a tale servizio, in quanto a più bassa soglia di accesso e dove è spesso presente il mediatore culturale. E’ confortante che le straniere, che sono per quanto riguarda il ricorso alle metodiche per la procreazione responsabile spesso nella condizione delle italiane 30 anni fa, utilizzino i servizi sanitari, in particolare i consultori familiari, visto il ruolo positivo che tali servizi hanno avuto nella riduzione del rischio di aborto tra le italiane. Forse la riduzione del tasso di abortività tra le cittadine straniere osservato recentemente, come riportato nel capitolo sulla cittadinanza, può essere in parte imputabile al lavoro svolto da questi servizi. Si ha così una ulteriore ragione al potenziamento e riqualificazione dei consultori familiari secondo le indicazioni del POMI, con particolare riferimento alla mediazione culturale e a un modello dipartimentale dei servizi ospedalieri e di quelli territoriali. (…)

Nel 2013 il tasso di presenza dei consultori familiari pubblici è risultato pari a 0.7 per 20.000 abitanti (Tab. 17), valore stabile dal 2006, mentre la legge 34/96 ne prevede 1 per lo stesso numero di abitanti. Nel POMI sono riportati organico e orari di lavoro raccomandati ma purtroppo i 2.061 consultori familiari censiti nel 2013 rispondono solo in parte a tali raccomandazioni e ben pochi sono organizzati nella rete integrata dipartimentale, secondo le indicazioni strategiche, sia organizzative che operative raccomandate dal POMI stesso. (…) . Viene così vanificata una preziosa risorsa per la maggiore disponibilità ed esperienza nel contesto socio-sanitario e, grazie alle competenze multidisciplinari, più in grado di identificare i determinanti più propriamente sociali, al fine di sostenere la donna e/o la coppia nella scelta consapevole, nella eventuale riconsiderazione delle motivazioni alla base della sua scelta, di aiutarla nel percorso IVG e ad evitare che l’evento si verifichi nuovamente. (…)

4.2 Attività dei consultori familiari per l’IVG

Lo scorso anno è stata presentata la prima rilevazione dell’attività dei consultori familiari per l’IVG, effettuata sul territorio italiano dall’applicazione della Legge 194. Quest’anno la raccolta dati è migliorata in quanto sono stati raccolti i dati per il 79% dei consultori. Oltre alle informazioni sul numero di ginecologi in servizio, obiettori e non, rilevati in relazione alla tipologia di contratto e in termini di unità (sia in valore assoluto che in termini di Full Time Equivalent), è stato richiesto, come lo scorso anno, anche il numero di donne che hanno effettuato il colloquio previsto dalla Legge 194/78, il numero di certificati rilasciati, il numero di donne che hanno effettuato controlli post IVG (in vista della prevenzione di IVG ripetute).

La raccolta dati si è rivelata problematica, considerando anche la grande difformità territoriale dell’organizzazione dei consultori stessi, che mutano spesso di numero a causa di accorpamenti e distinzioni fra sedi principali e distaccate, la cui differenziazione spesso non è chiara e risponde a criteri diversi fra le diverse regioni. (…) . In generale il numero degli obiettori di coscienza nei consultori, pur nella non sempre soddisfacente copertura dei dati, è molto inferiore rispetto a quello registrato nelle strutture ospedaliere (22% vs 70%). Il fatto che il numero di colloqui IVG sia superiore al numero di certificati [documenti] rilasciati, potrebbe indicare l’effettiva azione per aiutare la donna “a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza” (art. 5 L.194/78).

Si osserva inoltre che l’attività effettuata per quanto riguarda i controlli post IVG è minore rispetto a quella dei colloqui e del rilascio di certificati [documenti]. La consulenza post IVG, fornita dal consultorio, è una buona occasione di promozione per una procreazione responsabile, pertanto sarebbe importante promuoverla e implementarla ulteriormente.

Tabelle

Tabella 1 – Interruzioni volontarie di gravidanza                   Tabella 2 – Percentuali cambiamento 2012-2013

Tabella 3 – IVG in Italia per area geografica              Tabella 4 – Percentuali di cambiamento, 2002-2013

Tabella 5 – IVG ed età                                                Tabella 6 – IVG per classi di età

Tabella 7 – Tassi di abortività per età e regione                      Tabella 8 – IVG e stato civile

Tabella 9 – IVG e titolo di studio                                Tabella 10 – IVG e occupazione

Tabella 11 – IVG e luogo di residenza                                   Tabella 12 – IVG e cittadinanza

Tabella 13 – IVG e nati vivi                                       Tabella 14 – IVG e aborti spontanei precedenti

Tabella 15 – IVG e aborti volontari precedenti                       Tabella 16 – IVG e luogo di certificazione

Tabella 17 – N. Consultori Familiari funzionanti                    Tabella 18 – IVG ed urgenza

Tabella 19 – IVG e settimana di gestazione                Tabella 20 – IVG per periodo di gestazione e età

Tabella 21 – Attesa tra certificazione ed intervento    Tabella 22 – IVG ed assenso per le minorenni

Tabella 23 – Luogo dove è stata effettuata l’IVG                   Tabella 23bis Strutture che effettuano IVG

Tabella 24 – IVG e tipo di anestesia                           Tabella 25 – IVG e tipo di intervento

Tabella 26 – IVG e durata della degenza                                Tabella 27 – IVG e complicanze

Tabella 28 – Obiezione per categoria professionale    Tabella 29 – Valori per Regione intervento e residenza

Tabella 30 – Valori assoluti                                        Tabella 31 – Tassi di abortività

Tabella 32 – Rapporti di abortività

www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=2428

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MATERNITÀ

La maternità nel femminismo.

Come mai la società occidentale di oggi, figlia della generazione di donne che ha fatto il femminismo degli anni Settanta, è ancora così maschilista? Certo, non lo è a livello legislativo —in occidente almeno — e certo, a livello sociale, lo è sicuramente meno di vari decenni fa, ma che la strada per una effettiva parità sia ancora in salita è un dato di fatto. Perché siamo ancora a questo punto? La domanda è complessa, le risposte si intrecciano. Ma probabilmente alla base di questo fallimento vi è anche il difficile rapporto che il femminismo degli anni Settanta ebbe con la maternità.

Uno dei grandi temi con cui si è relazionato quel movimento in occidente — sia nella fase ottocentesca, che in quella, più nota e recente, del secolo scorso — è stato il rapporto con la maternità. Nel tempo, le soluzioni sono state diametralmente opposte: mentre per le femministe dell’Ottocento l’idea di fondo era quella di una sorta di superiorità morale della donna in virtù della maternità, per le loro pronipoti — o almeno per buona parte di loro — l’essere madri era l’incarnazione dell’handicap che, da secoli, inchiodava le donne nelle retrovie, una sorta di diminuzione dell’essere donna.

Non capivo molto di questa posizione da piccola: percepivo che era una visione che relegava le donne ai margini della loro natura. La loro specificità diventava un ostacolo: non era, forse, una brutta teoria che, su basi nuove, riproponeva antiche gabbie, capaci di asservirle ancora e ancora? Non che ci piaccia la retorica di chi, compiendo il processo inverso, schiaccia tutto l’essere donna sulla maternità — e qui, parole limpidissime le ha scritte il cardinale Ratzinger: «Anche se la maternità è un elemento chiave dell’identità femminile, ciò non autorizza affatto a considerare la donna soltanto sotto il profilo della procreazione biologica. Vi possono essere in questo senso gravi esagerazioni che esaltano una fecondità biologica in termini vitalistici e che si accompagnano spesso a un pericoloso disprezzo della donna» — ma il problema del rapporto tra maternità e femminismo resta.

Proprio per questo ci ha colpite il recente pamphlet che Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana (classe 1977), ha pubblicato riscuotendo un successo mondiale. Scritto con verve, tra autobiografia e la netta presa di distanza con chi ritiene il femminismo un ingombrante retaggio del secolo scorso, We Should All Be Feminists, uscito per la prima volta nel 2012 (in Italia, Einaudi lo ha tradotto quest’anno, con il titolo Dovremmo essere tutti femministi), non solo rivendica il diritto di portare avanti la battaglia su tacchi a spillo senza odiare i maschi, ma auspica un mondo più giusto fatto di maschi e femmine tutti parimenti davvero fedeli a se stessi. E alle loro specificità («Uomini e donne sono diversi, abbiamo ormoni diversi, organi sessuali diversi e capacità biologiche diverse: le donne possono avere figli, gli uomini no»).

