UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUcipem n. 545 –10 maggio 2015
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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Per i numeri precedenti
dal n. 1 (10 gennaio 2004) al n. 526 richiedere a newsucipem@gmail.com
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ADDEBITO Separazione: nessun addebito se la moglie è omosessuale.
AMORE FAMILIARE Decalogo dell’Amore coniugale e familiare.
ASSEGNO DI MANTENIMENTO No a revisione se non sopraggiungono giustificati motivi
Il marito paga il mutuo? Assegno di mantenimento in ribasso.
BIOETICA Bioetica senza inutili allarmismi.
CENTRO italiano di sessuologia Seminario dal titolo “Il sessuologo e la Terapia di coppia”.
CHIESA CATTOLICA La chiesa e i divorziati risposati (mons. Paglia).
CONSULTORI familiari UCIPEM Parma. “Famiglia più” partner.
Rieti. Silva Vari è la nuova presidente.
COPPIA Quando la critica diventa distruttiva.
DALLA NAVATA 6° Domenica di Pasqua – anno B –10 maggio 2015.
DIVORZIO Divorzio fai da te con assegno: consigli pratici.
FORUM Associazioni Familiari Lo stato fa cassa sulle famiglie con figli.
FRANCESCO VESCOVO di Roma Gli sposi si amino con coraggio come Cristo ama la Chiesa.
GENDER Studi di genere. La dottrina è sempre in ritardo.
GENITORI SEPARATI Lombardia. Bando per contributi a coniugi separati.
PARLAMENTO Camera, 2° Comm. Accesso dell’adottato alle proprie origini.
PASTORALE FAMILIARE Fedeli separati: la diocesi di Milano li accoglie.
PROCREAZIONE ARTIFICIALE Ricerca e tenacia battono la selezione pre-impianto.
SINODO SULLA FAMIGLIA Il dibattito langue, ma qualcosa si muove.
Svizzera, seimila partecipanti alle consultazioni pre-Sinodo.
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ADDEBITO
Separazione: nessun addebito se la moglie è omosessuale.
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 8713, 29 aprile 2015.
L’eventuale omosessualità del coniuge non è una buona ragione per addebitare la separazione, costituendo anzi un motivo in più di intollerabilità della convivenza. Lo ha stabilito la Cassazione, rigettando il ricorso di un uomo che si opponeva al pagamento dell’assegno di mantenimento nei confronti dell’ex moglie invocando l’addebito della separazione per la violazione dei doveri coniugali, in quanto la stessa, stanca di “comportarsi da moglie fedele e da madre” aveva abbandonato il tetto coniugale, preferendo “accompagnarsi con altre donne con cui intratteneva relazioni omosessuali”.
Forte della decisione del giudice di prime cure che gli aveva dato ragione, l’uomo ricorreva in Cassazione impugnando la sentenza della corte d’appello che aveva invece escluso l’addebito nei confronti della signora e disposto l’assegno di mantenimento a carico del marito in quanto la stessa era una domestica “in nero”, priva di redditi adeguati.
Ma la Cassazione ha confermato la decisione della corte territoriale, ricordando preliminarmente che con la riforma del diritto di famiglia del 1975 la separazione è stata svincolata dal presupposto di colpa di uno dei coniugi, essendo consentita invece, tutte le volte che si verificano “anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza”. Per cui, riaffermando che il diritto alla separazione è fondato su fatti che nella coscienza sociale e nella comune percezione rendano intollerabile proseguimento della vita coniugale, la S.C. ha ribadito che, nella doverosa visione evolutiva del matrimonio, la frattura può dipendere “dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale anche di uno solo dei due coniugi”.
E dunque, laddove tale situazione si verifichi, costituisce esercizio di un diritto e non può certo costituire ragione di addebito.
Tornando al caso di specie, quindi il Palazzaccio ha ritenuto ampiamente motivato l’accertamento della situazione di intollerabilità della convivenza per la moglie da parte della corte territoriale, provata anche dalla profonda depressione che aveva condotto la donna addirittura a tentare il suicidio.
Quanto all’asserita omosessualità, infine, hanno deciso i giudici di legittimità, anche quand’anche rispondesse al vero, non sposterebbe di una virgola i termini della questione, “attesa la ancor maggiore evidenza dell’intollerabilità della convivenza matrimoniale per una persona omosessuale”.
Marina Crisafi studio Cataldi 30 aprile 2015
www.studiocataldi.it/articoli/18234-separazione-nessun-addebito-se-la-moglie-e-omosessuale.asp
www.divorzista.org/sentenza.php?id=10015
http://www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_18234_1.pdf
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AMORE FAMILIARE
Decalogo dell’Amore coniugale e familiare.
Questo decalogo, che ho scritto anni fa insieme ad alcune coppie e che ha aiutato tante di esse a verificarsi sull’amore e a viverne i colori, meravigliosi e talvolta difficili, potrà servire anche a te/a voi due come semplice guida a fare un esame di coscienza, che spero sia opportuno e proficuo. Te/ve lo offro come un mio piccolo dono d’amore:
1. Rispetta la persona dell’altro come mistero
2. Sforzati di capire le ragioni dell’altro
3. Prendi sempre l’iniziativa di perdonare e di donare
4. Sii trasparente con l’altro e ringraziala/o della sua trasparenza con te
5. Ascolta sempre l’altro, senza trovare alibi per chiuderti o evadere da lui/lei
6. Rispetta i figli come persone libere
7. Da’ ai tuoi figli ragioni di vita e di speranza, insieme al tuo sposo/ alla tua sposa
8. Lasciati mettere in discussione dalle attese dei figli e sappi discuterne con loro
9. Chiedi ogni giorno a Dio un amore più grande
10. Sforzati di essere per l’altro e per i figli dono e testimonianza di Lui
Il Signore porti a compimento l’opera bella che ha iniziato in te/in voi..
Bruno Forte, teologo, arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto, segretario speciale della III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi.
tratto da “I colori dell’amore. Il matrimonio e la bellezza di Dio” (Edizioni San Paolo)]
vedi pure www.zenit.org/it/articles/i-colori-dell-amore-il-matrimonio-e-la-bellezza-di-dio ▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ASSEGNO DI MANTENIMENTO
No alla revisione delle condizioni economiche di separazione se non sopraggiungono giustificati motivi
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 8839, 30 aprile 2015.
La modifica delle condizioni economiche stabilite in un accordo di separazione consensuale sono possibili solo se sopravvengono giustificati motivi senza i quali la domanda di revisione non può essere accolta. È quanto stabilisce una sentenza della Corte di Cassazione rimarcando come nel caso in esame: i giudici di merito, non solo hanno revocato l’obbligo di contribuzione senza accertare il sopravvenire di fatti nuovi ma hanno addirittura escluso che vi fosse stato un peggioramento delle condizioni economiche come indicato nella domanda di revisione.
Secondo gli ermellini, inoltre, la Corte d’appello è incorsa nel giudizio di extrapetizione, avendo in sostanza “provveduto su un oggetto – la sussistenza in concreto dei presupposti dell’obbligo di versamento del contributo alle spese di abitazione, che è cosa diversa dalla revoca del medesimo – estraneo al giudizio di revisione di cui agli articoli 156, ultimo comma, codice civile e 710 e 711, ultimo comma, codice di procedura civile. Nella fattispecie la corte d’appello di Bologna aveva “rivisitato” l’accordo che coniugi avevano preso in sede di separazione revocando l’obbligo dell’ex marito di versare un contributo alla ex consorte per far fronte alle spese di affitto.
Ma per la Cassazione la corte d’appello non poteva accogliere una domanda di revisione senza aver prima accertato se fossero sopravvenuti fatti giustificativi di un nuovo assetto dei rapporti patrimoniali.
www.studiocataldi.it/articoli/18259-cassazione–no-alla-revisione-delle-condizioni-economiche-di-separazione-se-non-sopraggiungono-giustificati-motivi.asp
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_18259_1.pdf
Il marito paga il mutuo? Assegno di mantenimento in ribasso.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 7053, 8 aprile 2015.
In materia di separazione dei coniugi, nel fissare il mantenimento in favore della moglie, il giudice deve tenere in considerazione il fatto (se ricorrente) che il marito si sia accollato l’intero mutuo sulla casa in comproprietà.
Giuseppe Buffone Il Caso.it, n. 12546 – 06maggio 2015
www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fam.php?id_cont=12546.php
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BIOETICA
Bioetica senza inutili allarmismi.
I biologi molecolari fanno cose sempre più “fantascientifiche” manipolando le molecole, ma non riescono a imparare niente sulla natura umana. Come in una divertente e storica vignetta dove la caricatura di un biologo molecolare diceva: «Ho sequenziato il genoma umano ma non capisco le donne». Ovvero credono (sì, credono) i biologi molecolari e affini che società, opinione pubblica, etc. – che sono poi astrazioni – siano in ascolto religioso delle loro istanze e apprezzino il loro senso di responsabilità, quando essi dicono che certe cose è meglio non farle perché c’è qualche rischio, o perché si superano dei confini etici, etc. Non è così. La società/opinione pubblica è fatta di esemplari della specie umana che sappiamo abbastanza bene come reagiscono a questi annunci: i neuroscienziati cognitivi hanno fatto centinaia di esperimenti, alcuni dei quali non meno credibili di quelli che fanno i biologi molecolari, da cui risulta che la comunicazione da parte degli scienziati su questioni controverse è normalmente fraintesa, cioè influenzata da intuizioni ed emozioni poco pertinenti al caso in questione.
