NewsUCIPEM n. 570 –1 novembre 2015

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ABBANDONO DI MINORE                        Adozione: minore adottabile e stato di abbandono.

ADOTTABILITÀ                             No all’adottabilità dei figli della madre depressa o separata.

ADOZIONE                                      Evoluzione storica: dai romani alla legge sull’adozione.

ADOZIONI                                        Dal Tribunale di Roma un “errore interpretativo”.

Quando il giudice “crea” fa un grezzo sbaglio.

ADOZIONI INTERNAZIONALI    Messico. Amici dei Bambini ottiene il riaccreditamento.

Moldova. Il dramma dei bambini ‘intrappolati’ negli istituti.

AFFIDAMENTO                              L’affidamento del minore: presupposti, forme e procedura.

Riforma su affidamento e adozione: i punti salienti.

ASSEGNO DIVORZILE                  Sì, anche se lei lavora, ma non può mantenere lo stile di vita.

CHIESA CATTOLICA                    Il modello di famiglia che esce dal Sinodo.

Cosa cambia dopo il Sinodo?

La riforma della chiesa che riparte dal sinodo.

Il Sinodo spiegato ai miei figli.

La maggioranza qualificata e il suo perché.

L’assenza delle donne.

La Chiesa in prima linea al fianco dei bambini abbandonati.

CONSIGLIO DI STATO                  Per il matrimonio “italiano” ci vogliono un uomo e una donna.

L’urgenza dei diritti che calpesta il Diritto.

DALLA NAVATA                            Tutti i santi – 1 novembre 2015.

DIVORZIO                                       Ultrasessantenni dal divorzio facile.

La donna vuol conservare il cognome del marito dopo il divorzio.

FORUM associazioni familiari         Dal Consiglio di stato una parola definitiva.

PASTORALE                                    Quali matrimoni sono validi per la Chiesa?

SINODO SULLA FAMIGLIA          La Chiesa dell’integrazione, amica di chi soffre.

Ecco i termini chiave per capire cosa è cambiato.

Il Sinodo: il testo e l’evento.

Un Sinodo in chiaroscuro. La lettura di Noi Siamo Chiesa.

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ABBANDONO DI MINORE

Adozione: minore adottabile e stato di abbandono.

Minore adottabile e stato di abbandono. Il primo comma dell’art. 8 della legge 184/1983, come riformato dalla legge 149/2001, prevede che sono dichiarati in stato di adottabilità dal Tribunale per i minorenni del distretto nel quale si trovano i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore o abbia carattere transitorio.

www.camera.it/parlam/leggi/01149l.htm

            Il terzo comma dell’articolo citato, però, prevede che non sussiste causa di forza maggiore quando siano state rifiutate le misure di sostegno offerte dai servizi sociali locali e tale rifiuto sia ritenuto ingiustificato dal giudice. Nel rispetto del diritto del minore a vivere nella sua famiglia di origine, la norma ha però sottolineato che può parlarsi di stato di abbandono solo quando la mancanza di assistenza morale e materiale sia determinata non solo dai genitori del minore, ma anche da tutti coloro che, facendo parte della famiglia allargata, parenti entro il quarto grado, non provvedono a sostenerlo nella sua crescita armonica. Naturalmente, come richiede la norma, la mancata assistenza morale o materiale non deve essere determinata né da forza maggiore né deve essere di carattere transitorio. In questo caso, infatti, si tratterebbe di una momentanea difficoltà che deve essere affrontata attraverso, eventualmente, l’affido familiare previsto dalla stessa legge e di cui in precedenza si è già parlato.

            Tale affermazione trova la sua giustificazione se si considera che la dichiarazione dello stato di abbandono non ha lo scopo di sanzionare un comportamento manchevole da parte degli esercenti la responsabilità, quanto, piuttosto, di prendere atto di una situazione che non soddisfa il diritto del minore a vivere nell’ambito di una famiglia che sia in grado di assicurargli un corretto sviluppo. Ciò che rileva, quindi, non è la posizione del genitore, colpevole o incolpevole, quanto la oggettiva condizione di privazione dell’assistenza morale e materiale del minore.

            Ma cosa s’intende per stato di abbandono? Nella legge non vi è una definizione di questa situazione e tale assenza è stata ritenuta da parte della dottrina opportuna perché è consentita al giudice una valutazione non stereotipa e astratta, ma legata al singolo caso concreto. Naturalmente la giurisprudenza, con ripetute sentenze della Cassazione, ha tentato di fornire delle linee guida che, in ogni caso, fornissero dei parametri oggettivi che, pur senza nulla togliere all’analisi del caso concreto, fossero adattabili a tutte le situazioni.

            La Cassazione, in proposito, ha affermato che: «Il principio ispiratore della disciplina dell’adozione, secondo cui il minore ha diritto ad essere educato nella propria famiglia di origine, incontra i suoi limiti là dove questa non sia in grado di prestare, in via non transitoria, le cure necessarie, né di assicurare l’obbligo di mantenere, educare ed istruire la prole, con conseguente configurabilità dello stato di abbandono, il quale non viene meno per il solo fatto che al minore siano prestate le cure materiali essenziali da parte dei genitori o di taluno dei parenti entro il quarto grado, risultando necessario, in tal caso, accertare che l’ambiente domestico sia in grado di garantire un equilibrato ed armonioso sviluppo della personalità del minore, senza che, in particolare, la valutazione di idoneità dei medesimi parenti alla di lui assistenza possa prescindere dalla considerazione della pregressa condotta degli uni in relazione all’altro, come evidenziato dall’art. 12 della legge adozioni, che espressamente richiede il mantenimento di rapporti significativi con il minore.

            Secondo la dottrina, poi, al fine di valutare quale sia la compromissione della crescita del minore che può determinare la dichiarazione di adottabilità e, quindi, il distacco dalla famiglia di origine, il riferimento deve essere «non ad un minore astratto, né a tutti i minori di quell’età o di quell’ambiente sociale ma a quel minore particolare, con la sua storia, il suo vissuto, le sue caratteristiche fisiche e psicologiche, la sua età, il suo sviluppo». Si è, tuttavia, osservato da parte di altri autori che «l’analisi individuale del minore non può prescindere da un parametro minimo di assistenza morale e materiale che, qualunque sia l’appartenenza sociale del nucleo familiare, non può e non deve venire a mancare. Tale soglia è rappresentata da quegli elementi fondamentali di cura materiale del minore e di vicinanza affettiva che non ne compromettano in modo grave e permanente la crescita armonica». Si tratta di un accertamento rigoroso, attraverso il quale è necessario valutare sia la non transitorietà della condizione di disagio della famiglia del minore sia che lo Stato abbia attivato tutti i presidi di sostegno richiamati dall’articolo 1 della legge 184/1983 e che questi non abbiano sortito alcun effetto. Va sottolineato che l’articolo in esame, anche se fa riferimento alla condizione di abbandono, parla di mancanza di assistenza morale e materiale.

            Perché si ritenga sussistente la condizione di abbandono, come sottolineato dalla maggioranza della dottrina e dalla giurisprudenza non solo di legittimità, la dizione della norma non deve essere intesa come la necessaria contemporanea presenza di carenze sia morali sia materiali.

La disposizione deve essere interpretata come l’analisi della condizione del minore che non deve mancare di quel minimo di cure e affetto che devono essere presenti perché quest’ultimo possa crescere serenamente e, come più volte detto, in modo armonico. Ove si determini la mancanza anche della sola assistenza morale che, da sola, non permetta lo sviluppo del minore, è evidente che deve ritenersi concretizzata la condizione di abbandono.

            Non deve, infatti, dimenticarsi che il non far mancare il cibo o i soldi ad un minore non significa offrirgli quella assistenza che un genitore deve al proprio figlio garantendogli quell’appoggio affettivo e morale che lo aiuti a superare quelle difficoltà che, soprattutto in alcune fasi della vita giovanile, appaiono al minore insuperabili o, comunque, drammatiche. Dunque, «il concetto di abbandono non può legarsi solo alla quantità di assistenza prestata oggettivamente al ragazzo ma deve radicarsi anche sulla qualità di questa assistenza e sulla capacità di agevolare o meno il processo evolutivo del ragazzo, di soddisfare o meno le sue fondamentali esigenze di vita, di aiutarlo o meno a superare tutte le sue fondamentali esigenze di vita, di aiutarlo o meno a superare tutte quelle situazioni di carenza che provocano sofferenza e possono incrinare il processo formativo»

Le situazioni che escludono lo stato di abbandono: la causa di forza maggiore e la presenza tutelante di parenti entro il quarto grado disposti all’affido. Come accennato, la situazione di abbandono non deve dipendere da cause di forza maggiore e non deve trattarsi di una condizione «abbandonica» di carattere transitorio. Quanto al carattere transitorio, deve ritenersi che il fatto che lo ha determinato sia di tale intensità da determinare il mancato corretto esercizio della responsabilità ma che può essere superato o perché la condizione verificatasi tende naturalmente ad esaurirsi o perché, attraverso una corretta attività di sostegno alla genitorialità e alla famiglia, è possibile ristabilire un corretto rapporto genitore figlio.

            Ma cosa s’intende per forza maggiore? La forza maggiore è determinata da tutti quegli accidenti della vita imprevedibili ed irresistibili a cui non si riesce a far fronte con le proprie forze secondo il codificato parametro della diligenza del buon padre di famiglia. Dunque, alla luce di queste considerazioni, la povertà incolpevole non può certamente determinare la sussistenza della condizione di abbandono dovendo, invece, dare immediato luogo agli interventi di natura assistenziale.

            La necessità di un’approfondita verifica che la condizione abbandonica non dipenda dalla volontà dei genitori è sottolineata sia da quanto previsto dall’articolo 14 della legge 184/1983 sia da quanto previsto dal terzo comma dell’art. 8 legge cit.

            L’articolo 14 prevede, sempre nella logica di preferire la vita del bambino nella sua famiglia biologica, che il Tribunale per i minorenni, prima della dichiarazione di adottabilità, può disporre, per il massimo di un anno, la sospensione del procedimento comunicando ai servizi sociali la disposta sospensione perché questi adottino tutte le iniziative opportune. Deve ritenersi che, nell’ambito della previsione dell’art. 14 della legge, debba ritenersi operativo anche l’obbligo che grava sul giudice, ai sensi dell’art. 79bis, di comunicare ai comuni le situazioni di indigenza che richiedono interventi di sostegno. La dizione utilizzata dal legislatore nell’art. 14 cit., «iniziative opportune», sottolinea come sia demandata ai servizi assistenziali l’analisi del caso concreto e l’elaborazione di un progetto di aiuto e sostegno che, tenendo conto delle peculiarità proprie di quel nucleo familiare, e non di un astratto stereotipo, possa rimettere in moto quelle dinamiche genitore-figlio che siano in grado di assicurare a quest’ultimo la sua corretta crescita.

            Qualora i genitori non si mostrino, concretamente, disposti a collaborare, senza giusta causa, al progetto elaborato dal servizio, verrà ritenuta insussistente l’ipotizzata causa di forza maggiore. Se, infatti, una coppia genitoriale in difficoltà non accetta un ragionevole aiuto da parte dei servizi, risulterà evidente che non ha intenzione di assolvere in modo corretto, secondo ciò che corretto intende lo Stato, la funzione genitoriale così determinando la concreta sussistenza del venir meno dell’assistenza morale o materiale del minore. Ma che si intende per ragionevole aiuto? Significa che le proposte del servizio sociale devono prevedere un programma di recupero che, come tutti i programmi, tenendo conto della situazione specifica, preveda un percorso di cambiamento senza pretendere di ottenere tutto e subito.

            La condizione di abbandono, come detto, poi, non sussiste tutte le volte in cui provvedono alle cure morali e materiali del minore i parenti tenuti a provvedervi. Il legislatore, cioè, ha inteso sottolineare che, se nell’ambito della famiglia si è sviluppata quella solidarietà che ha determinato anche il concretizzarsi di rapporti affettivi del minore, non vi è alcun motivo di non dare rilievo al concetto di famiglia allargata che, al di là degli obblighi legislativi, è in grado di tutelare il bambino senza lo sradicamento dello stesso dal suo habitat. Naturalmente, l’azione di sostegno dei parenti non deve essere né teorica né occasionale; è compito del Tribunale quindi verificare che, effettivamente, vi sia volontà e capacità da parte dei parenti. Non è, infatti, infrequente, che vi siano parenti assolutamente disponibili a farsi carico del minore ma che, per condizioni per esempio legate all’età avanzata o alla propria condizione socio-economica, di fatto, non siano in grado di assicurare quell’assistenza e attenzione necessarie a sovrintendere al percorso di crescita di un fanciullo.

            Precisati questi concetti, deve qui però darsi conto del dibattito dottrinario sorto intorno alla diversa dizione che viene utilizzata dall’articolo 8 della legge 184 in esame che, ai fini dell’esclusione dello stato di abbandono, fa riferimento ai «parenti tenuti a provvedervi» e quella degli articoli 10, 11 e 12 della medesima legge i quali, in relazione al procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, fanno riferimento ai parenti entro il quarto grado che abbiano avuto rapporti significativi con il minore. Da un lato, si sostiene che il diritto del minore a vivere nella sua famiglia di origine è tale che lo stato di abbandono debba ritenersi escluso anche qualora vi siano parenti tenuti a provvedere che, pur essendosi disinteressati della condizione del minore fino all’intervento dell’autorità, abbiano manifestato concretamente la volontà di dare corso al loro obbligo.

            Altra corrente di pensiero ha ritenuto, invece, che la dizione dell’articolo 8 debba essere integrata da quella delle norme successive che, accanto a disposizioni di carattere processuale, contengono anche disposizioni di carattere sostanziale, in relazione ai provvedimenti urgenti, facendo riferimento esclusivo ai parenti che abbiano avuto rapporti significativi con il minore. Non vi è dubbio che questa seconda interpretazione sia più rispondente sia allo spirito della legge che ai bisogni del minore. L’armoniosa crescita del minore, infatti, non è assicurata solo dalle cure materiali, cibo, vestiario, tetto sotto cui dormire; la cura di un bambino è fatta anche di tutti quegli aspetti di amore, attenzione, e comprensione, che lo aiutano ad affrontare la vita in un ambiente che lo protegge, lo sostiene e lo stimola. Appare, quindi, evidente che, ai fini della declaratoria dello stato di abbandono, la verifica deve essere fatta con riferimento a parenti che abbiano avuto rapporti significativi con il minore e che intendano farsi carico della sua crescita.

            Un’interpretazione formalistica e linguistica della norma non sarebbe rispondente allo spirito della legge ma, soprattutto, alle esigenze e ai diritti del bambino. Naturalmente per rapporti significativi deve intendersi l’aver instaurato con il bambino quella relazione affettiva e di confidenza che caratterizza un ambiente familiare e che non può determinarsi a seguito di incontri occasionali. Non deve escludersi, inoltre, che un rapporto significativo possa essere mantenuto anche nel caso di una relazione parentale a distanza in quanto, come è noto, non sempre le buone relazioni sono determinate dalla quantità delle frequentazioni quanto, piuttosto, dalla qualità delle relazioni instaurate.

            In tema di dichiarazione di adottabilità, cioè, qualora sì manifesti, da parte di figure parentali sostitutive, la disponibilità a prestare assistenza e cure al minore, essenziale presupposto giuridico per escludere lo stato di abbandono è la presenza di siffatti rapporti dello stesso con dette persone, giacché alla parentela la L. adozione attribuisce appunto rilievo, ai fini della sopraindicata esclusione, solo se accompagnata dalle relazioni psicologiche ed affettive che normalmente la caratterizzano, a maggior ragione dopo le modifiche introdotte alla richiamata L. n. 184 del 1983, dalla L. 149/2001, il cui art. 11, nel condizionare espressamente la declaratoria di adottabilità, in caso di decesso dei genitori, all’inesistenza di simili rapporti tra il minore ed i parenti entro il quarto grado, rende irragionevole una diversa disciplina con riferimento all’ipotesi di inidoneità dei genitori .

            Dalle considerazioni sin qui fatte, risulta dunque evidente che la legge predilige, ai fini della tutela del minore, l’affidamento a parenti, in quanto vi è preferenza per il mantenimento del minore nell’ambito del suo habitat di origine sociale ed affettivo.

            Si discute, invece, del ruolo che deve attribuirsi agli affini. Secondo parte della dottrina anche questi devono essere considerati mentre, da altri, si ritiene che, poiché l’art. 78 c.c. parla di affinità mentre la parentela è prevista da altri articoli, questi non dovrebbero essere considerati. Si osserva che è strano come la norma in esame, con evidenza, contempla la famiglia allargata proprio quando è lo stesso concetto di famiglia che va riconsiderata, soprattutto se si tiene conto delle famiglie nucleari o monoparentali e, spesso, senza alcun legame tra i componenti di questi ed altri parenti. Va ribadito, comunque, che i parenti entro il quarto grado devono essere disposti a assistere moralmente e materialmente il minore

Redazione       LPT                28 ottobre 2015

www.laleggepertutti.it/102610_adozione-minore-adottabile-e-stato-di-abbandono

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                                               ADOTTABILITÀ

            CEDU: no all’adottabilità dei figli della madre depressa o separata.

Vanno preferite misure meno radicali. Il legame madre-figli va tutelato con l’ausilio delle autorità di protezione sociale. Adottabilità solo come extrema ratio. Il ruolo delle autorità di protezione sociale è quello di aiutare le persone in difficoltà, guidarle e consigliare i benefici disponibili per cercare quantomeno di superare le difficoltà nelle quale intercorrono. Nel caso del legame madre-figli, è necessario fare il possibile per trovare le risorse necessarie a mantenerne l’integrità del rapporto.

Sulla base di tali premesse la Corte EDU [La Corte europea dei diritti dell’uomo] con decisione del 13 ottobre 2015 (affare S.H. c. Italia), allegata, ha ritenuto ricevibile la richiesta presentata da una madre che aveva visto dichiararsi l’adottabilità dei suoi tre figli poiché ritenuta inadeguata a prendersi cura di loro. La ricorrente soffriva di depressione e seguiva una terapia farmacologica, pertanto i servizi sociali avevano informato le autorità competenti a seguito dell’aggravarsi delle sue condizioni, poiché ricoverata più volte d’urgenza a causa dell’accidentale ingestione dei suoi farmaci antidepressivi. Il Tribunale provvedeva all’allontanamento dei bambini dalla famiglia, successivamente ricondotti dai propri genitori i quali avevano mostrato disponibilità ad accudirli, con l’aiuto dei servizi sociali e del nonno, secondo un progetto elaborato dagli operatori per superare le difficoltà riscontrate. La ricorrente aveva iniziato una regolare terapia farmacologica e psicoterapica ed i genitori, nonostante le difficoltà, avevano reagito positivamente a quanto predisposto dai servizi sociali. Un nuovo distacco veniva, tuttavia, disposto per l’aggravarsi della malattia della donna, costretta all’ospedalizzazione, e dall’allontanamento del padre dalla casa familiare. Veniva aperta una procedura che culminava nella dichiarazione di adottabilità dei piccoli, nonostante la disponibilità ribadita dai genitori a prendersi cura di loro, precisando che i bambini non erano in situazione d’abbandono seppur la coppia si fosse separata, ed evidenziando anche il sostegno manifestato dal nonno paterno.

            Sia in appello che in Cassazione viene ribadita la decisione di primo grado ed i bambini venivano trasferiti ognuno presso una famiglia affidataria diversa. Da ciò scaturisce il ricorso innanzi alla Corte EDU, in cui la ricorrente evidenzia che, pur non esistendo alcuna situazione d’abbandono, ma soltanto alcune difficoltà familiari transitorie, lo Stato abbia agito in violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che consente all’autorità pubblica l’ingerenza nella vita privata e familiare solo se costituisce una misura necessaria, prevista dalla legge.

            Nonostante le obbligazioni positive e negative previste dall’art. 8 non si prestino a definizioni precise, la Corte chiarisce che la nozione di necessità implica che l’ingerenza statale sia fondata su un bisogno sociale urgente e sia proporzionale a quanto necessario, poiché non sono consentiti interventi arbitrari privi di rispetto per la vita familiare. Il necessario contemperamento degli interessi contrapposti, deve tuttavia tenere in considerazione l’interesse superiore dei bambini che assume un ruolo determinante. In casi così delicati e complessi il margine di discrezionalità lasciato alle autorità nazionali competenti varia in base alla natura del litigio e degli interessi in gioco e, mentre lo Stato ha un ampio margine d’azione nel prendere in carico un bambino in caso di urgenza, nel caso di specie esistono circostanze che giustificano la non adottabilità.

            Il rapporto genitori-figli rappresenta un elemento fondante della vita familiare, l’autorità competente deve, prima di eseguire una misura privativa come quella della dichiarazione di adottabilità, valutare l’incidenza che l’adozione avrà su genitori e figli ed eventualmente optare per soluzioni alternative. L’Italia non è nuova a sindacati simili, poiché una simile situazione si era già verificata nel caso Zhou c. Italia.

            Secondo la Corte EDU le autorità italiane non avrebbero attuato tutti gli sforzi adeguati e sufficienti per rispettare il diritto della ricorrente a vivere con i suoi figli. Indubbio che un intervento in situazioni simili sia necessario al fine di proteggere l’interesse dei bambini, ma, se possibili, vanno preferite azioni meno radicali al fine di tutelare il rapporto madre-figlio. Nel caso di specie, era stato attuato un sistema di sostegno per tutelare la famiglia, ma il Tribunale dopo soli due mesi ha scelto di dichiarare l’adottabilità dei minori nonostante il parere contrario degli esperti. Nessuna analisi approfondita, ritiene la Corte, è stata svolta per comprendere l’incidenza della misura di adozione sulle persone interessate, considerando che la declaratoria di adottabilità nell’ordinamento italiano rappresenta una extrema ratio. La donna ha dimostrato di volersi prendere cura dei figli, sollecitando ella stessa l’intervento dei servizi sociali, pertanto non è condivisibile che i giudici abbiano ritenuto tali richieste sintomo di un’incapacità ad esercitare il ruolo di genitore poiché i piccoli non erano stati sottoposti a maltrattamenti psichici o fisici e lo Stato avrebbe dovuto salvaguardare il loro interesse a vivere con la madre. A ciò si aggiunge il percorso terapeutico volontariamente intrapreso dalla donna, la mobilizzazione del padre (nonostante la separazione) per trovare risorse in grado di sostenere la famiglia e l’intervento del nonno disposto ad aiutarlo.

            L’allontanamento dai parenti biologici appare ingiustificato, così come l’aver collocato i bambini presso famiglie differenti allontanandoli anche dai loro stessi fratelli. La Corte di Strasburgo ha quindi riconosciuto un danno morale quantificato in 32mila euro che lo Stato sarà tenuto a versare alla ricorrente.

Cedu, sentenza n. 52557/2014 affare S.H. c. Italia

Lucia Izzo       newsletter        studio Cataldi              20 ottobre 2015

www.studiocataldi.it/articoli/19803-cedu-no-all-adottabilita-dei-figli-se-la-madre-e-depressa-o-separata-vanno-preferite-misure-meno-radicali.asp#commenti

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ADOZIONE

Evoluzione storica dell’istituto dell’adozione: dai romani alla legge sull’adozione.

L’adozione è da sempre un istituto giuridico che determina un rapporto genitore-figlio tra persone che non hanno tra loro alcun rapporto di tipo «biologico». In sostanza, volendo usare una terminologia ormai superata dalla riforma della filiazione (L. 219/2012 e D.Lgs. 154/2013), un bambino, figlio di genitori «naturali», in virtù dell’istituto dell’adozione, diviene figlio «legittimo», dei soggetti che lo «adottano».

            Alcune forme di adozione, anche se con finalità del tutto diverse da quelle perseguite dall’istituto attuale, erano conosciute sin dalla più remota antichità. Una delle prime evidenze storiche dell’adozione risale al II millennio a.C.: il Codice di Hammurabi, una tra le più antiche raccolte di leggi conosciute, normava i diritti e doveri degli adottandi e degli adottati. Storicamente, le forme di adozione codificate che più si avvicinano alla concezione attuale, come spesso accade per il nostro diritto, sono quelle legate alla legislazione romana. Prima delle legge delle XII tavole, l’istituto era rappresentato dall’adrogatio ove un soggetto sui iuris, spesso pater familias, con tutto il suo nucleo familiare, entrava a far parte di quello dell’adrogator. Con l’adoptio, istituto successivo alle XII tavole, un pater familias, invece, poneva sotto la sua potestà un soggetto appartenente ad altra famiglia. Nella sua evoluzione, l’adoptio previde, in una prima modificazione, che l’adottante avesse età maggiore di quella dell’adottato, così configurandosi una sorta di filiazione e, poi, che l’adoptio dovesse avvenire nell’interesse dell’adottato, cosicché non era possibile adottare da parte di chi non era in grado di mantenere il figlio adottato.

            Secondo autorevole dottrina, «proprio questi ultimi elementi, in epoca postclassica e poi con Giustiniano, rappresentarono le caratteristiche fondanti dell’istituto». Venne, infatti, diffusamente affermato che adoptio natura imitatur e cioè che l’adozione era effettuata ad imitazione della filiazione e quindi chi non era dotato degli organi necessari alla procreazione non poteva adottare e l’adottante doveva avere almeno diciotto anni più dell’adottato. Venne inoltre fissato un altro fondamentale principio, in base al quale il giudice non poteva consentire l’adozione se non dopo aver sentito il soggetto da adottare.

            Nel cosiddetto diritto intermedio, l’adozione prevedeva che l’adottato restasse sotto la «potestà» del proprio genitore «naturale», acquisendo esclusivamente diritti ereditari nei confronti dell’adottante. Sono questi gli anni in cui perde rilievo l’intervento pubblico attraverso il giudice e le diverse forme adottive restano un fatto privato in seno alla famiglia che non ammette ingerenze esterne di alcun genere. Sono, tuttavia, anni di grande confusione e l’istituto, spesso, venne utilizzato per rendere legittimi figli naturali.