In questo scritto, frutto dell’adattamento di quanto pronunciato nel corso di una conferenza, Adichie traccia un ritratto impietoso — e lucido — della società attuale. Noi donne siamo ancora invisibili, nel senso che non veniamo considerate in quanto persone che portano uno sguardo difforme da quello maschile; ancora «passiamo troppo tempo a insegnare alle ragazze a preoccuparsi di cosa pensano i ragazzi», mentre «il contrario non succede. Non insegniamo ai ragazzi a sforzarsi di piacere»; a noi donne, sin da piccole, viene suggerito di nascondere la rabbia, perché ancora una donna arrabbiata e che si scandalizza per le ingiustizie verso il suo sesso è considerata un’isterica noiosa.

Se tutto questo è vero, senza lamentarsi e con grande ironia Adichie rivolge il suo sguardo sulle nostre responsabilità di madri. «Facciamo un grave torto ai maschi educandoli come li educhiamo. Soffochiamo la loro umanità. Diamo della virilità una definizione molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida dentro cui rinchiudiamo i maschi. Insegniamo loro ad aver paura della paura, della debolezza, della vulnerabilità. Insegniamo loro a mascherare chi sono davvero, perché devono essere, per usare un’espressione nigeriana, “uomini duri” (…). Ma la cosa peggiore che facciamo ai maschi — spingendoli a credere di dover essere dei duri — è che li rendiamo estremamente fragili. Più un uomo si sente costretto a essere un duro e più la sua autostima sarà fragile. E poi facciamo un torto ben più grave alle femmine, perché insegniamo loro a prendersi cura dell’ego fragile dei maschi».

Dobbiamo dunque rivedere, innanzitutto noi donne giacché siamo ancora noi a occuparci primariamente dei piccoli, tutto il nostro sistema educativo, cambiando quello che insegniamo alle nostre figlie e ai nostri figli. Se vogliamo arrivare a un mondo che sia davvero più femminista — cioè «un mondo più giusto, un mondo di uomini e donne più felici e più fedeli a se stessi» — dobbiamo passare per la maternità. Ce lo ricorda una giovane donna, figlia del continente anagraficamente più giovane al mondo.

Giulia Galeotti                       L’Osservatore romano                     3 novembre 2015

www.osservatoreromano.va/it/news/la-maternita-nel-femminismo

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NULLITÀ MATRIMONIALE

Becciu: “Il vescovo-giudice? Non è una novità, anzi…”

Il Motu proprio di Papa Francesco sulla nullità matrimoniale presenta un elemento di continuità con la Chiesa delle origini. Il motu proprio sulla riforma dei processi di nullità matrimoniale rappresenta in realtà un rinverdimento della tradizione di Santa Romana Chiesa. Agli albori del cristianesimo era infatti prassi l’affidamento della responsabilità e della “potestà” al vescovo. Lo sottolinea monsignor Angelo Becciu, Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, in un editoriale pubblicato sull’Osservatore Romano di oggi. “L’invito del Papa – scrive Becciu – ha fondamento costante in tutta la grande traditio ecclesiae. In effetti il potere-dovere di giudicare affonda le sue radici nella pratica cristiana antica per cui le dispute tra singoli venivano risolte all’interno della comunità al fine di evitare lo scandalo di liti di fronte a giudici secolari”. Nella tarda antichità, infatti, i vescovi assunsero sempre più responsabilità nel dirimere dispute “anche in ambito civile”, al punto che nel 318, l’imperatore Costantino emise due costituzioni garantendo statuto legale al tribunale episcopale.

Con il risultato che furono emessi alcuni editti imperiali per “ridurre il quasi inarrestabile flusso di contendenti davanti ai tribunali episcopali, visto che questi garantivano giudizi rapidi e non costosi e un vasto numero di persone li preferiva a un sistema giudiziario secolare lento, caro e corrotto”. Anche Sant’Agostino e Sant’Ambrogio, nella funzione di vescovi, furono investiti di questo ruolo e, in particolare Agostino dovette discettare su questioni come “proprietà di beni, contratti, eredità, ma anche accuse di adulterio”, con il “potere di pronunciare sentenze compresa l’imposizione di multe e, nel caso dei cristiani, la scomunica”.

Durante tutto il Medioevo la “potestas iudicialis” del vescovo rimase vigente, sia pure talora delegata nelle mani del decano, dell’arcidiacono o di altri chierici inferiori. Anche il Concilio di Trento specificò che le “cause matrimoniali e criminali” erano di competenza del vescovo. “Queste disposizioni – prosegue Becciu – sfociano nel Codex iuris canonici del 1917 che, a sua volta, confermò l’antichissima disciplina della Chiesa sul potere giudiziario dei vescovi i quali, nelle loro diocesi, sono i giudici naturali di qualsiasi causa sorta nel loro territorio, salva l’autorità del Sommo Pontefice anche in questo campo per tutta la Chiesa”.

“La dottrina, dunque – scrive il presule – non ha mai negato la potestas iudicialis episcopalis e, nel solco di questa antica traditio Ecclesiae, l’intero magistero dei successori di Pietro lo ha più volte ribadito, soprattutto in occasione delle allocuzioni alla Rota Romana”. Pio XII, nel suo discorso alla Sacra Rota Romana del 1947, ricordò: “Giudici nella Chiesa sono in virtù del loro ufficio e per volere divino i vescovi, dei quali dice l’Apostolo che “sono stati costituiti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio”.

Da parte sua, al termine del Concilio Vaticano II, il beato Paolo VI riconfermò “la funzione giudiziaria dei vescovi, fondata in tutta la tradizione ecclesiastica e soprattutto nell’ecclesiologia conciliare”. San Giovanni Paolo II, infine, poco prima di morire, definì i vescovi “per diritto divino delle loro comunità”, pertanto il loro operato nei tribunali non poteva essere degradato a questione meramente “tecnica” da affidare “interamente ai loro giudici vicari”.

In questo quadro di continuità dottrinale e pastorale, si inserisce il magistero di papa Francesco, fautore di una “riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale”. È proprio in questa ottica che il motu proprio Mitis ludex ordina “che il vescovo stesso nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati”.

L. M. Redazione Zenit                                  05 novembre 2015

www.zenit.org/it/articles/becciu-il-vescovo-giudice-non-e-una-novita-anzi?

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OMOFILIA

Gay si nasce o si diventa?

Nel racconto La stagione dei tacchini, dalla raccolta Le lune di Giove, Alice Munro tocca molti dei problemi generati dagli orientamenti sessuali minoritari. L’ambiente culturale: «Al tempo non era concepibile – non a Logan nell’Ontario, almeno non alla fine degli anni Quaranta – che l’omosessualità potesse superare confini molto angusti. Le donne, di sicuro, credevano che fosse un fenomeno raro e ben delimitato».

La categorizzazione sociale: «Una volta applicata l’etichetta scattava, specie nelle donne, una discreta dose di tolleranza per quelle persone e i loro rispettivi talenti … : Poveretto ! – dicevano. Non fa del male a nessuno». Un’implicita teoria delle cause: «Davano proprio l’impressione di credere, quelle signore, che il fattore determinante fosse la propensione per la cucina e per l’uncinetto…». E, infine, l’assenza di discriminazioni: «Non intendo stabilire se Herb fosse omosessuale o no, in quanto non ritengo la questione di alcuna utilità».

Rispetto a questa stravagante tolleranza sono diffuse, anche nei Paesi occidentali considerati avanzati, credenze che vanno a formare una pseudo-teoria. Essa funziona così:

1)      la maggioranza delle persone è attirata dall’altro sesso;

2)      quello che fa la maggioranza è normale, quello che fanno le minoranze è anormale;

3)      l’anormale è una devianza statistica e anche funzionale;

4)      una devianza funzionale è una malattia;

5)      la malattia va curata;

6)      se l’origine è biologica, la cura deve essere biologica (il fondatore dell’intelligenza artificiale, Alan Turing, si è suicidato mentre veniva “curato” chimicamente);

7)      se l’origine è psicologica, la cura deve essere psicologica.