Nella recente vicenda che ha visto un gruppo di ricercatori cinesi applicare al Dna di embrioni umani, partendo dalla cellula fertilizzata, una nuova tecnologia che consente di riscrivere e quindi correggere l’informazione genetica, si è scatenata una mezza tempesta. Da qualche tempo, cioè da quando si era visto che questa tecnica è molto efficiente sulle cellule somatiche e su embrioni di topo, si era capito che presto si sarebbe passati all’uomo. Ma i cambiamenti che essa consente di introdurre negli embrioni umani diventano ereditari, cioè passerebbero alle future generazioni. E così un gruppo di biologi molecolari storici, alcuni dei quali avevano firmato già la moratoria sul Dna ricombinante quarant’anni fa, ha chiesto un’altra moratoria, oggi su questo nuova tecnica chiamata CRISPR/Cas9. Non si sono ricordati o non hanno imparato che l’allarme lanciato sul Dna ricombinante fu una delle cause per cui montò una sorta di panico pubblico verso l’ingegneria genetica. Panico che in paesi culturalmente arretrati come l’Italia ancora paghiamo sotto forme di divieto per la ricerca e la coltivazione di ogm vegetali.
Ora, i cinesi hanno bellamente ignorato l’invito alla moratoria e hanno provato la tecnica su 86 embrioni umani portatori di βtalassemia, rimasti dopo fertilizzazioni che li rendevano non impiantabili.
Hanno fatto qualcosa di male? È vero che Science e Nature non hanno pubblicato i risultati dell’esperimento per motivi etici? Abbiamo scoperto che l’etica pubblica e quella medica in Cina sono diverse rispetto a quelle occidentali? Vogliamo ripetere gli psicodrammi vissuti con la nascita della prima bambina in provetta (1978) e di Dolly (1996), che non hanno fine provocato alcuna tragedia per l’umanità? Che cosa si potrebbe credibilmente fare di male o di bene con questa tecnica, sul piano di cambiamenti genetici che passerebbero alle future generazioni?
L’esperimento non è stato neppure inutile perché si è visto che l’efficienza dell’intervento è ancora molto bassa e che la tecnica introduce nuove mutazioni. Insomma è molto rischioso, quindi sarebbe criminale usarla su embrioni umani e non si deve consentire alcuna sperimentazione che lasci sviluppare gli embrioni sui quali sia stata applicata. Nel mondo liberale e democratico è molto facile da farsi. Invece di chiedere moratorie generiche basterebbe mettere poche e chiare regole, che consentano comunque di proseguire la ricerca di base, perché solo studiando i limiti e le potenzialità di questo nuovo sistema di intervento biochimico sul genoma nei laboratori occidentali si riuscirà in qualche modo a dissuadere gli avventurieri dall’abusarne
Gilberto Corbellini, filosofo e epistemologo il sole 24ore 3 maggio2015
www.scienzaevita.org/rassegne/0413a6da67f0d00d4367748140363ec6.PDF
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CENTRO ITALIANO DI SESSUOLOGIA
Seminario dal titolo “Il sessuologo e la Terapia di coppia”.
Patrocinato dal CIS, terrà ad Ancona il prossimo 29 maggio 2015, il Seminario “Il sessuologo e la terapia di coppia”.
Hotel Europa – Torrette Ancona, Via Sentino ore 9-12.
Spesso, fra i vari professionisti che operano nel campo della salute, si pensa di inviare le coppie con problemi sessuali e relazionali al terapeuta sessuologo per una terapia di coppia, ma a volte senza conoscere esattamente in cosa consista questo percorso. Questo Seminario si prefigge lo scopo di fornire informazioni sull’argomento, basate sulla ricerca scientifica e la pratica clinica. Si tratta di un Seminario breve, aperto a tutti gli operatori che lavorano nel campo della salute e del benessere e alle persone interessate all’argomento.
Relatori:
Dr Giuliana Proietti psicoterapeuta sessuologa
Terapie di Coppia e Terapie Sessuali
Dr Walter La Gatta psicoterapeuta sessuologo Referente CIS Marche Abruzzo
Casi clinici: Marco e Elisa: Un matrimonio bianco, Giovanni e Paola: Un caso di ipersessualità
Prenotazione obbligatoria entro il 25 maggio-2015 prenotazioni@psicolinea.it
www.cisonline.net/images/sampledata/convegni/seminario_terapia_coppia_maggio_2015_ok.jpg
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CHIESA CATTOLICA
La chiesa e i divorziati risposati; qualche riflessione.
Intervento in forma di dialogo
Durante il Sinodo i Padri sinodali si sono confrontati ampiamente su tale questione tra chi poneva l’accento più sulla misericordia e la carità e quanti ribadivano la disciplina attuale. Ambedue le parti non hanno minimamente messo in dubbio la dottrina della indissolubilità, come il Papa stesso ha ribadito. Il problema verteva sulla possibilità o meno di ammettere, in alcuni casi e in determinate condizioni, i divorziati risposati ai sacramenti. La maggioranza – sebbene non qualificata, ossia dei due terzi – ha ritenuto opportuno che si continuasse a riflettere evitando «soluzioni uniche o ispirate alla logica del “tutto o niente”». A che punto è il dibattito?
Credo sia importante procedere per gradi in una materia così complessa. La prima cosa che vorrei far notare è il cambio di atteggiamento avvenuto nella Chiesa, da alcuni decenni a questa parte, nei confronti delle persone credenti divorziate e risposate. Fino a qualche decennio fa, questi fedeli erano considerati «ipso facto infames» (CJC 1917, can. 2356). Non erano soltanto esclusi dal sacramento della Confessione e dell’Eucarestia, ma erano anche indicati pubblicamente come spregevoli: «publice indigni» (can. 855 § 1) senza distinzione. Il Codice di Diritto Canonico del 1983 si esprime con toni più blandi. E successivamente il magistero, a diversi livelli, descrive la loro situazione come di credenti che appartengono alla Chiesa anche se non in piena comunione: «il coniuge risposato si trova in una condizione di adulterio pubblico e permanente», ma la comunità cristiana deve «astenersi» dal giudicare l’intimo della loro coscienza, dove solo Dio vede e giudica. Non si tratta solamente di un cambio di linguaggio ma, appunto, di atteggiamento pastorale certamente molto più inclusivo rispetto al passato.
È senza dubbio un cambiamento non indifferente. E questo richiede un effettivo e concreto mutamento nel rapporto della comunità cristiana nei confronti di queste persone.
Tale nuovo atteggiamento dovrebbe coinvolgere tutti i membri della comunità cristiana. Purtroppo spesso non accade. Peraltro c’è anche una notevole dose di ignoranza, talora anche presso il clero. Ci sono, ad esempio, sacerdoti che non danno la Comunione neppure a quei fedeli, divorziati, ma che non si sono uniti ad un’altra persona. Con questo atteggiamento contraddicono la prassi della Chiesa e soprattutto pongono sulle spalle di questi fedeli, già gravati dalla fatica di un fallimento, un peso che non debbono affatto sostenere. La Relazione sinodale interviene esplicitamente a tale proposito, per allontanare definitivamente tale ingiustificato e crudele abuso. Un arcivescovo di una grande città europea mi raccontava qualche tempo fa che, recatosi a confessare in un noto santuario mariano della città, riceve la confessione di una donna – docente universitaria, separata dal marito e con due figli, ma non risposata -, che da 27 anni si reca mensilmente in pellegrinaggio al santuario e il sacerdote non le permette di fare la comunione perché separata. Credo ovviamente che quel sacerdote fosse in buona coscienza. Questo mostra l’urgenza e l’ampiezza di lavoro da fare in questo campo.
La questione che noi stiamo affrontando è diversa: si tratta di quei fedeli che dopo aver divorziato si sono risposati. Ebbene? esorta unanimemente il magistero contemporaneo? tutti dobbiamo avere un atteggiamento di accoglienza verso costoro. Tra l’altro dobbiamo tutti essere consapevoli della sofferenza che molti di loro e dei loro familiari stanno vivendo. Non pochi tra loro hanno subito ingiustizie e molti sono poco responsabili di quanto accaduto. Credo, inoltre, che sia opportuno evitare di creare la categoria dei «divorziati risposati», come se ci trovassimo davanti a uno scaffale di casi uguali. In verità, le storie sono l’una diversa dall’altra, ciascuna con le sue tonalità e i suoi dolori. Lo sanno bene gli operatori pastorali che in molte diocesi hanno da tempo posto un’attenzione particolare a queste situazioni. E non sono pochi i frutti che raccolgono, proprio perché si avvicinano con cura ad ogni situazione.
Credo che questo sia il primo e più urgente compito: accogliere con amore queste persone. Non semplicemente per pietismo. Esse fanno parte della Chiesa e quindi vanno amate e sostenute con spirito di fraternità. In tale contesto vorrei spendere almeno una parola – ce ne vorrebbero molte di più – in favore di coloro che, pur essendo stati abbandonati dal coniuge, non hanno intrapreso una nuova unione e restano fedeli alla prima unione che giustamente ritengono indissolubile, al di là dell’abbandono del coniuge. Si tratta di credenti il cui esempio invita tutti a riflettere. È una straordinaria testimonianza di fedeltà alla indissolubilità del matrimonio. È però vero che non tutti riescono a vivere in questo modo. Anzi, il numero dei divorziati risposati è cresciuto in maniera esponenziale. E la Chiesa, che è madre, non può non farsene carico. E il primo modo da mettere in atto è cercare di accoglierli e renderli partecipi della vita della comunità.
Senza dubbio è un grande progresso pastorale essere passati dall’accusa di pubblici peccatori, al dire che anch’essi fanno parte della comunità ecclesiale. Non le pare però che sia importante anche esaminare la questione dell’accesso ai sacramenti? Del resto, già nella disciplina attuale si prevede tale possibilità, se si rispettano alcune condizioni.
In effetti, la disciplina attuale prevede che i divorziati risposati possano accedere alla Confessione e all’Eucarestia ma solo alle seguenti condizioni: se in coscienza essi si impegnano a vivere senza avere rapporti sessuali («come fratello e sorella»), e facendo attenzione a non creare confusione nei fedeli che non sanno della loro scelta interiore; insomma, di nascosto. Credo che sarebbe opportuno, intanto, abolire l’esortazione a vivere «come fratello e sorella». Se infatti si ammette che questi fedeli possono continuare la loro unione di tipo familiare, sebbene con l’impegno all’astinenza dal rapporto strettamente coniugale, si deve lasciare loro almeno una ragionevole possibilità di «tenerezza reciproca» che non sia identica a quella di fratelli o amici. Del resto, i figli – ignari – ne hanno bisogno.