            Perché l’adozione abbia una sua nuova dignità e una regolamentazione certa si dovrà attendere il codice napoleonico che fissò alcuni principi come l’impossibilità ad avere figli per l’adottante, l’aver compiuto cinquanta anni e una differenza di età con l’adottato di almeno quindici anni. Principi che saranno poi ripresi dalle legislazioni di numerosi stati e, tra questi, il Regno delle due Sicilie, ove la legge promulgata da Ferdinando I il 26-3-1819, affrontò l’istituto nel titolo VIII, artt. da 266 a 286. Il codice post-unitario del 1865, sostanzialmente, riprese quanto previsto dal codice napoleonico.

            Sarà con il codice del 1942 che cominceranno poi ad affermarsi nel nostro ordinamento principi fondamentali come quello che l’adozione è un istituto realizzato per offrire assistenza all’infanzia e comincia, quindi, ad essere superato il concetto di adozione come strumento di salvaguardia e trasmissione di patrimoni.

            Sarà solo negli anni sessanta, all’indomani della Dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo (20-11-1959) e delle sollecitazioni del Concilio Vaticano II, che in Italia il dibattito sull’adozione apre nuovi orizzonti che sfoceranno nella legge 431/1967 sull’adozione speciale. La normativa, approvata all’unanimità dalle forze del cosiddetto arco costituzionale, sovvertirà definitivamente i fini dell’adozione, che saranno esclusivamente quelli di offrire al minore una famiglia in cui crescere.

            Come autorevole dottrina ha scritto, «La procedura prevedeva l’intervento dell’amministrazione della giustizia e dei servizi sociali, la rottura, all’atto dell’adozione, di ogni legame con la famiglia di origine, il pieno inserimento nella famiglia adottante come figlio legittimo (posizione identica ai figli biologici della coppia sposata) e un divario di età tra adottante ed adottato che garantiva al minore due genitori in grado di svolgere la funzione genitoriale e non due soggetti anziani e soli che cercavano sostegno per la vecchiaia» .

            Dunque, il capovolgimento delle posizioni di interesse a cui guardava la nuova disciplina dell’adozione consentiva di affermare che le posizioni di adottante ed adottato si erano reciprocamente scambiate. Dunque, «in quest’ottica, la domanda di adozione più che domanda diventava offerta di disponibilità ad accogliere come figlio un bambino abbandonato. La coppia desiderosa di adottare non era più l’attore principale, ma una risorsa da utilizzare in caso di bisogno. Il soggetto principale, il protagonista della procedura diventava, finalmente, il bambino». Questa autorevole affermazione, tuttavia, non trovò riscontro nella realtà che si era determinata anche perché la legge consentiva agli aspiranti adottanti di porre condizioni come l’assenza da tempo di contatti del bambino da adottare con la sua famiglia di origine o la sua normale evoluzione psico-fisica.

            In conseguenza dei radicali cambiamenti sociali determinatisi negli anni settanta e ottanta e della più capillare assistenza socio-sanitaria sia alle famiglie in disagio sia alle ragazze madri riducendo radicalmente il numero di minori in evidente stato di abbandono, determinò una drastica diminuzione dei minori adottabili nei primi anni di vita, rendendo il limite degli otto anni previsto dalla legge del 1967 un blocco che, in modo sempre più marcato, indusse chi desiderava adottare un bambino in tenera età a rivolgersi all’adozione internazionale che risultava del tutto priva di regole.

            Nel 1983, con la legge 184 (L. adozione.), si intervenne ancora una volta tentando di spostare ancora l’ottica legislativa nel senso di garantire al minore una famiglia e, in primo luogo, la sua famiglia di origine. I primi articoli della legge, infatti, disciplinano, ancora oggi seppur con le già citate modifiche legislative, l’affido familiare, che ha lo scopo di dare sostegno alle famiglie in difficoltà così tentando il recupero di un corretto rapporto genitori-figli che permetta al minore di crescere in modo armonico tra i suoi affetti biologici.

La legge, tuttavia, prese anche atto del fatto che l’Italia, investita dal benessere, era diventato paese in cui le coppie che desideravano un bambino lo adottavano nei paesi più poveri, ricorrendo l’adozione. Secondo quanto ha commentato autorevole dottrina, tuttavia, la legge non riuscì a fermare il mercato dei bambini, cui si tentò di porre rimedio con la Convenzione dell’Aja del 1993 che, sottoscritta anche dall’Italia, avrebbe portato alla legge 476/1998.

            Nel 2001, con un accordo tra le forze politiche, è stata poi promulgata la legge n. 149 che, sin dal titolo, «Diritto del minore ad una famiglia» rese chiaro il suo intento. L’effettiva novità, infatti, è stata quella di aver specificato, in modo molto più preciso rispetto a quanto era stato fatto dalle precedenti disposizioni, quali sono i requisiti che consentono la dichiarazione di adottabilità di un minore. Va detto, tuttavia, che le diverse leggi succedutesi nel tempo non sono ancora riuscite a rendere completamente centrale il bambino e il suo bisogno di amore per crescere sereno. L’adozione risulta ancora un istituto giuridico che da molti è visto, sia pur non palesando il pensiero, come strumento per poter soddisfare il proprio desiderio di genitorialità e, solo in secondo luogo, come strumento per donare amore ad un bambino.

Redazione       LpT     28 ottobre 2015         www.laleggepertutti.it/102612_adozione-evoluzione-storica

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ADOZIONI

Dal Tribunale di Roma un “errore interpretativo”.

Il giurista Alberto Gambino commenta il caso del bambino affidato ad una coppia omosessuale La recente sentenza del Tribunale di Roma, che ha stabilito l’affidamento di un bambino a due uomini è una decisione “creativa” che mira a suscitare un dibattito in sede parlamentare, perché si arrivi a un’effettiva legalizzazione dell’adozione a beneficio delle coppie dello stesso sesso.

Il professore Alberto Gambino, ordinario di diritto privato all’Università Europea di Roma, ha parlato di “forzatura” da parte del giudice, non essendovi alcun vuoto normativo a giustificare il provvedimento. La legge italiana sulle adozioni è infatti chiarissima e fa riferimento soltanto a coppie sposate, quindi, esclusivamente eterosessuali.

            Professore, come giudica la decisione del Tribunale di Roma?

Il mio parere è che sia una forzatura. Si basa su un certo articolo della legge sull’adozione – l’articolo 44, lettera D – dove si dice che in caso di impossibilità di affidamento pre-adottivo, si può ricorrere a un’adozione speciale. Ovviamente, l’affidamento pre-adottivo parte dal presupposto dello stato di abbandono del minore e, dunque, questa norma si applica soltanto nel caso di assenza morale e materiale dei genitori, mentre in questo caso c’è una madre, quindi non si sarebbe dovuta applicare la norma. Qui credo che qualsiasi professore di diritto civile insegnerebbe ai propri studenti che si tratta di un errore interpretativo.

            Alcuni parlano, comunque, di sentenza ideologica.

È una sentenza che mira a suscitare un dibattito, e probabilmente anche un dibattito in sede parlamentare perché si arrivi a una legge che apra anche ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, ed eventualmente alle adozioni. Certamente, ci può essere questo intento in una sentenza di tal fatta. È comunque una sentenza ‘creativa’ che squarcia una normativa – quella sull’adozione – che invece si basa sul fatto che i genitori siano sposati e, solo in questo caso, possano adottare dei figli; ed essere sposati in Italia significa essere di sesso diverso.

Da più parti si sottolinea anche un altro aspetto: cioè, che i giudici si stanno sostituendo al legislatore.

I giudici si sostituiscono al legislatore quando intravedono buchi normativi. Qui, in realtà, il buco normativo non c’è, perché la legge sull’adozione è chiarissima: parla di coppie coniugate uomo-donna. Quindi, da questo punto di vista, quando decidono in modo totalmente distante dalla legge creano una forzatura, in qualche modo si sostituiscono al Parlamento, anche se dobbiamo ricordare che sono sentenze su casi singoli e che poi saranno altri giudici a dover vagliare ed eventualmente ribaltare, come credo sia abbastanza pacifico in questo caso.

            Quindi, presumibilmente, ci sarà un ricorso a questa sentenza?

Direi senz’altro di sì. Qui ci sono altri gradi di giudizio. Da quanto si apprende il pubblico ministero era contrario a questa soluzione, e quindi probabilmente sarà lo stesso pubblico ministero che impugnerà il provvedimento.

            I magistrati italiani e la giurisprudenza italiana dove stanno andando?

Alcuni giudici, non la giurisprudenza in quanto tale – che è ancora abbastanza stabile e fedele alla legge – stanno intravedendo nei diritti individuali un grimaldello per superare alcune forme comunitarie di diritto: come la famiglia, o come il caso della nascita dei figli. Diritti individuali portati, talvolta, all’esasperazione tant’è che alcuni bisogni e interessi – per primo l’interesse ad avere un figlio – diventa, appunto, un diritto. È qualcosa di molto simile a ciò che succede nei Paesi di stampo anglosassone dove desideri e bisogni si tramutano, talvolta, in pretese giuridiche, cioè in diritti.

Luca Marcolivio        zenit.org         25 ottobre 2015

www.zenit.org/it/articles/adozioni-dal-tribunale-di-roma-un-errore-intepretativo

Quando il giudice “crea” fa un grezzo sbaglio.

La decisione del tribunale per i minori di Roma, sull’adozione all’interno di una coppia lesbo, che in dieci pagine spiega perché la compagna di una donna che ha avuto una figlia da fecondazione eterologa può adottare quella stessa bambina e diventarne anch’essa genitrice, è un grosso errore. Dieci pagine non servono a farne un errore raffinato, di fronte alla grezza evidenza dello sbaglio; e si capisce perché il procuratore capo ha impugnato la decisione, col secco e decisivo rilievo che è fuori d’ogni previsione di legge e che l’adozione presuppone uno «stato di abbandono» del minore che qui non c’è per nulla.

Ora, dunque, se ne dovrà riparlare in sede di appello. Frattanto, non guasta che i giudici, e poi i parlamentari impegnati nella costellazione dei problemi Lgbt, e poi i comuni cittadini di uno Stato che si afferma come Stato di diritto, con un ordinamento scritto e non fantasticato, con giudici soggetti «solo alla legge» e liberi da tutto il resto, ma certo non con leggi soggette ai giudici e alla loro libera creatività, non guasta – dico – ripassare i fondamentali, cominciando dal punto specifico dell’adozione, ma anche riflettendo sul piano più generale, circa i nodi già vecchi e irrisolti delle relazioni fra i poteri dello Stato.

L’adozione, nella legge, serve a dare una famiglia a un bambino che non ce l’ha, o che l’ha perduta, e che è in «stato di abbandono». Non è fatta per dare un figlio a chi non l’ha, e vuole averlo e non può generarlo. Così la legge cerca per i minori abbandonati una «famiglia», e per giunta una famiglia di speciale idoneità, e la vuole fatta di due coniugi sposati da almeno tre anni e non separati, e «affettivamente capaci di educare, istruire e mantenere» i figli, cioè di fare da madre e da padre esattamente con gli stessi compiti, e persino con la stessa formula tipica che è consacrata nella Costituzione. È una «filiazione». Non è una generazione, ma è una filiazione: giuridicamente resa identica a quella che deriva dalla generazione secondo la carne: adoptio imitatur naturam si legge nel diritto romano antico, come sintesi sapienziale.

Questa evidenza, così semplice e radicale, basta a far capire l’estraneità, prima ancora che l’assurdità, del tema dell’adozione di un bambino nelle vicende delle convivenze omosessuali. E se invece delle fantasie adulte centrate sull’avere a dispetto dell’impossibile, si tenessero in cuore i diritti del bambino a essere, cioè a essere accolto nell’abbraccio familiare (padre e madre) della generazione, o nell’abbraccio della filiazione adottiva (padre e madre di soccorso) sarebbe facile capire che inserire l’adozione fra gay o fra lesbo, oltre che strappo giuridico è una falsificazione sul piano antropologico.

            Adoptio imitatur naturam e la natura non si fa ingannare. È anche vero che la nostra legge consente al «coniuge» di chi ha già un figlio, di diventare genitore adottivo di quel figlio che non è suo ma dell’altro; ma si tratta di una estensione del vincolo familiare che tiene a caposaldo il coniugio, e la paternità e la maternità partecipata. Nella coppia omosessuale questo non può verificarsi. Il genitore raddoppiato (doppio maschio, o doppia femmina) non surroga il genitore mancante; e se un vincolo affettivo verso il bambino si valorizza, esso potrà semmai tener figura di qualche ipotesi di affido futuro, all’occorrenza, e non di filiazione.

La natura non si inganna. Ma neanche gli italiani: secondo un recentissimo sondaggio più di due terzi sono contrari anche alla stepchild adoption (un tipo di adozione speciale, che crea vincoli di parentela tra adottante e adottato e con nessun altro) di cui si va discutendo in una proposta di legge. E l’adozione omosessuale tout court, secondo più rilevazioni con risultati costanti nel tempo, vede contrario più dell’80% dell’opinione pubblica. Il Parlamento deve esserne consapevole, e deve tenere anche questo in giusto conto.

Ma la sentenza, sul piano generale, offre una nuova occasione per affrontare con qualche serietà e dignità il nodo della “giurisprudenza creativa” che nei chiaroscuri dell’ordinamento giuridico, a volte caotico, a volte lacunoso, dà strada a interpretazioni soggettive che negano la certezza del diritto.

Giuseppe Anzani                    avvenire         24 ottobre 2015ottobre 2015

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Amici dei Bambini ottiene il riaccreditamento in Messico.

La siesta dell’accoglienza è finita. Amici dei Bambini ha ottenuto il riaccreditamento in Messico. L’autorizzazione a operare nel settore delle adozioni internazionali nel Paese centroamericano – concessa dal Sistema Nacional Dif (Disarrollo Integral de la Familia), Autorità Centrale di Città del Messico –  avrà una durata di 4 anni, fino a giugno 2019.  Quello ottenuto in questo 2015 è un riaccreditamento speciale per Ai.Bi.: per la prima volta, esso apre la possibilità di adottare in tutto il territorio nazionale messicano e non in un solo Stato della federazione.

            Con Amici dei Bambini sale a 4 il numero di enti autorizzati italiani accreditati per l’adozione internazionale in Messico: per tre di questi, l’accreditamento scadrà a giugno 2019, mentre per il quarto la scadenza è prevista a luglio 2016. In totale gli enti per l’adozione internazionale accreditati attualmente in Messico sono 18, provenienti da 4 Paesi. Si tratta di un ente spagnolo, uno francese, 12 statunitensi e, appunto, 4 italiani. Al momento risultano in corso di rinnovamento le pratiche per l’accreditamento di altri due enti, rispettivamente di Francia e Stati Uniti.

            Le aspiranti coppie adottive italiane potranno quindi presto ricominciare ad adottare in Messico affidando il mandato ad Amici dei Bambini. Ai.Bi. ha una consolidata tradizione di adozioni internazionali nel Paese sudamericano: tradizione che risale al 2009, quando furono adottati i primi 2 bambini messicani con Amici dei Bambini. Il picco si toccò nel biennio 2010 – 2011, con rispettivamente 10 e 14 minori accolti. Anni d’oro per l’adozione in Messico, del tutto in linea con l’incremento delle adozioni internazionali realizzate in Italia in quegli stessi anni. Le ultime adozioni portate a termine, fino a questo momento, da Ai.Bi. in Messico risalgono al 2012 con 5 bambini accolti. In totale, dal 2009 al 2012, con Amici dei Bambini sono stati adottati in Messico 31 minori, accolti da 19 coppie.

            Ai. Bi.             27 ottobre 2015                     www.aibi.it/ita/category/archivio-news

Moldova. Il dramma dei bambini ‘intrappolati’ negli istituti: in 4 mila sognano la famiglia

Negli ultimi 15 anni, nessun bambino dell’istituto di Straseni è stato adottato, anche se molti di loro non hanno parenti e avrebbero voluto avere una famiglia tutta loro. L’amministrazione dell’istituto dice che questo succede a causa della superficialità di certi funzionari. Nel frattempo, i bambini crescono, nessuno li adotta e quando lasciano l’istituto, sono costretti a cavarsela da soli. (…).

Adesso, in Moldova ci sono 349 bambini adottabili, mentre il numero dei bambini che vivono fuori famiglia arriva a circa 15 mila (14.477) Di questi, circa 4 mila vivono ancora negli istituti.

Ai. Bi.             27 ottobre 2015                     www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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AFFIDAMENTO

L’affidamento del minore: presupposti, forme e procedura

            L’istituto dell’affidamento familiare, disciplinato dall’art. 4 L. adozione, ha subìto modifiche prima ad opera della L. 149/2001 e, di recente, ex D.Lgs. 154/2013, di attuazione della legge delega 219/2012.

www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2013-12-28;154

            Il legislatore del 2001 ha inteso dettare misure tali da rendere pienamente operativo il diritto del minore ad una propria famiglia, da intendersi sia quella d’origine sia quella cui sia eventualmente affidato a causa delle difficoltà della famiglia d’origine. Come la dottrina ha fatto giustamente notare, ciò emerge a chiare lettere dallo stesso titolo I della legge 149/2001 che reca come titolo «Diritto del minore alla propria famiglia». Con la legge in commento, infatti, al minore è esplicitamente riconosciuto il diritto a «crescere e ad essere educato nell’ambito della propria famiglia» a favore della quale sono previsti interventi di sostegno e/o aiuti da parte dello stato, delle regioni e degli enti locali, al fine di superare eventuali difficoltà connesse a situazioni di indigenza dei genitori o del genitore che eserciti la responsabilità genitoriale in via esclusiva.

            Va qui ricordato che il D.Lgs. 154/2013 ha rafforzato il principio del diritto del minore a crescere e ad essere educato nella propria famiglia inserendo, tra le norme finali della legge 184/1983, l’art. 79bis, ove si prevede che, nell’ambito di tutte le procedure dinanzi ai Tribunali per i minorenni è obbligo del giudice segnalare tutte le situazioni di indigenza dei nuclei familiari che richiedono interventi di sostegno, per consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia. Allorché la famiglia d’origine, nonostante gli aiuti di cui sopra, non riesca a garantire il concreto diritto del minore ad essere cresciuto ed educato in maniera adeguata, sorge la necessità di offrire un valido aiuto al minore attraverso l’istituto dell’affidamento familiare il quale, da un lato, si pone come un diretto supporto al minore, attraverso il suo temporaneo affidamento ad altra famiglia o a anche ad una singola persona e, dall’altro, rappresenta un aiuto indiretto alla famiglia d’origine allo scopo di superare il suo temporaneo stato di difficoltà che può dipendere da varie cause come, ad esempio, situazioni di difficoltà economiche o psicologiche o logistiche o di necessità di assentarsi per lavoro o per cercare lavoro e per altri svariati motivi degni di apprezzamento.

            Con l’istituto dell’affidamento familiare, i genitori affidatari non potranno essere considerati come genitori diretti del minore. L’affidamento non rappresenta una sostituzione legale e/o sociale alla famiglia d’origine ma un aiuto parallelo nel superare le problematiche e ritrovare un ambiente familiare idoneo per lo sviluppo del minore, un istituto che, dunque, per il tempo necessario, supplisca alle funzioni della famiglia «disfunzionale». I protagonisti dell’affidamento sono:

  • Il minore. Un bambino dai primi anni di nascita fino ai diciotto anni; esso non è un oggetto e difatti ha diritto a essere ascoltato, informato e preparato prima di procedere per l’affidamento; ha diritto a mantenere i rapporti con la propria famiglia e a mantenere i rapporti con la famiglia affidataria anche al termine dell’affido, quando non vi siano controindicazioni.
  • La famiglia d’origine. Qualunque persona che, singolarmente o in coppia, abbia il compito di accudire, allevare, educare un minore, in tutta la sua integrità fisica, psichica ed emotiva e che, a una valutazione tecnica psico-sociale, appaia impossibilitato e/o inadeguato a svolgerlo (primi fra tutti, il padre e la madre, ma anche, come accennato, gli altri familiari fino al quarto grado di parentela). La famiglia d’origine innanzitutto, in mancanza di condotte pregiudizievoli valutabili ex art. 330 e 333 c.c., ha il diritto di ancorare tale procedura al suo consenso : tale consenso espresso dei genitori muove dalla coscienza che essi hanno di intraprendere un progetto di recupero di natura assistenziale, di sostegno, educativo – riabilitativo e, dunque, dalla condivisione dell’affido come uno degli strumenti per consentire questo recupero; poi, ha diritto a essere informata sulle finalità dell’affidamento e ad essere coinvolta in tutte le fasi del progetto; ha diritto ad avere un sostegno individuale in merito al percorso di affido e ad essere coinvolta in un progetto di aiuto per superare le proprie difficoltà. A carico della famiglia di origine del minore vi è, come principale obbligo, quello di collaborare con gli organi socio-assistenziali locali in vista del reinserimento del minore nella suddetta famiglia nonché l’obbligo di osservare tutte le modalità stabilite dal Tribunale per i minori per quanto concerne il diritto di visita e di frequentazione con il minore affidato;
  • La famiglia affidataria. Qualunque persona che, singolarmente o in coppia, a una valutazione tecnica psico-sociale risulti in grado di accudire, educare e mantenere un minore rispondendo a tutte le caratteristiche richieste per una famiglia affidataria come la disponibilità nella collaborazione con le istituzioni, un forte temperamento nel tollerare le diverse situazioni problematiche, solidarietà verso altre etnie e culture sociali. Possono offrire la disponibilità all’affidamento sia coppie coniugate con figli o senza, sia persone non coniugate. La legge non stabilisce vincoli di età rispetto al bambino affidato né vincoli di reddito. Vi sono, dunque, altri tipi di requisiti essenziali che si possono riassumere in: uno spazio nella propria vita e nella propria casa per accogliere un’altra persona; la disponibilità affettiva e le capacità educative per accompagnare per un tratto di strada più o meno lungo un bambino o un ragazzo senza la pretesa di cambiarlo, ma aiutandolo a sviluppare le sue potenzialità e valorizzando le sue risorse; la consapevolezza della presenza e dell’importanza della famiglia d’origine nella vita del bambino. Compito importante è appunto quello di curare e mantenere i rapporti con la famiglia d’origine affinché si possa favorire il reinserimento del minore. Chiunque, se in possesso dei requisiti, può avere informazioni e avere un minore affidato a esso, e deve, per questo, rivolgersi ai servizi sociali territoriali di residenza e offrire la propria disponibilità e il proprio desiderio di far parte di questo progetto. I servizi sociali territoriali effettueranno incontri e colloqui di conoscenza con le famiglie o con le singole persone disposte e disponibili all’affidamento, al fine di poter recuperare informazioni circa l’effettiva corrispondenza tra le caratteristiche e l’idoneità di tali persone e le caratteristiche del bambino bisognoso di cure morali, affettive e materiali. In questo modo, s’incomincia a intraprendere un percorso di preparazione, che si conclude con l’inserimento degli affidatari idonei in un apposito elenco ufficiale tenuto dal servizio sociale stesso. La famiglia affidataria ha diritto a essere informata sulle finalità dell’affidamento e a essere coinvolta nelle fasi del progetto; ha diritto ad avere un sostegno individuale e di gruppo; ha diritto inoltre ad avere un contributo mensile svincolato dal reddito e ad avere facilitazioni per l’accesso ai servizi sanitari, educativi e sociali. Tra i principali obblighi a carico dell’affidatario vi è quello di provvedere al mantenimento, educazione ed istruzione del minore affidato. A carico dell’affidatario vi è anche l’obbligo di favorire i rapporti tra il minore affidato e la sua famiglia di origine, allo scopo di favorire il suo reinserimento nella stessa, salvo il caso in cui il suddetto reinserimento sia pregiudizievole per il minore o nel caso in cui l’autorità giudiziaria abbia posto a carico della famiglia d’origine vincoli di non frequentazione con il minore (ciò accade in concreto quando i genitori del minore abbiano tenuto una condotta pregiudizievole per lo stesso tale da sfociare in provvedimenti di dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c.);
  • I Servizi Territoriali. I servizi territoriali esprimono una diagnosi psico-sociale approfondita della situazione familiare, anche reperendo da altre fonti eventuali elementi di conoscenza. Con la diagnosi, controllano le condizioni di rischio nello sviluppo del minore, le capacità genitoriali attuali e quelle potenzialmente sviluppabili della coppia, il tipo e la qualità dei legami fra genitori e figli. Successivamente, formulano una proposta di progetto mirato in cui sono specificati gli obiettivi a breve, medio e lungo termine. Alla fine prevedono un possibile abbinamento, avendo già individuato le caratteristiche necessarie di una famiglia affidataria espresse secondo una scala di priorità. Il loro compito è anche seguire lo svolgimento dell’affido con verifiche periodiche fra tutti gli operatori coinvolti nel progetto, attraverso colloqui e visite domiciliari a cadenza periodica svolti con la famiglia affidataria. Altri incarichi svolti dai Servizi Territoriali si incentrano su interventi psicoterapeutici sul bambino ove le verifiche di cui sopra ne evidenzino l’esigenza; accompagnamento continuo del bambino durante tutto il periodo dell’affido; interventi di aiuto/recupero della famiglia d’origine. Questi incarichi sono svolti da un’équipe interdisciplinare costituita almeno da una coppia di operatori pubblici (assistente sociale e psicologo);
  • I Servizi Affidi nella comunità. Contribuiscono a creare una cultura dell’affido familiare e a diffondere la conoscenza delle problematiche che intende affrontare, la tipologia degli interventi che vengono realizzati e le modalità di funzionamento dei servizi competenti. A tal fine, utilizzano tutti i canali e i mezzi possibili, anche in collaborazione con il volontariato. Attuano iniziative di sensibilizzazione e pubblicizzazione volte al reperimento di famiglie sensibili e disponibili all’affido per costituire una banca di risorse a cui attingere per realizzare i progetti di protezione e tutela del minore. Con queste famiglie, attuano percorsi di informazione — formazione individuale e/o di gruppo sugli aspetti giuridici, sociali e psicologici dell’intervento. Sul territorio nazionale le competenze dei Servizi Territoriali e dei Servizi Affidi sono realizzate attraverso organizzazioni e strutture differenti corrispondenti alle diverse necessità, possibilità territoriali o amministrative. Per dare inizio a un percorso di affido il rapporto minore — famiglia d’origine deve svolgersi in una situazione disfunzionale: la famiglia non svolge, o svolge in maniera insufficiente, i suoi compiti di accudimento e/o educazione del minore rischiando di lasciarlo in balia delle sue ridotte capacità o addirittura di altri, in maniera consapevole o inconsapevole; la famiglia distorce i compiti suddetti assegnando al minore ruoli non adatti, imponendogli comportamenti non adeguati all’età e/o non rispettando le necessarie capacità generazionali. Le relazioni minore — famiglia affidataria e famiglia affidataria — famiglia d’origine, si devono avviare solamente dopo un intervento del livello istituzionale e, nel caso in cui si siano attuate spontaneamente, l’istituzione deve farsi immediatamente carico della qualità di questi rapporti.