Purtroppo ognuno dei sette anelli della catena si aggancia, a sua volta, a pregiudizi diffusi nel senso comune. Il documentato saggio di Simon LeVay fa invece il punto scientifico sulla questione (va apprezzato che l’editore italiano abbia tenuto il glossario e l’indice analitico degli argomenti, spesso tralasciati nelle traduzioni). Nel 1991 LeVay, lavorando come neuroscienziato al Salk Institute di San Diego, scoprì che l’ipotalamo – una regione del cervello deputata, tra le altre cose, a regolare la sessualità – è leggermente diverso nei maschi omosessuali rispetto a quelli eterosessuali. Il grande pubblico venne colpito dal lavoro uscito su «Science»: se un omosessuale è fatto così, perché colpevolizzarlo?

Passare dalla tolleranza all’accoglienza vera, però, non è automatico. Si possono accettare coppie lesbiche o gay. Poi però si vieta loro l’adozione di un figlio, quasi che il figlio stesse bene o male non per l’affetto e le cure dei genitori ma per il loro orientamento sessuale. Anche Freud ci ha messo lo zampino. Sulla scorta delle sue idee, a lungo si è ritenuto che l’omosessualità fosse causata da padri assenti o da madri morbosamente attaccate ai propri figli al punto da fermarne lo sviluppo psicosessuale. E tuttavia una eventuale correlazione tra il comportamento dei genitori e l’orientamento sessuale dei figli non prova necessariamente le tesi freudiane. L’assenza del padre può essere conseguente al rifiuto di un figlio considerato “anormale”.

Quale è la causa e quale è l’effetto? Alla fine di questo ricco e complesso ventaglio di studi, la catena si frantuma: c’è un’influenza continua tra fattori genetici e condizioni ambientali. Pensiamo, per esempio, all’effetto di vicinanza uterina nei roditori. I feti femmina che si trovano vicini ai feti maschi captano testosterone da questi ultimi e diventano parzialmente mascolinizzati nel loro comportamento sessuale. È nota l’ampia diffusione di comportamenti bi- e omosessuali tra gli animali, dalle oche selvatiche ai bonobo. La vera differenza con gli esseri umani è che non emergono cattiverie da parte di tali animali verso quelli che mettono in atto comportamenti non eterosessuali.

I lavori scientifici analizzati da LeVay dimostrano che molti processi di sviluppo sono di natura probabilistica. Come spiegare altrimenti il diverso orientamento sessuale di gemelli monozigoti? Se uno di questi è gay, c’è un 50% di probabilità che il suo gemello sia gay o etero. Non c’è quindi una causa ultima di natura genetica: i due gemelli si sviluppano nello stesso utero e nello stesso tempo. Le Vay conclude che è come se venisse lanciata una moneta biologica. Probabilmente questo lancio avviene anche nello sviluppo delle persone che non hanno un gemello.

In una popolazione darwiniana la diversità, su cui il caso può agire, ha sempre un effetto benefico. Gli omosessuali dovrebbero quindi essere accolti, non tollerati. Si arriva ad apprezzare la loro diversità esercitando il pensiero critico. Si può tuttavia percorrere un’altra strada, quella di Alice Munro. La protagonista della Stagione dei tacchini, quando ripensa a Herb, capisce il fascino di raggiungere un’intimità proprio con chi non la concederà mai. Per due vie diverse, quella scientifica e quella degli affetti, si colgono i benefici della diversità.

Paolo Legrenzi                       il sole24 ore   1 novembre 2015

in fondo a                 http://spogli.blogspot.it/2015/11/il-palazzo-di-primavera.html

Nozze gay, ciò che viene prima

La proposta di legge sulle unioni civili trascina tratti tecnici ampiamente discussi. Meno dibattuti ma non meno importanti sono alcuni elementi “che vengono prima”, e che inquadrano il problema, dando un’idea delle basi e della storia su cui sorge. Li sintetizzo con tre termini: sufficienza, autosufficienza e insufficienza.

Il primo tratto è la “sufficienza” con cui la tensione improvvisa che da nemmeno dieci anni percorre l’occidente per mostrare la parità e interscambiabilità di tutti i tipi di convivenza affettiva guarda il resto del mondo; cosa buona se si vuole evitare una discriminazione, ma così pervicace: richieste ai governi, ma anche film, canzoni, testimonial, casi-limite, proprio come si fa con il lancio di un prodotto, cosa che in sé può essere a buon fine, ma sembra tanto studiata a tavolino. Ricorda (e ci spiacerebbe se fosse così) il metodo di vendere creando il bisogno; o ricorda quando nel 2000 tutti gli italiani improvvisamente erano diventati esperti di navigazione a vela (fu un boom!) per le regate di Coppa America di cui non si interessavano prima, e di cui smisero di interessarsi il giorno dopo. E’ il tanto parlare di questi temi una reale presa di coscienza sociale o buona propaganda?

Il secondo tratto è che il giusto parlar di accettare chi è “diverso per genere”, può offuscare il parlare di chi è diverso per sesso. Chi si ricorda più della fiammata di indignazione che portò nel 2011 a manifestare le donne in difesa dell’immagine del corpo femminile in tv? Come se il problema si fosse risolto (ma non si è risolto!) o non fosse diventato più appetibile; ma soprattutto un paradosso: è come se con il parlare dei diritti di chi ama l’omologo a sé, si trascurasse di parlare di chi non è “uguale a sé” sessualmente, l’uomo per la donna e viceversa. E il dilemma delle adozioni da parte di coppie maschili adombra il rischio di rientrare nella logica di autosufficienza maschile (storicamente rappresentato dal mito della nascita di Atena da Zeus).

Ultimo tratto è la “insufficienza” dell’attenzione al sociale in un mondo dove pare che contino solo i diritti individuali: si parla tanto di diritto a come “io” posso avere un figlio (magari da una donna che si presta a generarlo e non riconoscerlo) o come “io” posso sposarmi (e con chi) e poco di come “noi” possiamo migliorare la nostra condizione di classe o “noi” possiamo cambiare l’azienda. Il progressismo di oggi è diverso dal progressismo di ieri in quanto il primo alza la voce per i diritti individuali, il secondo l’alzava per i diritti sociali.

Diego Fusaro scrive che nell’attacco verso il modello atavico di famiglia risiede “il pensiero unico capitalistico”; il rammarico di antichi uomini di sinistra per la scomparsa dall’agenda politica dei diritti dei lavoratori e delle donne è sotto gli occhi di tutti. Purtroppo, questo livello pre-problematico viene tenuto lontano dal dibattito. Chi ne discute, farebbe bene a tenere presente questi tre punti per ricordare il passato e prevedere il futuro.

Carlo Bellieni Il sussidiario   4 novembre 2014                   www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2015/11/4/Nozze-gay-cio-che-viene-prima/652497

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SCIENZA & VITA

Dalla relazione ministeriale sulla legge 194/78 dati confortanti e motivi di riflessione.

“La riduzione del numero totale delle interruzioni volontarie di gravidanza di cui dà conto il Ministero della Salute nell’annuale relazione al parlamento sulla Legge 194/78, non può che essere salutata come una buona notizia, anche se stimola altre riflessioni”, commenta Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita.

“Se il calo degli aborti rappresenta di per sé un’evidenza confortante, non possiamo non pensare al contributo non espresso – e certamente incisivo sul totale – dei cosiddetti ‘anticoncezionali di emergenza’, sul cui reale meccanismo di funzionamento ‘preventivo’ permangono molti dubbi. Tuttavia, i dati evidenziano un minore ricorso all’aborto tra le giovani in Italia rispetto a quanto registrato negli altri Paesi dell’Europa Occidentale e questo ci fa ben sperare sulla consapevolezza del valore della vita nei nostri giovani”.