È però di non poco conto il fatto che la Chiesa ritenga che tale unione, sebbene irregolare, possa (anzi, in alcuni casi, debba) permanere per evitare ingiustizie peggiori. E si esortano questi fedeli, proprio perché sono membri della Chiesa, a partecipare attivamente alla sua vita: dalla frequenza alla Santa Messa all’ascolto della Parola di Dio, dalle pratiche di pietà alla vita di carità, e così oltre. Non possono però esercitare alcune responsabilità ecclesiali: il lettore, il ministro straordinario della Comunione, l’ufficio di catechista, il padrino o la madrina, essere membri del Consiglio Pastorale. E questo perché tali ruoli comportano un aspetto di esemplarità che non si accorda con la loro situazione oggettivamente irregolare.
Benedetto XVI, consapevole dei problemi aperti che lascia l’attuale disciplina canonica, ha continuato fino alla fine del suo pontificato a sottolineare che il problema è «spinoso e complesso», che è «doloroso, e che non possediamo la ricetta semplice che lo risolva», «anche perché le situazioni sono sempre diverse». Da cardinale, a chi gli sottoponeva casi complessi, rispondeva che il Codice di Diritto Canonico non può contemplare tutti i casi. Papa Francesco fa capire che non si può dire a queste persone di essere parte della Chiesa e poi trattarle praticamente come scomunicate! Insomma, c’è materia per riflettere e per andare avanti alla ricerca di qualche ipotesi per aiutare questi fedeli a vivere il Battesimo che hanno ricevuto e che li incorpora a Cristo facendoli membri della Chiesa. Essi non sono affatto «scomunicati», ma resi «figli di Dio». Andrebbe approfondita la teologia del Battesimo anche in questo contesto.
Nella «Relatio Synodi» si recepisce l’esortazione dei Padri sinodali a riflettere «sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia». Che ne pensa?
Il testo della «Relazione finale» del Sinodo recepisce il parere della maggioranza (sebbene non dei due terzi) dei vescovi presenti ad approfondire tale questione. E aggiunge: «L’eventuale accesso ai sacramenti dovrebbe essere preceduto da un cammino penitenziale sotto la responsabilità del Vescovo diocesano. Va ancora approfondita la questione, tenendo ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti, dato che “l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate” da diversi “fattori psichici oppure sociali” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735)». Sono parole che esortano con decisione ad andare avanti nella ricerca delle possibili piste di soluzione. Nella vita della Chiesa ci sono sempre stati – e sempre ci saranno – passi in avanti che hanno comportato dei cambiamenti nella prassi pastorale, e anche sviluppi della dottrina. La Chiesa è viva e la sua fede vive. È avvenuto così, ad esempio, per la libertà religiosa al tempo del concilio Vaticano II, oppure per la dottrina sociale circa la proprietà privata, come pure nel campo della morale sessuale nel caso del concetto di fine primario e secondario del matrimonio.
San Giovanni XXIII, con grande sapienza pastorale, a chi lo criticava per le sue aperture, diceva: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio». Sono convinto che anche per la questione che stiamo trattando si debba procedere in tale prospettiva, ossia comprendere la dottrina in maniera più profonda: non per assecondare il cedimento a un’attitudine lassista nei confronti dello spirito mondano, ma per illuminare l’azione pastorale in modo coerente con il senso della fede. Il pastore autentico, nella Chiesa, aiuta i fedeli – anche i dispersi – a confidare nel Signore: incoraggiando il riconoscimento delle colpe, ma anche sostenendo il cammino di conversione.
Quali sono i punti fermi della dottrina della Chiesa che anche al Sinodo nessuno ha messo in questione, pur in presenza di proposte innovative che hanno suscitato la resistenza da parte di diversi Padri sinodali?
Il primo punto fermo è l’indissolubilità del matrimonio. Tale dottrina va presa sul serio. Il Nuovo Testamento ne parla cinque volte: 1Cor 7,10-16; Mt 5,31-32; Mt 19,3-12; Mc 10,1-2; Lc 16,18. E san Paolo lo dice chiaramente: «agli sposati, poi, ordino, non io ma il Signore: la moglie non si separi dal marito… e il marito non ripudi la moglie» (1Cor 7,12). Non c’è dubbio che ci troviamo davanti a delle parole tra le più originali del Nuovo Testamento. John P. Meier, il noto studioso del Gesù storico, afferma che tale interdetto evangelico è senza dubbio tra le parole più certe di Gesù. Per un battezzato non ci può essere altro matrimonio valido che quello sacramentale. La Chiesa, quindi, non può celebrare un secondo matrimonio né pensare ad ambigue benedizioni di una nuova unione. Essa ha davanti a sé una serie di doveri che le provengono dal suo Signore. La legislazione canonica prevede, quando l’unione è impossibile che continui, la separazione dei due coniugi, ma non che essi possano risposarsi con altri.
C’è poi un secondo punto, non meno importante, ossia la missione della Chiesa di «salvare le anime». Lo afferma il Codice di Diritto Canonico nel suo ultimo canone, come a dare la chiave di lettura dell’intero impianto disciplinare. Credo sia importante sottolinearlo. La grave responsabilità della salvezza delle anime – non dimentichiamo la grave affermazione di Gesù nel descrive la volontà di Dio: “che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato”(Gv 6,39) – ha portato la Chiesa, nel corso della sua storia, a prendere misure importanti nella prospettiva della salvezza come, ad esempio, quando riammise nella comunione della Chiesa coloro che avevano rinnegato la fede (i cosiddetti lapsi), o anche quando permette l’accesso alla Comunione anche se si è in stato di peccato ma ci si impegna a confessarsi appena possibile, ed anche a battezzare i bambini nella fede della Chiesa.
Tenuti saldi questi due punti, questi due pilastri, come aiutare quei fedeli divorziati risposati che non possono tornare indietro? Quali cammini si possono aprire all’interno della comunità ecclesiale? Come conciliare verità e misericordia, senza creare confusioni e smarrimenti all’interno del «popolo di Dio»?
La Chiesa non può proporre scelte alternative al messaggio evangelico e neppure può stabilire un diritto per casi singoli appellandosi a una generica misericordia che aprirebbe la strada a forme di sregolato soggettivismo. Peraltro, non si deve svilire il valore del sacramento del matrimonio, soprattutto in questo tempo. Si recherebbe un danno alla stessa società che è già spinta da una cultura ostile alla famiglia a indebolire ogni legame matrimoniale saldo. È però evidente che il testo sinodale suggerisce di fare un passo in avanti rispetto a come la Chiesa fino ad oggi ha tenuto insieme la verità e la misericordia. Non si tratta di negare la tradizione ma, nella fedeltà, di aprirla a ulteriori sviluppi.
L’ho appena accennato, è accaduto altre volte sia nel terreno della teologia che della morale. Una comprensione maggiore del contenuto della dottrina è parte integrante della tradizione stessa. La Tradizione infatti non è un monolite inerte. Semmai è piuttosto come un talento che bisogna far fruttare; un suo pigro possesso rischia di renderci simili a quel servo che, per paura non certo per amore o per zelo, lo nasconde sottoterra impedendone così l’augurabile sviluppo. Come si può pensare di bloccare una vita che deve crescere e allargarsi? Mi pare che nel dibattito sinodale è emersa un chiara linea di marcia: evitate sia la chiusura totale che l’apertura indiscriminata. Non si tratta quindi di individuare una soluzione generale comune per tutti i divorziati risposati, la cui condizione rimane incoerente con il Vangelo. Ma di tener presente che la Chiesa è chiamata dal suo Signore stesso alla salus animarum, e non solo dei fedeli a pieno titolo, ma di tutti e quindi ad accompagnare con pazienza e con amore chi chiede un sostegno sulla via della salvezza. La tradizione spirituale, peraltro, sa bene che Chiesa ed Eucarestia si compenetrano e che appartenenza ecclesiale e comunione eucaristica possono essere separate provvisoriamente ma non per sempre. E si deve tener presente quanto papa Francesco afferma nella Evangelii Gaudium: “L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia”(47).
Insomma, mi pare che a suo parere la Relazione finale del Sinodo esorti ad una audacia nella ricerca, anche perché se tale situazione permane irrisolta si rischia una certa schizofrenia spirituale e pastorale.
È indubbio che nella disciplina attuale della Chiesa emergono non poche aporie, che reclamano una riflessione più attenta e una pastorale più adeguata. Accenno ad alcune di queste anomalie. È proprio lineare, ad esempio, affermare che la vita cristiana ruota attorno alla centralità della celebrazione dei sacramenti e poi ridimensionarne l’importanza suggerendo che i divorziati possono pur sempre fare la comunione spirituale? E ancora: è possibile «appartenere alla comunità» essendo stabilmente esclusi dall’Eucarestia e dalla Penitenza? E qual è il valore di queste parole di Gesù per i divorziati risposati: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53)? Come comporre la saldezza di queste parole di Gesù con quelle della Chiesa che essi sono comunque parte della comunità cristiana? Non è un’anomalia vietare a questi fedeli (ovviamente a coloro che lo desiderano e che sono preparati) di fare i catechisti se poi sono invitati a educare cristianamente i figli?
Nel testo sinodale si parla esplicitamente di un cammino penitenziale per far accedere i divorziati risposati alla Penitenza e all’Eucarestia, sul modello delle Chiese orientali o delle prime comunità cristiane. In che cosa consiste, concretamente, questo cammino o via penitenziale? Come si attuerebbe nella Chiesa?