La relazione disfunzionale minore-famiglia d’origine, quindi, apre il rapporto con il livello istituzionale da cui derivano le relazioni Servizi Territoriali-minore e Servizi Territoriali-famiglia d’origine che devono realizzare la prima fase fondamentale del processo: l’identificazione del bisogno. Questa fase avvia due relazioni a livello istituzionale: la relazione Servizi Territoriali-Autorità Giudiziaria e quella Servizi Territoriali-Servizi Affidi.

  1. La prima vede coinvolto, nella fase di identificazione del bisogno, il Giudice Tutelare quando la relazione Servizi Territoriali – famiglia d’origine si svolge senza conflitti; vede coinvolto, invece, il Tribunale per i Minorenni quando la relazione Servizi Territoriali — famiglia d’origine non perviene a un accordo sul progetto.
  2. La seconda relazione Servizi Territoriali — Servizi Affidi innesca la successiva fase del processo: l’identificazione della risorsa. Questa ulteriore fase vede coinvolti i due Servizi sopraindicati per l’individuazione, all’interno della «Banca famiglie», del nucleo familiare più indicato per la specifica situazione in esame. Le due relazioni appena individuate danno avvio, a livello processuale, alla fase definitiva: la presa di decisione.

Si tratta del momento in cui avviene l’abbinamento minore — famiglia affidataria. Si aprono le relazioni famiglia affidataria — famiglia d’origine e famiglia affidataria — minore come previsto dal progetto; queste relazioni si realizzeranno sempre secondo l’intervento del servizio competente. La funzione di gestore e mediatore del Servizio competente costituisce la base dell’ultima fase del processo, quella della valutazione e verifica. Questo momento fondamentale apre nuovamente la relazione tra il servizio di territorio e il servizio affidi per la revisione dei criteri di selezione e abbinamento delle famiglie e può portare alla chiusura dell’affidamento familiare, riportando il minore alla famiglia di origine nel momento in cui sia diventata nuovamente funzionale;

            L’Autorità Giudiziaria. Esegue i compiti previsti dalle leggi vigenti, ossia dà esecutività al provvedimento disposto e affida all’Ente Locale il minore per un idoneo collocamento, compiendo successivamente delle verifiche. Inoltre, su proposta del Servizio Sociale, emette un decreto di affido a una specifica famiglia, prescrivendo al Servizio suddetto l’obbligo del sostegno e della vigilanza. L’art. 4 L. 184/1983 prevede una prima ipotesi di affidamento, per così dire «consensuale», che si realizza allorché vi sia il consenso della famiglia d’origine; una seconda ipotesi di affidamento, «giudiziale», disposto d’ufficio dall’autorità giudiziaria allorquando manchi il consenso dei genitori del minore.

            Nel primo caso, la competenza all’emanazione del provvedimento di affido appartiene al servizio sociale locale del comune in cui si trova il minore; nel secondo caso, sarà invece il Tribunale per i minori territorialmente competente ad adottare d’ufficio il provvedimento, valutando in maniera rigorosa le ragioni della mancanza del consenso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale ai fini dell’adozione della misura de qua. Tuttavia, anche nel primo caso, vi è l’intervento dell’autorità giudiziaria, anche se tale intervento, atteso l’intervenuto consenso della famiglia di origine, è piuttosto formale.

            Il giudice tutelare, infatti, deve limitarsi a controllare la regolarità formale del provvedimento amministrativo emanato dal servizio sociale locale del comune, soprattutto in riferimento al rispetto del termine massimo di scadenza della misura, per cui, riscontrata l’esistenza dei presupposti previsti dalla legge, rende esecutivo con decreto il provvedimento di affido emesso dall’ente locale. Il decreto di esecutorietà dell’affido familiare emesso dal giudice tutelare è, a sua volta, sottoposto al visto di controllo da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minori territorialmente competente.

            Il Giudice tutelare (cd. giudice unico del Tribunale) renderà esecutivo l’affidamento procedendo eventualmente a rendere esecutivi eventuali provvedimenti successivi di proroga dell’affidamento sempre che non si superi il termine complessivo di anni due, termine oltre il quale la competenza all’eventuale ulteriore proroga appartiene al Tribunale per i minorenni. Il Giudice tutelare verificherà, prima di rendere esecutivo il provvedimento di affidamento, l’esistenza di una serie di requisiti, ovvero: adeguata motivazione del provvedimento di affidamento; indicazione delle modalità di esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario; indicazione delle modalità attraverso le quali i genitori della famiglia di origine possano intrattenere rapporti con il minore affidato; individuazione del servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza nonché la relativa vigilanza durante l’affidamento stesso; indicazione del periodo di presumibile durata dell’affidamento da rapportarsi alla complessità degli interventi di recupero della famiglia d’origine (cfr. art. 4, co. 4, L. adoz.).

            Per quanto concerne poi la documentazione relativa alla richiesta di esecutorietà del provvedimento di affido familiare, l’accertamento del giudice tutelare è volto alla verifica dell’esistenza della seguente documentazione:

– dichiarazione di consenso dei genitori della famiglia d’origine;

– dichiarazione di disponibilità della famiglia affidataria (cd. atto d’impegno);

– relazione socio-ambientale dei servizi sociali locali.

            Il giudice tutelare sarà, inoltre, costantemente informato dal servizio sociale locale sull’evoluzione del programma di assistenza alla famiglia di origine oltre ad essere informato celermente in merito ad ogni evento di una certa rilevanza che possa influire sull’affidamento stesso. Si ricorda infine che, a carico del servizio sociale locale, vi è anche l’obbligo di presentare al giudice tutelare o al Tribunale per i minorenni (a seconda che si tratti di provvedimento emesso ai sensi dei commi 1 o 2 dell’art. 4 cit.), una relazione semestrale sull’andamento del programma di assistenza, sulla sua presumibile ulteriore durata e sull’evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare di provenienza (art. 4, co. 3, L. 184/1983).

            Il giudice tutelare ha, inoltre, anche poteri che si esplicano in sede di cessazione dell’affidamento che può avvenire:

– per il venir meno delle condizioni di difficoltà della famiglia di origine del minore;

– per un sopravvenuto pregiudizio per il minore derivante dall’affidamento;

– avvenuto decorso del termine di durata del provvedimento di affidamento temporaneo.

            In riferimento ai suddetti provvedimenti, il giudice tutelare potrà chiedere al Tribunale per i minori i provvedimenti previsti dagli artt. 330 e ss. del c.c. come, ad esempio, eventuale decadenza della responsabilità genitoriale.

            Le varie forme di affidamento. L’affidamento familiare può essere distinto in affidamento sociale e affidamento istituzionale.

            Il primo è quello che si determina per libera volontà delle parti ed avviene fra parenti entro il quarto grado così che, come si è già detto, esso non è regolamentato e non necessita di alcun provvedimento da parte dell’autorità giudiziaria.

            L’affidamento familiare istituzionale, invece, si differenzia a seconda della legislazione di riferimento che lo prevede.

  1. Innanzitutto, vi è l’affidamento previsto dagli articoli 337quater e 337quinquies e 316 ss. c.c.: questo riguarda la crisi della famiglia, sia essa fondata sul matrimonio oppure di fatto, ed è relativo all’affidamento dei figli ad entrambi i genitori oppure, se non è possibile, ad uno solo di essi. In tale caso, l’affidamento ha lo scopo di regolamentare la vita dei figli in relazione a due genitori che non vivono più insieme e che, tuttavia, mantengono l’esercizio della responsabilità genitoriale.
  2. In secondo luogo, vi è poi l’affidamento quale conseguenza della sospensione o della decadenza dalla responsabilità genitoriale ai sensi degli artt. 330 333 c.c.; in questi casi, l’affidamento viene disposto al fine di sottrarre il minore ad una condotta pregiudizievole da parte dei genitori e permane fino a che non si ripristini un corretto esercizio della responsabilità genitoriale: se tale corretto esercizio non viene ripristinato, allora si farà luogo alla declaratoria dello stato di a adottabilità.
  3. In terzo luogo, vi è la affidamento derivante dall’intervento ex art. 403 c.c., che si determina in caso di abbandono e che permane fino a quando non si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione.
  4. Vi è poi un’ulteriore ipotesi di affidamento che è regolata dall’art. 252 c.c.; esso si determina ad opera del giudice quando il figlio nato fuori del matrimonio viene riconosciuto durante il matrimonio. In tale ipotesi, il giudice decide in ordine all’affidamento di questi quando necessita il consenso del coniuge o dell’altro genitore.
  5. Infine, vi è l’affidamento vero e proprio previsto dall’art. 4 della legge adoz. ossia quell’affidamento che, come si è già detto, il legislatore definisce affidamento familiare ma che, in realtà, è un affidamento etero familiare che, tuttavia, deve avere le caratteristiche di impegno e di amore tipiche di un ambiente familiare; d’ora in poi, quando parleremo di affidamento senza ulteriori specificazioni, ci riferiremo a questo tipo di affidamento. Tale affidamento, deciso dai Servizi Sociali e omologato dal Giudice Tutelare, può durare al massimo 24 mesi ed è prorogabile solo per una volta dal Tribunale per i minorenni. Questi termini ristretti sono stati imposti, come ricorda parte della dottrina, perché un periodo prolungato innesca il rischio del consolidamento degli affetti che porta poi o ad aggirare le leggi sull’adozione o a traumi irreversibili per il minore, ma di questo argomento parleremo più diffusamente oltre.

Natura giuridica del provvedimento del giudice tutelare. Molto spesso, affrontando il tema in esame si cade in un errore; difatti, poiché l’articolo 4 L. 184/1983, come specificato, parla sia di affidamento consensuale sia di affidamento disposto dal Tribunale, si può ritenere che la norma preveda due forme di affidamento. In realtà non è così; la legge, all’articolo citato, stabilisce solo le regole dell’affidamento consensuale, poiché si ritiene scontato che la fonte giuridica che lo determina sia il consenso espresso dai genitori; se invece questo consenso manca, non ci troviamo affatto davanti ad un secondo tipo di affidamento bensì, al contrario, vorrà dire che il Tribunale, valutando l’incapacità genitoriale dei genitori e provvedendo a sospenderli o a dichiararli decaduti dalla responsabilità genitoriale, necessariamente dovrà, poi, per conseguenza dell’applicazione di tali provvedimenti ablativi, affidare il minore a persona tutelante .

            L’affidamento familiare consensuale si concretizza in un intervento di sostegno al minore e alla sua famiglia ed ha natura amministrativa. Difatti, viene disposto dal servizio sociale che dovrà, poi, trasmettere il provvedimento al giudice tutelare del luogo di residenza del minore il quale, a sua volta, dovrà renderlo esecutivo. Poiché il giudice tutelare non ha un vero potere di controllo sull’ affidamento operato dei servizi sociali mentre un tale controllo poteva essere meglio effettuato dal tribunale dei minorenni, ci si è chiesto come mai il legislatore abbia preferito affidare al giudice tutelare il compito di rendere esecutivo il provvedimento di affido effettuato dai servizi sociali. La giurisprudenza ha ritenuto che l’intervento del giudice tutelare abbia funzione solo «di omologazione», anzi, la Cassazione ha ritenuto che l’intervento del giudice tutelare abbia carattere esclusivamente amministrativo; tuttavia, se fosse proprio così il provvedimento del giudice tutelare non dovrebbe essere soggetto a gravame giurisdizionale; invece esso è reclamabile davanti al Tribunale per i minorenni ai sensi dell’articolo 45 delle disposizioni di attuazione del codice.

            La legge prescrive che il minore degli anni 12 debba essere sentito prima dell’adozione del provvedimento; in ogni caso, in linea anche con quanto previstolo con la convenzione di New York del 1989 e con la convenzione di Strasburgo 1996, il Tribunale potrà sentire minori di qualunque età purché in possesso di un’adeguata anche se minimale capacità di discernimento.

            La temporaneità dell’affidamento. La caratteristica essenziale dell’affidamento c.d. familiare ma, di fatto, etero-familiare di cui all’art. 4 legge L. adoz. è la sua temporaneità; difatti, l’art. 2, co. 1, della citata legge afferma che il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo nonostante gli interventi di sostegno e di aiuto dei servizi sociali, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, ovvero anche ad una persona singola, in grado di assicurare al minore il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno. Non deve stupire questo carattere della temporaneità poiché, se così non fosse, vorrebbe dire che il disagio familiare non era temporaneo e risolvibile, nel qual caso non vi sarebbe stata alcuna ragione per procedere all’affidamento ma, al contrario, avrebbe dovuto essere contestato lo stato di abbandono permanente cui doveva conseguire la declaratoria dello stato di adottabilità.

            L’affidamento familiare presuppone sempre che le due famiglie, quella di origine e quella affidataria, mantengano costanti rapporti e si aiutino e si sostengano a vicenda. Il comma quattro dell’articolo in esame prevede che, nel provvedimento di affido, debba essere indicato il periodo di presumibile affidamento del minore che non può superare la durata di ventiquattro mesi, anche se tale periodo, come già accennato, è prorogabile ma solo dal Tribunale per i minorenni quando quest’ultimo accerti che l’interruzione dell’affidamento provochi un pregiudizio minore. Si ritiene, comunque, pur nel silenzio della legge, che il Tribunale per i minorenni possa prorogare una sola volta i termini di legge e per una durata non superiore ad ulteriori 24 mesi. Sapere che il tempo dell’affido è solo di 24 mesi rappresenta una indicazione quantitativa e qualitativa perché, quel tempo, si dice, «deve essere rapportabile all’intervento di recupero della famiglia; ciò può realisticamente aiutare i Servizi a realizzare affidamenti precoci in situazioni ancora non degradate, ove esista la possibilità dei minori e della famiglia di origine di recuperare le mancanze, risolvere i problemi e di contenere i danni dei traumi da distacco». È da considerarsi, invece, un errore l’uso dell’affidamento etero-familiare consensuale nei casi di famiglia ormai degradata con condotte pregiudizievoli verso i figli che lambiscano o superino l’abbandono; in tal caso, occorrerà o un provvedimento ex art. 403 c.c. o un provvedimento giurisdizionale ex art. 330 c.c.

Poteri e doveri degli affidatari; quante persone esercitano la responsabilità genitoriale? Gli affidatari hanno l’obbligo di accogliere il bambino presso di sé, provvedendo al suo mantenimento, alla sua istruzione e alla sua educazione; in questo ambito, si esercitano i poteri che la legge riconosce agli esercenti la responsabilità genitoriale. D’altra parte, occorre ricordare che quando si parla di affido consensuale, vuol dire che non ci sono provvedimenti di sospensione o decadenza dalla responsabilità genitoriale e questo significa che sul minore potrebbero scontrarsi gli affidatari dotati di responsabilità genitoriale per legge ed i genitori dotati di responsabilità genitoriale per natura e non privati della stessa da provvedimenti limitativi del Tribunale per i minorenni. Il problema, talora, si pone soprattutto per le scelte religiose; poiché, come più volte abbiamo detto, la famiglia affidataria si affianca a quella affidante, dovrà rispettare, in questo ambito in particolare, le indicazioni della famiglia di origine, che dovrà gestire nell’ambito del progetto elaborato dal servizio sociale; infatti, il progetto non deve snaturare quelle che sono le caratteristiche socio culturali della famiglia affidataria.

            Quanto all’assistenza sanitaria, gli affidatari svolgono da soli l’ordinaria amministrazione come ad esempio le vaccinazioni e le cure mediche. Al contrario, il consenso informato per quegli interventi sanitari che possono mettere a rischio l’integrità fisica del minore deve essere espresso sempre dai genitori e non dagli affidatari, ovviamente a meno che i primi, nel frattempo, non siano stati dichiarati sospesi o decaduti dalla responsabilità.

            La legge 149/2001, più volte citata, consente che, su disposizione del giudice, gli assegni familiari, le prestazioni previdenziali e i benefici relativi all’astensione dal lavoro vengano riconosciuti agli affidatari; ovviamente, poi, sugli affidatari grava il dovere di vigilare al quale consegue la eventuale responsabilità prevista dagli artt. 2047 e 2048 c.c.: dunque, sarà onere degli affidatari dimostrare di aver vigilato sul minore in modo tale da impedire il verificarsi dell’evento che ha arrecato danno. Anche ai genitori affidanti che non sono stati sospesi né dichiarati decaduti, devono essere fornite tutte le informazioni sui figli di esso sull’andamento dell’affidamento e devono essere coinvolti nel progetto elaborato dai servizi sociali. In caso di contrasto tra la volontà della famiglia affidataria e quella dei genitori, il contrasto stesso dovrà essere portato all’attenzione del Tribunale per i minorenni che deciderà a norma dell’articolo 316 del codice civile.

            L’affidamento patologico; un modo per aggirare i problemi e le lungaggini dell’adozione. Chi, con l’adozione, non espleta un atto d’amore verso il prossimo ma tende ad ottenere una maternità negata da leggi biologiche, può anche arrivare a tentare di aggirare le leggi sull’adozione (che comportano valutazioni di idoneità, tempi non brevi e quant’altro) con affidamenti che poco hanno a che vedere con l’affido ex art. 4 L. 184/1983. Coniugi italiani senza figli improvvisamente incontrano e fanno amicizia con una donna straniera in dolce attesa. Con visto turistico o per studio, la suddetta partoriente, poco dopo il parto, deve lasciare il nostro paese per tornare nel suo ed affida momentaneamente il figlio alla coppia di coniugi italiani; il momentaneamente diventa per sempre e quando sono trascorsi quattro o cinque anni sono gli stessi coniugi a far scoppiare la bomba chiedendo alle istituzioni i permessi ed i nulla osta per l’iscrizione a scuola del minore. In questi casi, risulta evidente la «truffa» e, a norma di legge, il minore dovrebbe essere portato via ai coniugi e dato in adozione a coppia idonea. Puntualmente, in tali casi, scoppia il dramma; il minore vuole giustamente rimanere con chi egli ritiene siano da sempre i suoi genitori e con i quali ha ormai una fitta rete di emozioni, sentimenti e feeling.

            I Servizi Sociali, dopo più visite domiciliari, sia pur obtorto collo, sono costretti ad ammettere — spesso — che, per quanto «truffaldini», i coniugi sono diventati davvero dei genitori esemplari e hanno coperto d’amore il bambino così che non possono esimersi dal raccomandare all’A.G. di prendere in esame il trauma che verrebbe inflitto al minore se, a norma di legge, venisse a loro strappato e dato a coppia idonea all’adozione. In tal modo, purtroppo, per non arrecare un altro grande trauma al minore, lo si lascia in affido sine die ai coniugi che, poi, quasi sempre, provvedono a chiedere l’adozione ex art. 44 legge adozione, così saltando a piè pari il periodo di valutazione, l’affido preadottivo e tutte le leggi in materia.

            Ovviamente, è anche possibile provvedere secondo legge; se il rapporto che si è creato tra coniugi e minore non appare particolarmente significativo (perché avvenuto per pochi anni o comunque prima del compimento del terzo anno di età) più facilmente potrà ricostituirsi l’ordine violato e dare in adozione il minore ad altra coppia, ritenuta idonea.

La procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo: evoluzione giurisprudenziale e legislativa; la sentenza 162/2014 della Corte costituzionale. Il caso appena descritto è molto diverso dalle ipotesi di procreazione medicalmente assistita; infatti, mentre nel caso appena preso in esame vi è un «aggiramento» della legge sull’adozione più volte citata in questo capitolo, la procreazione medicalmente assistita è disciplinata dalla L. 40/2004 che stabilisce a quali condizioni e in quali casi la stessa è ammessa. Premesse queste considerazioni e riservandoci di chiarire a breve la differenza tra alcuni tipi di tecniche di procreazione, ai fini dell’analisi di due importanti sentenze in materia, occorre tenere presente che la legge italiana ha sempre vietato ogni tipo di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, senza, però, mai distinguere tra le varie tecniche cd. «eterologhe» e senza mai, quindi, specificare quali di esse fossero da intendere come vietate. Il legislatore era stato cioè molto chiaro laddove, nell’art. 4, co. 3, L. 40/2004 si era così espresso: «È vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo». Si noti, però, che non a caso si parla al passato, attesa la pronuncia di incostituzionalità di tale disposizione, e quindi di tale divieto, ad opera della Corte costituzionale con sentenza 162/2014, di cui a breve parleremo. Soffermiamoci ora un attimo sui problemi affrontati dalla giurisprudenza prima di questa sentenza del 2014.

            Nonostante il divieto legislativo, infatti, i giudici si sono talvolta trovati a dover esaminare casi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, a volte autorizzandola, altre volte confermando il divieto legislativo. In tal senso, può prendersi in esame in primo luogo un caso rimasto famoso in materia: si tratta di quello di una donna affetta da sindrome di Rokitansky-Kuster, una patologia caratterizzata da una malformazione dell’apparato genitale; la donna cioè non aveva l’utero, ma poteva produrre ovociti. Con il marito desiderava un figlio e, prima di decidere per l’adozione, provò a percorrere la via della fecondazione artificiale. I coniugi si rivolsero per la prima volta ad una clinica specializzata; esclusa la possibilità di un intervento chirurgico risolutore, ricorsero ad una fecondazione in vitro; effettuata la fecondazione degli ovociti in provetta, diventò necessario dare luogo alla crio-conservazione degli embrioni. Nel 1999, i coniugi ebbero la disponibilità di un’amica di famiglia che, animata da intento solidaristico, senza nessun compenso, acconsentì a portare a termine la gravidanza; il medico rifiutò, però, di eseguire l’intervento di trasferimento degli embrioni nell’utero della donna perché, nel frattempo, era entrato in vigore il codice deontologico che vietava espressamente l’accesso a pratiche di maternità surrogata. In questo contesto, viene pronunciata l’ordinanza in esame (Trib. Roma 14-2-2000), che autorizzò il procedimento di fecondazione assistita mediante l’uso di embrione congelato attraverso il c.d. utero in affitto. L’ordinanza s’inseriva, peraltro, in un panorama giurisprudenziale e di proposte legislative alquanto articolato, di cui, per comprendere appieno il ragionamento dell’organo giudicante, è opportuno fare menzione, in quanto il problema, giuridico ed etico, della maternità surrogata, rappresenta uno dei temi più attuali e dibattuti della bioetica.

            Inoltre, come accennato, l’incertezza principale per il giurista e per l’operatore del diritto è, ancora oggi, quello della mancanza di una disciplina specifica del settore e, quindi, della necessità in qualche modo di richiamarsi ad una normativa già esistente. Risulta opportuno distinguere tra «maternità surrogata», tecnica in base alla quale una donna si impegna su commissione (senza corrispettivo) a portare a termine una gravidanza e a consegnare il figlio dopo il parto ai «committenti» (in questa ipotesi, la donna incaricata «presta», per così dire, sia il materiale genetico sia la funzione di gestazione) e «locazione d’utero», fattispecie nella quale, invece, una donna si limita a portare avanti la gravidanza, ma il materiale genetico impiegato è dei soggetti «committenti».

            Il primo problema in questi casi è giuridico: come è noto, il contratto deve necessariamente realizzare un rapporto giuridico a contenuto patrimoniale; ripugna, però, all’etica diffusa a livello sociale definire la prestazione della madre surrogata come una vendita o concessione in godimento di beni del valore inestimabile, quali la vita di un figlio e l’affetto di una madre. Il contratto di maternità surrogata è una forma di fecondazione artificiale eterologa che si concreta nell’intervento di una donna estranea alla coppia nel processo procreativo. Tale intervento determina la rottura dell’unità dell’elemento naturalistico individuativo della maternità, con ciò mettendo in crisi i principi fondamentali che fino ad oggi sono stati alla base del nostro ordinamento familiare per quanto attiene ai rapporti di filiazione. Anche a livello terminologico, non vi è uniformità nelle definizioni della metodica in esame. Dal punto di vista giuridico, il problema è di gran lunga superiore ad una previsione di un futuristico affidamento di feto, poiché i dubbi insorgono già sulla titolarità della maternità tra la madre sociale e quella uterina.

            Questa problematica è stata chiarita da un’altra importante sentenza del 1998 del Tribunale di Monza che, nell’affrontare la problematica della maternità surrogata (cfr. il caso in nota), ha anche affrontato il problema della titolarità della maternità in questi casi. Secondo la citata sentenza, orientamento avallato anche dalla dottrina prevalente, madre deve essere colei che ha partorito il figlio. La soluzione si fonda sulla convinzione della maggiore rilevanza e intensità del rapporto che si instaura tra la donna e il bambino nel periodo della gestazione, trovando giustificazione nella responsabilità sociale assunta dalla partoriente rispetto al nato e nell’art. 269 c.c., secondo il quale la prova della maternità si basa sul parto.