“Ma il decremento va inserito anche nel contesto di una denatalità complessiva che il nostro Paese sta attraversando e su cui sono necessari interventi politici e sociali non rinviabili. Ricordiamo che proprio Papa Francesco ha lanciato un duro monito riguardo le troppe donne che sono costrette a scegliere tra un figlio e un lavoro. Questo terribile bivio non dovrebbe esistere in nessun luogo del mondo ed è sulla tutela dei più deboli che si misurano coesione e solidarietà di una democrazia”.

Comunicato stampa n. 196    2 novembre 2015

www.scienzaevita.org/dalla-relazione-ministeriale-sulla-legge-19478-dati-confortanti-e-motivi-di-riflessione

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SEPARAZIONE

Se uno dei coniugi non vuole separarsi cosa bisogna fare?

Prima del divorzio bisogna passare da un gradino intermedio, la separazione, e, solo dopo di esso (decorsi sei mesi o un anno, a seconda del caso, per come si dirà a breve) si può ottenere la definitiva cessazione degli effetti civili del matrimonio.

La mancanza di collaborazione da parte di uno dei due coniugi a tale procedura non è di ostacolo all’altro, che potrà procedere ugualmente, in via “forzosa”, alla separazione, ossia procedendo con una normale causa. Se vi è volontà congiunta dei due coniugi di separarsi, gli stessi potranno dar vita a un procedimento abbreviato e privo sostanzialmente di costi: o separandosi direttamente in Comune (solo se la coppia non ha avuto figli e in assenza di trasferimenti di proprietà immobiliari), oppure presso lo studio degli avvocati (cosiddetta negoziazione assistita: in questo caso, anche se la coppia ha avuto figli e l’accordo preveda trasferimenti di proprietà).

In alternativa, le parti possono – con l’ausilio di un avvocato (o anche di uno a testa) – chiedere che la separazione venga pronunciata dal Presidente del Tribunale, in un’unica sentenza (celere e immediata). I costi di tale procedura corrispondono esclusivamente all’onorario del difensore, che è bene concordare in anticipo.

            Queste tre forme di separazione (in Comune, con la negoziazione assistita o in tribunale) vengono anche dette “separazione consensuale”. I vantaggi per chi decide di non farsi guerra sono numerosi. Il procedimento è più celere e si sostanzia, come detto, o in una sola udienza o in una procedura di carattere amministrativo celere e priva di costi. Inoltre, chi sceglie la separazione consensuale può divorziare dopo solo sei mesi (in forza delle nuove norme sul “divorzio breve”).

            Se, invece, i coniugi non dovessero trovare accordo sulle condizioni di separazione (per esempio, sulla misura dell’assegno di mantenimento, sull’affidamento dei figli, ecc.) oppure una di esse dovesse fare ostruzionismo alla separazione, all’altra non resterebbe altra carta che avviare una causa di separazione giudiziale. In buona sostanza, si passa sempre da un’udienza preliminare, davanti al Presidente del Tribunale (i tempi sono piuttosto brevi), in cui viene immediatamente dichiarata la separazione della coppia, con autorizzazione ai soggetti di vivere separati; poi però è necessario proseguire il giudizio davanti al giudice, con tutte le cadenze che il processo civile conosce (ammissione prove, testimonianze, memorie difensive, ecc.).

            In questo caso, il procedimento, oltre ad essere più costoso – specie per la parte che frappone ostruzionismo, che potrebbe vedersi addebitate le spese processuali – rende anche più lungo il termine entro cui divorziare: in questo caso, infatti, per poter ottenere il divorzio sarà necessario attendere non più sei mesi, ma un anno.

Redazione LpT                      8 novembre 2015

www.laleggepertutti.it/103608_se-uno-dei-coniugi-non-vuole-separarsi-cosa-bisogna-fare

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SINODO SULLA FAMIGLIA

Aperti al cambiamento. La riforma del Sinodo ha convinto e lo scisma è lontano.

Per fare un bilancio della XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi appena conclusa su «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo» (4-25 ottobre) è bene partire dai testi e in particolare dalla Relazione finale approvata dai 270 padri sinodali sabato 24 ottobre, a valle di tre settimane di lavoro, svoltosi per lo più nei gruppi organizzati per area linguistica.

Molto è stato scritto in generale sul clima e sull’interpretazione «politica»). I 94 punti della Relazione, molto ben organizzati e armonizzati nelle 3 parti che caratterizzavano l’Instrumentum laboris («La Chiesa in ascolto della famiglia», «La famiglia nel piano di Dio» e «La missione della famiglia») ed ereditate dalla precedente Assemblea sinodale dell’ottobre 2014 non hanno solo incorporato i «modi» proposti dai partecipanti e fatto quadrare gli umori dell’assise, ma rappresentano il frutto maturo del cammino aperto con decisa volontà da papa Francesco.

            Il testo, infatti, si potrebbe definire tecnicamente un «documento di convergenza», ovvero un punto d’arrivo di un processo di confronto approfondito, a partire da posizioni che in questi due anni si sono manifestate talora distanti. Il modello parrebbe quello sperimentato nel dialogo ecumenico, specialmente nei dialoghi bilaterali del postconcilio. Il processo di convergenza non è stato lineare; ha avuto scossoni, arretramenti e avanzamenti di non poco conto. E forse deve ancora completarsi. Ma è stato messo in moto in maniera tale che non potrà tornare indietro.

            Come un giardino. Questa modalità di lavoro, a detta di alcuni sinodali, «ci ha sfiniti». Tuttavia è stata fruttuosa. Facendo ricorso a una metafora, il gruppo Francese C si è paragonato a un consesso di giardinieri, riuniti per decidere come irrigare i diversi «terreni familiari» d’oggi che vanno da quelli «pietrosi e secchi» a quelli «ben fertilizzati»; i sinodali-giardinieri hanno così preso atto che dagli «scambi si costruisce molto solidamente il ministero di comunione che è tipico del nostro essere vescovi». Tuttavia vi sono pareri contrastanti, nonostante a tutti stia a cuore «far vivere e far fiorire il medesimo campo».

            Non sempre i pareri diversi si sono composti e alcuni gruppi hanno dovuto prendere atto delle questioni su cui permanevano opinioni discordi; ma la maggioranza ha detto che il lungo tempo trascorso fianco a fianco ha fatto sì che il confronto fosse tra persone in carne e ossa più che sulle idee astratte, portando il dibattito a tener conto della consapevolezza di avere tutti il medesimo fine.

Il Sinodo 2015, infatti, ha messo in atto una metodologia di lavoro nuova, molto più incentrata sui lavori dei circoli e sul dibattito e ha abolito la Relatio post disceptationem – che costituiva il documento di metà percorso dallo statuto incerto perché provvisorio –, che lo scorso anno aveva provocato tante reazioni avverse. E ha affidato il documento finale alla paziente opera di tessitura e mediazione operata dalla Commissione per l’elaborazione del documento finale appositamente nominata dal papa (card. P. Erdo, mons. B. Forte, i cardd. O. Gracias, D.W. Wuerl e J.A. Dew, i monss. V.M. Fernández, M. Madega Lebouakehan, M. Semeraro, e p. A. Nicolás Pachón sj) anche grazie all’infaticabile apporto degli esperti.

La nuova procedura però, assieme alla composizione della Commissione, era stata subito presa di mira dal gruppo che più apertamente si era schierato per il «no» a ogni modifica della disciplina ecclesiastica esistente. Per questo aveva inviato una lettera al papa con una sorta di raccolta di firme in forma riservata. Il papa è quindi intervenuto in Aula e la questione si era conclusa. Tuttavia, il fatto che la notizia sia trapelata all’esterno con l’intento da parte di alcuni giornalisti-lobbisti di dimostrare che in Sinodo esisteva una maggioranza contraria al papa, ha ottenuto l’effetto opposto: innanzitutto con alcune pubbliche prese di distanza (i cardd. Scola, Vingt Trois, Piacenza, Erdo; il card. Pell ha dichiarato d’aver firmato una lettera il cui contenuto, tuttavia, non corrispondeva totalmente a quello reso noto); poi con un ricompattamento dell’Assemblea che ha proseguito i lavori senza dar peso all’accaduto.