È senza dubbio una pista da percorrere e da approfondire. Con un apposito gruppo di teologi, giuristi ed esperti di pastorale, è da alcuni mesi che stiamo studiando tale prospettiva. E presto offriremo a tutti le conclusioni della ricerca. Intanto, si può dire che la ipotizzata «via penitenziale» è da attuarsi, in ogni modo, per casi particolari e dentro un serio percorso di vita cristiana. Quindi non per tutti e in maniera indiscriminata, anche se questo sembra suggerire l’attesa da parte della stampa. E comunque parlerei meglio di una via discretionis, ossia di un percorso di discernimento che comporta anche un cammino penitenziale. Tale via deve avere un carattere «pubblico», ossia accompagnata dal vescovo o da chi da lui incaricato. Questo mi pare un passaggio decisivo, perché va evitato ogni soggettivismo. All’interno di questo quadro si potranno valutare le intenzioni della coppia e le motivazioni che li hanno portato a chiedere di accedere a tale percorso. In ogni caso è indispensabile – come ho accennato sopra – che la coppia divorziata e risposata che si presenta sia avviata alla integrazione nella vita della comunità. E, all’interno di questa nuova vita, verrà accompagnata in un cammino di verità per riconoscere eventuali colpe legate al matrimonio che si è infranto. Il percorso avrà dei tratti penitenziali nel caso emergano colpe personali evidenti. Se si tratta del coniuge innocente, il percorso dovrà prevedere un cammino che porti al perdono e a un’autentica riconciliazione con un passato carico di ferite. Porto solo alcuni brevi cenni. Ma una cosa è chiara: non si tratta di trovare una regoletta che possa dispensarci dalla grave responsabilità di farci carico di situazioni umane e spirituali spesso drammatiche e non sempre facilmente risolvibili.
Quali altre considerazioni si possono fare per evitare che passi nella mente della gente il concetto di una «misericordia a buon mercato», priva di un serio impegno da parte dei singoli fedeli?
Tale itinerario di discernimento deve essere molto serio. È importante, ad esempio, che si comprendano bene i motivi che hanno portato al fallimento del matrimonio e prendere coscienza di aver tradito un comando del Signore. Solo allora è possibile riconciliarsi con questo passato fino al perdono. È indispensabile in tale itinerario l’accompagnamento del vescovo o di chi lui incarica. È ovvio che circa il valore da attribuire alla seconda unione, non è possibile parlare di sacramento perché il sacramento rimane quello che purtroppo è stato infranto, sapendo bene comunque che indissolubilità non significa incorruttibilità, nel senso di infallibilità metafisica del risultato, ovvero di impossibilità fisica del fallimento. La storia del fallimento, tuttavia, può anche aprirsi, di fatto, all’attuazione di un legame di mutuo aiuto e di cura della prole che, per quanto irregolare, esibisce contenuti di valore umano e anche di impegno spirituale che la stessa Familiaris consortio ritiene degni di essere custoditi, per evitare danni peggiori.
In questi ultimi decenni, a livello teologico, non sono mancate diverse ipotesi di soluzione al problema dei divorziati risposati e il loro accesso ai sacramenti. Quale di essa le sembra la più idonea?
C’è una riflessione previa e riguarda il rapporto tra la fede dei coniugi e la celebrazione del matrimonio. La questione è stata posta dall’allora cardinale Ratzinger quando esortò ad affrontarla senza indugi: «Merita un ulteriore approfondimento la questione se cristiani credenti ? battezzati, che non hanno mai creduto o non credono più in Dio – possano veramente contrarre un matrimonio sacramento». Con questa affermazione Ratzinger metteva in discussione la prassi che distingueva un matrimonio valido da un matrimonio fruttuoso. La disciplina attuale ritiene che quando due battezzati credono nel valore della fedeltà, indissolubilità, fecondità e intendono fare quello che la Chiesa crede celebrando il matrimonio, celebrano un sacramento valido. La fruttuosità potrà venire nel tempo grazie alla maturazione di una fede e a una consapevolezza esplicita, come di fatto spesso accade. Diventato papa, Ratzinger continuerà a riflettere su tale tema. Poche settimane prima delle dimissioni, parlando agli Uditori rotali, disse: «Se è importante non confondere il problema dell’intenzione (di fare ciò che intende la Chiesa) con quello delle fede personale dei contraenti, non è tuttavia possibile separarli totalmente».
E, citando Giovanni Paolo II, afferma: «Un atteggiamento dei nubendi che non tenga conto della dimensione soprannaturale nel matrimonio può renderlo nullo solo se ne intacca la validità sul piano naturale nel quale è posto lo stesso segno sacramentale». Alla luce di questa affermazione papa Benedetto sviluppa una riflessione molto lucida, chiedendosi se senza un’apertura a Dio sia possibile vivere le esigenze dello stesso matrimonio sia naturale, sia sacramentale. E conclude: «Non si deve, quindi, prescindere dalla considerazione che possano darsi dei casi nei quali, proprio per l’assenza di fede, il bene dei coniugi risulti compromesso e cioè escluso dal consenso stesso». Sono parole precise che invitano a percorrere ancora il cammino della ricerca. Ma siamo ancora all’interno della questione circa la validità o meno del sacramento celebrato.
C’è poi l’ipotesi della via discretionis. Tale ipotesi si muove tra due pilastri irrinunciabili: da una parte quello della indissolubilità dell’unico matrimonio sacramentalmente valido in cui la Chiesa si attua e si riconosce pienamente, e dall’altra quello della responsabilità della Chiesa per la salvezza dei suoi figli che il Signore ha acquistato a prezzo del suo sangue. Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa è soprattutto amministratrice e dispensatrice di questa grazia, e non padrona della fede che Dio dona (2 Cor 1, 24). Questi due pilastri debbono restare saldi per sostenere l’arcata del ponte. In tale contesto è possibile individuare le condizioni per porre un atto ecclesiale, eccezionale e non arbitrario, per coloro che, riconosciuta la loro colpa di aver rotto l’unione e di stare in una situazione irregolare, ma che è ormai irreversibile, mostrano tuttavia la sincera volontà di comprendere le ragioni della Chiesa e intendono custodire la loro fede in Gesù Cristo.
Si tratta di un atto ecclesiale che non deve essere né un secondo rito matrimoniale, né una benedizione più o meno equivalente. Tale atto ecclesiale dovrebbe essere una specie di simbolico «Giubileo» annuale della grazia gratis data, che il vescovo concede – non in maniera automatica – a quei fedeli divorziati risposati che lo chiedono per sostenere la penitenza necessaria e incoraggiare l’appartenenza possibile. È ovvio che rimangono i limiti di una loro appartenenza ecclesiale e che in qualche modo la Chiesa deve evidenziare. Ma, in coerenza con il precetto solenne che la Chiesa prescrive per tutti, si potrebbe concedere loro di accostarsi alla Penitenza e alla Comunione sacramentale «almeno una volta all’anno» nella Pasqua, secondo la prassi del Giubileo cristiano.
Il cammino di conversione di questi fedeli che chiedono di progredire nella sequela di Gesù non sarebbe un processo automatico, ma appunto un itinerario di conversione che il vescovo stesso – o chi da lui autorizzato- dovrebbe stabilire magari concedendo tale grazia, ad esempio, anche alla celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana dei figli. Questo atto simbolico dovrebbe spingere a riorganizzare l’intera disciplina sacramentale e penitenziale anche in rapporto ad altri peccati «infamanti» (aborto e omicidio, sistematica frode agli operai, pratica abituale di violenza familiare, pratica mafiosa…) che si oppongono ad una degna recezione della Comunione. Questo aspetto della pastorale è del tutto disatteso e mi pare davvero incongrua la durezza in un caso e un vero e proprio lassismo nell’altro.
Vorrei inoltre sottolineare che nella ipotesi proposta è la Chiesa che compie il primo passo verso questi fratelli e sorelle, ricordando le parole di sant’Ambrogio: «Come può chi patisce la fame nella sua anima pregare Dio con vero impegno, se dispera di ottenere il sacro cibo?». La Chiesa, come il Buon Samaritano, prende sulle proprie spalle questi fedeli che fanno fatica a camminare, chiedendo loro di fidarsi e di riflettere sulla loro condizione, affidandosi alla maternità della Chiesa. Quanto può durare il cammino tra questo primo passo e la «locanda» ove ci si può rimettere pienamente in salute, solo il Signore lo conosce. Ma questo ci basti. Non possiamo però lasciare questi fedeli appesi ad una norma che per sua natura resta astratta. E neppure è saggio ribadire una norma e magari lasciar correre soluzioni «nascoste».
Mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia.
convegno della diocesi di Orléans “Familles: fragilités et espérance” 18 aprile 2015.
www.vincenzopaglia.it/index.php/la-chiesa-e-i-divorziati-risposati-qualche-riflessione.html
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Parma. “Famiglia più” partner
La nostra Associazione (che compie quest’anno i 25 anni di vita) è stata scelta come partner da Conad in occasione della tappa parmigiana del tour “Il grande viaggio”, il 9 maggio.
Tema della serata sarà La famiglia con un intervento di Margherita Campanini, presidente dell’Associazione Famiglia più che gestisce il consultorio familiare.
http://www.famigliapiu.it/
Rieti. Silva Vari è la nuova presidente.
All’assemblea dei soci svoltasi presso la sede di piazza san Rufo, al presidente uscente professor Massimo Casciani è succeduta la dottoressa Silvia Vari, affiancata dal dottor Paolo Di benedetto quale vice e dalla coordinatrice dottoressa Anna Pescetelli.
www.consultoriosabino.org
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COPPIA
Coppia, quando la critica diventa distruttiva.
La lite fa parte del rapporto di coppia e il modo in cui si discute rappresenta una sorta di termometro per valutare se la relazione funziona o no. Se però nelle discussioni a prevalere è la critica fine a se stessa verso il partner si instaura un circolo vizioso che rende lo scontro senza via di uscita, scatenando reazioni difensive e di contrattacco. Molto meglio, invece, secondo la psicologa Brunella Gasperini,, far prevalere l’empatia e l’ascolto.