            I precetti-guida in tal senso sarebbero costituiti:

– dal combinato disposto degli artt. 2 e 30 Cost., che viene interpretato nel senso che lo stesso «assume a valore primario la promozione della personalità del soggetto umano in formazione e la sua educazione nel luogo a ciò ritenuto più idoneo, da ravvisarsi in primis nella famiglia di origine»;

– dall’art. 30, co. 2, Cost. e precisamente, dal dovere del legislatore e dell’autorità pubblica in generale di predisporre quegli interventi che pongano rimedio nel modo più efficace al mancato svolgimento da parte dei genitori di sangue dei loro compiti e, cioè, alle funzioni connesse al dovere-diritto di mantenere, istruire ed educare i figli; «ne deriva il carattere funzionale del diritto dei genitori di sangue, che sta e viene meno in relazione alla capacità di assolvere i compiti previsti nel primo comma dell’art. 30 Cost.: il carattere di effettività che deve rivestire l’assolvimento dei compiti stessi, non delegabili ad altri e, dunque, da svolgersi con impegno personale e diretto; infine, il carattere di adeguatezza che deve presiedere all’individuazione della famiglia sostitutiva, quando trovi applicazione l’art. 30, 2° comma, Cost.».

– dall’art. 31, co. 2, Cost. che prevede la tutela del concepito quale fondamento costituzionale in quanto la tutela del minore si colloca fra gli interessi costituzionalmente garantiti.

            Da tali principi discende che: i doveri dei genitori di sangue sono infungibili; il minore ha il diritto di crescere nella famiglia composta dai genitori di sangue, i quali possono essere sostituiti da altri soltanto in caso di oggettiva necessità; il minore ha il diritto di identificare i propri genitori biologici e di vedersi riconosciuto, nella famiglia, lo stesso status filiationis degli altri figli; non esiste alcun «diritto alla procreazione» garantito dalla Costituzione. Inoltre, seguendo il ragionamento del collegio monzese, ricco di riferimenti alla giurisprudenza costituzionale, si è ritenuto che l’art. 30 Cost. considera «la ricerca della paternità come una forma fondamentale di tutela giuridica dei figli nati fuori del matrimonio, ma stabilisce che la legge ordinaria, nel disciplinare la materia pone i limiti per la detta ricerca: limiti che potranno derivare dall’esigenza, affermata nel terzo comma, di far sì che la tutela dei figli nati fuori del matrimonio sia compatibile con i diritti della famiglia legittima e dall’esigenza di salvaguardare i fondamentali diritti della persona, tutelati anch’essi dalla Costituzione, dai pericoli di una persecuzione in giudizio temeraria e vessatoria». Ed ancora, la «tutela del concepito ha fondamento costituzionale nell’art. 31, 2° comma, Cost. (e più in generale nell’art. 2 Cost.)» e la «tutela dei minori» «si colloca fra gli interessi costituzionalmente garantiti». Per concludere, a parere del Tribunale monzese, quindi, deve affermarsi:

– che la Costituzione non riconosce un vero e proprio diritto alla procreazione come aspetto particolare del più generale diritto della personalità, non potendosi desumere da alcuna disposizione che il desiderio o anche solo l’interesse alla prole, pur legittimo, sia stato elevato alla dignità di diritto soggettivo o, comunque, che sia emerso nella considerazione del costituente un concetto di paternità o di maternità meramente negoziali, disgiunte, cioè, da un qualche fondamento biologico;

– l’infungibilità dei doveri personali ed economici connessi alla responsabilità dei genitori c.d. «di sangue»;

– il diritto del minore di crescere nella famiglia formata da questi ultimi e di avere una famiglia sostitutiva soltanto in caso di oggettiva incapacità od inadeguatezza dei medesimi;

– il diritto di qualunque figlio ad un unico, comune status filiationis e, perciò, ad un’indifferenziata tutela giuridica, con il solo limite generale dell’irriconoscibilità e con il limite particolare ed eventuale della salvaguardia (in caso di situazioni confliggenti fino all’incompatibilità) dell’esistenza e dell’unità della famiglia del proprio genitore;

– il diritto del figlio all’identificazione dei propri genitori biologici.

            A conclusione di queste considerazioni, ricordiamo che, come accennato all’inizio del paragrafo, e per quel che in questa sede interessa, la Corte costituzionale, con sentenza 10-6-2014, n. 162, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il divieto di procreazione medicalmente assistita eterologa (il comma terzo dell’art. 4 L. 40/2004, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3»), qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, in quanto «cagiona una lesione della libertà fondamentale della coppia destinataria della L. n. 40 del 2004 di formare una famiglia con dei figli, con incidenza sul diritto alla salute, inteso nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica, e la cui tutela deve essere di pari grado a quello della salute fisica, senza che la sua assolutezza sia giustificata dalle esigenze di tutela del diritto del nato all’identità genetica, poiché l’ordinamento ammette a determinate condizioni la possibilità per il figlio di accedere alle informazioni relative all’identità dei genitori biologici».

            La Corte ha inoltre dichiarato costituzionalmente illegittimi anche:

– il primo e terzo comma dell’art. 9 L. 40/2004, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3», che vietavano al coniuge o al convivente consenziente che avevano fatto ricorso a PMA eterologa l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità e dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e stabiliva che il donatore di gameti non acquisiva alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non poteva far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi;

– il primo comma dell’art. 12, che prevedeva una sanzione amministrativa pecuniaria per chiunque utilizzava a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia.

            La giurisprudenza sull’affidamento familiare. La cd. locazione d’utero o utero in affitto è un contratto atipico, meritevole di tutela e lecito qualora esso realizzi il diritto alla procreazione di un soggetto a ciò impossibilitato e purché l’utilizzazione dell’utero sia determinato da ragioni dei solidarietà e concesso per spirito di liberalità. (Nella specie è stato emesso un provvedimento ex art. 700 che ha accertato l’esigibilità della prestazione nei confronti del medico ed avente ad oggetto il trasferimento di embrioni crio – conservati ed ottenuti mediante fusione del materiale spermatico dei coniugi ed il loro impianto nell’utero di un altro soggetto resosi disponibile) (Trib. Roma 14-2-2000).

            In tema di competenza territoriale nei procedimenti di affidamento eterofamiliare di minori, qualora il provvedimento iniziale di affidamento, di regola soggetto a durata non superiore ai ventiquattro mesi, necessiti di essere seguito da un’ulteriore proroga o, viceversa, da una cessazione anticipata, queste ultime vicende integrano provvedimenti camerali nuovi, per i quali il principio della perpetuatio deve essere temperato con quello di prossimità, sicché il giudice competente per territorio deve essere individuato nel Tribunale per i minorenni del luogo in cui il minore legittimamente si trova, in tal modo dando rilievo ad eventuali sopravvenuti cambiamenti di residenza (nella specie, le S.U. hanno dichiarato la competenza del Tribunale per i minorenni del distretto ove risiedeva la famiglia cui il minore era stato affidato con provvedimento di un altro Tribunale per i minorenni, nel cui distretto originariamente il minore risiedeva con la propria madre) (Cass. civ., Sez. Un. 9-12-2008, n. 28875).

            Non contrasta con l’ordine pubblico l’atto di nascita redatto all’estero e relativo ad un minore nato con la tecnica della procreazione assistita eterologa (nella specie maternità surrogata), e pertanto ne va ordinata la trascrizione in Italia (Trib. Napoli 1-7-2011).

            Non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse di minore cittadino extracomunitario, affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di «kafalah», pronunciato dal giudice straniero, nel caso in cui il minore stesso sia a carico o conviva nel paese di provenienza con il cittadino italiano, ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistito. (Principio enunciato ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ.) (Cass. civ., Sez. Un., 16-9-2013, n. 21108).

            Il decreto che decide il reclamo avverso il decreto di affidamento di un soggetto minorenne ai servizi sociali, pronunciato dal Tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 2, commi primo e secondo, e dell’art. 4, commi secondo e settimo, della legge 4 maggio 1983, n. 184, essendo privo dei caratteri della decisorietà e definitività, non può essere impugnato con ricorso straordinario per cassazione (Cass. civ., Sez. I, 4-4-2011, n. 7609).

            È costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 2, 3, 29, 31 e 32 Cost., l’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui stabilisce per la coppia di cui all’art. 5, comma 1, della medesima legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili. È, altresì, costituzionalmente illegittimo l’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3», nonché l’art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3» ed, infine, l’art. 12, comma 1, della stessa legge n. 40 (Corte Cost. 10-6-2014, n. 162).

            Pronunciandosi su due casi riguardanti il rifiuto di concedere il riconoscimento legale in Francia di una filiazione legalmente riconosciuta negli Stati Uniti a dei minori nati a seguito del trattamento denominato come «maternità surrogata» per le coppie che vi si erano sottoposte, la Corte di Strasburgo ha osservato come le autorità francesi, pur essendo consapevoli del fatto che i bambini erano stati riconosciuti negli Stati Uniti come i figli delle coppie, avevano tuttavia loro negato il riconoscimento secondo il diritto francese. Tale diniego, per i giudici di Strasburgo, ha minato l’identità dei bambini nella società francese; inoltre la Corte ha rilevato che i giudici hanno completamente precluso l’instaurazione di un rapporto giuridico tra figli nati a seguito di un trattamento di «maternità surrogata» all’estero e il loro padre biologico. Ciò ha oltrepassato l’ampio margine di apprezzamento lasciato agli Stati in materia di decisioni in materia di «maternità surrogata» (Corte europea diritti dell’uomo 26-6-2014, n. 65941).

            Gli Stati Ue non sono tenuti a riconoscere un diritto al congedo di maternità a una lavoratrice/«madre committente», che abbia avuto un figlio grazie ad un contratto di «maternità surrogata», nemmeno quando, dopo la nascita, essa effettivamente allatti, o possa allattare, al seno il bambino (omissis) (Corte giustizia Unione Europea Grande 18-3-2014, n. 363).

            Il-Diritto-dei-Minori  Redazione       LPT                28 ottobre 2015

www.laleggepertutti.it/102570_laffidamento-del-minore-presupposti-forme-e-procedura

Riforma su affidamento e adozione: i punti salienti.

Modifiche alla legge che riconosce il diritto del minore a una famiglia: il bambino ha diritto di essere adottato dalla famiglia affidataria e, in mancanza, di conservare i rapporti affettivi con essa sviluppati. Ciascun minore in affidamento ha diritto di vivere una condizione di continuità affettiva e a non cambiare famiglia nel caso in cui il tribunale ne dichiari lo stato di adottabilità. Questo il cuore della nuova legge n. 173, 19 ottobre 2015 “Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare.) (GU Serie Generale n.252 del 29-10-2015, entrata in vigore 13/11/2015.

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/10/29/15G00187/sg

Quali sono i punti cardine introdotti dalla riforma che va a modificare le norme che disciplinano il diritto dei minore ad una famiglia [Legge 4 maggio 1983, n. 184 Diritto del minore ad una famiglia].

            Priorità agli affidatari nell’adozione del minore. Qualora il Tribunale dichiari lo stato di adottabilità di un minore verrà data priorità nell’adozione del bambino alla coppia che lo abbia in affidamento. La legge prevede, infatti che “qualora, durante un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile […] e la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, il tribunale per i minorenni, nel decidere sull’adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria” [Nuovo comma 5-bis. Art 4 L. 184/83].

            Occorre, in ogni caso che gli affidatari siano in possesso di tutti i requisiti che la legge richiede per poter avere accesso all’adozione. Ossia che: A) siano sposati da almeno 3 anni; B) abbiano convissuto per non meno di 3 anni qualora siano sposati da meno di tre anni.

Se, invece, l’affidamento abbia solo favorito il reinserimento del minore nella famiglia d’origine, la riforma prevede la necessità che debbano comunque essere tutelati i rapporti affettivi positivi sviluppati con la famiglia affidataria. Nello specifico, infatti, le nuove disposizioni stabiliscono che “Qualora, a seguito di un periodo di affidamento, il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dato in affidamento ad altra famiglia o sia adottato da altra famiglia, è comunque tutelata, se rispondente all’interesse del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento” [Nuovo comma 5-ter art. 4 L.184/83].

            In entrambi i suddetti casi le nuove norme stabiliscono la necessità di considerare il punto di vista del fanciullo, il quale dovrà essere sempre ascoltato se abbia compiuto i 12 anni o anche di età inferiore se ritenuto capace di discernimento. Infatti, ai fini delle predette situazioni, “Il giudice, tiene conto anche delle valutazioni documentate dei servizi sociali, ascoltato il minore che ha compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore se capace di discernimento” [Nuovo comma 5-quater. Art. 4 L. 184/83].

La partecipazione degli affidatari al procedimento relativo al minore. Ulteriore novità introdotta dalle nuove disposizioni è quella che prevede l’obbligo di convocare (a pena di nullità della procedura) gli affidatari o anche l’eventuale famiglia collocataria del bambino perché vengano anch’essi sentiti nel procedimento: – di adottabilità; – relativo all’affidamento – o qualsivoglia procedimento sulla responsabilità genitoriale in cui è coinvolto il minore loro affidato. A costoro è data piena facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse del minore [Modifica al comma 1 dell’art 5 L. 184/83].

Adottabilità dagli affidatari nei casi particolari. Infine, la riforma riconosce ai minori orfani di padre e di madre di essere adottati, pure in assenza di una dichiarazione di adottabilità, anche dagli affidatari (purché vi sia stato un prolungato periodo di affidamento) [Modifica al comma 1, lett. a. dell’art. 44 L. 184/83]. In tale ipotesi l’affidatario può essere anche un single.

            Si tratta dei casi in cui la legge ammette la cosiddetta “adozione mite” da parte di diversi soggetti uniti al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo.

Maria Elena Casarano                     LpT     30 ottobre 2015

www.laleggepertutti.it/102794_riforma-su-affidamento-e-adozione-i-punti-salienti

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ASSEGNO DIVORZILE

Sì all’assegno anche se lei lavora, ma con il suo reddito non può mantenersi l’alto stile di vita.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 21670, 23 ottobre 2015.

Per la Cassazione, l’accertamento della capacità lavorativa deve tenere conto di tutti gli elementi concreti per garantire la conservazione del tenore di vita. Lei lavora ma con il suo reddito non può certo mantenersi l’alto “stile” di vita goduto durante il matrimonio, con tanto di shopping sfrenato, cene e viaggi di piacere. Per cui lui, è tenuto a versarle un assegno di divorzio di mille euro al mese. A stabilirlo è la Cassazione, rigettando il ricorso di un ex marito che impugnava la sentenza della Corte d’appello di Brescia che disponeva a suo carico un assegno divorzile in favore dell’ex consorte, peraltro, alleggerito da 3mila euro a mille rispetto a quanto fissato in sede di separazione personale. Ma per l’uomo, la misura è ancora elevata, visto che la donna già lavora, ha buone possibilità di carriera e l’alto tenore di vita coniugale era garantito anche grazie ai contributi dalla stessa forniti in virtù dei redditi conferiti nel budget familiare.

            Per gli Ermellini, però, l’uomo ha torto. Infondata è innanzitutto la lamentata violazione di legge assertivamente commessa dalla Corte territoriale, in ordine alla mancata valutazione dell’impossibilità dell’ex moglie di procurarsi mezzi adeguati per il mantenimento del tenore di vita goduto in pendenza di matrimonio. Riportandosi ai principi più volte affermati, infatti, la sesta sezione civile, ha ribadito che in tema di attribuzione dell’assegno di divorzio “l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento per ragioni obiettive costituisce ipotesi non già alternativa, ma meramente esplicativa rispetto a quella della mancanza assoluta di tali mezzi, dovendosi, pertanto, trattare di impossibilità di ottenere mezzi tali da consentire il raggiungimento non già della mera autosufficienza economica, ma di un tenore di vita sostanzialmente non diverso rispetto a quello goduto in costanza di matrimonio, onde l’accertamento della relativa capacità lavorativa va compiuto non nella sfera della ipoteticità o dell’astrattezza, bensì in quella dell’effettività e della concretezza, dovendosi, all’uopo, tener conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso di specie in rapporto ad ogni fattore economico-sociale, individuale, ambientale, territoriale”.

            L’ex marito, invece, a detta della Corte, non è riuscito a dimostrare nulla in ordine alle concrete capacità lavorative della donna, peraltro “già in avanti con l’età e già occupata”, né alcunché su come la stessa potrebbe migliorare il suo “provento” professionale. Non regge, di fronte al Palazzaccio, neanche la tesi del contributo economico apportato dalla signora al bilancio familiare, anche perché è chiaramente da escludere che tali conferimenti possano contribuire a mantenere il livello di vita di cui la stessa godeva durante il matrimonio, ovvero consentirle di continuare a mantenersi le “spese per vestiario, veramente consistenti, per viaggi, cene ed altro” cui era abituata nel corso del rapporto. Per cui, ricorso rigettato e assegno confermato!

Marina Crisafi           newsletter       studio Cataldi 23 ottobre 2015        

www.studiocataldi.it/articoli/19848-divorzio-si-all-assegno-anche-se-lei-lavora-ma-con-il-suo-reddito-non-puo-mantenersi-i-vestiti-le-cene-e-i-viaggi-cui-era-abituata-durante-il-matrimonio.asp

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CHIESA CATTOLICA

Il modello di famiglia che esce dal Sinodo.

Il Sinodo si avvia alla conclusione e se ne può già fare un bilancio storico-teologico. Il Sinodo ha distinto, con una superficialità impensabile dopo il Vaticano II, fra dottrina e pastorale, quasi che il principio pastorale fosse la confezione di una verità pietrosa e non la misura della intelligenza del cuore del Vangelo. Ha visto tre episodi penosi: la rinuncia al celibato e alla modestia di un prete — che non ha fatto carriera da solo; il falso giornalistico su una lettera di cardinali — che hanno il dovere, prima che il diritto di dire al Papa che cosa pensano; e il cancro inventato — che ricorda più Il Vernacoliere che un complotto. E ha discusso, il Sinodo, di famiglie e relazioni: ma ha visto accadere due cose immensamente più importanti.

            Restituendo ai vescovi il giudizio sulla nullità Bergoglio non ha cambiato lo status dei divorziati, ma ha fatto un silenzioso, enorme atto di riforma del papato. Dal secolo XI il Pontefice ha sempre sottratto potestà dei vescovi e invocando motivi solidi o meno. Paolo VI restituì qualche facoltà in ossequio al Vaticano II. Mai da mille anni un Papa aveva ceduto poteri di sua volontà. Facendolo, Francesco ha detto a padri e madri sinodali che il loro compito non è spingere il Papa a destra o a sinistra, ma fare un «balzo innanzi» nella propria fedeltà al Vangelo.

            Inoltre, semplicemente restando seduto in Sinodo, ha compiuto un altro atto di riforma enorme riguardante la sinodalità della Chiesa. Il progressismo teologico invocava negli anni Settanta la «democratizzazione» della Chiesa: dimenticando che la sinodalità è molto più della democrazia: perché fa appello non alla sovranità, ma alla comunione. La sinodalità è rimasta un tabù nella Chiesa cattolica per decenni. La Chiesa di cui il Papa è primate, quella italiana, un Sinodo non l’ha mai fatto, per ora. Lo stesso Sinodo dei vescovi, nonostante il nome, non è mai stato altro che organo consultivo, che consegnava al Papa i propri antagonismi perché lui mediasse. Francesco ha agito sul Sinodo facendone, a norme invariate, un organo di collegialità effettiva e di rango quasi-conciliare.

            La collegialità (realtà di diritto divino per il cattolicesimo) si esprime nel concilio, ma non solo. Francesco sa per esperienza che le assemblee episcopali esprimono un intuito autorevole di fede; e sa che la sinodalità si può esprimere solo in un clima di «parresia» (la franchezza nell’esprimersi, ndr). E ha scoperto che basta che il Papa sieda in un organo perché il sub Petro e il cum Petro cessino di essere cautele limitative e diventino garanzia di comunione. Riformando il papato e restaurando la sinodalità ecclesiologica il Papa ha mostrato che almeno una famiglia esce da questo Sinodo più libera e più forte: la famiglia della Chiesa. Le altre di conseguenza.]

Riformando il papato e restaurando la sinodalità ecclesiologica il Papa ha mostrato che almeno una famiglia esce da questo Sinodo più libera e più forte: la famiglia della Chiesa. Le altre di conseguenza.

Alberto Melloni          corriere della sera                 23 ottobre 2015

www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_23/modello-famiglia-che-esce-sinodo-1d4c6aac-7906-11e5-95d8-a1e2a86e0e17.shtml?refresh_ce-cp

Cosa cambia dopo il Sinodo?

Proviamo a metterci nei panni di chi oggi si pone dinanzi alle conclusioni del Sinodo (un autentico tesoro antropologico ed ecclesiologico) e si chiede come e perché lo riguardi. Di sicuro, possiamo dire che i padri sinodali hanno accolto l’invito del Papa ad allargare lo sguardo sulla famiglia, a non ergersi a giudici, ad accogliere e accompagnare tutti nella misericordia. Il Sinodo dei vescovi sulla famiglia ha concluso i suoi lavori. I vescovi hanno discusso, hanno fatto discernimento e hanno votato. Papa Francesco ha parlato e certamente scriverà. E noi uomini e donne, credenti e non credenti di questo tempo?

Se io fossi… un cattolico divorziato e risposato civilmente, forse vedrei all’orizzonte aprirsi uno spiraglio perché un giorno, dopo un attento discernimento personale, di coppia e con la Chiesa, io possa tornare ad accostarmi all’Eucaristia da cui sono stato escluso sino ad oggi e di cui avverto non solo nostalgia, ma necessità per coltivare la mia fede.

Se io fossi… un cattolico sposato con matrimonio religioso mi sentirei confortato dalla Chiesa che mi ha confermato la bontà della mia scelta che rientra nel piano di Dio sull’umanità. Anzi, mi dice che “la vocazione della coppia e della famiglia alla comunione di amore e di vita perdura in tutte le tappe del disegno di Dio malgrado i limiti e i peccati degli uomini”.

Se io fossi… un omosessuale credente o non credente, mi sentirei rassicurato dalle parole dei vescovi che ribadiscono che “ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, vada rispettate nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione”.

Se io fossi… un giovane costretto dalle circostanze a scegliere la convivenza in attesa di “una sicurezza esistenziale (lavoro e salario fisso)” o percepissi “il matrimonio come un lusso” che non mi posso permettere, saprei di poter contare sulla comprensione della Chiesa che coglie anche nella mia condizione di vita “elementi positivi”.

Se io fossi… un bambino o un adolescente e frequentassi l’oratorio e magari il catechismo, mi sentirei rassicurato dalla “tolleranza zero” confermata dai vescovi contro la pedofilia e potrei vivere i miei anni con la leggerezza e la necessaria fiducia negli adulti che mi accompagnano.

Se io fossi… il componente di una coppia che “ha vissuto un’esperienza matrimoniale infelice”, darei credito ai vescovi quando dicono che “la verifica dell’invalidità del matrimonio rappresenta una via da percorrere”.

Se io fossi… uno sposo che sperimenta nella vita di coppia problemi di relazione, prenderei in parola i pastori che mi assicurano di “poter contare sull’aiuto e sull’accompagnamento della Chiesa”. Che mi dovrebbe aiutare a prendere coscienza del valore della riconciliazione attraverso la strada del perdono: “Saper perdonare e sentirsi perdonati è un’esperienza fondamentale nella vita familiare”.

Se io fossi… un sacerdote, oggi mi sentirei investito di una grande missione, quella di accompagnare e accogliere tutte le famiglie, nella consapevolezza che in tutte c’è un bene da scoprire e alimentare e a tutte va data un’occasione per partecipare alla vita della Chiesa.

Se io fossi… un laico impegnato nella Chiesa sentirei l’urgenza di una chiamata all’impegno nei confronti della famiglia, di tutte le famiglie, sia nella vita ecclesiale sia in quella pubblica e sociale, perché tutte le famiglie meritano accoglienza, comprensione e aiuto, anche da parte di chi ha la responsabilità di governo.

Se io fossi… un non credente prenderei molto sul serio le parole di Francesco quando afferma che “il primo dovere della Chiesa non è quello di distribuire condanne o anatemi, ma è quello di proclamare la misericordia di Dio, di chiamare alla conversione e di condurre tutti gli uomini alla Salvezza”. Dunque, se la Chiesa non mi condanna o lancia anatemi, forse merita ascolto e rispetto.

Se io fossi… un vescovo, un sacerdote, un religioso o una religiosa, un laico credente forse inciderei nel mio cuore queste parole di Francesco: “L’esperienza del Sinodo ci ha fatto capire anche meglio che i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito, non le idee ma l’uomo; non le formule ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono”. E forse con questa rinnovata consapevolezza andrei incontro all’Anno giubilare della Misericordia con il cuore in festa, nella certezza di celebrare una riconciliazione e nella speranza di spargere attorno a me semi di misericordia.

 Il nostro elenco dei “se io fossi…” termina qui. Ma sappiamo bene che è solo una piccolissima parte del tesoro antropologico ed ecclesiologico contenuto nella relazione finale del Sinodo. Abbiamo solo provato a metterci nei panni di chi oggi si pone dinanzi alle conclusioni del Sinodo e si chiede come e perché lo riguardi. Di sicuro, possiamo dire che i padri sinodali hanno accolto l’invito del Papa ad allargare lo sguardo sulla famiglia.

La lettura della Relazione restituisce questo sguardo ampio che non tralascia nulla e nessuno e riserva anche delle sorprese, perché ci parla di situazioni che neppure immaginiamo. Condizioni di vita che vengono dalle periferie geografiche ed esistenziali che meritano un’attenzione diversa. E pretendono l’inculturazione che “non indebolisce i valori veri, ma dimostra la loro vera forza e la loro autenticità, perché essi si adattano senza mutarsi, anzi essi trasformano pacificamente e gradualmente le varie culture”.