            Parresia contro benevolenza? Uno dei firmatari, il card. Napier, arcivescovo di Durban (Sudafrica) ha poi giustificato la lettera – intesa come un documento riservato – come espressione della parresia chiesta e voluta da papa Francesco sin dall’anno scorso: certo è che l’interpretazione un po’ troppo estensiva (anche lo scorso anno vi era stata una protesta nei confronti della Sala stampa perché aveva deciso di non rendere pubblici tutti gli interventi in Aula dei sinodali) del concetto ha portato a numerosi stop sul fronte della comunicazione: i vescovi polacchi che sintetizzavano liberamente gli interventi in Aula di tutti i sinodali (obbligati poi a chiudere la pagina web del loro sito dove li pubblicavano); l’intervista a Le Figaro in cui il card. Pell definiva la discussione polarizzata tra «kasperiani e ratzingeriani» (espressione biasimata dall’intero Gruppo tedesco, del quale facevano parte, oltre ai cardd. Kasper e Marx, anche i cardd. Schönborn – allievo di papa Benedetto XVI – e Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede). Per non parlare poi della «bufala» sulla salute del papa sui quotidiani del gruppo QN. Forse il papa nel suo discorso conclusivo si riferiva a questo quando ha chiesto di «superare ogni ermeneutica cospirativa» o quando ha detto che «le opinioni diverse che si sono espresse liberamente» non sempre hanno usato «metodi benevoli»?

            In negativo si potrebbe dire che è per questo che la Relazione finale si è dovuta tenere un passo indietro sui sacramenti e su tutte le questioni più calde. In positivo, però, occorre prendere atto – e i documenti lo testimoniano – che la maggioranza dei padri sinodali ha vissuto con grande slancio positivo uno scambio davvero libero e franco con i confratelli d’ogni parte del mondo. Nella conferenza stampa del 14 ottobre il card. V. Nichols, arcivescovo di Westminster, lo ha definito un ressourcement reciproco tra le Chiese, facendo ricorso al lessico più caro al Vaticano II. Si potrebbe dire che il processo sinodale lungo due anni ha portato a non scandalizzarsi delle diversità ma a cercare di comprenderle approfondendone la valenza teologica per arrivare a un consenso in avanti. Maestri di questo metodo sono stati i componenti del gruppo linguistico tedesco che ha cercato (e ottenuto) sempre l’unanimità dei voti nelle tre relazioni che ha presentato e che ha offerto approfondimenti teologici ben recepiti dal documento finale.

            Un inizio all’indietro. L’esito del Sinodo non era scontato e più volte è sembrato essere messo in forse. Innanzitutto dalla relazione d’apertura del Sinodo del card. Erdo, che sembrava aver dimenticato il percorso di questi due anni. Il testo del porporato ungherese è cupo nei toni laddove descrive l’esistente «Non è che un vedere», afferma a rimarcare una neutralità ancorché pessimista dell’osservatore. In questo quadro, mentre elogia le famiglie che vivono con gioia l’insegnamento cristiano su matrimonio e famiglia, si lascia sfuggire un’espressione rivelatrice: la famiglia dev’essere aiutata «a discernere circa i rispettivi adempimenti o le eventuali mancanze». Un linguaggio del dover essere più che dell’empatia. Quando poi passa alle situazioni cosiddette difficili, il cardinale ribadisce il già noto: no a «criteri soggettivi come criteri di giustificazione», perché la misericordia deve essere sempre collegata alla «giustizia». L’accompagnamento misericordioso «non lascia dubbi circa la verità dell’indissolubilità del matrimonio. La misericordia di Dio offre al peccatore il perdono, ma richiede la conversione. Il peccato di cui può trattarsi in questo caso non è soprattutto il comportamento che può aver provocato il divorzio del primo matrimonio» – ci sono infatti responsabilità diverse tra le parti – «ma la convivenza del secondo rapporto che impedisce l’accesso all’eucaristia».

            Così la prassi ortodossa è troppo diversa per essere applicata in Occidente e il «riconoscimento pratico della bontà di situazioni concrete» non è possibile perché «tra il vero e il falso, tra il bene e il male, infatti, non c’è una gradualità» (corsivi nostri). Così anche per questioni come la pianificazione delle nascite, l’omosessualità, l’aborto: l’orizzonte della misericordia pare unicamente giuridicistico.

Tuttavia una panoramica dei lavori dei gruppi mette in evidenza che la discussione è stata al contrario molto ricca e composita: accanto a chi esplicitamente ha detto «no» ai sacramenti (confessione ed eucaristia) per i divorziati risposati (gruppi Francese B, Inglese A, Inglese C e D), vi è chi ha sottolineato con forza che la fedeltà e l’indissolubilità sono un dono e una chiamata più che un dovere giuridico (Francese A) o che il cammino di fede è una maturazione che si dipana nel tempo senza salti del tipo tutto/niente (Tedesco).

            E, semmai vi fosse il dubbio, emerge che a cinquant’anni di distanza, alcune espressioni che nel Concilio hanno avuto una particolare (ancorché dibattuta) valorizzazione non sono state ancora pienamente accolte. Il caso più evidente – emerso già lo scorso anno – è quello del timore dell’uso dell’espressione «semina Verbi» a cui sarebbe preferibile quella di «presenza dei doni di Dio» (Francese A), ad esempio nelle persone (o situazioni) che ancora non conoscono la fede ovvero che non vivono una relazione pienamente conforme all’insegnamento della Chiesa. All’opposto, per altri sono scontate alla lettera, come laddove (Inglese B) si chiede che il percorso di discernimento delle situazioni di vita delle persone venga attuato tramite «un ascolto reverenziale»; o nella sostanza, come laddove (Spagnolo A) si precisa che la risposta cristiana al «grido» di chi chiede d’essere integrato nella vita ecclesiale non deve essere «burocratico» o dare l’idea di una «concezione elitaria» della comunità.

            Mancata bocciatura. Allo stesso tempo vi sono linee comuni che ritornano: un sentimento diffuso di gratitudine nei confronti di papa Francesco che ha optato con convinzione per la forma della sinodalità; il riconoscimento della necessità di una sua parola definitiva, terminato il percorso sinodale (sotto la forma di un’esortazione apostolica?); la necessità di fare maggiore riferimento alla coscienza (formata); l’approfondimento del rapporto tra fede, sacramento e contratto matrimoniale (anche per le implicazioni ecumeniche); il fatto che la preparazione al matrimonio debba avvenire in una forma sempre più catecumenale alla fede. Di tutta questa ricchezza la Relazione finale tiene conto in maniera decisamente organica e con una prospettiva – lo dicevamo all’inizio – di convergenza. I paragrafi, infatti, sono stati tutti approvati con la maggioranza dei 2/3: il che significa che su 265 padri presenti erano necessari 177 voti. Un paragrafo ha rischiato la «bocciatura»: il n. 85, passato per essere il paragrafo della «comunione ai divorziati risposati».

            In realtà in esso si spiega in che cosa consiste il percorso di «discernimento» (che cita Familiaris consortio n. 84) che si rifà alla proposta del gruppo Tedesco e Inglese B, che a loro volta ricordano la lettera pastorale del 1993 dei vescovi Kasper, Lehmann e Saier poi fermata da Roma l’anno dopo. Il n. 86, che per altro non usa mai la parola «sacramenti», ma che valuta come attuare «una più piena partecipazione alla vita della Chiesa» e i «passi che possono favorirla e farla crescere», è stato approvato con 190 voti. Mons. J. Bonny, vescovo di Anversa, ha poi dichiarato a chiusura del Sinodo che l’idea del «gruppo dei contrari», identificabile attorno al nucleo dei firmatari non smentiti della lettera al papa (i cardd. Caffarra, Napier, Müller, Pell, Sarah, Urosa Savino e i vescovi Collins, Dolan, Eijk), è stata di non chiedere modifiche ai due paragrafi sino all’ultimo, «sicuri» di una loro bocciatura in dirittura d’arrivo. Il fatto che non si sia verificata sta a indicare non tanto un errore di calcolo quanto che il percorso del Sinodo ha realmente modificato gli equilibri con i quali esso era partito.