Non è tanto su cosa, ma come si discute nella coppia a far funzionare il rapporto. Alcune competenze emozionali come la capacità di calmarsi e calmare l’altro, l’empatia, l’ascolto agiscono da meccanismi di riparazione, appianano le difficoltà, ricompongono le fratture, impedendo che la situazione degeneri. Quando questo termostato emozionale non lavora bene, l’unione è a rischio.
La ricerca moderna infatti, più che sulle corrispondenze o sulle complementarietà tra i partner, per comprendere i fatti che tengono unita la coppia si è concentrata soprattutto sulla qualità delle interazioni, sulle correnti emotive, sugli scambi e sulle influenze reciproche. Lo psicologo John Gottman, professore emerito dell’Università di Washington e fondatore del “Seattle Marital and Family Institute” di New York, dopo decenni di studi su migliaia di coppie è riuscito a fare una sorta di radiografia emozionale del matrimonio. Registrando i cambiamenti fisiologici che accompagnano le discussioni tra coniugi, ha mappato i comportamenti sfavorevoli all’intesa. Un atteggiamento critico, soprattutto se aspro e ricorrente, è risultato un segnale molto avverso. Se nel corso di una conversazione di 15 minuti un partner assume quattro o cinque volte l’espressione di disgusto (che in genere accompagna la critica), con una probabilità del 98% quella coppia si separerà nel giro di quattro anni. Critica e disprezzo sono fattori di rischio nel rapporto a due come colesterolo e fumo nelle cardiopatie. Quanto più sono intensi e prolungati, più alta è la probabilità di rottura. Sono anche correlati a problemi di salute come raffreddori, influenza, infezioni nel partner “criticato”. La critica ha effetti corrosivi perché facilmente diventa attacco globale alla persona. Quando giudichiamo facciamo capire che ci siamo fatti un parere negativo sull’altro, lo stiamo condannando. Siamo valutanti, rimproveranti, diciamo: “Tu sei sbagliato”. Scatenando reazioni difensive, di contrattacco. La lite, ad esempio, priva di soluzioni. Oppure la fuga, ancora più pericolosa per la salute della relazione: ostruzionismo, ritiro, silenzio snervano e creano solo distacco.
Dietro una critica spietata ci sono sempre pensieri tossici molto potenti. La convinzione di essere vittima innocente alimenta risentimento e rende poco lucidi, qualunque cosa faccia l’altro è utilizzata per confermare la propria idea, ignorando quello che potrebbe smentirla. Chi critica sostiene che la situazione è immodificabile a meno che non cambi il partner, quello sbagliato. In questi stati di allerta, di sospetto e di suscettibilità emozionale facilmente le cose si complicano e le reazioni si esasperano. La ricerca indica differenze di genere nei modi di affrontare gli scontri emozionali: nell’85 per cento dei casi è il marito a fare ostruzionismo a una moglie ipercritica. Sembra che gli uomini cerchino di evitare gli scontri quanto le donne tentino di innescarli. I maschi si fanno travolgere di più dalle critiche, secernono più adrenalina e hanno bisogno di un tempo maggiore per riprendersi dalla piena emozionale. Forse per questo tendono a mantenere una certa imperturbabilità. Invece nelle femmine l’adrenalina impenna nel momento in cui l’altro si ritira, non si sentono ascoltate. Una sorta di danza a due del sistema limbico che però non fa volteggiare felice l’intesa.
L’antidoto alla critica distruttiva è denunciare ciò che non va senza dare colpe. “Sei così pigro”, può diventare: “Apprezzerei molto se tu mi aiutassi”. Smantellare però questi vecchi modelli di comunicazione disadattivi e stabilire nuove dinamiche non è così semplice. Non è scontato cambiarsi di abito mentale, appropriarsi del proprio potere nelle relazioni, acquistare consapevolezza del proprio comportamento. Molte delle risposte emozionali che ci vengono tanto spontanee sono state “imprintate” nell’infanzia, le abbiamo apprese nelle relazioni più intime, poi portate in dote nel matrimonio.
Alcuni suggerimenti per chi tende a criticare troppo e per chi, di rimando, è portato a sfuggire ai confronti possono però aiutare a esercitarsi con dinamiche più costruttive. Eccone alcuni:
- Mantenersi su quello che ci ha urtato e non andare sul modo di essere dell’altro.
- Tenere a freno i picchi emozionali, mantenersi in grado di ascoltare, pensare e parlare. La collera innesca altra collera. Separarsi, interrompere se non si è capaci di calmarsi al momento.
- Depurare il discorso interiore: non rimanere sugli stessi slogan mentali che ci siamo costruiti. Siamo portati a fissarci negativamente su ciò che l’altro deve fare o smettere di fare per calmarci, rimediare alla delusione, renderci felici. E non su quello che possiamo fare noi.
- Guardare la negatività dell’altro con altri occhi, interpretarla come un’affermazione implicita della grande importanza attribuita al problema. Ascoltare davvero i sentimenti che si nascondono dietro le parole. Dietro ogni denuncia c’è un desiderio, un bisogno.
- Tirare fuori, liberare ed elaborare insieme. Evitare di sfuggire e di trovare soluzioni spicciole. Alle volte si ha solo bisogno di dare parola ai propri sentimenti per risolvere. Anche se non si è d’accordo, sintonizzarsi sull’altro può bastare a calmare la situazione.
Brunella Gasperini, psicologa D la repubblica 6 maggio 2015
http://d.repubblica.it/lifestyle/2015/05/06/news/6_5_la_critica_nella_coppia-2594221/?ref=HRLV-15
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DALLA NAVATA
6° Domenica di Pasqua – anno B –10 maggio 2015.
Atti 10.26 «Ma Pietro lo rialzò, dicendo: “Alzati:anch’io sono un uomo!”»
Salmo 98.01 «Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie»
1 Giovanni 04.07 «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio dato»
Giovanni 15.11 «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»
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DIVORZIO
Divorzio fai da te con assegno: consigli pratici.
Qualche suggerimento per evitare il rischio di ripensamenti circa l’accordo di separazione o divorzio al Comune che abbia previsto un assegno di mantenimento.
È degli ultimi giorni la notizia, auspicata da molte coppie di coniugi, della possibilità di chiedere al Comune (e senza la necessaria assistenza di un avvocato) la separazione o il divorzio consensuale oppure la modifica dei provvedimenti ad essi relativi [art. 12 D. L. n.132/2014] prevedendo negli accordi la corresponsione di un assegno di mantenimento.
Tale facoltà – concessa da una nuova (e senz’altro più corretta) interpretazione [Ai sensi della Circ. Ministero dell’Interno n. 6/15] della legge – era stata fino a pochi giorni fa preclusa alle coppie (purché senza figli) per via di una lettura restrittiva del dettato normativo. Si ampliano, dunque, i poteri di accordo tra marito e moglie ma con essi, in modo inevitabile, anche le relative responsabilità.
Come, infatti, precisa la nuova circolare,”l’Ufficiale di stato civile è tenuto a recepire quanto concordato dalle parti, senza entrare nel merito della somma consensualmente decisa, né della congruità della stessa” sicché, potremmo dire, incombono solo sui coniugi i rischi della loro decisione.
Ma di quali rischi parliamo? Non si può negare che ciò che nei procedimenti alternativi (quali quello giudiziario o tramite negoziazione assistita) è demandato al primo vaglio dell’avvocato e poi ancora a quello del tribunale, ora spetta esclusivamente al “buon senso” della coppia, la quale non è di certo tenuta ad avere cognizioni giuridiche di alcun tipo.
Non è da poco, ad esempio, il fatto che nella procedura tramite negoziazione assistita [art. 6 D. L. 132/2014.] la legge attribuisca agli avvocati il nuovo potere/dovere di certificare la non contrarietà degli accordi alle norme imperative e all’ordine pubblico e ciò non bastando – anche quando dal matrimonio non siano nati figli – richieda l’ulteriore passaggio dell’atto sottoscritto da tutte le parti dal vaglio del p.m. Doppio controllo, quindi, (da parte di avvocato e autorità giudiziaria) se la coppia sceglie la separazione, il divorzio (o la loro modifica) in Tribunale o con negoziazione assistita (anche in assenza di prole) e nessun controllo invece se sceglie di procedere in modo autonomo davanti all’Ufficiale di stato civile.
Che vuol dire questo? Che scegliendo il procedimento fai da te i coniugi sono liberi di stabilire ciò che vogliono senza correre rischi? Niente affatto. Anche in questo caso gli accordi conclusi sono soggetti, al pari degli altri, alla possibilità che uno dei coniugi si rivolga autonomamente al giudice per chiederne la revoca o la modifica.
Cercheremo, perciò, dare risposta ai possibili dubbi sul punto sentendoci, in ogni caso, di consigliare di avvalersi di questo rimedio semplificato solo se essi sono in reale accordo tra loro; trattandosi, infatti, comunque di provvedimenti in grado di incidere a lungo sulla situazione economica di entrambe le parti (almeno fino a quando non subentri un successivo titolo) è bene che esso sia utilizzato con le dovute cautele e non al solo scopo di evitare i costi di una procedura alternativa.
Esiste un criterio legge per calcolare l’assegno? Non esistono norme che prevedono un criterio matematico per determinare la misura dell’assegno, ma ci sono dei parametri di riferimento a cui il giudice deve attenersi e che, al pari, è bene che anche la coppia valuti se intende accordarsi per il versamento di un assegno che risponda agli effettivi bisogni e possibilità di ciascun coniuge, così da ridurre i rischi di successive domande di revoca o modifica.