Allora, avanti tutta con il nostro “grande sì alla famiglia” che è il futuro, “senza mai cadere nel pericolo del relativismo oppure di demonizzare gli altri”.

Domenico delle Foglie Agenzia SIR  26 ottobre 2015

http://agensir.it/chiesa/2015/10/26/cosa-cambia-dopo-il-sinodo

La riforma della chiesa che riparte dal sinodo.

Il processo riformatore iniziato da Giovanni XXIII con il Vaticano II era rimasto a metà, ma ora, specialmente dopo questo Sinodo, è ripartito. Si tratta di una ripartenza timida, così timida che qualcuno può persino negare che vi sia. A mio avviso però le cose non stanno così, e la ripartenza riformistica è reale.

Dopo l’approvazione a maggioranza qualificata di tutti i 94 paragrafi della relatio finalis, compresi quelli sui divorziati risposati, papa Francesco ha infatti ora dalla sua l’esplicito mandato dell’episcopato mondiale per proseguire nella sua azione innovatrice. Con quale obiettivo? Con quello di completare il sogno di Giovanni XXIII, cioè il processo di “aggiornamento”, termine-pilota consegnato ai padri conciliari del Vaticano II e ritenuto operazione indispensabile per la Chiesa cattolica alle prese con la modernità. Fu per perseguire questo obiettivo che Giovanni XXIII convocò il Vaticano II nel 1959 e lo aprì nel 1962. L’anno dopo però egli morì e toccò a Paolo VI compiere l’opera conciliare: il papa bresciano accompagnò il processo riformatore sulla morale sociale della Chiesa cattolica, ma non ebbe il coraggio di giungere alla morale familiare e sessuale. Fu l’inizio di una progressiva ripresa della prospettiva conservatrice che poi trovò in Giovanni Paolo II un autorevole interprete e in Benedetto XVI il suo coronamento. Papa Francesco ha interrotto tale processo di restaurazione e ora il sinodo dei vescovi ha detto sì alla sua impostazione, conferendogli di fatto il via libera per rendere legislazione la sua predicazione profetica.

Da parte conservatrice si afferma che la relatio finalis del Sinodo, persino in quei paragrafi che hanno ottenuto per un soffio la maggioranza qualificata dei due terzi, non contiene nulla di nuovo che non avessero già detto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Dal punto di vista di una valutazione freddamente contenutistica può anche essere così, ma come spiegare allora la forte opposizione di un terzo dei vescovi che ha votato contro? Possibile che tali vescovi ignorassero che si trattava semplicemente di quanto già stabilito dai pontefici precedenti? Ovviamente no, visto peraltro che quei vescovi sono proprio coloro che maggiormente rimpiangono Wojtyla e Ratzinger. In realtà, al di là delle questioni particolari, il punto è che si trattava di dire sì oppure no alla nuova impostazione di papa Francesco, cioè a una chiesa che pone il baricentro non nella “verità”, come amava ripetere Benedetto XVI, ma nella “misericordia”, come si legge nel motto personale di Bergoglio:Miserando atque eligendo “.

https://w2.vatican.va/content/francesco/it/elezione/stemma-papa-francesco.html

E questo è avvenuto: i vescovi hanno detto sì alla misericordia, ovvero al primato della dimensione soggettiva rispetto a quella oggettiva. Ora papa Francesco ha l’appoggio dell’episcopato mondiale per rendere legge della Chiesa il primato della misericordia. Occorre poi dire che se anche i paragrafi più discussi non contengono alcun riferimento diretto all’accesso alla comunione eucaristica per i divorziati risposati, in realtà presentano le basi che lo rendono possibile: affermano infatti che l’obiettivo della comunità cristiana consiste nella «integrazione» di tutti i fedeli e indicano che tale obiettivo deve essere perseguito mediante il metodo del «discernimento». Non si tratta cioè di regole dottrinali oggettive che vanno applicate “senza se e senza ma”, ma di un metodo che interpreti la situazione concreta delle persone concrete per servire al meglio la loro fede e la loro felicità. Il passaggio decisivo si trova a mio avviso nel paragrafo 84: «Occorre discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possono essere superate». Qui si parla chiaramente di un superamento di forme ecclesiastiche esistenti, dicendo, nel modo più esplicito, che occorre andare oltre lo status quo. Oltre verso dove? Verso il primato delle persone e non delle regole. È esattamente in questo passaggio che si gioca il rinnovamento del Vaticano II voluto da papa Giovanni. Qui appare l’apertura della Chiesa alla modernità, visto che nella sua essenza filosofica la modernità è consistita proprio nella proclamazione del primato della libertà individuale rispetto alla oggettività delle istituzioni tradizionali.

Ma non si tratta solo della modernità. Ancora più radicalmente si tratta, come ripete con insistenza papa Francesco, del Vangelo. Ovvero della capacità della Chiesa di saper concretizzare la celebre affermazione di Gesù: “Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Marco 2,27). Frase che tradotta qui e ora diviene: la comunione eucaristica è stata fatta per l’uomo, non l’uomo per la comunione eucaristica. Naturalmente si tratta solo, come ho già detto, di un primo timido passo, ma tale passo era il massimo che si potesse ottenere alla luce delle divisioni dottrinali e soprattutto geografico- culturali che pervadono l’episcopato cattolico, diviso tra un Nord Europa insofferente delle limitazioni della dottrina tradizionale che separano la Chiesa dal corpo della società, e i Paesi dell’Est europeo, in primis la Polonia, che si ritrovano sulla stessa linea dei Paesi africani.

Cosa ci si potrà attendere ora? Naturalmente molto dipenderà dal documento con cui papa Francesco sigillerà i lavori del Sinodo, ma se, com’è prevedibile, anch’egli insisterà sul discernimento, il risultato da qui a qualche anno potrebbe essere quello di una Chiesa cattolica abbastanza diversa quanto a disciplina dei sacramenti a seconda delle zone geografiche: rigorista nei Paesi dove prevale il primato della “verità”, tollerante in altri dove prevale il primato della misericordia. Anzi la divisione potrebbe riprodursi anche all’interno di uno stesso Paese, persino delle stesse città. Sarà questa frammentazione il prezzo da pagare al discernimento, unico compromesso oggi realizzabile alla luce delle grandi differenze nella Chiesa cattolica? Oppure il documento di papa Francesco sarà tale da imporre a tutti il primato della misericordia e delle persone concrete rispetto ai sabati di ogni epoca?

Vito Mancuso                        la repubblica              27 ottobre 2015

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/10/27/la-riforma-della-chiesa-che-riparte-dal-sinodo27.html?ref=search

Il Sinodo spiegato ai miei figli.

Inquesti ultimi giorni i miei figli mi hanno vista più spesso al PC per seguire gli streaming delle conferenze stampa che fisicamente “presente” o più spesso sentita su whatsapp mentre ero in treno o a Roma. Di tanto in tanto provavo a fare qualche resoconto e domenica scorsa uno di loro mi ha chiesto a bruciapelo: perché questo Sinodo era tanto importante? Tre settimane per dire che cosa? Raccolgo la sfida, tentando di non “cadere nella facile ripetizione di ciò che è indiscutibile o già detto”, o di usare “un linguaggio arcaico o semplicemente non comprensibile” (dal discorso conclusivo di papa Francesco da cui traggo i virgolettati). In 9 punti.

  1. La Chiesa di papa Francesco ama gli uomini e le donne d’oggi, con i loro pregi (la loro ricerca di libertà e credibilità) e con i loro difetti (l’individualismo e la mancanza di progettualità in cui spesso si arenano le relazioni tra le persone); e così anche le famiglie. Nella Chiesa ci sono però anche i nostalgici, coloro cioè che volgono lo sguardo al passato, immaginandolo come un paradiso perduto e pensando di spingere le lancette dell’orologio indietro a suon di battaglie e di slogan.
  2. Il Sinodo non si è scandalizzato sul fatto che c’era disaccordo ma ha lavorato intensamente per arrivare a una convergenza, un’arte che occorre saper esercitare con pazienza (e saggezza): il che significa da un lato che è meglio un buon accordo generale che una sconfitta su alcuni aspetti specifici; e dall’altro che occorre tempo. Ma oggi siamo tutti un po’ insofferenti.
  3. Costruire il consenso significa far incontrare le persone prima delle loro idee e far sì che ciascuno ci metta la faccia: a questo hanno mirato i lavori di gruppo durati tre lunghe settimane. L’ascolto delle ragioni dell’altro – se in buona fede – fa compiere sempre un passo avanti da cui non si arretra. Le lettere (legittime) girate dentro il Sinodo e sulla stampa un po’ meno. I tentativi “cospirativi” per nulla. Questo significa vivere la sinodalità cui pensava Paolo VI dopo il concilio Vaticano II.
  4. Perciò è apprezzabile il lavoro del Sinodo anche laddove non ha detto una sorta di sì all’eucaristia per tutti come se fosse un diritto da rivendicare a suon di maggioranze (che forse qualche padre sinodale pensava di poter governare) ma ha messo in chiaro che “il primo dovere della Chiesa non è quello di distribuire condanne e anatemi, ma di proclamare la misericordia di Dio”. Il papa durante l’anno della misericordia chiarirà meglio come; ma già sin d’ora ha ribadito in lungo e in largo che non si può “giudicare con superiorità e superficialità i casi difficili e le famiglie ferite”.
  5. Mi sarei aspettata una parola di più sull’omosessualità, ma il coming out di mons. Charamsa ha chiuso la discussione. Avrei visto bene il tema inserito in quello ben più ampio della sessualità che in teoria non fa problema ma nei fatti crea ancora molti imbarazzi nella vita e nel sentire della Chiesa (il mondo, intanto, è altrove). Il tema – filosofico – della differenza necessita d’essere meglio compreso.
  6. Il Sinodo non ha detto molto sul tema del “gender” (se non limitandosi a un condivisibile rifiuto di tutto ciò che è ideologico) ma è scivolato su una questione di “genere”, quando ha deciso di non dare il voto alle tre 3 superiore religiose, elette al pari dei colleghi uomini. Una decisione clericale che ci si poteva risparmiare.
  7. E’ stata ribadita l’importanza delle Chiese locali. Esse sono governate non solo dal principio per il quale dove una cosa può essere decisa dal livello inferiore, il maggiore cede il passo; ma anche dall’altro per il quale esse sono Chiesa al pari di quella “di Roma”. Al Sinodo si è visto che “quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo, per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione. In realtà, le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato”. Il Vangelo cioè non si applica con formulette astratte, ma trasformando “pacificamente e gradualmente le varie culture”.
  8. I laici – cioè tutti i battezzati – vengono ancora una volta incoraggiati a portare la propria testimonianza. E’ vero che nella Chiesa non hanno una loro “rappresentanza” (le associazioni e i movimenti sono una forma ma non completa) e il Sinodo è fatto “di vescovi” (cosa che si potrebbe anche discutere). Ma il lievito messo nella pasta non aspetta il comando del cuoco per agire.
  9. Ultimo. Il consenso si costruisce anche sui testi. Con l’interpretazione e la rivisitazione di idee espresse tramite parole. E’ faticoso leggere, confrontare, cercare le fonti e le fonti delle fonti. Nell’ubriacatura delle tante parole spese attorno al Sinodo occorre fare lo sforzo di leggere, leggere e ancora leggere. Tra l’altro il documento finale di questa assemblea è uno tra i meglio riusciti di questo genere di assemblea.

Maria Elisabetta Gandolfi                27 ottobre 2015

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015_10_25_archive.html

La maggioranza qualificata e il suo perché.

Chi si aspettava – ed erano in molti – che non ci sarebbe stata una maggioranza qualificata per tutti i numeri concernenti la pastorale dei battezzati “divorziati e risposati civilmente” (Relazione finale, n. 84), cioè delle unioni costituitesi dopo un primo valido matrimonio sacramentale, è rimasto sorpreso, credo lietamente, perché questo non è accaduto: anche il numero più delicato, il n. 85, ha raggiunto quota 178 superando la barriera del 177.

Tuttavia, non ci si può non chiedere che cosa abbia reso possibile questo risultato. La possibile risposta esige un certo cammino d’analisi e di comparazione. Così, se facciamo un breve confronto tra l’Instrumentum laboris (IL) e la Relazione finale (RF) riguardo ai numeri sui divorziati risposati scopriamo varie interessanti cose.

Una prima cosa, molto chiara, che scopriamo è che la RF ha deciso di abbandonare del tutto il linguaggio della “via penitenziale”, che era invece molto presente nei nn. 122-123 dell’IL. Naturalmente il ruolo episcopale, implicato da tale via, scompare. Non scompare del tutto però un qualche ruolo episcopale riguardo a tali situazioni, come vedremo. Scompare anche ogni riferimento alla comunione spirituale alla quale l’IL aveva dedicato i numeri 124-125, così come non si fa più alcun cenno alla tradizione ortodossa.

Quello che rimane ed è esposto in due numeri (RF 85-86) presenta una peculiare successione tematica, che è opportuno vedere da vicino. Come punto di partenza, all’inizio di RF 85, si è scelto il testo di Familiaris consortio (FC), n. 84, molto valorizzato nelle discussioni dei circuli minores specialmente dal circolo di lingua tedesca. E’ il testo che inizia con le parole: “Sappiano i pastori che, per amore di verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni”. Si tratta peraltro di un testo al quale questo sinodo appare affezionato: è presente anche nel n. 51 della RF. A partire da esso si dice che è compito dei presbiteri “accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del vescovo. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento” (RF 85). Di tale esame di coscienza, orientato al passato del fallimento e all’impatto (familiare ed ecclesiale) della nuova relazione, si danno anche esempi.

Accompagnando le persone in questa via di discernimento i presbiteri devono avere chiari alcuni principi che sono poi i principi classici della praxis confessarii riguardo alla diminuzione o eliminazione della responsabilità (imputabilità soggettiva) per condizionamenti della conoscenza e della libertà.[1] Questo richiamo ai principi della praxis è presente fin dal Sinodo straordinario ed è andato crescendo fino a questo ultimo testo nel quale per ben due volte si rinvia a essi: qui e al n. 51. Ciò significa che il processo di discernimento può portare a individuare circostanze oggettive di non imputabilità della “nuova relazione”(RF 85). Ci si rende conto che c’è un problema di rettitudine di coscienza ma si affronta in questo modo affermando un principio il cui valore qui non è per altro chiaro: “Il discernimento pastorale, pure tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi” (RF 85). Questo processo, dunque, che compie un discernimento dell’oggettiva imputabilità della situazione sulla base dei principi della praxis, costituisce secondo RF 86 qualcosa che “orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio”. Al ruolo di tale presa di coscienza è dedicato proprio il n. 86.

La presa di coscienza soggettiva dei fedeli (divorziati risposati), aiutata dal processo, non rimane solo una loro questione privata: essi portano questa presa di coscienza “nel colloquio con il sacerdote, in foro interno” e questo colloquio “concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere”. Quali possano essere questi passi, non si dice; tuttavia, niente sembra escluso, neppure l’accesso all’eucaristia. Chi scrive le parole di RF 86, immaginando l’obiezione che c’è un problema di verità oggettiva dell’unione, dice che il colloquio deve tener conto “delle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa”, non a caso rinviando a FC 34 là dove l’esortazione dice che la legge di gradualità non significa gradualità della legge. La formazione del corretto giudizio, si sottolinea poi, deve essere fatto in foro interno, cioè non in modo pubblico, e mirando alla volontà di Dio: “vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta adesso”.

Giunti a questo punto, è possibile osservare che chiunque conosca la posizione espressa nel 1993 dai vescovi dell’Alto Reno (O. Saier, K. Lehmann, W. Kasper) sull’accompagnamento dei divorziati risposati non tarderà a riconoscere in questa procedura sinodale una modalità simile di soluzione, proposta però con qualche precauzione (cf. Regno-doc. 19,1993,613).

Provo a enuclearne alcune. La prima precauzione è che la cosa rimane tutta di foro interno; la seconda è che non si dice esplicitamente nulla sull’ammissione all’eucaristia (che ha anche un aspetto canonico, qui non preso in considerazione), che rimane del tutto implicita; la terza è che ci si collega ampiamente con la tradizione della praxis confessarii; la quarta è che si paga un tributo alle esigenze di verità che non si vede bene però come si collochino e che ruolo abbiano, rimettendo tutto ultimamente alla dinamica di foro interno. Non è chiaro poi se tale processo di discernimento sia fatto dalle singole persone o dalle coppie; quello che si può dire è che in RF 85-86 si evita di chiamare “coppie” o “unioni” le nuove situazioni di divorziati risposati.

Se tutto questo è vero, si può capire perché si è raggiunta una maggioranza qualificata. Chiunque può trovare in tale testo un appoggio, sia sfavorevole sia favorevole all’ammissione all’eucaristia. Chi leggerà il testo puntando sulla “verità” troverà appoggio, così come chi lo leggerà puntando piuttosto sulla “carità” o “misericordia”. E’ vero che si rinvia agli “orientamenti del vescovo” (cf. n. 85): questa potrebbe essere una via di orientamento in foro interno per i presbiteri ma niente garantisce che i vescovi abbiano le stesse posizioni.

Nel caso in cui papa Francesco riprenda la Relazione finale in un suo testo (cf. RF 94) potrebbe offrire elementi orientativi in modo decisivo, naturalmente. Fino ad allora, oltre alla disparità delle posizioni pastorali, trattandosi in ogni caso di una soluzione di foro interno, si creeranno probabilmente anche altri problemi, perché persone conosciute come non unite in una unione valida per la Chiesa saranno trattate come coppie legalizzate” in qualche modo nella stessa Chiesa. Sul piano della teologia morale e della praxis confessarii non potranno mancare alcune conseguenze, anche di rilievo.

prof. Basilio Petrà, ordinario di teologia morale       26 ottobre 2015

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/la-maggioranza-qualificata-e-il-suo.html

            L’assenza delle donne.

Il Sinodo sulla famiglia appena terminato è certamente una tappa non solo positiva ma importante del rinnovamento della Chiesa di Gesù aperto finalmente in questo pontificato, dopo il troppo lungo intervallo dal Vaticano secondo. Questo è il dato positivo da cui ripartire, e ripartire con fiducia e determinazione, per adeguare la Chiesa agli uomini e alle donne contemporanei.

            Vorrei richiamare il dovere di una riflessione collettiva a partire da alcuni termini che hanno, mi pare, un valore chiave. I primi due, entrati in modo netto nei lavori appena conchiusi, e determinanti per l’ulteriore riflessione, mi paiono “discernimento” e “Chiesa”. Non si lavorerà mai abbastanza sul senso che assume la parola discernimento in luogo della parola “dottrina”. La parola “dottrina” resta pur sempre un rimando pratico-operativo nella organizzazione comunicativa e pedagogica delle verità di fondo, un espediente necessario, che va usato con distacco e prudenza, consapevoli del rischio che porta con sé di pigrizia mentale e di passività di approcci. Ma la vita spirituale, la coerenza interiore dei singoli non si costruisce, né per sé né a favore degli altri, sulla dottrina. Si costruisce con il perenne ripensamento, con le riscoperte, con l’emergere delle contraddizioni e il tentativo di superarle, con la scoperta di vie nuove e di potenzialità inedite. I Santi vivono molto di più di discernimento imprevisto che di rimandi alla dottrina.

            E la Chiesa non è una struttura immobile costruita una volta per tutte. La ecclesia è, non solo per un dato etimologico, un’assemblea, una somma variabile e complessa di soggetti che si incontrano nella coscienza del loro interesse comune e di tutte le loro variabili, per divenire sempre più comunità, senza mai chiudersi su se stessa e identificarsi nelle sue forme visibili. Ritrovare l'”ecclesialità” originaria della Chiesa, con i suoi dinamismi interni, e le sue variabili storiche, è uno dei compiti fondamentali del passaggio che stiamo vivendo.

            E ci sono invece altre due parole che sono state ancora troppo assenti. La prima è “donne”. La loro assenza, come tema e come soggetti, ha il tono di un silenzio urlato. Ci sarebbero molte cose da dire e non c’è qui lo spazio. Ma vorrei esprimermi con una domanda. Siamo sicuri che, se ci fosse stata più attenzione, teorica e teologica, operativa e pedagogica, nei secoli passati e nei decenni vicini, al dato di fondo dell’essere “due” dell’umanità – e non si fosse invece analizzato l’umano, nella filosofia, nella teologia e nella storia, identificandolo col maschile e ignorando il femminile -, le spinte alla omosessualità sarebbero state quelle che sono oggi? Non c’è un rapporto fra la mancata attenzione, teorica e pedagogica, ai significati dell’essere “due” e l’emergere di un significato della parola “genere” che va oltre quel dato? Non sarà proprio di qui che si deve ripartire?

            La seconda parola che bisognerà pure decidersi a coniugare con la prima è “sacro”. Non è proprio l’esclusione delle donne dal “sacro”, dal sacro cristiano, il segno del nostro non essere “due”? Le donne lavano regolarmente i piedi sporchi del loro anziani malati, ma non lo fanno nelle celebrazioni rituali delle solidarietà. La carità femminile resta fuori dal sacro cristiano, è segno di inferiorità, non di missione, checché se ne dica in letteratura. E un “sacro” senza le donne che lo agiscano anche formalmente non è un sacro cristiano. Maria non può restare un’eccezione.

Paola Gaiotti de Biase           29 ottobre 2015         www.c3dem.it/tag/paola-gaiotti-de-biase

La Chiesa in prima linea al fianco dei bambini abbandonati.

Di adozione e affido il Sinodo dei vescovi aveva già iniziato a occuparsi nel corso della III Assemblea generale straordinaria di ottobre 2014. La Relatio Synodi redatta in quell’occasione evidenziava come adozione e affido esprimessero “una particolare fecondità dell’esperienza coniugale, non solo quando questa è segnata dalla sterilità”. Un tema sviluppato ulteriormente poi nell’Instrumentum Laboris, redatto a giugno 2015, in vista della XIV Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che recepiva anche le sollecitazioni di un dibattito su adozione e affido sviluppatosi a livello di base.

            Se ciò che contenuto nell’Instrumentum Laboris, rappresentava ancora un momento, anche se significativo, del cammino intrapreso circa il tema dell’accoglienza dell’infanzia abbandonata, ora il punto 65 del documento conclusivo del Sinodo di domenica 25 ottobre 2015 ne sancisce la definitività e anzi può ben essere considerato, vista la lungimiranza della prospettive indicate, un vero e proprio “manifesto” dell’adozione e dell’affido.

            Esaminiamolo passò per passo. “L’adozione di bambini, orfani e abbandonati, accolti come propri figli, nello spirito della fede assume la forma di un autentico apostolato familiare, più volte richiamato e incoraggiato dal Magistero”.

            Un “apostolato familiare”, quindi. È palese l’intenzione della Chiesa di far fare all’adozione di un minore abbandonato un vero “salto di qualità”, qualora essa sia compiuta “nello spirito della fede”. Il riferimento, in questo caso, non può non andare alle parole di Gesù stesso: “Chi accoglie uno di questi bambini, nel mio nome, accoglie me” (Mc 9,37). L’adozione quindi, pensata e voluta nel nome di Gesù, è una vera “vocazione” di vita, una scelta che la Chiesa “non solo richiama, ma incoraggia”. Come tale dovrà essere inserita, a pieno titolo, nei vari aspetti della pastorale familiare, a iniziare dalla formazione spirituale dei fidanzati.

            “La scelta dell’adozione e dell’affido – si legge ancora nel documento conclusivo del Sinodo – esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale, al di là dei casi in cui è dolorosamente segnata dalla sterilità. Tale scelta è segno eloquente dell’accoglienza generativa, testimonianza della fede e compimento dell’amore”.

            Ecco un passaggio molto importante: il tema della “sterilità feconda”, insito nell’adozione. Una sorprendente e peculiare fecondità, non limitata alle coppie sterili, ma aperta a tutte quelle coniugate. E come ogni fecondità – si afferma con particolare evidenza nel testo -, anche quella adottiva, benché “particolare”, è propria “dell’esperienza coniugale”, cioè di quella “accoglienza generativa” insita nella promessa che gli sposi si sono scambiati nel giorno del loro matrimonio.

            L’adozione e la generazione qui vengono poste sullo stesso piano. Non c’è alcuna differenza fra un figlio biologico e uno adottato. Entrambi sono “compimento dell’amore coniugale”: padre, madre e figli possono pertanto testimoniare concretamente ciò che è la “fede” nell’amore del Padre. Un Padre che non delude mai le promesse e che è capace di redimere, in forza della risposta della nostra fede, anche una vicenda “dolorosa” come la sterilità. È il “Cantico di Anna”, nel primo libro di Samuele, a ricordarci che, per volere di Dio, “la sterile ha partorito sette volte” (Sam 2,5). “Essa (l’adozione, ndr) restituisce reciproca dignità ad un legame interrotto: agli sposi che non hanno figli e a figli che non hanno genitori”.

            L’azione potente dell’adozione è qui espressa con un’evidenza sorprendete: una promessa, un filo che si era spezzato ora viene riannodato grazie a un gesto di accoglienza. Non solo viene ristabilito ciò che spetta a ogni bambino che viene al mondo – il diritto di essere chiamato figlio -, ma addirittura qui si entra nella prospettiva del progetto di Dio sugli “sposi che non hanno figli” e che ora, grazie all’adozione, viene svelato in tutta la sua evidenza. Da sempre era stato “pensato” come “nostro” figlio e il nostro “sì” alla sua accoglienza ripristina, dandogli maggior vigore, quel cammino di amore, insito in ogni “nascita”, che sembrava interrotto. Ecco svelata, in tutta la sua evidenza, la “grazia della sterilità feconda” donata dal Padre veramente a tutte le coppie sterili unite nel sacramento del matrimonio.