            Nel testo rientrano alcuni temi «dimenticati» nella Relatio Synodi del 2014: uno stile di vita ecologico (16); i nonni nella vita delle famiglie e nella trasmissione della fede (n. 17. 18. 93); la vedovanza; il ruolo dei disabili (21) e delle persone non sposate (22); le famiglie numerose (62); l’adozione e l’affido (65); la violenza entro le mura domestiche, comprese le violenze sessuali sui minori e la «tolleranza zero» (nn. 61 e 78). Da ultimo rientra anche un riferimento a Tommaso sulla misericordia divina come luogo in cui «Dio manifesta la sua onnipotenza» (Summa II-II, q. 30, art. 4), che nel periodo intersinodale – anche da queste pagine – era stato ripreso e riscoperto. Disseminato, invece, con precisione e abbondanza il riferimento ai «semina Verbi» (nn. 37. 47) che al 70 diventano «elementi positivi» da cogliere e al 71 «segni dell’amore di Dio» che vanno colti e valorizzati nelle convivenze o nei matrimoni civili. Al Vaticano II d’altra parte, viene dedicato l’intero n. 42.

            Più che le parole, testimoni. Assente «giustificato» il tema dell’omosessualità, su cui il n. 76 ribadisce una posizione scontata e difensiva: d’altra parte alla chiusura di un dibattito che già partiva in difficoltà ha dato un pesante contributo la dichiarazione fatta alla vigilia del Sinodo da mons. K. Charamsa – ufficiale della Congregazione per la dottrina della fede e segretario aggiunto della Commissione teologica internazionale – d’essere omosessuale e di avere un partner.

            Sul tema della sessualità, su cui il gruppo Inglese B aveva chiesto un paragrafo dedicato per mettere in luce come «nell’espressione dell’amore sessuale i coniugi fanno esperienza della tenerezza di Dio», si dedica il n. 49 (en passant) e il n. 63, ma in forma più sbilanciata verso l’amore generativo e sulla necessaria formazione della coscienza per una «scelta responsabile della genitorialità». Esso evita di addentrarsi in divieti e si esprime invece in favore di una maggiore disponibilità, da ridestare nelle coppie, nel procreare e d’altra parte – doverosamente – chiede che anche la comunità di fede sia «più a misura di bambino».

            Il fatto che la Chiesa abbia un clero uxorato, ancorché minoritario, poteva dar voce maggiore (Inglese D) all’integrazione di questo punto e anche di altri, come ha scritto per il nostro blog Basilio Petrà (Famiglie dimenticate, sposi assenti. Un rimedio possibile e doveroso, 17.10.2015).

Da ultimo il tema delle donne, che viene trattato dai numeri 24, 27 e 28, 61: si parla delle donne sole che si fanno carico dei figli, del loro sfruttamento, della violenza nei loro confronti anche in famiglia, della necessità di un «ripensamento dei compiti dei coniugi nella loro reciprocità e nella comune responsabilità verso la vita famigliare» a motivo dell’emancipazione femminile.

            Una «maggiore valorizzazione della loro responsabilità nella Chiesa», come «nei processi decisionali», nel «governo di alcune istituzioni» e «nella formazione dei ministri ordinati (n. 28 e cf. n. 61). Eppure la «scivolata» clericale di non aver concesso il voto in Sinodo alle tre superiore maggiori, a fronte dell’equiparazione del superiore – laico – dei Piccoli fratelli di Charles de Foucauld ai membri – chierici – del Sinodo, dice la distanza tra le parole dei documenti e la realtà.

            Non è una mera questione «rivendicativa»: ha più a che fare con l’essere che con il lessico «politically correct». Come ha scritto il gruppo Francese C, più che dare un «messaggio più chiaro» o trovare una maniera nuova di «dire le cose» nel mondo d’oggi occorre «essere»: il mero insegnamento «non basta più» e cede il passo alla testimonianza, che è la sua misura concreta e credibile. La valutazione sulla riuscita del Sinodo sta in fondo tutta qui: quanto esso sarà stato capace di modificare i sinodali che vi hanno partecipato e, tramite loro, di far sì che «la parola “famiglia” non suoni più come prima» (Francesco, Discorso di chiusura del Sinodo, 24 ottobre), per tutti i suoi membri e in tutte le sue accezioni.

E laddove un «malinteso sforzo di rispetto della dottrina della Chiesa» (Gruppo Tedesco) avesse alimentato «atteggiamenti duri e intransigenti nella pastorale che hanno fatto soffrire le persone», occorre «chiedere loro perdono».

Maria Elisabetta Gandolfi sabato 7 novembre 2015                      con citazioni

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/11/aperti-al-cambiamento-la-riforma-del.html

Francesco tace, ma un altro gesuita parla per lui.

            È Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”. In un articolo sulla sua rivista ha già scritto che cosa dirà il papa sulla comunione ai divorziati risposati

Mercoledì scorso (4 novembre 2015), nella settimanale catechesi in piazza San Pietro, dopo aver ricordato che i padri sinodali gli hanno consegnato il testo delle loro conclusioni, papa Francesco si è limitato a dire con linguaggio sibillino: “Non è questo il momento di esaminare tali conclusioni, sulle quali devo io stesso meditare”.

            Nell’attesa che si sciolga l’enigma sulle future mosse del papa, non resta che affidarsi a un rivelatore indiretto ma sicuro dei suoi intendimenti: il gesuita Antonio Spadaro con la rivista di cui è direttore, “La Civiltà Cattolica”. Per papa Francesco padre Spadaro è tutto. Consigliere, interprete, confidente, scrivano. Non si contano i libri, gli articoli, i tweet che scrive incessantemente sul papa. Per non dire dei discorsi papali che rivelano l’impronta della sua mano. Per questo, non può essere trascurato il racconto del sinodo che Spadaro ha scritto sull’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica”, come sempre stampato solo dopo che le sue bozze erano transitate da Casa Santa Marta e avevano ricevuto il placet dell’autorità suprema. Sono venti pagine di eccezionale interesse, per chi voglia intuire in anticipo non la forma ma la sostanza delle conclusioni che Francesco trarrà dal sinodo testé terminato.

            Il teologo domenicano Thomas Michelet aveva mostrato come il testo finale del sinodo, sul nodo cruciale della comunione ai divorziati risposati, si presti a due letture alternative, di continuità o di rottura rispetto al precedente magistero della Chiesa. Ebbene, padre Spadaro opta senza esitare per la seconda modalità di lettura. Non gli importa che nella “Relatio” non compaiano nemmeno una volta le parole “comunione” e “accesso ai sacramenti”. La sua conclusione perentoria è che “circa l’accesso ai sacramenti il sinodo ordinario ne ha effettivamente posto le basi, aprendo una porta che invece nel sinodo precedente era rimasta chiusa”.

Sandro Magister        7 novembre 2015       http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351172

            Più sotto è riportata per intero la parte dell’articolo di Spadaro dedicata a tale questione.

Ma è tutto l’articolo che va letto, come mostrano questi cinque assaggi, nei quali abbondano le citazioni del discorso con cui Francesco ha chiuso i lavori e prorompe l’avversione nei confronti dei padri sinodali accusati di “sognare un mondo che non esiste più”.

Verso una Chiesa plurale. “La sinodalità implica la diversità. […] Una soluzione buona per la Nuova Zelanda non lo è per la Lituania, un approccio valido in Germania non lo è per la Guinea. Così, ‘al di là delle questioni dogmatiche ben definite dal magistero della Chiesa’, il pontefice stesso ha constatato, nel suo discorso conclusivo del sinodo, come sia evidente ‘che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo – quasi! – per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione'”.