Nello specifico, nel calcolare la misura dell’assegno è necessario accertare in via prioritaria il tenore di vita goduto dai coniugi durante il matrimonio e, di seguito, se il beneficiario dispone di mezzi economici sufficienti e adeguati a conservare un tenore di vita il più vicino possibile a quello avuto nel corso della vita matrimoniale. Naturalmente, la determinazione dell’assegno dipende dalla reale consistenza di reddito e patrimonio di ciascun coniuge che, nei procedimenti giudiziari è accertata dal magistrato attraverso l’esame dei documenti e delle dichiarazioni rese negli atti e in udienza e a cui poi molti tribunali contemperano (senza alcun obbligo di legge) l’utilizzo di tabelle facenti capo al codiddetto MoCAM (Modello Calcolo Assegno Mantenimento).
A titolo esemplificativo, secondo tale modello, se chi richiede l’assegno abbia un lavoro part-time (ad esempio di 600 euro al mese) che non gli permetta di conservare il tenore di vita precedente pur consentendo di provvedere ai bisogni primari, mentre l’altro percepisca un reddito da lavoro dipendente (di 1400 euro mensili), l’assegno potrebbe essere previsto nella misura di un quarto del reddito del coniuge obbligato se al beneficiario sia assegnata la casa coniugale e di un terzo senza assegnazione dell’immobile (del cui valore locativo va comunque tenuto conto).
Naturalmente si tratta di un esempio legato alla specifica situazione di reddito e personale e, perciò, destinata a variare di caso in caso. Di particolare importanza è, inoltre, il fatto che il calcolo dell’assegno si basi su informazioni veritiere dei redditi e del patrimonio di ciascuno.
A riguardo, val la pena ricordare che con una recente pronuncia [Cass. sent. n. 8096 del 21.4.2015], riferita ad un accordo omologato in tribunale (ma che ben potrebbe riguardare uno “fai da te”), la Cassazione ha precisato che ciascuno dei coniugi può chiedere la revoca dell’accordo (di separazione o divorzio) quando sia stata ” posta in essere intenzionalmente un’attività fraudolenta consistente in artifizi e raggiri, diretti ed idonei a impedire al giudice l’accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale e, così, pregiudicando l’esito del procedimento”. Nel caso di specie, un uomo, nascondendo alla moglie la sua effettiva situazione reddituale, aveva ottenuto dall’accordo di separazione dei vantaggi che ,in caso contrario, non gli sarebbe stato possibile ottenere.
In altre parole, il coniuge che si accorga di essere stato ingannato riguardo alla reale condizione economica dell’ ex, potrà impugnare l’accordo al fine di ottenerne la revoca.
Si può rinunciare all’assegno? In ogni caso, fatta esclusione per l’ipotesi di accordi basati su informazioni false (che ovviamente andranno documentate da chi ne chiede la revoca), in generale i coniugi hanno piena libertà di decidere la misura dell’assegno, così come di prevedere una rinuncia ad esso.
Anche in questo caso, tuttavia, esistono dei limiti che è bene conoscere. Il coniuge economicamente più debole, infatti, potrà sempre far valere (tramite una richiesta di modifica dei precedenti accordi) la pretesa di un assegno se vengano meno le condizioni di autosufficienza economica su cui era basata la rinuncia. Al pari, egli potrà chiedere la revoca dell’accordo dando prova al giudice che la precedente rinuncia sia stata frutto di una valutazione non libera (ad esempio legata all’esigenza di evitare il giudizio e di ottenere subito la separazione). Perciò attenzione: la fretta non è mai foriera di buoni consigli!
Assegno con scadenza. I coniugi possono anche prevedere negli accordi di separazione che il versamento dell’assegno avvenga fino a un determinato termine, oltre il quale il coniuge obbligato sarà liberato dal relativo obbligo economico; ciò, tuttavia, non varrà ad escludere in assoluto il diritto a richiedere un successivo assegno di divorzio in base alle attuali condizioni economiche delle parti rispetto al tenore di vita avuto durante il matrimonio [C. App. di Napoli, sent. del 25.05. 2011].
Assegno in un’unica soluzione. La citata circolare del Ministero precisa, inoltre, che “non può costituire oggetto di accordo la previsione della corresponsione in un’unica soluzione dell’assegno di divorzio in quanto si tratta di attribuzione patrimoniale” come tale esclusa dall’ambito di applicabilità della disciplina. Ciò non che se l’assegno in un’unica soluzione sia stato previsto in sede di separazione, i coniugi possano invece legittimamente accordarsi nella successiva domanda di “divorzio fai da te” per il versamento di un assegno periodico; tale accordo troverebbe giustificazione specie nel caso in cui sia subentrato un mutamento rispetto alle condizioni economiche di cui alla separazione.
Le modifiche sull’assegno. Vale la pena ricordare, in ogni caso, che gli accordi raggiunti tra i coniugi in vista della separazione o del divorzio dipendono sempre dalle circostanze esistenti al momento della loro sottoscrizione; pertanto, ciascun coniuge potrà sempre chiederne, anche in modo unilaterale, la relativa modifica, provando che esse sono mutate. Anche in tale ipotesi potrà risultare economicamente conveniente per i coniugi ottenere la revisione tramite il medesimo procedimento “fai da te”.
Ma attenzione: il consiglio che ci sentiamo di darvi è quello di richiedere prima della sottoscrizione dell’accordo davanti all’ufficiale di stato civile, quantomeno la consulenza di un legale o eventualmente di un commercialista di fiducia, onde evitare di trovarvi a dover sostenere in seguito i costi (di gran lunga superiori) di un giudizio promosso (a torto o a ragione) da chi sia rimasto insoddisfatto dell’accordo.
Maria Elena Casarano la legge per tutti 7 maggio 2016
www.laleggepertutti.it/87520_divorzio-fai-da-te-con-assegno-consigli-pratici#sthash.1xWabIMP.dpuf
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FECONDAZIONE ARTIFICIALE
Ricerca e tenacia battono la selezione pre-impianto.
«La vera medicina non si batte contro il malato ma contro la malattia, ed è solo lì che può vincere» diceva Jerome Lejeune già quarant’anni fa. La diagnosi genetica pre-impianto è presentata come la modalità risolutiva per intervenire su una patologia, ma in realtà non cura nulla, non è terapeutica, non guarisce. Per questo è importante puntare sulla ricerca scientifica, che invece si muove con determinazione, unita alla giusta cautela, per mettere a punto terapie che vadano a beneficio dei pazienti di oggi ed evitino lo sviluppo della malattia domani.
Le buone prassi e i risultati sono finora limitati, ma quelli che ci sono si confermano incoraggianti. È di questi giorni la notizia che l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha approvato Kalydeco (ivacaftor) un farmaco specifico per i pazienti affetti da fibrosi cistica: «Una terapia che non agisce sulle manifestazioni cliniche ma piuttosto sull’origine del meccanismo, migliorando la performance della proteina difettosa», ha dichiarato Carlo Castellani, presidente della Società italiana fibrosi cistica. Una speranza concreta per migliaia di malati, che possono arginare il progredire della malattia e migliorare la propria qualità della vita quotidiana.
Su un altro fronte, dopo 15 anni di studi condotti al Tiget (Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica), si è aperta un’importante finestra terapeutica per i bambini affetti dalla sindrome di immunodeficienza combinata grave da deficit di adenosin-deaminasi (Ada-Scid). Sono i cosiddetti “bimbi in bolla”, in cui un gene difettoso ereditato da entrambi i genitori blocca una proteina fondamentale e li priva così delle difese immunitarie. GlaxoSmithKline, Fondazione Telethon e Ospedale San Raffaele di Milano hanno chiesto il via libera dell’agenzia europea del farmaco Ema alla terapia genica Gsk 2696273, sviluppata per correggere all’origine il difetto scritto nel Dna dei pazienti permettendo, per la prima volta, di guarire questi piccoli malati.
«Le malattie genetiche sono migliaia, e spesso le risposte arrivano per una singola malattia – precisa Luigi Naldini, direttore del Tiget –, ma, una volta avuta la prova di efficacia per una specifica patologia, questo può rendere possibile lavorare anche su altre». Lo sviluppo della terapia genica non è agevole, ha un percorso di sperimentazione laborioso che richiede molto tempo e investimenti adeguati: «La ricerca ha bisogno di essere finanziata per dare risposte – commenta Naldini – e gli anni necessari allo sviluppo di una terapia garantiscono la sicurezza per i pazienti».
Purtroppo gli stanziamenti per la ricerca scientifica sono spesso lasciati alla buona volontà dei privati o ai progetti europei, che non smettono di credere nella possibilità concreta di scoprire nuove cure. Per questo «la ricerca genetica deve continuare – chiarisce Giuseppe Banfi, docente di Biochimica clinica e biologia molecolare all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano –, prima di tutto perché ci sono sempre altre possibilità da esplorare e poi perché basta pensare all’enorme lavoro fatto da Telethon, dalle associazioni dei pazienti e dal network europeo Eranet che non smettono di puntare su questi programmi di ricerca».
Quando si parla di malattie geneticamente trasmissibili la diagnosi pre-impianto (Dgp) sembra una soluzione ma, conferma Banfi, bisogna fare molta attenzione: «Da un caso particolare, la Dgp rischia poi di essere utilizzata per cercare tutte le malattie possibili. E non sarà affatto semplice discriminare su quali malattie si possa intervenire e su quali no».
«In questo momento sono pochissime le malattie genetiche su cui c’è una cura, e per questo una delle strade praticabili è cercare di capire se l’embrione è portatore di quel “difetto” o meno – spiega Antonio Amoroso, presidente della Società italiana di genetica medica (Sigu) –. Con la diagnosi si può riconoscere solo un determinato numero di patologie, ma in futuro si aprirà uno spettro molto più ampio di rilevazioni genetiche e sarà possibile estendere la ricerca a ogni tipo di malattia». Uno screening potenzialmente illimitato che, già ora, fa sorgere curiosi paradossi, come rileva Giuseppe Banfi: «Si cerca di far di tutto per far nascere un bambino sano, e poi magari non lo si vaccina contro la pertosse o la difterite, ritenute non pericolose…».