“Vanno perciò sostenute tutte le iniziative volte a rendere più agevoli le procedure di adozione”, hanno affermato i vescovi riuniti nel Sinodo. Un richiamo netto e preciso a tutti coloro che hanno delle responsabilità legislative e amministrative: non sono un mistero, nemmeno per i padri sinodali, tutte le difficoltà, soprattutto di ordine burocratico, in cui è attualmente coinvolto il mondo delle adozioni, soprattutto quelle internazionali. Ben vengano, allora, le “iniziative”, che anzi devono essere “sostenute” – e qui la Chiesa si impegna a farlo! – per rendere “più agevoli” le procedure adottive.

            Questa della Chiesa è una scelta di campo precisa e di fondamentale importanza: laddove l’adozione è reputata necessaria, occorre agire per realizzarla nel più breve tempo possibile. Ben vengano quindi riforme legislative, amministrative, accordi fra Stati: insomma tutto ciò che si renda necessario per restituire urgentemente “quella dignità di figlio” a chi ne è stato privato in qualsiasi parte del mondo esso si trovi.

            “Il traffico di bambini fra Paesi e Continenti – prosegue il documento – va impedito con opportuni interventi legislativi e controlli degli Stati”. Con queste parole il Sinodo dimostra di essere capace di calarsi nei temi più concreti e attuali: ecco in piena evidenza ciò che rappresenta il “male” delle adozioni internazionali, laddove sia carente o del tutto assente il controllo degli Stati di origine o di accoglienza. Non possono non ritornare in mente, a questo punto, le recenti decisioni di alcuni Stati africani, in particolare quelli dell’Africa orientale, che si sono sentiti costretti, a loro malincuore, a chiudere le adozioni internazionali per i gravi episodi di traffico di minori verificatisi nei loro Paesi.

            Alla luce di tali situazioni, fa bene il Sinodo a chiamare in causa le autorità statali, soprattutto quelle dei Paesi di accoglienza (Europa e America del Nord sono i principali attori delle adozioni internazionali), responsabili in prima persona degli organismi autorizzati e delle famiglie che inviano nei Paesi di origine ad adottare i loro minori abbandonati. Occorrono quindi opportuni “interventi legislativi”, a cominciare dagli accordi bilaterali, capaci di attuare ferrei controlli per impedire che i Paesi di origine poi siano costretti a interrompere le adozioni.

            E poi: come non richiamare, qui, anche la “personale” responsabilità degli operatori degli enti autorizzati e delle famiglie adottive rispetto alla pratica illegale dei pagamenti in nero e in contanti, suscettibile di produrre fenomeni di corruzione? “La continuità della relazione generativa ed educativa – si legge ancora nel testo uscito dal Sinodo sulla famiglia –  ha come fondamento necessario la differenza sessuale di uomo e donna, così come la procreazione. A fronte di quelle situazioni in cui il figlio è preteso a qualsiasi costo, come diritto del proprio completamento, l’adozione e l’affido rettamente intesi mostrano un aspetto importante della genitorialità e della figliolanza, in quanto aiutano a riconoscere che i figli, sia naturali sia adottivi o affidati, sono altro da sé ed occorre accoglierli, amarli, prendersene cura e non solo metterli al mondo. L’interesse prevalente del bambino dovrebbe sempre ispirare le decisioni sull’adozione e l’affido. Come ha ricordato Papa Francesco, «i bambini hanno il diritto di crescere in una famiglia, con un papà e una mamma» (Udienza ai Partecipanti al Colloquio internazionale sulla complementarità tra uomo e donna, promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, 17 novembre 2014)”.

            Frasi talmente chiare e – direi – definitive che servono veramente poche parole di commento. Non c’è alcun dubbio: per i padri sinodali l’adozione è “materia” riservata esclusivamente a un uomo e a una donna. Se si vuole veramente restituire dignità di figlio a un bambino abbandonato – quindi nel suo supremo interesse – non si può prescindere dal farlo “crescere” con una papà è una mamma! E Il richiamo alle parole dirette del Papa è quasi un sigillo a questo principio. Non si può mettere sullo stesso piano un presunto” diritto al proprio completamento” e quello di un bambino a essere figlio: da una parte c’è un atto di egoismo (“il figlio ad ogni costo”), dall’ altro un vero e proprio atto di amore. Anzi, la stessa adozione e – ritorna molto appropriatamente – l’affido, insegnano anche ai genitori biologici in che cosa consista l’essenza della accoglienza di un figlio, anche se “tuo”, frutto del tuo sangue: ogni figlio è sempre “altro” è, come tale, va accolto. “Imparate dai genitori adottivi e affidatari”, sembrano suggerire i padri sinodali a ogni genitore, ricollegandosi in ciò alla formidabile intuizione di Paolo: “siamo tutti figli adottivi” (Ef 1,5).      “Nondimeno – ricordano infine i padri sinodali -, la Chiesa deve proclamare che, laddove è possibile, i bambini hanno diritto a crescere nella loro famiglia natale con il maggior sostegno possibile”.

            Non ci si sarebbe potuta aspettare conclusione migliore. Il senso è questo: attenzione quando si parla di adozione e affido! La prima realtà da tenere in mente e da “proteggere” è la “famiglia di origine, quella da cui il bambino è nato.  Non ci può essere adozione, dunque, senza il concetto di “sussidiarietà”: prima di adottare quel bambino, occorre assicurarsi di avere fatto tutto il possibile – umanamente possibile – perché possa crescere ed essere educato nella sua famiglia o – nel caso dell’adozione internazionale – in una famiglia del suo Paese di origine.

            Tali dichiarazioni, per non rischiare di rimanere solo pure affermazioni verbali e nient’altro, necessitano di azioni concrete di sostegno, a livello sia delle singole famiglie (interventi di contrasto alla povertà e di sostegno psicosociale) che di Paesi di origine (interventi di cooperazione internazionale per l’applicazione del concetto di sussidiarietà). In definitiva ci sembra che, con questo paragrafo 65, la Chiesa – e ciò vale per tutte le sue componenti: quindi anche per noi associazioni familiari di ispirazione cristiana – abbia compiuto una significativa scelta di campo: laddove vi è un bambino abbandonato, in qualsiasi paese del mondo esso viva, la Chiesa si schiera, in prima linea, al suo fianco, invocando il suo sacrosanto ed irrinunciabile diritto ad essere un figlio, un vero figlio!

            Marco Griffini, Presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini

Ai. Bi.             26 ottobre 2015                     www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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CONSIGLIO DI STATO

Per il matrimonio “italiano” ci vogliono un uomo e una donna.

Consiglio di Stato, terza Sezione, sentenza n. 4899, 26 ottobre 2015.

Il matrimonio contratto all’estero tra cittadini italiani omosessuali costituisce nel contesto delle norme nazionali un “atto abnorme – nel senso etimologico latino di atto fuori dalla norma” – perché manca la differenza di sesso tra gli sposi che nel nostro sistema di regole è condizione di validità. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.

Ne consegue che tutti gli ufficiali di stato civile – e non solo quindi quelli direttamente coinvolti dal caso specifico oggetto della decisione – non possono trascrivere l’atto per difetto della condizione relativa alla difetto della condizione relativa alla dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie prevista dall’articolo 64 comma 1, lettera e) del DPR del 3 novembre 2006 n. 396 (regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile). L’analisi dell’abnormità, rispetto all’ordinamento nazionale, dell’atto di matrimonio tra cittadini italiani dello stesso sesso contratto all’estero, secondo il Consiglio di Stato è facilmente rilevabile, considerando come l’articolo 115 del Codice civile assoggetti espressamente i cittadini italiani all’applicazione delle disposizioni codicistiche che stabiliscono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio, anche quando l’atto viene celebrato in un paese straniero. In base a questa considerazione, prosegue la sentenza, l’enucleazione degli indefettibili requisiti sostanziali (rispetto allo stato ed alla capacità dei nubendi) porta a “individuare la diversità di sesso quale la prima condizione di validità e di efficacia del matrimonio, secondo le regole degli articoli 107,108,143,143 bis, e 156 bis del Codice civile e in coerenza con la concezione del matrimonio che discende dalla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto in diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna”. Per i giudici deve quindi concludersi come – secondo il sistema regolatorio di riferimento – l’atto di matrimonio omosessuale tra italiani contratto all’estero è radicalmente invalido o, meglio, inesistente (che appare la classificazione più appropriata, data la situazione di atto mancante di un elemento essenziale alla sua stessa giuridica esistenza. E, quindi, incapace nel vigente sistema di regole di costituire tra le parti lo status giuridico proprio delle persone coniugate con i diritti e gli obblighi connessi.

            La valenza delle pronunce sovranazionali della Corte Ue, proposta dai ricorrenti come elemento di sostegno alla tesi della trascrivibilità, viene superata dalla sentenza con l’analisi delle stesse che ribadiscono come la regolazione legislativa del matrimonio e quindi l’eventuale ammissione di quello omosessuale (che la Corte non ritiene in astratto vietato) rientra nel perimetro del margine di apprezzamento e quindi della discrezionalità riservata agli Stati contraenti. Tanto che – precisa la sentenza – allo stato del diritto convenzionale europeo e sovranazionale, non appare configurabile un diritto fondamentale della persona al matrimonio omosessuale, sicché il divieto dell’ordinamento nazionale di equiparazione di quest’ultimo con quello eterosessuale non confligge con i vincoli contratti dall’Italia a livello europeo od internazionale. Non essendo configurabile un diritto, l’interpretazione delle norme non può mai condurre all’equiparazione del matrimonio gay a quello “tradizionale”, restando riservata al Parlamento nazionale la relativa scelta politica.

            Infine il Consiglio di Stato definisce, accogliendola, l’istanza del Prefetto di modifica della pronuncia di primo grado e, quindi, di disporre con decreto prefettizio l’annullamento delle trascrizioni eventualmente disposte dai Sindaci di matrimoni contratti all’estero tra coppie omosessuali di cittadini. La novità della questione trattata ha portato alla compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.

            Giorgio Vaccaro – Il Sole 24 Ore – 27 ottobre 2015          

www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-10-27/i-giudici-il-matrimonio-italiano-ci-vogliono-uomo-e-donna-185343.shtml?uuid=

L’urgenza dei diritti che calpesta il Diritto.

La legge è equilibrio, nella ricerca costante di dare tutela alle esigenze e ai bisogni delle persone che siano compatibili con quelle degli altri. La legge che regola il matrimonio presuppone che i coniugi siano di sesso diverso. Non c’ è, è vero, alcuna disposizione che lo dica espressamente. Ma il presupposto è presente, ad esempio, nell’art. 87 Codice civile che vieta il matrimonio tra fratelli e sorelle; tra lo zio e la nipote o la zia e il nipote; nell’ art.89 che vieta alla donna di contrarre matrimonio se non dopo trecento giorni dalla cessazione del precedente matrimonio (per evitare che sorgano problemi sull’eventuale paternità di un nuovo nato); nell’art. 143 secondo il quale con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri; nell’ art. 143 bis secondo il quale la moglie aggiunge il proprio cognome a quello del marito; nell’ art. 156 bis secondo il quale il giudice può vietare alla moglie l’ uso del cognome del marito. E via di questo passo. La stessa Costituzione non dice, è vero, che i coniugi devono essere di sesso diverso (art. 29), ma, proteggendo la maternità (art. 31), presuppone la differenza dei sessi.

In questo contesto la legge sullo stato civile non ha alcun rilievo. Si limita a stabilire come deve procedere l’ufficiale di stato civile nel registrare gli atti di matrimonio. Ma è evidente che l’ufficiale di stato civile, nel procedere alla registrazione, deve seguire le disposizioni del Codice civile. Di conseguenza, se non segue tali disposizioni, registra atti che non poteva registrare. E poiché egli, nel registrare, si limita e si deve limitare ad inserire nei registri dello stato civile atti di matrimonio, è evidente che non può inserirvi atti che il Codice civile non considera come tali. La sua attività non è costitutiva del vincolo matrimoniale. Non crea status. Li dichiara. E se fa una dichiarazione che non poteva fare, non si esce dalla seguente alternativa: o la dichiarazione non serve a nulla, è irrilevante (meramente esornativa) oppure crea un’apparenza di diritto, per cui, essendo contra legem, è penalmente rilevante e, comunque, va rimossa.

La decisione del Consiglio di Stato, sulla quale si sono scatenate le polemiche, applica la legge. È una legge non in linea con l’attuale evoluzione, secondo la quale la differenza tra i sessi non è un fondamento dell’istituto familiare? Con l’attuale evoluzione secondo la quale il sesso non dipende dagli attributi di cui ci ha fornito madre natura, ma dal modo secondo il quale la persona vive e si sente? Benissimo. Si tratta, tuttavia, di nuove esigenze e di nuovi bisogni che devono trovare sbocco nella legge. Ossia nella regola ordinante che è a base della convivenza civile. Chi ritiene che della legge si possa e si debba fare a meno in nome di esigenze, pure apprezzabili, ma non tutelate, fa violenza al sistema e mette a repentaglio i cardini su cui è fondata la nostra pacifica convivenza. Il problema, sia chiaro, non riguarda (soltanto) i matrimoni tra persone dello stesso genere. È un problema di carattere generale. Ammettere che sia sufficiente far valere un’esigenza, anche se condivisibile, per ottenere tutela significa smantellare lo Stato di diritto.

Sull’onda di questa esperienza, qualsiasi rivendicazione di minoranze (e, nei tempi attuali, ne potremmo immaginare a iosa) si trasformerebbe in diritto tutelabile e lo Stato perderebbe la sua funzione di equilibratore finale. Questo è il nocciolo della questione. Che alla decisione del Consiglio di Stato abbia partecipato, in veste di relatore, un magistrato dichiaratamente cattolico è del tutto secondario. Si potrebbe, infatti, osservare che la decisione è stata presa da un collegio di cinque persone e che, pertanto, secondo la prova di resistenza, è sbagliato attribuire ad un solo magistrato ciò che è stato il frutto di una decisione di cinque giudici. Si potrebbe aggiungere che, proprio perché la decisione ha riguardato temi fondamentali della nostra civile convivenza, è stato giusto che in camera di consiglio fosse rappresentata anche la sensibilità del cattolico. Ma sarebbero osservazioni inutili e prive di senso, anche perché un buon giudice non dovrebbe mai fare prevalere le sue posizioni ideologiche sulla corretta soluzione giuridica. La decisione va considerata per la sua conformità alla legge vigente.

La legge vigente è inadeguata e oramai non in linea con i tempi? Il Parlamento se ne faccia carico e intervenga e, nel relativo procedimento, è bene che senta le ragioni di tutti, dei laici e dei cattolici, senza che ci siano pregiudizi “ad escludendum”. Diversamente, coloro che oggi si lamentano quasi che siano vittime di violenza usata nei loro confronti, coloro che non accettano di discutere con quanti sono legati alla concezione tradizionale del matrimonio e della famiglia, senza avvedersene finiscono per imporre la loro visione del mondo, esercitando, essi e inevitabilmente, violenza.

prof. Giovanni Verde                        Il mattino, pag. 43                28 ottobre 2015

Consiglio di stato, sez. III – sentenza 26 ottobre 2015, n.4899. Massima

  1. La diversità di sesso dei nubendi individua la prima condizione di validità e di efficacia del matrimonio, secondo le regole codificate negli artt. 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis c.c. ed in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna. A prescindere, quindi, dalla catalogazione squisitamente dogmatica del vizio che affligge il matrimonio celebrato (all’estero) tra persone dello stesso sesso (che si rivela, ai fini della soluzione della questione controversa, del tutto ininfluente), deve concludersi che, secondo il sistema regolatorio di riferimento, un atto siffatto risulta sprovvisto di un elemento essenziale (nella specie la diversità di sesso dei nubendi) ai fini della sua idoneità a produrre effetti giuridici nel nostro ordinamento.
  2. Che si tratti di atto radicalmente invalido (cioè nullo) o inesistente (che appare, tuttavia, la classificazione più appropriata, vertendosi in una situazione di un atto mancante di un elemento essenziale della sua stessa giuridica esistenza), il matrimonio omosessuale deve intendersi incapace, nel vigente sistema di regole, di costituire tra le parti lo status giuridico proprio delle persone coniugate (con i diritti e gli obblighi connessi) proprio in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio.
  3. Anche escludendo l’applicabilità alla fattispecie considerata del fattore ostativo previsto all’art. 18, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), non potendosi qualificare come contrario all’ordine pubblico il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la trascrizione di matrimoni omosessuali celebrati all’estero deve intendersi preclusa dal difetto di uno degli indispensabili contenuti dell’atto di matrimonio trascrivibile (e la cui verifica preliminare deve ritenersi compresa nei doverosi adempimenti affidati all’ufficiale dello stato civile), ovvero della condizione relativa alla “dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie”, prevista dall’art. 64, comma 1, lett. e), DPR n. 396 del 2000, quale condizione dell’atto di matrimonio trascrivibile (così come dall’art. 16, DPR cit., rubricato “Matrimonio celebrato all’estero”, che utilizza, evidentemente, la dizione “sposi” nell’unica accezione codicistica, codificata all’art. 107 c.c., di marito e moglie).
  4. La Corte Costituzionale (Corte Cost., sent. 11 giugno 2014, n.170; sent. 15 aprile 2010, n.138; ordinanze n. 4 del 2011 e n.276 del 2010), ha affermato la compatibilità del divieto, in Italia, di matrimoni tra persone dello stesso sesso (e, quindi, si aggiunga, come logico corollario, della trascrizione di quelli celebrati all’estero), per un verso, con l’art. 29 della Costituzione (contestualmente interpretato come riferito alla nozione civilistica di matrimonio tra persone di sesso diverso) e, per un altro, con le norme interposte contenute negli artt. 12 della CEDU e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella misura in cui le stesse rinviano espressamente alle legislazioni nazionali, senza vincolarne i contenuti, la disciplina dell’istituto del matrimonio, riservandosi l’eventuale delibazione dell’incostituzionalità di disposizioni legislative che introducono irragionevoli disparità di trattamento delle coppie omosessuali in relazioni ad ipotesi particolari (per le quali si impone il trattamento omogeneo tra le due tipologie di unioni).
  5. La Corte Costituzionale ha affermato la coerenza dell’omessa omologazione del matrimonio omosessuale a quello eterosessuale in particolare con l’art. 29 Cost., che si risolve in una costituzionalizzazione del matrimonio tra persone di sesso diverso, sicché non possono ravvisarsi margini per uno scrutinio diverso ed ulteriore della compatibilità della regolazione in questione con la Carta fondamentale della Repubblica.
  6. Lungi dall’affermare l’obbligo della Repubblica italiana di riconoscere il diritto al matrimonio omosessuale, la Corte di Strasburgo ha espressamente e chiaramente negato la sussistenza e, quindi, a fortiori, la violazione di tale (presunto) diritto, limitandosi ad imporre allo Stato di assicurare una tutela giuridica alle unioni omosessuali (ma, anche qui, riconoscendo un margine di apprezzamento, seppur più limitato, nella declinazione delle sue forme e della sua intensità).
  7. Non appare configurabile, allo stato del diritto convenzionale europeo e sovranazionale, nonché della sua esegesi ad opera delle Corti istituzionalmente incaricate della loro interpretazione, un diritto fondamentale della persona al matrimonio omosessuale, sicché il divieto dell’ordinamento nazionale di equiparazione di quest’ultimo a quello eterosessuale non può giudicarsi confliggente con i vincoli contratti dall’Italia a livello europeo o internazionale.
  8. A fronte della pacifica inconfigurabilità di un diritto (di genesi nazionale o sovranazionale) al matrimonio omosessuale, resta preclusa all’interprete ogni opzione ermeneutica creativa che conduca, all’esito di un’operazione interpretativa non imposta da vincoli costituzionali o (latu sensu) internazionali, all’equiparazione (anche ai meri fini dell’affermazione della trascrivibilità di matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso) dei matrimoni omosessuali a quelli eterosessuali.
  9. Il potere del Prefetto di annullare gli atti dello stato civile di cui il Sindaco ha ordinato contra legem la trascrizione deve intendersi implicitamente implicata dalle funzioni di direzione (art. 54, comma 12, d.lgs. n. 267 del 2000), sostituzione (art. 54, comma 11, d.lgs. n. 267 del 2000) e vigilanza (art. 9, comma 2, d.P.R. n. 396 del 2000). Dette disposizioni devono intendersi come comprensive anche del potere di annullamento gerarchico d’ufficio da parte del Prefetto degli atti illegittimi adottati dal Sindaco, nella qualità di ufficiale di governo, senza il quale, peraltro, il loro scopo evidente, agevolmente identificabile nell’attribuzione al Prefetto di tutti i poteri idonei ad assicurare la corretta gestione della funzione in questione, resterebbe vanificato.
  10. Dev’essere affermata la sussistenza, in capo al Prefetto, della potestà di annullare le trascrizioni di matrimoni omosessuali, quale potere compreso certamente, ancorché implicitamente, nelle funzioni di direzione, sostituzione e vigilanza attribuitegli dall’ordinamento.
  11. L’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990 dev’essere letta ed applicata nel senso che è ammesso l’annullamento d’ufficio di un atto illegittimo da parte di un organo diverso da quello che lo ha emanato in tutte le ipotesi in cui una disposizione legislativa attribuisce al primo una potestà di controllo e, in generale, di sovraordinazione gerarchica che implica univocamente anche l’esercizio di poteri di autotutela. E non vale neanche a negare l’applicabilità al caso controverso dell’art. 21 nonies il rilievo, a dire il vero poco comprensibile, che la trascrizione di un atto dello stato civile non può essere qualificata come un provvedimento amministrativo, ma come un “atto pubblico formale”.
  12. La distinzione tra provvedimento amministrativo e atto pubblico formale non trova alcun fondamento positivo, dovendosi qualificare come provvedimenti amministrativi tutti gli atti, con rilevanza esterna, emanati da una pubblica amministrazione, ancorché privi di efficacia autoritativa o costituiva e dotati di soli effetti accertativi o dichiarativi, con la conseguenza che anche gli atti dello stato civile devono essere compresi nel perimetro dell’ambito applicativo della disposizione in commento (e che, per la sua valenza generale, non tollera eccezioni o deroghe desunte in esito a incerti percorsi ermeneutici).
  13. Il sistema di regole che assegna al giudice civile i poteri di controllo, rettificazione e cancellazione degli atti dello stato civile (e integrato dal combinato disposto degli artt. 95, DPR. n. 396 del 2000, e 453 c.c.) postula, per la sua applicazione, l’esistenza di atti astrattamente idonei a costituire o a modificare lo stato delle persone, tanto da imporre un controllo giurisdizionale sulla loro corretta formazione, con la conseguenza dell’estraneità al suo ambito applicativo di atti radicalmente inefficaci, quali le trascrizioni di matrimoni omosessuali, e, quindi, del tutto incapaci (per quanto qui rileva) di assegnare alle persone menzionate nell’atto lo stato giuridico di coniugato. L’esigenza del controllo giurisdizionale, infatti, si rivela del tutto recessiva (se non inesistente), a fronte di atti inidonei a costituire lo stato delle persone ivi contemplate, dovendosi, quindi, ricercare, per la loro correzione, soluzioni e meccanismi anche diversi dalla verifica giudiziaria.

                        Testo della sentenza

www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=11867#.VkiThuLY6M8

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DALLA NAVATA

Tutti i santi – 1 novembre 2015.

Apocalisse      07, 02 «Vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del dio vivente.»

Salmo              24, 01 «Del Signore è la terra e quanto contiene: il mondo con i suoi abitanti.»

1 Giovanni      03, 02 «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.»

Matteo            05, 12 «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.»

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DIVORZIO

Ultrasessantenni dal divorzio facile.

I dati Istat parlano chiaro: un raddoppio nei primi dieci anni del terzo millennio. Sono gli “young-old people”, molto attenti alle dimensioni corporea ed estetica. Fanno nuove amicizie, cercano relazioni, avventure ed emozioni. Inseguono modelli giovanili e cercano nuovi amori. Ma pesa anche l’incapacità di reggere il conflitto che viene immediatamente interpretato come la fine della relazione.

Nella società postmoderna e tecnoliquida di questo inizio di millennio stiamo assistendo al definitivo superamento della categoria antropologica della vecchiaia intesa come luogo della stabilità e della saggezza. Sì, perché anche la vecchiaia è stata pervasa dal fenomeno della adolescentizzazione del ciclo di vita degli umani tecnoliquidi. Cosicché esistono gli “adultescenti” (adulti che vivono una permanente adolescenza) e gli “young-old people” (anziani che rivivono pulsioni giovanili, anche grazie alla farmacologizzazione della sessualità, e che si aprono a nuove ed eccitanti esperienze).

In fondo la liquidità delle relazioni, le spinte narcisistiche e la ricerca di illusorie onnipotenze, la rinuncia all’assunzione di responsabilità relazionali e il bisogno di emozioni forti, la rivoluzione digitale con la sua rete di legami virtuali e l’incredibile accelerazione della vita, in fondo tutti questi elementi, che sono alla base della società postmoderna e tecnoliquida, sono anche gli ingredienti di base che rendono nel complesso instabile la relazione interpersonale, irraggiungibile meta per molti abitanti di questo mondo tecnologico postmoderno. In altri termini, assistiamo alla più straordinaria crisi della relazione interpersonale che l’umanità abbia mai vissuto.

Ebbene questa crisi non poteva non coinvolgere gli ultrasessantenni, ai quali in passato abbiamo affidato la tradizione e la stabilità socioculturale e relazionale. Ed ecco il dato Istat che segnala il fenomeno: nel primo decennio del terzo millennio le separazioni che riguardano uomini ultrasessantenni sono passate da 4.247 a 8.086 (dal 5,9% al 9,4%), quelle che riguardano le donne over 60 da 2.555 (pari al 3,6% del totale delle separazioni) a 5.213 (6,1%). Il dato assume un’ulteriore accelerazione nell’ultimo quinquennio. E’ agli “young-old people” che dobbiamo una parte dell’incremento di questi dati.