Dottrina come pietre. “Un nodo critico è quello che riguarda il significato della dottrina. Già alla fine del sinodo del 2014 il pontefice aveva parlato della tentazione di ‘trasformare il pane in pietra e scagliarla contro i peccatori, i deboli e i malati cioè di trasformarlo in pesi insopportabili’. La dottrina è pane, non pietra. Alla fine del sinodo ordinario il Papa ha ripetuto l’immagine, dicendo che esso ha ‘testimoniato a tutti che il Vangelo rimane per la Chiesa la fonte viva di eterna novità, contro chi vuole indottrinarlo in pietre morte da scagliare contro gli altri’. “La dottrina – come è stato ribadito in alcuni circoli minori – è l’insegnamento di Cristo, è il Vangelo stesso. Per questo non ha nulla a che fare con quei ‘cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite, ha detto ancora Francesco”.

La sindrome dell’assedio. “Un nodo chiave della discussione è stato il modello di relazione tra la Chiesa e il mondo. […] Per alcuni padri, la Chiesa è circondata da un mondo ostile e demoniaco dal quale occorre difendersi, e che occorre attaccare con la proclamazione della dottrina. Altri invece hanno affermato che il compito della Chiesa è quello di discernere come Dio sia presente nel mondo e come proseguirà la sua opera. D’altra parte non possiamo né vivere sognando un mondo che non esiste più, né cadere nel ‘complesso di Masada’, cioè nel complesso dell’accerchiamento. Questo rischia di essere una mancanza di fede in Dio che agisce nella storia”.

La “cospirazione” dei tredici cardinali. “Per due volte papa Francesco ha chiesto di ‘superare ogni ermeneutica cospirativa che è sociologicamente debole e spiritualmente non aiuta’. E questo perché, come egli stesso ha constatato, ‘le opinioni si sono espresse liberamente’, ma ‘talvolta con metodi non del tutto benevoli’. Il gruppo tedesco ha manifestato pure ‘grande turbamento e tristezza’ per ‘le dichiarazioni pubbliche di alcuni padri sinodali su persone, contenuto e svolgimento del sinodo. Ciò contraddice lo spirito dell’incontro, lo spirito del sinodo e le sue regole elementari. Le immagini e i paragoni usati non sono soltanto indifferenziati e sbagliati, ma anche offensivi’. I suoi membri – e con loro molti altri – unanimemente hanno preso le distanze. Il sinodo non è stato dunque del tutto privo di cadute di stile, né di tentativi di pressione tra l’esterno e l’interno dell’aula – prima del suo inizio e durante il suo svolgimento –, alcuni dei quali hanno trovato nei media un luogo per manifestarsi”.

Porta chiusa e porta aperta. “La porta è stata evocata da alcuni come ‘chiusa’ o da chiudere definitivamente, come nel caso dell’eucaristia ai divorziati risposati civilmente; da altri come ‘aperta’ o da aprire per i motivi opposti, e parlando in termini generali, come atteggiamento pastorale fondamentale. […] Il pontefice aveva usato l’immagine della porta nella messa di apertura del sinodo, spronando la Chiesa a ‘essere ospedale da campo, con le porte aperte ad accogliere chiunque bussa chiedendo aiuto e sostegno; di più, a uscire dal proprio recinto verso gli altri con amore vero, per camminare con l’umanità ferita, per includerla e condurla alla sorgente di salvezza’”.

Il testo integrale dell’articolo di padre Spadaro ne “La Civiltà Cattolica” in data 28 novembre 2015:

www.laciviltacattolica.it/it/quaderni/articolo/3705/vocazione-e-missione-della-famiglia-il-xiv-sinodo-ordinario-dei-vescovi

I battezzati divorziati e risposati civilmente.

Circa i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente, nella “Relatio synodi” si afferma innanzitutto che essi “devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili”. La logica che guida i numeri 84-86 del documento è quella dell’integrazione, chiave di un solido accompagnamento pastorale. Ancora una volta la Chiesa si mostra madre, dicendo ai divorziati risposati civilmente di essere consapevoli di appartenere “al Corpo di Cristo che è la Chiesa”, di essere “fratelli e sorelle”. Si dice che “lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti”. L’intenzione dunque è quella di affermare che queste persone non hanno perso la vocazione al bene di tutti, la loro missione nella Chiesa. La loro partecipazione ecclesiale può esprimersi in diversi servizi ecclesiali, e occorre “discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate” (n. 84). Per la comunità cristiana, prendersi cura di queste persone “non è un indebolimento della propria fede e della testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale: anzi, la Chiesa esprime proprio in questa cura la sua carità” (ivi).       La “Relatio synodi” recepisce il criterio complessivo espresso da san Giovanni Paolo II nella “Familiaris consortio”: il “ben discernere le situazioni”. Infatti c’è differenza “tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido” (n. 85). Ma ci sono anche coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido (cfr n. 84). Il sinodo dunque afferma che è compito dei sacerdoti “accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del vescovo”. Questo itinerario impone un discernimento pastorale che fa riferimento all’autorità del pastore, giudice e medico, il quale è anzitutto “ministro della divina misericordia” (cfr. “Mitis et misericors Iesus”). In questo senso si procede nella linea dei recenti motu proprio di papa Francesco sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio. E si vede in questo riferimento ai vescovi una linea di condotta importante di riforma da parte del papa, che attribuisce potestà pastorali maggiori ad essi.Il documento procede su questa strada del discernimento dei singoli casi senza porre alcun limite all’integrazione, come appariva in passato. Esprime inoltre che non si può negare che in alcune circostanze “l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate” (CCC 1735) a causa di diversi condizionamenti. “Di conseguenza, il giudizio su una situazione oggettiva non deve portare ad un giudizio sulla ‘imputabilità soggettiva’ (Pontificio consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000, 2a)” (n. 85).Esiste una norma generale, ma “la responsabilità rispetto a determinate azioni o decisioni non è la medesima in tutti i casi”. Per questo “il discernimento pastorale, pure tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi” (ivi). La conclusione è che la Chiesa prende consapevolezza che non si può parlare più di una categoria astratta di persone e rinchiudere la prassi dell’integrazione dentro una regola del tutto generale e valida in ogni caso. Non si afferma fino a dove possa arrivare il processo di integrazione, ma neanche si pongono più limiti precisi e invalicabili. Infatti, “il percorso di accompagnamento e discernimento orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio” (n. 86). Questo ragionamento pone a fondamento dell’agire della Chiesa e del suo giudizio la coscienza personale (n. 63). “Quando ascolta la coscienza morale, l’uomo prudente può sentire Dio che parla” (CCC 1777); dunque, concretamente “il colloquio col sacerdote, in foro interno, – si legge nella ‘Relatio synodi‘ – concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere” (n. 86). Questo discernimento è finalizzato alla “ricerca sincera della volontà di Dio”; è caratterizzato dal “desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa”; ed è plasmato dalle “esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa” e da condizioni quali “umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento”.           Il cardinale Schönborn, intervistato da “La Civiltà Cattolica” prima del sinodo, aveva affermato che ci sono situazioni in cui il sacerdote confessore, che conosce le persone nel foro interno, può arrivare a dire: “La vostra situazione è tale per cui, in coscienza, nella vostra e nella mia coscienza di pastore, vedo il vostro posto nella vita sacramentale della Chiesa”. E questo il confessore può affermarlo proprio considerando che le condizioni poste dalla “Familiaris consortio” sono state, 35 anni fa, un passo avanti, cioè una concretizzazione più aperta e attenta, rispetto al tempo precedente, al vissuto delle persone. La tensione sulla situazione sacramentale dei divorziati risposati civilmente nasce proprio dal fatto che la “Familiaris consortio” affermava di essi: “Non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita” (n. 84). È un concetto che anche papa Francesco ha ripetuto molte volte.     Ma questa “apertura” pone il problema serio su che cosa sia questa “comunione ecclesiale” riconosciuta. Come è possibile essere davvero in comunione ecclesiale senza arrivare, prima o poi, alla comunione sacramentale? Postulare che sia possibile una piena comunione ecclesiale senza una piena comunione sacramentale non sembra una via che possa lasciare tranquilli. Da notare inoltre che non si fa più menzione della “comunione spirituale” come strada alternativa al sacramento, così come era avvenuto fino al sinodo straordinario. La via del discernimento e del “foro interno” espone alla possibilità di decisioni arbitrarie, certo, ma il “laissez-faire” non è mai stato un criterio per rifiutare un buon accompagnamento pastorale. Sarà sempre dovere del pastore trovare un cammino che corrisponda alla verità e alla vita delle persone che egli accompagna, senza poter forse spiegare a tutti perché essi assumano una decisione piuttosto che un’altra. La Chiesa è sacramento di salvezza. Ci sono molti percorsi e molte dimensioni da esplorare a favore della “salus animarum”. Circa l’accesso ai sacramenti, il sinodo ordinario ne ha dunque effettivamente posto le basi, aprendo una porta che invece nel sinodo precedente era rimasta chiusa. Anzi, un anno fa non era stato possibile neppure certificare a maggioranza qualificata il dibattito sul tema, che era invece effettivamente avvenuto. Dunque si può a ragione parlare di un passo nuovo.