Chi cerca una terapia non vuole che i propri pazienti muoiano, smettere di ricercare è perdere la speranza
Emanuela Vinai Avvenire 7 maggio 2015
www.avvenire.it/Vita/Pagine/ricerca-e-tenacia-batto-la-selezione.aspx
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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI
Lo stato fa cassa sulle famiglie con figli.
È di ieri la presentazione del documento del Centro studi ImpresaLavoro sul cuneo fiscale per il quale una famiglia monoreddito con figli ha in media pagato al fisco 640 euro in più di cinque anni prima. L’ennesima dimostrazione, supportata dall’autorevolezza dei dati Ocse, della schizofrenia del sistema fiscale italiano.
Contrariamente agli altri Paesi europei in Italia il carico fiscale aumenta soprattutto per le famiglie monoreddito con figli (+0,5%) e i single con reddito sopra la media (rispettivamente +0,4% e +0,5%). Ne consegue che il bonus fiscale degli 80 euro ha paradossalmente prodotto effetti distorsivi, colpendo quanti sono costretti a mantenere una famiglia con un solo stipendio. Cioè quelli che maggiormente avrebbero dovuto godere degli effetti del bonus…
Tendenza dimostrata anche da un altro dato: rispetto al 2009 le famiglie monoreddito con figli hanno subìto un aumento (+2,1%) superiore a quello per i single a reddito elevato (+1,8%) e medio (+1,4%). La crescita del cuneo fiscale finisce insomma per penalizzare quelle famiglie che vivono con un solo stipendio e che invece andrebbero aiutate.
In valori assoluti, nel 2014 una famiglia con figli a carico e un unico reddito (in media pari a 30.462 euro) ha infatti sopportato un cuneo fiscale pari a 11.880 euro, circa 640 in più di quello che sarebbe stato se l’incidenza del fisco fosse rimasta ai livelli del 2009. Persino un single con un reddito medio e senza figli a carico ha avuto un incremento più contenuto (+426 euro verso gli attuali 14.683 euro).
Insomma l’Italia riesce a fare il contrario di quello che andrebbe fatto per rispondere alla crisi economica e demografica. Si continua a scaricare sulle famiglie – con la preferenza per quelle più deboli – le contraddizioni delle scelte economiche. Ma la pazienza ha un limite.
Comunicato stampa 05 maggio 2015 www.forumfamiglie.org/comunicati.php
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Gli sposi si amino con coraggio come Cristo ama la Chiesa.
“Ci vuole coraggio per amarsi così come Cristo ama la Chiesa”. E’ uno dei passaggi più significativi della catechesi di Papa Francesco all’Udienza generale dedicata alla bellezza del matrimonio cristiano. Il Pontefice, parlando ad una Piazza San Pietro gremita di fedeli nonostante il caldo, ha sottolineato che la famiglia è corresponsabile della vita familiare, delle sue riuscite come dei suoi fallimenti. Prima dell’Udienza generale, Francesco ha avuto un incontro con un gruppo di bambini ammalati a Casa Santa Marta.
Molto di più di “fiori, abito e foto”, il matrimonio è un sacramento non solo una cerimonia. Papa Francesco ha esordito così la sua catechesi dedicata alla bellezza del matrimonio cristiano e subito ha osservato, riprendendo San Paolo, che “l’amore tra i coniugi è immagine dell’amore tra Cristo e la Chiesa”. “Una dignità impensabile”, commenta il Papa che aggiunge come questa analogia per quanto “imperfetta” abbia un “senso spirituale” “altissimo e rivoluzionario”, ma al tempo stesso “alla portata di ogni uomo e donna che si affidano alla grazia di Dio”.
Amare la propria moglie come Cristo ama la Chiesa. Quindi, si è rivolto direttamente ai mariti presenti in piazza San Pietro ricordandogli che, come si legge nella Lettera agli Efesini, devono amare la moglie “come il proprio corpo”: “Ma voi mariti che siete qui presenti capite questo? Amare la propria moglie come Cristo ama la Chiesa. Questi non sono scherzi, è serio! L’effetto di questo radicalismo della dedizione chiesta all’uomo, per l’amore e la dignità della donna, sull’esempio di Cristo, dev’essere stato enorme, nella stessa comunità cristiana”.
La Chiesa è coinvolta nella storia di ogni matrimonio. “Questo seme della novità evangelica, che ristabilisce l’originaria reciprocità della dedizione e del rispetto – ha osservato – è maturato lentamente nella storia, ma alla fine ha prevalso”. Francesco ha così sottolineato che il Sacramento del matrimonio è “un grande atto di fede e di amore”. La Chiesa stessa, ha soggiunto, “è pienamente coinvolta nella storia di ogni matrimonio cristiano: si edifica nelle sue riuscite e patisce nei suoi fallimenti”. “Ma dobbiamo interrogarci con serietà: accettiamo fino in fondo, noi stessi, come credenti e come pastori anche, questo legame indissolubile della storia di Cristo e della Chiesa con la storia del matrimonio e della famiglia umana? Siamo disposti ad assumerci seriamente questa responsabilità, cioè che ogni matrimonio va sulla strada dell’amore che Cristo ha con la Chiesa ? E’ grande questo!”
Il matrimonio cristiano ha una dimensione missionaria. “La decisione di sposarsi nel Signore – ha detto ancora – contiene anche una dimensione missionaria”, “infatti gli sposi cristiani partecipano in quanto sposi alla missione della Chiesa”. “E ci vuole coraggio per questo, eh! Per questo quando io saluto i novelli sposi, dico: ‘Ecco i coraggiosi!’, perché ci vuole coraggio per amarsi così come Cristo ama la Chiesa. La celebrazione del sacramento non può lasciar fuori questa corresponsabilità della vita familiare nei confronti della grande missione di amore della Chiesa. E così la vita della Chiesa si arricchisce ogni volta della bellezza di questa alleanza sponsale, come pure si impoverisce ogni volta che essa viene sfigurata”.
La Chiesa ha bisogno della fedeltà degli sposi. “La Chiesa, per offrire a tutti i doni della fede, dell’amore e della speranza – ha dunque affermato – ha bisogno anche della coraggiosa fedeltà degli sposi alla grazia del loro sacramento!” Ed ha ribadito che la rotta è segnata “per sempre, è la rotta dell’amore”.
“Uomini e donne, coraggiosi abbastanza per portare questo tesoro nei ‘vasi di creta’ della nostra umanità, sono – questi uomini e queste donne, che sono così coraggiosi – sono una risorsa essenziale per la Chiesa, anche per tutto il mondo! Dio li benedica mille volte per questo!”
Bollettino radiogiornale radio vaticana 6 maggio 2015 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
testo ufficiale http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150506_udienza-generale.html
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GENDER
Studi di genere. La dottrina è sempre in ritardo
Tempo fa ho partecipato a una conferenza su “Genere e sviluppo economico in Africa”. Un tema relativamente poco controverso, dato che le disuguaglianze di genere e il ruolo delle donne nelle economie dei Paesi del Sud sono da tempo oggetto di dibattito, nonché di interventi specifici nel settore della cooperazione allo sviluppo. L’unico giornalista presente a documentare l’incontro lavorava per un giornale cattolico, il che mi stupì positivamente. Ma quando si trattò di intervistare una delle esperte africane presenti alla conferenza, il giornalista ci chiese timidamente, forse consapevole di formulare una richiesta paradossale: «Potremmo tradurre con “relazioni tra uomini e donne” ogni volta che la signora parla di “genere”? Altrimenti potrei avere difficoltà a pubblicare il pezzo…».Che cosa, nel mondo cattolico, ha reso il concetto di “genere” così sospetto e ostile da renderlo indicibile?
Che cosa lo ha trasformato nello spauracchio in cui far confluire tutto ciò che minaccia la morale cattolica nel campo della famiglia, della sessualità, delle relazioni, della natura umana? Se non sorprende che la pastorale di Ratzinger, relativamente conservatrice da questo punto di vista, abbia fatto da sfondo alla nascita di un sentimento “anti-gender” in settori consistenti del clero e dell’associazionismo cattolico, occorre osservare che la posizione più aperturista di Bergoglio sull’omosessualità non ne ha frenato il consolidamento. A gennaio, lo stesso papa ha parlato di «colonizzazione ideologica» del gender (non a caso spesso i media cattolici preferiscono usare il concetto nella sua versione inglese, come se si trattasse di un’intrusione aliena alla nostra tradizione intellettuale) e, più recentemente, nell’udienza generale dello scorso 15 aprile, ha suggerito che la teoria del gender sia «espressione di una frustrazione e di una rassegnazione» di fronte alla differenza sessuale, e che con essa «rischiamo di fare un passo indietro».
Ciò che il papa suggerisce pacatamente – invitando al tempo stesso a ridare forza alla «reciprocità fra uomini e donne» e a riconoscere maggiore peso e autorevolezza alla voce di queste ultime – la redazione di Avvenire trasforma in proclama a caratteri cubitali, come nell’inserto Noi. Genitori e figli, pubblicato lo scorso 22 febbraio 2015 e dedicato interamente alla “grande bugia” del gender. Se l’editoriale iniziale cerca di sgombrare il campo dalle accuse di omofobia e ribadisce la «ferma condanna» a qualsiasi forma di intolleranza verso le persone con orientamento omosessuale, il resto del fascicolo è un atto di accusa a tutto campo contro teorie che vorrebbero negare «la verità fondante del maschile e del femminile». Un’infografica a metà dell’inserto paventa ad esempio che, se cominciamo col riconoscere che la mascolinità e la femminilità sono almeno in parte costruzioni sociali o culturali, finiremo per pensare che l’appartenenza di genere «si può variare a piacimento»: al contrario, lo sforzo delle scienze sociali è perlopiù quello di sottrarre l’appartenenza di genere tanto alle visioni naturalistiche quanto a quelle spontaneistiche e individualiste, reintroducendo una riflessione sui fattori socio-politici che influenzano, in ogni epoca storica o contesto culturale, l’identità maschile e femminile. La stessa infografica proclama poi che la differenza genetica tra i sessi si traduce in «differenze peculiari fisiche, cerebrali, ormonali e relazionali», facendo piazza pulita di tutti i dibattiti che, nelle scienze cognitive e sociali come nella psicologia, cercano tuttora di precisare – o di smentire – i legami tra differenza sessuale e inclinazioni o comportamenti.