Chi sono dunque gli “young-old people” e quali sono le loro caratteristiche? Innanzitutto sono vecchi molto attenti alla dimensione corporea: curano il corpo e la forma fisica, vanno in palestra, ballano e fanno la dieta. Sono anche molto attenti alla dimensione estetica: non rinunciano alla bellezza, seguono la moda, assumono integratori alimentari e si curano con attenzione. E infine sono molto attratti dalla dimensione relazionale: fanno nuove amicizie, cercano relazioni, avventure ed emozioni. In definitiva inseguono modelli giovanili e cercano nuovi amori. Ma gli “young-old people” non spiegano del tutto l’inquietante dato Istat. Infatti dobbiamo considerare un altro fenomeno che attraversa la società tecnoliquida: l’incremento della conflittualità, legata ad un sostanziale individualismo ed al prevalere dell’appagamento dei bisogni individuali, e l’incapacità di risolvere ed affrontare i conflitti stessi. Questo fenomeno determina un ulteriore indebolimento dei legami: l’uomo postmoderno sembra risolvere i conflitti prevalentemente attraverso la rottura del legame. Questa realtà aggredisce inesorabilmente anche gli ultrasessantenni, nati nel periodo post-bellico, figli della crisi dell’autorità e di una pedagogia che ha demonizzato il conflitto. Anche negli ultrasessantenni di oggi si è andato sempre di più sedimentando la convinzione, largamente condivisa dalla società, che il conflitto segnala la fine della relazione.

In definitiva il dato Istat evidenzia un problema e pone una questione ineludibile: saprà l’uomo del terzo millennio recuperare la bellezza della relazione interpersonale o è condannato aduna sostanziale instabilità dei legami che lo perseguiterà anche nella vecchiaia? Saremo trottole in perenne e vano movimento o sapremo recuperare equilibri perduti? E soprattutto: sapremo contare i nostri giorni e invecchiare?

Tonino Cantelmi        Agenzia SIR   27 ottobre 2015

http://agensir.it/italia/2015/10/27/ultrasessantenni-dal-divorzio-facile

Se la donna vuol conservare il cognome del marito dopo il divorzio.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza n. 21706, 26 ottobre 2015

La legge [Art. 5 L. n. 898/1970] consente alla donna di conservare il cognome del marito anche dopo il divorzio, ma si tratta di una ipotesi eccezionale, riservata solo ai casi in cui sussistano valide motivazioni, che sarà il giudice a valutare caso per caso. In particolare, la norma stabilisce, in via generale che, a seguito del divorzio, la donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio. Tuttavia, il tribunale, con la stessa sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna (purché sia essa stessa a farne richiesta) a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista: – un interesse suo meritevole di tutela, – oppure un interesse dei figli meritevole di tutela. Il punto è stabilire quando un interesse possa dirsi “meritevole di tutela”. Di tale aspetto si è occupata una ordinanza della Cassazione. Non si può considerare “meritevole di tutela” la volontà di conservare un cognome famoso o, in virtù del quale, la donna ha goduto di alcuni benefici e privilegi sociali. Altrettanto dicasi del desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa. Ciò, del resto, inciderebbe negativamente sulla vita e sui progetti dell’altro ex coniuge, che intenda formare un nucleo familiare che sia riconoscibile e percepito come attuale nei rapporti giuridici e sociali.

La meritevolezza dell’interesse, dunque, deve essere vista come un’eccezione alla regola, regola che stabilisce invece il principio opposto, ossia quello della coincidenza tra la denominazione e lo status. Secondo il Tribunale di Milano [sent. n. 5644/2009], l’interesse al mantenimento del cognome del coniuge dopo il divorzio risulta meritevole di tutela qualora riguardi la sfera del lavoro professionale, commerciale o artistico della moglie, oppure, ancora, in considerazione di profili di identificazione sociale e di vita di relazione meritevoli di tutela oltre che di particolari profili morali o considerazioni riguardanti la prole (la cui identificazione con un cognome diverso possa essere causa di danno). Secondo il Tribunale di Napoli [sent. 11.07.2003] la moglie non ha diritto a conservare il cognome del marito in aggiunta al proprio, solo perché essa faccia uso di tale cognome nella propria attività scientifica (pubblicazioni), in quanto in tal caso ben potrà avvalersi della tutela offerta dal diritto d’autore (con riferimento ai nomi d’arte). Pertanto l’autorizzazione alla conservazione del cognome può essere concessa alla donna in un solo specifico settore (quello lavorativo) se abbia fatto uso protratto del cognome stesso, sicché questo è ormai diventato mezzo di identificazione della sua persona.

Redazione       Lpt      27 ottobre 2015                     ordinanza

www.laleggepertutti.it/102563_se-la-donna-vuol-conservare-il-cognome-del-marito-dopo-il-divorzio 

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Dal Consiglio di stato una parola definitiva.

Sindaci e politici se ne facciano una ragione. Alla fine la verità, il buon senso, la certezza del diritto hanno avuto la meglio nonostante le eclatanti manifestazioni folcloristiche inscenate nei mesi scorsi da alcuni sindaci – compresi quelli di Roma, Milano e Napoli – e le frettolose acclamazioni di trionfo da parte dei sostenitori del politicamente corretto.

I fatti possono essere così sinteticamente riassunti: nell’ultimo anno alcuni sindaci hanno trascritto nei registri dello Stato civile atti di matrimonio celebrati all’estero tra cittadini italiani dello stesso sesso; il Ministro dell’Interno ha emanato una circolare in cui si sollecitavano i Prefetti competenti per territorio a procedere alla cancellazione delle trascrizioni; i Tar hanno confermato che tali atti non possono essere trascritti e che quindi i matrimoni omosessuali “importati” sono senza efficacia, ma che i Prefetti sono incompetenti in materia. Lasciando di fatto la situazione inalterata in attesa che qualcuno sciogliesse la matassa.

È qui che è intervenuto il Consiglio di Stato, che annullando la sentenza del Tar ha ribadito a chiare lettere «l’intrascrivibilità dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso», nonché che «la diversità di sesso dei nubendi» è «la prima condizione di validità e di efficacia del matrimonio (…) in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna».

La sentenza del Consiglio di Stato è ricca di riferimenti al diritto, ma anche al nostro patrimonio sociale e culturale. Tutto per affermare che i matrimoni omosessuali contratti all’estero non producono effetti giuridici in Italia, vista l’esclusiva competenza e discrezionalità del nostro legislatore in materia di stato civile, competenza confermata da tutte le Corti sovranazionali proprio in riferimento ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, alla luce dei princìpi contenuti delle Convenzioni internazionali e comunitarie. Quindi, se si vuole cambiare, a farlo deve essere il Parlamento. Ma non basta: i giudici hanno anche dichiarato che non esiste (anzi: che è semplicemente «inconfigurabile») nel nostro ordinamento un diritto al matrimonio omosessuale e «qualsivoglia omologazione tra le unioni eterosessuali e quelle omosessuali». E questo è quanto aveva già ribadito la Corte Costituzionale con la sentenza 138 del 2010.

Che le cose stessero così, lo sapevamo già. Anzi, lo sanno tutti. Anche quei sindaci alla ricerca di provocazione e soprattutto di visibilità. In Italia il matrimonio è solo tra persone di sesso diverso e i matrimoni omosessuali celebrati all’estero non possono essere “importati”. Dal Consiglio di Stato arriva dunque una chiara bocciatura per i sindaci, ma anche un limpido richiamo a chi ancora ancora si ostina a voler forzare realtà e Costituzione per giungere al matrimonio omosessuale.

Comunicato stampa               27 ottobre 2015                     www.forumfamiglie.org/comunicati.php

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PASTORALE

Quali matrimoni sono validi per la Chiesa?

Il teologo Nicola Reali spiega quando il matrimonio naturale è anche un sacramento. «La Chiesa, conviene ricordarlo, ha sempre riconosciuto l’esistenza di un vero matrimonio naturale tra due non battezzati. Sin dagli inizi dell’umanità tali alleanze tra un uomo ed una donna che corrispondevano al piano creatore di Dio erano e sono benedette (Gen 1, 27-28). Tra i veri matrimoni, quindi, anche oggi nel mondo ci sono moltissimi naturali, tra non battezzati, ed altri sacramentali contratti tra i battezzati che comportano una grazia speciale (Instrumentum Laboris 57). “La serietà dell’adesione a questo progetto e il coraggio che essa richiede si lasciano apprezzare in modo speciale proprio oggi” (Instrumentum Laboris 57)». Così scriveva il cardinale Peter Erdo nella relazione d’apertura del Sinodo. Stando a queste parole, osservava Gianni Gennari su Vatican Insider (5 ottobre 2015), «un vero matrimonio è anche quello – che Dio dall’alto benedice perché corrispondente al suo piano creatore dall’inizio – tra due non battezzati. L’affermazione è forte e significativa. E allora Dio non benedirà anche un’alleanza tra un uomo e una donna magari battezzati tutti e due, ma che poi per tante ragioni si considerano non credenti? Chi allora nella Chiesa può mai dire che questa alleanza, seria, cosciente, libera, non è “vero matrimonio”?».

            Quando un matrimonio è valido: 4 prerogative. Don Nicola Reali, docente incaricato di Teologia Pastorale dei Sacramenti presso il Pontificio Istituto Redemptor Hominis (Pontificia Università Lateranense), fa una premessa ad Aleteia: «Quanto affermato dal cardinale Erdo rappresenta un dato tradizionale della dottrina giuridica cattolica, dal momento che un matrimonio è valido e, quindi, è un vero matrimonio quando rispetta le cosiddette prerogative naturali: anzitutto che sia eterosessuale (tra un uomo e una donna), che sia “uno” (cioè che respinga ogni forma di poligamia o di poliandria), che sia “indissolubile” (quindi, che escluda ogni forma di divorzio) e che sia fecondo (ovvero, aperto alla trasmissione della vita). Ora, quando queste caratteristiche sono rispettare un matrimonio è valido e – se celebrato, nelle forme previste dal diritto, tra due battezzati cattolici – è ipso facto anche un sacramento. Questo tecnicamente si chiama “principio dell’identità tra contratto e sacramento».

Nella sostanza, prosegue il teologo, «non c’è alcuna differenza tra un matrimonio naturale e uno sacramentale». O meglio, «l’unica differenza è che quello naturale può essere chiamato anche sacramentale solo se è celebrato tra due battezzati».

            L’affermazione di Don Nicola Reali potrebbe generare un dubbio: allora anche le cosiddette coppie di fatto possono essere un “vero matrimonio”?

            Il docente ribatte: «Il problema è che nel Decreto Tametsi del Concilio di Trento la Chiesa ha deciso di rendere obbligatoria (dunque, ad validitatem) per i fedeli cattolici la forma canonica della celebrazione matrimoniale». Questo vuol dire che due battezzati cattolici «solo se si sposano secondo una forma riconosciuta dal diritto canonico (che non è necessariamente quella liturgica in chiesa) celebrano un vero e valido matrimonio che può essere chiamato sacramento. Se non si sposano con questa forma, il loro matrimonio, non solo non è sacramento, ma non è neppure valido».

            Il teologo evidenzia: «Un matrimonio civile celebrato in Comune, benché rispettoso della natura, non è un sacramento per il semplice fatto che non è stato celebrato secondo la forma canonica prescritta. Di conseguenza, esso non vale e non può neppure essere chiamato “vero matrimonio”, perché il principio dell’identità contratto/sacramento impedisce di pensare che ci possa essere un matrimonio naturalmente valido di un battezzato che non sia – per usare le parole del Codice – per ciò stesso (eo ipso) sacramento».

Unione in chiesa tra battezzati non credenti. Questo è però un aspetto che crea confusione, disorientamento.

«Non lo sa quasi nessuno e in effetti il disorientamento è grande. Ma, quello che maggiormente appare problematico in questa disciplina (specialmente dal punto di vista pastorale) è il fatto che tra gli elementi che rendono un matrimonio naturale sacramento non ci sia la fede personale dei nubendi. Questo significa che per sposarsi in chiesa, di per sé non è necessario essere credenti: è sufficiente essere battezzati e affermare di voler fare un matrimonio naturale. Poi, se si crede o non si crede in Gesù Cristo, in Jhwh o in nessuno, non fa differenza. Questa è una prassi che risale, appunto, al Concilio di Trento (XVI secolo) e che è rimasta da allora inalterata».

            Una prassi da preservare?

            Reali ne parla anche nel suo ultimo libro “Quale fede per sposarsi in chiesa? Riflessioni teologico-pastorali sul sacramento del matrimonio” (EDB, Bologna 2014). «Il mio ultimo libro è dedicato proprio a questo problema, da una parte per aiutare chi è interessato al problema a capire meglio i termini della questione, dall’altra per sollecitare una discussione franca e libera sull’opportunità di mantenere in vigore questa prassi. Anzitutto, partendo dalla constatazione che quanto finora affermato è la posizione del diritto canonico, non della Chiesa in quanto tale».

            Il valore dell’adesione alla fede della chiesa

            Secondo il teologo «il diritto canonico, come ogni diritto, è la legge che regola la vita della Chiesa nei suoi aspetti fondamentali, ma la vita della Chiesa non si riduce alle sue leggi canoniche, è più ampia. Pertanto, non è del tutto corretto affermare che la Chiesa non considera la fede un elemento essenziale per la celebrazione del matrimonio cristiano, ma unicamente il diritto canonico. Prova ne è che la pastorale ordinaria delle parrocchie viceversa punta molto sulla fede di chi si vuole sposare in chiesa. Tanto è vero che chiunque, per esperienza propria o altrui, sa benissimo che sposarsi in chiesa significa partecipare a dei corsi di preparazione al matrimonio, i quali in maniera esplicita sottolineano il valore dell’adesione personale alla fede della Chiesa».

            Un problema pastorale da risolvere.

            Pertanto, sottolinea Reali, il contenuto centrale del libro «va nella linea di voler mettere in evidenza come l’azione quotidiana di tutti coloro, sacerdoti e laici, che s’impegnano per favorire un approccio al sacramento del matrimonio che tenga conto della fede di chi si sposa, non sia un cammino totalmente parallelo – io, nel mio libro parlo di “due mondi separati” – rispetto alla disciplina canonica che, al contrario, non considera la fede un elemento essenziale per la valida celebrazione del matrimonio. Forse – conclude – è venuto il momento che i problemi della pastorale non siano considerati solamente come “problemi pastorali” che devono risolvere i parroci, mentre i cultori della disciplina canonica continuano ad affermare una normativa (che tra l’altro risale a cinque secoli fa) per salvaguardare la giuridicità del diritto

Gelsomino del Guercio                      aleteia 26 ottobre 2015

http://it.aleteia.org/2015/10/26/quali-matrimoni-sono-validi-per-la-chiesa

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SINODO SULLA FAMIGLIA

La Chiesa dell’integrazione, amica di chi soffre.

            Le conclusioni del Sinodo nell’editoriale dell’arcivescovo di Chieti-Vasto, segretario speciale dell’assemblea, su Il Sole 24 Ore di domenica 25 ottobre 2015.

            È veramente lo spirito del Concilio Vaticano II quello che si è respirato nel Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, che si conclude oggi. Lo è anzitutto per la figura di Papa Francesco, che tanto richiama i Papi del Concilio, unendo ai tratti di bontà e di profonda umanità di Giovanni XXIII aspetti fondamentali che lo accomunano all’altra figura non meno grande di Paolo VI, come la capacità di dialogare con la complessità delle culture e il desiderio di una Chiesa che sia sempre più vicina alle donne e agli uomini di oggi, nella varietà delle sfide che essi si trovano ad affrontare. È poi soprattutto la volontà di annunciare il Vangelo nella concretezza della storia ciò che ha fatto di questo Sinodo un’attualizzazione forte e profonda del Vaticano II, da una parte con l’aprire gli occhi dinanzi alle tante situazioni delle famiglie del mondo che esigono non giudizi distaccati e freddi, ma comprensione, calore, solidarietà e partecipazione, dall’altra proponendo la luce e la gioia della buona novella il più possibile a tutti, senza escludere nessuno dall’abbraccio della misericordia annunciata e donata da Gesù, il Redentore dell’uomo. Questo desiderio di far giungere a ogni persona umana il dono dell’amore che libera e salva, proponendone la realizzazione bella specialmente nella vita familiare, ha attraversato i lavori sinodali soprattutto attraverso l’uso di tre categorie, che descrivono altrettanti atteggiamenti pastorali di fondo: l’accompagnamento, il discernimento e l’integrazione.

            Una Chiesa che “accompagna”  le donne e gli uomini del nostro tempo è una comunità che si fa prossima alle loro gioie e ai loro dolori, alle loro attese e alle loro speranze: tutt’altro che una Chiesa pronta a dispensare soltanto giudizi e condanne, si tratta di una comunità viva, amica di tutto quanto è umano, che non rinuncia in nulla a proporre la verità liberante del Vangelo, ma lo fa sull’esempio di Gesù camminando sulle strade dove passa ogni giorno la vita della gente comune, impastata di sudore e di consolazioni, di lacrime e di speranze. L’abbraccio della Chiesa di Papa Francesco va in primo luogo a tutte le famiglie del mondo, mettendo in luce la bellezza della loro vocazione, la dignità delle loro fatiche, la possibilità di affrontare con amore le inevitabili prove della quotidianità e le risorse che l’amore che le unisce sa sprigionare nelle situazioni più diverse. Questo abbraccio accogliente si estende a tutte le cosiddette famiglie ferite, a chi vive le crisi a volte laceranti dei rapporti affettivi, a chi sperimenta il fallimento dell’alleanza, a chi è entrato nella solitudine della separazione o ha cercato nuovo futuro nel ricorso a nuove nozze. Accompagnare queste persone accogliendole in profondità con rispetto e amore non è in alcun modo tradire la verità del Vangelo, ma esattamente al contrario renderla visibile nella prossimità dell’ascolto e della condivisione, nella carità che comprende e sostiene, nel dire parole di vita pronunciate con tenerezza e dolcezza soprattutto quando richiamano alle esigenze alte della sequela di Gesù.

            All’accompagnamento si unisce nelle proposte che il Sinodo offre alla Chiesa il cammino del discernimento: chi discerne non giudica tagliando con l’accetta il bene e il male, ma cerca anzitutto di comprendere tutti gli elementi in gioco, di valutarli con l’altro, di illuminarli alla luce della Parola di Dio, che è sempre e soprattutto parola di perdono e di salvezza. Una Chiesa compagna di strada, che spezza il pane della vita con l’altro, soprattutto se questi fatica ad avanzare sotto il peso delle sue sofferenze e delle sue possibili, a volte difficilmente evitabili, contraddizioni. È la Chiesa che quotidianamente incontrano tante donne e uomini che vengono ai nostri confessionali, e che oggi si esprime col volto universale del Papa e dei Vescovi come famiglia che si riconosce amata gratuitamente dal Suo Signore e di questo amore vorrebbe essere testimone per tutti, nessuno escluso.

            Infine, quella che emerge dal Sinodo di Papa Francesco è la Chiesa dell’integrazione, che non vuole escludere nessuno, trovando uno spazio vitale per tutti, nella varietà dei doni effusi da Dio e delle possibilità concrete delle nostre comunità. Una Chiesa che chiede di far cadere antiche forme di esclusione, dicendo a tutti, specie a chi si sente o pensa di essere fuori di essa a causa della propria situazione di amore ferito o fallito, parole di fiducia, di incoraggiamento, di accoglienza e di misericordia. Così, coloro che sono in situazioni difficili, come ad esempio i battezzati divorziati e risposati civilmente, “sono fratelli e sorelle” nostri, in cui “lo Spirito riversa doni e carismi per il bene di tutti”. Essi pertanto “non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo”. Al di là di tutte le decisioni pastorali che queste scelte del Sinodo comporteranno, ciò che emerge di bello e di importante è lo stile di una Chiesa fraterna, umile, non dirimpettaia delle fatiche umane, ma solidale con essa e amica di chi soffre. La Chiesa di cui Papa Francesco è immagine viva ed eloquente con la semplicità dei suoi gesti, il calore delle sue parole, la forza irradiante della sua fede e della sua carità.

Redazione Zenit                     26 ottobre 2015

www.zenit.org/it/articles/la-chiesa-dell-integrazione-amica-di-chi-soffre

Le parole del Sinodo. Ecco i termini chiave per capire cosa è cambiato.

Sinodalità. Senza modificare un solo canone Papa Francesco ha dato una statura inedita al sinodo dei vescovi: pur avendo patito dell’assenza dei periti teologi che da sempre alimentano ogni conciliarità, il sinodo è stato organo deliberante. E tutti oggi lo percepiscono come tale. Ha rimesso nell’agenda della chiesa — anche delle chiese nazionali e diocesane — la sinodalità come strumento di comunione. «La collegialità episcopale si manifesta in un cammino di discernimento spirituale e pastorale» (§ 3) è un principio operante.

Vescovo. Non è vero che il sinodo ha detto di affrontare la questione dei divorziati rispostati «caso per caso». Sarebbe stata una banalità. Ha detto che «il Vescovo» è «pastore e capo» della sua chiesa e dunque «giudice» (§ 82). Perciò i suoi preti non sono i terminali di ordini centrali, ma produttori della «discretio» con cui «accompagnare» le persone «secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo» (§ 85). Ed è difficile immaginare che l’orientamento del vescovo o dei vescovi di una nazione non nasca sinodalmente, per ascoltare non i quadri, ma le comunità.

Universale. Nel sinodo c’è una implicita ma secca riformulazione della categoria di «universale». Non c’è un potere universale che si esercita in nome della «chiesa universale» (mai citata) attraverso il monarcato pontificio, custode della dottrina ed ermeneuta della natura. Tutto è spostato sulle comunità. «Universale» è l’aggettivo della fraternità nella famiglia umana (§41) e della la dichiarazione «universale» dei diritti dell’uomo (§ 92).

Oggettivo. Prima del sinodo, in un libro-manifesto allarmato e allarmante, Ruini aveva detto che i divorziati erano in un «condizione oggettiva» di peccato. La bacchettata del sinodo è ferma e spietata: dice (§ 85) che «il giudizio su una situazione oggettiva non deve portare ad un giudizio sulla imputabilità soggettiva», con tanto di citazione di un atto del card. Herranz del 2000. Le implicazioni della tesi di Ruini erano molte, quelle di questa ancora di più.

Gender Il sinodo abbandona la polemica sulle «teorie» del gender. Denuncia una «ideologia del gender» che prospetti «una società senza differenze di sesso» (denuncia così estrema che non ha imputati ed è politicamente inutilizzabile). Riconosce invece che «secondo il principio cristiano, anima e corpo, come anche sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare». Se non lo avesse fatto sarebbe crollata la cristologia.

Regno «Cristo. La parola e l’atteggiamento di Gesù mostrano chiaramente che il Regno di Dio è l’orizzonte entro il quale ogni relazione si definisce» (§ 41) dice il sinodo. Contro quelli che un anno fa dicevano che non bastava ripetere «la dottrina», Francesco ha mostrato che il mestiere del papa non è dare ripetizioni del catechismo, ma comprendere più a fondo le esigenze e la grazia del vangelo. Una «buona notizia» che supera le odiose categorizzazioni degli esseri umani in fidanzati, nubendi, sposati, quasi sposati, non sposati, presposati, postsposati, convinventi, divorziati, ecc.

Persone omosessuali. Il sinodo non ha chiamato amore quello fra persone dello stesso sesso (ma ha riconosciuto che nelle persone unite da nozze civili e nelle convivenze ci possono essere «quei segni di amore che propriamente corrispondono al riflesso dell’amore di Dio»). Però ha detto che ogni persona venga «rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto». Per alcuni paesi, Italia inclusa, sarebbe già un progresso.

Citazioni

http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/10/24/0816/01825.html

Alberto Melloni          corriere della sera     26 ottobre 2015

www.padrebergamaschi.eu/new/post.php?id_post=196

Il Sinodo: il testo e l’evento.

Due terzi dei Vescovi al Sinodo sono con Papa Francesco, al quale affidano la determinazione concreta della svolta pastorale sulla famiglia e il suo ruolo all’interno della Chiesa. E’ l’inizio di un grande approfondimento della esperienza matrimoniale, con accorato discernimento dei Vescovi e con libertà evangelica di Francesco. Dopo tutte le esitazioni, le discussioni, le paure, le trame, gli entusiasmi, gli sgambetti, gli intrighi, le aperture e le fughe all’indietro, i risultati di queste tre settimane di “cammino sinodale” appaiono più cospicui di quanto ci si potesse attendere. In primo luogo sull’intera Relatio si è formata una “maggioranza qualificata”, anche se questo obiettivo, sicuramente decisivo, ha significato il sacrificio di alcune importanti tematiche (nessun cenno esplicito alla comunione per le “famiglie irregolari”, nessun riferimento vero alle coppie “omosessuali”, né al rapporto tra “legge” e “coscienza”).

In secondo luogo, il documento, sia pure con i limiti di “contenuto” che ho già indicato, recupera molto in termini di linguaggio, di stile e di approccio: trova il registro giusto per annunciare anzitutto la “misericordia”; infine, come era accaduto anche l’anno scorso, il discorso conclusivo di papa Francesco mette in chiaro, con estrema lucidità, quali saranno le priorità che discenderanno da questo “cammino comune” appena compiuto, ma ancora da sviluppare e da determinare. Ecco una serie di “elementi” di valutazione del Sinodo, a partire dal documento a cui è giunto (nella sua non definitività).

Il testo e il suo contesto. Non bisogna certo sottovalutare il testo approvato alla fine del Sinodo, ma non si deve neppure sopravvalutarlo. Si tratta, è bene ricordarlo, di una serie di 94 proposizioni, ordinate certo in modo strutturale, ma che fungeranno da “base” per la elaborazione del testo magisteriale che, una volta pubblicato, di fatto andrà a prendere il posto del testo sinodale, con altra autorità. Per questo, se valutassimo il testo come “definitivo”, andremmo incontro a un abbaglio: piuttosto esso ha avuto un duplice compito: mettere a confronto le diverse culture e tradizioni ecclesiali di fronte alle sfide che la famiglia subisce e lancia alla cultura di oggi; preparare un “consenso diffuso” per sostenere un’opera di aggiornamento e di “conversione” della pastorale familiare.