Intervento al Sinodo della prof.ssa Lucetta Scaraffia.

Santità, Padri sinodali, Sorelle e fratelli, c’è molta attesa — non solo tra i cattolici — per i risultati di questo Sinodo. La crisi della famiglia ormai si sta manifestando in tutto il mondo, se pure con modalità diverse, e trascina con sé tutta la società che non sa dove indirizzare le proprie energie: se infatti un ritorno al passato è impossibile, non è chiaro quale può essere il futuro per questa istituzione fondamentale. La Chiesa ha contribuito in modo determinante a definire e a disciplinare la famiglia; si trova quindi in una condizione privilegiata per proporre modelli di famiglia nuovi e adatti ai nostri tempi, fedeli alla vocazione cristiana. Per farlo, però, ha bisogno di ascoltare la realtà e i soggetti reali dalla famiglia, cioè gli uomini e le donne: uomini e donne veri ma specialmente donne che hanno vissuto e riflettuto sul grande cambiamento del ruolo femminile nell’ultimo secolo, una delle ragioni fondamentali della crisi della famiglia.

La Chiesa ha bisogno di ascoltare le donne, di ascoltare cosa ritengono di avere perso e cosa guadagnato nel grande cambiamento, di ascoltare quale famiglia vorrebbero oggi. Perché solo nell’ascolto reciproco si opera il vero discernimento. Le donne sono le grandi esperte di famiglia: se usciamo dalle teorie astratte, specialmente a loro ci si può rivolgere per capire cosa bisogna fare, come si possono porre le fondamenta per una nuova famiglia aperta al rispetto di tutti i suoi membri, non più fondata sullo sfruttamento della capacità di sacrificio della donna, ma che assicuri a tutti un alimento affettivo, solidale. Invece, sia nel testo che nei contributi, di donne, di noi, si parla pochissimo. Come se le madri, le figlie, le nonne, le mogli, cioè il cuore delle famiglie, non facessero parte della Chiesa, di quella Chiesa che comprende il mondo, che pensa, che decide. Come se si potesse continuare, perfino a proposito della famiglia, a far finta che le donne non esistono. Come se si potesse continuare a dimenticare lo sguardo nuovo, il rapporto inedito e rivoluzionario che Gesù ha avuto nei confronti delle donne.

Molto diverse sono le famiglie nel mondo, ma in tutte sono le donne a svolgere il ruolo più importante e decisivo per garantirne solidità e durata. E quando si parla di famiglie non si dovrebbe parlare sempre e solo di Matrimonio: sta crescendo il numero di famiglie composte da una madre sola e dai suoi figli. Sono le donne, infatti, a rimanere sempre accanto ai figli, anche se malati, se disabili, se frutto di violenza. Queste donne, queste madri quasi mai hanno seguito corsi di teologia, spesso non sono neppure sposate, ma danno un esempio mirabile di comportamento cristiano. Se voi Padri sinodali non rivolgete loro attenzione, se non le ascoltate, rischiate di farle sentire ancora più disgraziate perché la loro famiglia è così diversa da quella di cui parlate. Voi, infatti, troppo presto parlate di una famiglia astratta, una famiglia perfetta che però non esiste, una famiglia che non ha niente a che vedere con le famiglie vere che Gesù incontra o di cui parla. Una famiglia così perfetta che sembra quasi non aver bisogno della sua misericordia né della sua parola: “Non sono venuto per i sani ma per i malati, non per i giusti ma per i peccatori”.

 Lucetta Scaraffia già Docente di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza;

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/10/20/0799/01776.html#SCARAF

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UNIONI CIVILI

La Chiesa ha legiferato prima.

L’adozione di norme che riconoscano le unioni di fatto contrappone aspramente laici e cattolici integralisti, fa litigare Stato e chiesa, dilania politici persino dello stesso governo. I magistrati, chiamati a decidere casi complessi in assenza di norme, e quindi con acrobazie senza rete, aspettano ansiosi.

La questione non è del tutto nuova. Anzi per certi profili è storia vecchia di secoli. Solo che una volta era la chiesa a doversi barcamenare per far valere il suo punto di vista. Oggi la situazione è rovesciata e tocca allo Stato destreggiarsi, quanto meno per non urtare la suscettibilità del Vaticano che le intromissioni nel caso Marino hanno reso lampanti.

Ed ecco la storia. Per molto tempo ci si è arrovellati circa un’eventuale ammissione del concubinato da parte della chiesa. Il rebus nasceva dal canone 17 del primo concilio di Toledo (anno 400: all’epoca i concili provinciali dettavano precetti validi non solo nell’ambito geografico di pertinenza), che sembrava ammettere il concubinato non escludendo dalla comunione dei fedeli chi avesse un’unica concubina. Ma era una strana concubina, perché si richiedeva che fosse tenuta con affectio maritalis.

Nel diritto romano, classista come pochi, c’era almeno una decina di categorie di donne (le più diverse: dalle “sceniche” alle liberte alle “obscuro loco natae”, cioè – in generale – le donne del basso proletariato) che non si potevano sposare, ma solo tenere come concubine. Il nascente diritto canonico non era ancora così solido da potersi imporre sul diritto romano, qualificando come matrimonio un’unione da questo vietata. Ma neppure poteva scomunicare i tanti (ed erano davvero tanti) che – conformandosi ai precetti cristiani – sceglievano di convivere con una sola donna tenendola “pro uxore”, come moglie. Di qui la soluzione del canone 17: consentire il concubinato esclusivamente nel caso di concubina unica “pro uxore habita”. Una specie di unione di fatto ante litteram.

Dunque, la chiesa ha dovuto e saputo – nel passato – adattarsi alle leggi dello Stato per venire incontro alla situazione di fatto dei suoi fedeli. Oggi la situazione sembra essersi capovolta. Lo Stato (quanto meno la parte di esso che vorrebbe intervenire) in tema di unioni di fatto cerca di trovare soluzioni normative di compromesso, che non dispiacciano troppo alla chiesa. Cerca lui di adattarsi. Ma non riesce a trovare la quadra, la via d’uscita per districarsi da un groviglio di timori, timidezze, incertezze e dubbi. Esibisce circospezione e prudenza, fino al punto di rinviare e di fatto bloccare qualunque soluzione di legge.

Eppure la chiesa dimostra come sia importante fare il proprio mestiere, assolvere coerentemente il proprio ruolo “istituzionale”, nel 400 come oggi. Pretendere dallo Stato –uno Stato di diritto – che faccia lo stesso, adempiendo i suoi doveri, certamente non è troppo. E se proprio si dovesse ricorrere a qualche “escamotage”, che almeno sia intelligente e dignitoso. Comunque rispettoso della identità di chi legifera e nello stesso tempo preoccupato delle istanze che la comunità in maggioranza esprime. L’unica cosa non ammissibile è il rifiuto di prendere posizione. Anche quando si tratta di una situazione proteiforme come quella delle unioni di fatto (dove morali diverse confliggono nella ricerca o esclusione di una soluzione legislativa).

Anche questo insegnamento, attraverso il canone 17 del primo concilio di Toledo, ci viene dalla chiesa (del 400).

Gian Carlo Caselli                 Il Fatto Quotidiano    4 Novembre 2015

www.gaynews.it/index.php/notizie/opinioni/item/323-unioni-civili-la-chiesa-ha-legiferato-per-prima-nel-400-col-canone-17

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