Il tono sereno e costruttivo. Molto hanno lavorato i Padri sinodali nel “trovare il tono giusto”: uno dei meriti di questo Sinodo è stato proprio quello di non voler arrivare ad una “normativa disciplinare” – troppo ardua da costruire in modo consensuale. Si è preferito, invece, elaborare un linguaggio dell’incontro e della misericordia, invece che un linguaggio del giudizio o della condanna. La lezione del Concilio Vaticano II – rilanciata da papa Francesco – ha trasmesso ai padri sinodali il desiderio di curare la “forma” almeno tanto quanto il ”contenuto”. Questa scelta ha determinato una tendenza a portare in primo piano l’atteggiamento da favorire, prima che il contenuto da definire. Pertanto, in diversi casi, il tono “garbato” e “conciliante” non ha potuto registrare che una parte dei “temi”. La ricerca di un ampio consenso ha alzato il volume delle relazioni e abbassato quello delle questioni più brucianti.

Le resistenze e le omissioni. Cionondimeno, vi sono state resistenze, forse anche più forti di quanto si sarebbe pensato. Lettere di protesta indirizzate al papa, sul cui testo e sui cui firmatari non vi sono certezze, ma che volevano esercitare una “pressione preventiva” sul lavori del Sinodo, contestandone il merito e il metodo. Se si è arrivati a diffondere notizie false su un (inesistente) “tumore al cervello del papa”, questo ha significato che il livello di “paura” del cambiamento aveva raggiunto un livello di guardia. Il miglior commento su tutto ciò è venuto dal cardinale Francesco Montenegro (arcivescovo di Agrigento), che ha ricordato un proverbio rumeno: “Quando la carovana si mette in movimento, i cani abbaiano”.

Alcuni casi esemplari: relazioni omosessuali e comunione ai divorziati risposati Non vi è dubbio che nella storia del precedente Sinodo del 2014, la gestione di argomenti delicati –in primis delle coppie divorziate risposate e delle coppie gay – avevano creato resistenze e opposizioni, che si erano tradotte in un numero di voti contrari più alto del previsto. E’ però paradossale che, nel testo oggi approvato con larghe maggioranze, di fatto si siano letteralmente “obliterate” alcune questioni nodali: la omosessualità sembra riguardare la famiglia solo quando tocca “qualcuno di famiglia”: il caso cioè in cui un figlio, un fratello, uno zio manifestano un orientamento omosessuale. Ma della “relazione omosessuale di coppia” non si fa parola. Allo stesso modo ci si comporta nei paragrafi delicatissimi che riguardano la condizione ecclesiale dei “divorziati risposati”. La questione che sembrava dirimente – ossia la “comunione ai divorziati risposati – non viene mai nominata. Si gira attorno al tema, con reiterata insistenza, ma senza mai evocarlo letteralmente. Lo ripeto: tutto questo assomiglierebbe ad una “occasione perduta” se non tenessimo conto della “provvisorietà strutturale” della Relatio. Era più importante creare le condizioni di un consenso più vasto, piuttosto che sollevare tutte le questioni teoriche e pratiche e rischiare la divisione!

La libertà del papa come ”ministero ecclesiale”. Una “divisione del lavoro” come quella che abbiamo visto durante il Sinodo mi pare che raramente si dia a vedere, non solo a livello ecclesiale. Mentre la assemblea elaborava strategie del confronto, di creazione del consenso, di mediazione linguistica e culturale, il suo Presidente faceva due cose essenziali: stava in ascolto di tutti e rilanciava profeticamente il lavoro e la progettazione, sulla base della categoria di “misericordia”. Se la famiglia manifesta la “misericordia Dei” nel modo più alto, come possiamo comprenderla solo nelle categorie dei diritti e dei doveri? Questa domanda, in mille variazioni, risuonava nei discorsi di apertura e di chiusura, ma riecheggiava anche da S. Marta e, quotidianamente, da ogni occasione in cui il papa prendeva la parola. I Vescovi hanno parlato con la prudenza della cautela, il papa con la libertà della profezia. I primi dovevano fare analisi, il secondo continuamente spronava a fare sintesi. I primi avrebbero in qualche caso voluto ancora tempo, commissioni, procedure, cautele…il secondo voleva correre per strada, farsi familiare alle famiglie, toccarle e farsene toccare. Quasi mai c’è stata dura contrapposizione: quando non “in re”, almeno “in spe”.

La questione fondamentale: la differenza tra famiglia e matrimonio. Il Sinodo che ha “scollinato” nella disciplina delle nozze cristiane, aprendo la via per un ripensamento delle prassi con cui si affrontano le crisi matrimoniali, ha dovuto farsi carico di un problema ecclesiale ben più grande e spinoso: ossia la pretesa di non perdere il monopolio della sessualità ordinata alla vita unita, indissolubile e feconda. Da quando lo stato moderno ha “requisito” la competenza sul matrimonio, la Chiesa ha reagito spesso in modo solo istituzionale, vantando una competenza originaria e inossidabile sul “sacramento-contratto”. Questa storia, lunga due secoli, influisce ancora pesantemente sul modo di affrontare le singole questioni: non di rado, accanto al “pastore” vi è sempre acquattato un “farmacista”, col suo bilancino. Spesso nella stessa persona! Accettare che vi sia una “differenza” tra famiglia e matrimonio è, per questa mentalità classica, l’inizio della fine. Il Sinodo ci ha detto che i “pastori” hanno prevalso sui non pochi “farmacisti”, oltre che su qualche “lupo”. Per i numerosi Pastori presenti al Sinodo, questa svolta è stata non una tragica fine, ma un inizio promettente.

Che cosa sarà domani? Appena chiuso il Sinodo, un giornalista ha chiesto ad alcuni parroci che cosa avrebbero fatto dal giorno successivo. La prudenza ha giustamente prevalso. Questo ha permesso al giornale di mettere come titolo: “I parroci frenano sulla comunione ai divorziati risposati”. Per come un Sinodo è concepito, è del tutto ragionevole che ogni “mutamento della disciplina” sia accuratamente predisposto dalla autorità competente. La Relatio ci dà alcuni criteri di fondo, che tuttavia dovranno essere a loro volta tradotti e fatti propri dalle singole comunità, mediante una adeguata mediazione magisteriale e pastorale. Ecco alcune domande che dovremo affrontare nei prossimi mesi: Alcune domande aperte:

a)      Familiaris Consortio e la differenza tra comunione ecclesiale e comunione sacramentale Propriamente, la differenza tra comunione ecclesiale e comunione sacramentale, che è stata introdotta coraggiosamente da FC, quando afferma che i divorziati risposati “non sono separati dal Corpo di Cristo”, inaugura quella tensione a cui cerca di rispondere il documento sinodale, seppur solo parzialmente. Se la “forbice” tra le due forme di “comunione” era massima, nel 1981, oggi appare ridotta e ridimensionata, ma non ancora colmata. Ad ogni grado che si acquisisce come compatibile con la condizione di divorziato risposato, diventa sempre più difficile escludere il coronamento eucaristico della comunione ecclesiale. Se un divorziato risposato può fare il catechista, come può non giungere alla comunione eucaristica? Ma, d’altra parte, se un divorziato verrà tenuto esterno alla comunione sacramentale, come farà ad essere un catechista senza complessi di inferiorità?

b)      Foro esterno, foro interno: e il “foro intimo”? Fino ad oggi l’unico modo per “giudicare” della condizione dei divorziati risposati era ricorrere al procedimento canonico di riconoscimento e dichiarazione della nullità del vincolo. Questo accadeva – e tuttora accade – “in foro esterno”. Oggi è possibile che, stante la validità del primo matrimonio, si possa essere accompagnati in un cammino di integrazione ecclesiale che non esclude la comunione eucaristica, senza mettere in discussione il vincolo originario. Questo avviene “in foro interno”, nella confessione. Ma tutto questo non basterà. Alla logica oggettiva del vincolo sembra affiancarsi, quasi in parallelo, una logica soggettiva dei singoli individui, i cui nuovi legami non sembrano avere una visibilità e una riconoscibilità. Il correttivo che il “foro interno” introduce nel sistema è utile e necessario, ma non sarà sufficiente. La storia delle coscienze e delle libertà in comunione è molto più complessa e più intima della astrazione giuridica che compone “elementi oggettivi” con “cause soggettive”. La misericordia ha bisogno di altri linguaggi e di altre dinamiche. Su questo “foro intimo” occorrerà lavorare, affinando le categorie con cui interpretare e disciplinare i vissuti ecclesiali.

c)      Cammino penitenziale e cammino eucaristico: sono ancora possibili? Prevale ancora una lettura statica della vita: il foro esterno e quello interno sono “fermi” piuttosto che “in movimento”. Se il Sinodo ha sbloccato il sistema, ha “scollinato” nella tradizione, oggi dovrebbe essere molto più chiaro che penitenza e eucaristia non hanno solo la logica dell’atto formale di assoluzione e di consacrazione, ma la logica del processo rituale ed esistenziale di incontro con la Parola e con il sacramento. Come diceva Carlo Maria Martini, noi dobbiamo saper “capovolgere la domanda”. Non si tratta di far accedere i divorziati alla eucaristia dopo la soglia penitenziale, ma di farli entrare in una elaborazione penitenziale ed eucaristica della loro identità. Nella penitenza e nella eucaristia si cambia “con il tempo”. La nuova considerazione dei divorziati risposati ci porta, ultimamente, a una nuova offerta, a tutto il popolo di Dio, di una rinnovata freschezza penitenziale ed eucaristica. Il problema della “comunione” per i divorziati risposati non è di “ricevere l’ostia”, ma di “vedere riconosciuta e valorizzata” la comunione che vivono. Su queste “domande aperte” si misurerà la discussione e la esperienza ecclesiale del mesi prossimi: a meno che Francesco non ci sorprenda ancora una volta, “giocando d’anticipo” già tra qualche settimana, magari intorno alla soglia giubilare. Chi potrebbe escluderlo?

Andrea Grillo “Settimana” del 1 novembre 2015     

www.cittadellaeditrice.com/munera/il-sinodo-il-testo-e-levento

Un Sinodo in chiaroscuro. La lettura di Noi Siamo Chiesa

Nel Sinodo non sono passati i conservatori, l’autorità di papa Francesco è maggiore di prima, le soluzioni adottate sono a chiari e scuri, la riforma è troppo lenta ma è iniziata. I 94 paragrafi della Relazione finale del Sinodo dei vescovi su “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo” meritano di essere letti più volte. Auspichiamo, per il documento conclusivo che firmerà papa Francesco, una maggiore capacità di sintesi. Facciamo alcune osservazioni.

Il Sinodo. Anzitutto la sua composizione: 270 maschi, celibi e votanti a fronte di un milione di suore rappresentate da tre superiori generali non votanti e nominate. Le donne quasi assenti su una tematica in cui il “vissuto” è anche maschile ma molto femminile. Hervé Janson, superiore dei Piccoli Fratelli del Vangelo era l’unico non prete a votare e ha denunciato, in conferenza stampa, questa assurda composizione del Sinodo che è identica a quella di ogni altra sessione precedente, nonostante papa Francesco.

Altra cosa abnorme e curiosa: nei 94 paragrafi non si ricorda in nessun passaggio (salvo in un accenno semi invisibile) che ben due questionari proposti dalla segreteria del Sinodo hanno fatto discutere in tutto il mondo per mesi sulla famiglia una parte consistente del popolo di Dio. Altra cosa particolare: nella Relatio la descrizione del magistero della Chiesa nel tempo parte dal Concilio Vaticano II. Dei diciannove secoli precedenti non si dice niente, forse perché, se si fosse detto qualcosa, ci si sarebbe accorti che la dottrina e la pastorale sono ben variate nel tempo e che quindi i conservatori che parlano di verità immutabili scritte nel Vangelo dovrebbero essere più prudenti.

Tutto ciò premesso, questo Sinodo ha avuto “caratteri conciliari”, ben diversi da quelli del passato quando esso sembrava poco di più un semplice incontro di ecclesiastici che si trovavano per conoscersi e discutere su una traccia già definita e dall’esito lasciato alla completa discrezione del papa. La posta in gioco era quest’anno molto alta; lo confermano i diversi attacchi dei nemici del papa (che si sono rivelati però ininfluenti) e l’attenzione inedita dei media. Possiamo dire che, quale che sia il giudizio che si possa dare su di esso, questo Sinodo ha comunque discusso di questioni che l’area “conciliare” della Chiesa aveva sollevato da tempo e che il sistema ecclesiastico, salvo eccezioni, aveva silenziato per anni.

Dal Sinodo esce molto rafforzata l’autorità di papa Francesco per i seguenti motivi: la sua volontà di percorrere una strada conciliare per la Chiesa (anche se, per ora, con uno strumento del tutto insufficiente) ha avuto successo, gli attacchi dei conservatori non sono serviti a niente e, infine, l’esito delle votazioni e la qualità del documento conclusivo hanno detto che papa Bergoglio non è in minoranza. Ma soprattutto ne esce rafforzata un’idea diversa di Chiesa: meno gerarchica, meno papocentrica, meno occidentale, appunto più sinodale, con tutte le aperture di visione e di comportamenti che questo implica, e che non mancheranno di ampliarsi e di produrre effetti a tutti i livelli, sia nelle gerarchie che nei fedeli.

Le questioni generali che riguardano la famiglia. Nel Sinodo straordinario dell’ottobre 2014 la società in cui “vive” la famiglia quasi non c’era. Ora la situazione è diversa. Già nell’Instrumentum Laboris, e ancora più in questa relazione finale, i problemi sociali con cui ha a che fare il vissuto della generalità delle famiglie, non solo di quelle cristiane, è venuto a galla. Si è usato un metodo induttivo: nella prima parte di questa Relatio invece di esporre i grandi principi e la dottrina si è esaminata la realtà. Da una parte le situazioni esterne: la povertà, il lavoro, la casa, le migrazioni, l’assenza di politiche per la famiglia, l’esclusione sociale, dall’altra le situazioni interne alla famiglia, la terza età, la vedovanza, i disabili, i bambini e l’educazione dei figli, la condizione della donna, i giovani. Non si è parlato solo della coppia e si è cercato di confrontarsi coi rapidi cambiamenti degli ultimi anni ancora in corso. Un tale mutamento di approccio e di sensibilità è in parte effetto e in parte causa della consultazione, voluta da papa Francesco, che è stata fatta coi ben noti questionari, anche se le risposte non sono purtroppo mai state comunicate (se non da qualche conferenza episcopale). Questo approccio ha permesso alla maggioranza dei padri sinodali di non usare moduli preconfezionati ma di attingere alla fonte inesauribile della fede e di scavalcare così la barriera costituita dai principi immutabili che sarebbero contenuti nel Vangelo e che è eretta dai custodi del “sabato” contro l’uomo e di discutere anche a partire dall’incontro di Gesù con l’adultera, con la samaritana, con la straniera.

Un’altra osservazione generale: leggendo la Relatio si ha una dimensione della universalità della Chiesa che non si era avuta l’anno scorso perché si comprendono le tante differenze di situazioni e di costume presenti nell’universo cattolico. A questo proposito sarebbe stato ancora meglio che tutti i singoli interventi fossero stati resi pubblici. E’ aumentata la consapevolezza che le culture sono molto diverse tra di loro e che “ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato: l’inculturazione non indebolisce i valori veri ma dimostra la loro vera forza e la loro autenticità, poiché essi si adattano senza mutarsi, anzi essi trasformano pacificamente a gradualmente le varie culture” (discorso alla fine del Sinodo di papa Francesco).

Divorziati risposati. E’ sostanzialmente prevalsa la così detta soluzione tedesca, anche se con un testo complesso e non immediatamente esplicito, per quello che riguarda l’ammissione all’Eucaristia dei divorziati risposati. Si tratta della scelta di affidare al singolo credente, affiancato da un presbitero, il discernimento e la revisione personale, di “coscienza”, della propria vicenda. E’ quella già praticata da un certo numero di credenti che si trovano in questa condizione, accompagnata spesso dalla guida di preti di cui si ha fiducia e che è stata proposta da molto tempo dai cristiani di base, da illustri teologi come Bernard Häring e, in passato nel ‘93, dai vescovi tedeschi Oskar Saier, Karl Lehmann e Walter Kasper (fu bocciata dal Card. Ratzinger, prefetto dell’ex-S.Uffizio). Essa si appoggia sulla migliore teologia morale che ritiene che ogni atto debba essere eticamente valutato in base alle circostanze concrete in cui esso è avvenuto o avviene, senza però nessuna concessione a forme, dirette o indirette, di lassismo o di comodo soggettivismo. Questa soluzione, come descritta nella Relatio, ha dei limiti. Non è esplicita nel concedere l’ammissione all’Eucaristia del divorziato risposato e si presta ad interpretazioni rigoriste da parte dei nemici di ogni cambiamento, non prevede il suo accoglimento esplicito nella comunità e tantomeno la benedizione delle nuove nozze (come avviene invece da sempre nella tradizione delle chiese ortodosse, come Giovanni Cereti ha ampiamente documentato). Su questo punto in particolare sarà importante la receptio nell’ambito delle chiese locali per evitare discrepanze nei comportamenti da parte dei ministri. In questo senso nell’Esortazione Apostolica che seguirà papa Francesco potrà sottolineare e precisare la scelta sinodale portandola ad ulteriore chiarezza. Che questa soluzione non sia comunque indolore lo prova la forte opposizione che essa ha incontrato. Contro il capoverso 85, che tratta della questione, si è organizzato nel Sinodo il dissenso, che probabilmente riguarda altri aspetti del pontificato di Bergoglio e che su questa questione aveva l’occasione giusta per contarsi.

La testimonianza che la situazione dei divorziati risposati può iniziare a sbloccarsi, in varie forme e procedure, è data anche dal Motu Proprio “ Mitis Iudex Dominus Iesus “ dello scorso agosto che affida ai vescovi competenze in materia di nullità del vincolo. Questo testo non è stato adeguatamente considerato dall’opinione pubblica cattolica nei suoi aspetti positivi; eppure è una decisione molto importante anche perché indica la volontà di decentrare il potere nella Chiesa per realizzare una reale modifica del modo di esercizio del primato di Pietro.

Omosessuali. La moderata apertura della Relatio post disceptazionem del sinodo precedente è finita nel cestino. Nessuna modifica alla linea precedente è passata. Il Card. Schönborn ha detto esplicitamente, in conferenza stampa, che le differenze di posizione erano troppe e che non restava che rimanere fermi. Tutte le elaborazioni e proposte che da anni sono state elaborate dai gruppi di omosessuali credenti e condivise da tanti altri sono state ignorate. La sbrigativa conferma della non equiparazione delle unioni omosessuali col matrimonio dovrà comunque confrontarsi con un’opinione contraria che si va diffondendo ovunque. Potevamo sperare almeno che la coppia omosessuale stabile fosse considerata come positiva (o non negativa) o almeno che si lasciasse, alle situazioni ecclesiastiche locali, la possibilità di un approccio pastorale diverso. Discutibile è anche la chiusura alla possibilità di adozioni da parte di coppie omosessuali. Comunque ci sembra che almeno il problema delle persone omosessuali nella Chiesa ora sia stato posto con molta forza e siamo abbastanza sicuri che esso sarà ancora oggetto di necessaria contraddizione nella vita delle nostre comunità cristiane. Esse si dovranno confrontare con il vissuto di tante sorelle e fratelli, iniziando a praticare per davvero una posizione di completa accoglienza e di attivo intervento contro ogni discriminazione all’interno della Chiesa ed anche all’esterno. Le sorelle e i fratelli omosessuali manterranno la speranza che le cose cambino perché sanno che le parole del Vangelo di accoglienza e di fraternità si faranno strada per modificare le posizioni ufficiali che non sono accettabili. Dove è finito il “Chi sono io per giudicare di papa Francesco?”.

Humanae Vitae. Non pare che si sia discusso molto di questa enciclica e non sappiamo i motivi. Forse per l’imbarazzo di dover riconoscere che essa è ormai di fatto fuori dal magistero credibile ed accettato dal popolo di Dio, almeno nella sua principale prescrizione normativa contraria ai contraccettivi artificiali. Viene citata tre volte (ai paragrafi 43, 50 e 63) ma non nei passaggi contestati. Speriamo che essa venga progressivamente e ufficialmente superata e che il criterio dell’accettazione completa delle sue indicazioni non venga più, come nel recente passato, usato come criterio discriminante per attestare l’ortodossia piena di chi fosse destinato a funzioni magisteriali, per esempio per la nomina a vescovo o per la docenza nelle facoltà teologiche.

Coppie di fatto, matrimonio civile. La Relatio di quest’anno ripete quanto già scritto positivamente in quella del precedente Sinodo. La consultazione di base ha sicuramente confermato e facilitato questo passo in avanti. Al paragrafo 70 si dice esplicitamente che queste situazioni devono essere affrontate in modo costruttivo cercando di trasformarle in opportunità verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo. In tempi relativamente recenti i conviventi more uxorio o sposati solo civilmente venivano definiti “pubblici peccatori” e nei documenti del Concilio non esiste alcun riferimento alle coppie di fatto. Vorremmo ricordare tutto ciò a chi continua a parlare di dottrina e di pastorale immutabili nel tempo e nello spazio.

La donna nella Chiesa. L’analisi della condizione della donna viene descritta, soprattutto nel par.27, con una certa efficacia. Non ha però una sufficiente evidenza in relazione alla sua importanza e alla gravità delle situazioni difficili in cui la donna è coinvolta in gran parte dei paesi del mondo, anche in quelli dove esiste una diffusa presenza della Chiesa. Le riflessioni e le proposte avrebbero potuto essere diverse e più ricche con una presenza diretta al Sinodo di rappresentanti dell’universo femminile, che dovunque sostiene nel mondo, in modo determinante, la vita delle comunità cristiane. Alla fine del paragrafo si auspica “una maggiore valorizzazione delle loro responsabilità nella Chiesa…”. Saranno le solite parole al vento? Anche papa Francesco fino ad ora non ha fatto niente di concreto in questa direzione.

Molte altre questioni importanti. Il Sinodo su altre questioni che sono connesse con la vita della famiglia e che sono di grande rilevanza etica e sociale dice poche parole, confermando la posizione tradizionale della Chiesa; così è per l’aborto (paragrafo 64), per l’utero in affitto e il mercato dei gameti e degli embrioni (par.27), per l’eutanasia e il suicidio assistito (par. 20, questa è una questione che non può essere risolta sbrigativamente). Per quanto riguarda la procreazione assistita il paragrafo 33 descrive la situazione di fronte alla quale la Chiesa “avverte la necessità di dire una parola di verità e di speranza”. A sorpresa non dice niente altro. Forse i padri sinodali non si sentono ancora all’altezza di parlare su questa realtà così difficile e in rapido sviluppo, che incombe sulla famiglia e diciamolo pure – su tutta l’umanità.

Sulla pedofilia (par. 26 e 78) dopo aver detto parole ovvie si dice “Nella Chiesa sia mantenuta la tolleranza zero in questi casi, insieme all’accompagnamento delle famiglie”. Tutto qui. Che significa “sia mantenuta”? Significa che in passato c’era questa tolleranza zero ed ora si tratta solo di continuare a mantenerla? Chi ha scritto questa frase? E la pedofilia del clero con il sistema, ovunque diffuso negli episcopati, di insabbiare in varie forme le denunce a carico del clero? Ma non ci si ricorda della realtà nel mondo e in Italia? Noi avevamo chiesto che il Sinodo fosse l’occasione perché la Chiesa, da parte dei suoi massimi responsabili nel mondo, esprimesse un atto di profondo pentimento per quanto è successo e chiedesse perdono alle vittime e alle loro famiglie. Questo non è successo.

Infine il Sinodo denuncia al par.8 l’esistenza “dell’ideologia del “gender” che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e di donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso e svuota la base antropologica della famiglia”. Siamo d’accordo che alcuni aspetti della cultura della così detta secolarizzazione abbia aspetti negativi. Ma questa questione è tutt’altra cosa. Questa paura del gender ci sembra quasi solamente frutto di una enfatizzazione, da parte di movimenti fondamentalisti, di aspetti del tutto marginali e isolati di alcuni frammenti della cultura femminista e queer. Essi hanno trovato nella campagna contro il fantasma del gender motivo di identità e di scontro contro un non esistente complotto della cultura “radicalgay”, in assenza delle loro precedenti campagne a difesa dei famosi “valori non negoziabili” che non piacciono a papa Francesco (e a noi). Questo passaggio della Relatio sul gender sembra copiata dalla relazione del gruppo Italicus C della prima settimana del sinodo, ispirato dal vertice della Cei, che da mesi non manca di battere su questo punto, contribuendo a creare ansie ingiustificate nei genitori delle nostre scuole e a ingenerare le condizioni per un atteggiamento discriminante nei confronti dei giovani che abbiano tendenze omosessuali.

Il discorso finale di papa Francesco. Consigliamo la lettura integrale del discorso finale, la sera del 24 ottobre, di papa Francesco perché vi emerge, con particolare chiarezza, il punto di vista nuovo con cui egli vuole guidare la Chiesa. Ci ricorda i migliori interventi di papa Giovanni. Ci sono tante gemme: “Il Vangelo rimane per la Chiesa la fonte viva di eterna novità, contro chi vuole ‘indottrinarlo’, in pietre morte da scagliare contro gli altri”, la Chiesa vuole “difendere e diffondere la libertà dei figli di Dio, per trasmettere la Novità cristiana, qualche volta coperta dalla ruggine di un linguaggio arcaico o semplicemente non comprensibile”, “i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito; non le idee ma l’uomo; non le formule ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono”. Le parole di papa Francesco continuano a darci molta speranza per il futuro.

Noi Siamo Chiesa     26 ottobre 2015                                  www.noisiamochiesa.org/?p=4454

 

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