In realtà, gli studi di genere costituiscono un campo interdisciplinare composito, dove convivono e dibattono approcci teorici diversi (nessuna singola “teoria” o “ideologia”, dunque), di cui solo alcuni sono legati a forme di attivismo politico (come il femminismo nelle sue diverse declinazioni, o più recentemente l’attivismo lgbt e queer), e solo una minoranza arriva a decostruire radicalmente la differenza sessuale o a sostenere l’arbitrarietà delle classificazioni sessuali e di genere. Ma per combattere efficacemente l’impatto politico delle rivendicazioni lgbt e del femminismo, bisogna confezionare un “nemico” più spaventoso: gli studi di genere vengono allora rappresentati come una miscela esplosiva di relativismo radicale, edonismo e consumismo spinti, progetto totalitario di ridefinizione della natura umana e dei rapporti sociali, insomma un indottrinamento a cui nessun genitore vorrebbe mai esporre i propri figli. In questa operazione, mirata ad alimentare il “panico morale” anti-gender, vale tutto. Anche la pubblicazione di dati infondati, come – sempre nell’utile ed esplicativa infografica – il fatto che il governo australiano riconoscerebbe ufficialmente 23 generi diversi, notizia tratta da un blog pro-life e non confermata da alcuna altra fonte (la realtà è che quei pochi governi al mondo che riconoscono un terzo genere lo fanno per non imporre prematuramente, alla nascita, un’identità agli individui intersex, oppure per riconoscere, in età adulta, identità transgender radicate nella storia e nella tradizione locale, come gli hijra nel subcontinente indiano). Oppure, come fa in un’intervista pubblicata nell’inserto lo psicanalista Mario Binasco (lo stesso che paragonò la proposta di legge sulle unioni civili al sedicente Stato Islamico, e che fu al centro di una polemica sulla sua affiliazione accademica poi risultata falsa), si mette in discussione la neutralità scientifica delle teorie di genere, che a differenza di una legge fisica sono teorie “di qualcuno”, cioè situate in un preciso contesto e influenzate da chi le formula (critica per nulla nuova, che si applica a tutte le scienze sociali, e anche alla psicanalisi praticata da Binasco, senza per questo invalidarle). Senza contare che a queste teorie si può persino attingere per fondare un’azione politica e di trasformazione della realtà: l’idea di “inverare la teoria” su cui si fonderebbe il pensiero marxista-leninista, secondo Binasco. E su questo, brividi di terrore da parte dei genitori anticomunisti.
Tra la destra cattolica e i settori più radicali del movimento queer, l’incompatibilità non solo di obiettivi politici, ma anche di sensibilità e di sistemi di valori, è probabilmente destinata a durare. Ma, se allarghiamo lo sguardo oltre le aree più “estreme” della contrapposizione, la radicalizzazione del confronto non è inevitabile. Se una qualche forma di dialogo costruttivo può essere ristabilita attorno a questi temi, non può che passare da una riduzione del livello di allarme: niente più proclami o caricature sulle presunte ideologie che vogliono “colonizzarci”, niente più copia-e-incolla da blog o interviste a esperti accuratamente scelti tra quelli ideologicamente affini, ma un confronto serio che, assieme alle critiche, permetta di apprezzare i diversi contributi che gli studi di genere hanno portato alla nostra comprensione della società e alla possibilità di trasformarla. Ad esempio, il riconoscimento del ruolo del lavoro delle donne nello sviluppo economico dei Paesi del Sud come nella tenuta del welfare nei Paesi del Nord; gli strumenti per individuare le disuguaglianze e le discriminazioni fino a quel momento invisibili o taciute; la sfida alle identità maschili troppo prescrittive e l’esplicitazione del legame spesso rimosso tra mascolinità e violenza; anche – e questo è uno dei principali oggetti della contesa – il supporto a un lavoro educativo in grado di decostruire stereotipi e pregiudizi, e di prevenire esclusioni, bullismo e omofobia a scuola.
Difficile dire se e quando questo avverrà. L’ottimismo di Vito Mancuso, che in un editoriale pubblicato da Repubblica pochi giorni fa si dice sicuro del fatto che la Chiesa cattolica «arrivera` ad accettare la sostanza di ciò che essa definisce “teoria del gender” e che oggi tanto combatte», come in passato ha accettato – con un certo ritardo – le teorie copernicane, lo Stato unitario italiano, la libertà religiosa o l’evoluzionismo biologico, è a prima vista consolante.
vedi newsUCIPEM n. 543 – 26 aprile 2014, pag. 6
Ma una simile visione ottimista lascia irrisolte molte questioni: ad esempio, qual è il prezzo di questo costante ritardo della dottrina nell’accomodarsi alla realtà in trasformazione? E nel caso specifico, quanti omosessuali cattolici – e non – continueranno a soffrire delle conseguenze dell’ostinazione della Chiesa a non negoziare con teorie e approcci che permettono loro di affermare in maniera più compiuta la propria identità o il proprio orientamento sessuale? Perché altre Chiese cristiane sono state capaci di elaborare riflessioni e pastorali più inclusive e meno conflittuali sul tema dell’omosessualità e a integrare i contributi positivi degli studi di genere? Perché l’approvazione della prima legge sul cambiamento di sesso nel 1982 – tutto sommato più dirompente rispetto alle richieste odierne di allargamento dei diritti civili – destò molte meno polemiche in campo ecclesiastico mentre oggi la contrapposizione è così forte? C’entra forse qualcosa il progressivo calo dei fedeli e delle vocazioni e la tentazione della Chiesa cattolica di recuperare terreno e ruolo politico attraverso le battaglie per i “valori non negoziabili”?
Cristiano Lanzano, scienziato sociale, studioso di antropologia
adista segni nuovi n. 17 4 maggio 2015
www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=54978
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GENITORI SEPARATI
Lombardia. Bando per l’assegnazione di contributi per coniugi separati.
È aperto fino al 29 maggio 2015 il primo avviso pubblico per l’assegnazione di contributi per coniugi separati o divorziati in disagio economico e in particolare con figli minori, ai sensi della L. R. Lombardia n.18 del 24/06/2014, che riflette sull’importanza dei genitori per garantire la centralità della loro figura nella vita dei figli, un’esistenza dignitosa e il recupero dell’autonomia abitativa. Dopo precedenti sperimentazioni di misure di sostegno, la D.G.R. 2513 del 17/10/2014 ha attuato la legge regionale.
Nel complesso, alle ASL lombarde sono destinati 4 milioni di euro del bilancio regionale 2015 per realizzare il progetto, oltre a 127.500€ conseguenti alle economie registratesi in attuazione della D.G.R. 2513/2014 che saranno poi loro assegnati. L’ASL può impiegare fino a 2.400€ per ogni progetto di sostegno, cioè 400€ per 6 mesi, mediante una carta prepagata rilasciata al genitore più fragile della coppia secondo l’ISEE e rientrante in graduatoria, previa sottoscrizione del patto di corresponsabilità contenente il progetto personalizzato.
Per accedere al bando si deve essere separati legalmente da meno di 3 anni o divorziati da meno di 2 e separati da meno di 5, essere destinatari di provvedimenti ex art 708 del codice di Procedura Civile emessi dal Giudice, risiedere in Lombardia da almeno 5 anni, avere un ISEE per i redditi dell’anno precedente o corrente minore uguale a 15.000€ e, ovviamente, durante il matrimonio concluso, essere diventati genitori di minori, nati o adottati, oppure maggiorenni disabili gravi. Non potranno invece accedere al sostegno coloro che ne hanno già beneficiato in passato, i separati o divorziati che non rispettano i doveri di cura e mantenimento dei figli e i condannati con sentenza passata in giudicato per reati contro la persona.
Per scaricare il bando completo www.famiglia.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Famiglia%2FDetail&cid=1213698555383&pagename=DG_FAMWrapper
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PARLAMENTO
Camera Comm. Giustizia Accesso dell’adottato alle proprie origini
Disposizioni in materia di accesso del figlio adottato non riconosciuto alla nascita alle informazioni sulle proprie origini e sulla propria identità.
C. 784 Bossa, C. 1874 Marzano, C. 1343 Campana e C. 1983 Antimo Cesaro, C. 1901 Sarro, C. 1989 Rossomando, C. 2321 Brambilla e C. 2351 Santerini.
5 maggio 2015 (2 sedute) La Commissione prosegue l’esame del provvedimento in oggetto, rinviato nella seduta del 25 febbraio 2015
Donatella Ferranti, presidente, dopo aver ricordato che le proposte di legge in esame sono inserite nel calendario dei lavori dell’Assemblea a partire da lunedì 11 maggio prossimo, avverte che al testo unificato in esame sono stati presentati emendamenti nonché subemendamenti all’emendamento del relatore. Invita il relatore ed il rappresentante del Governo ad esprimere i pareri di competenza sugli emendamenti.
Si votano gli emendamenti non ritirati.
Donatella Ferranti, presidente, avverte che il testo del provvedimento, come modificato dalle proposte emendative approvate, sarà trasmesso alle Commissioni competenti per l’espressione del parere.
www.camera.it/leg17/824?tipo=C&anno=2015&mese=05&giorno=05&view=&commissione=02&pagina=data.20150505.com02.bollettino.sede00020.tit00010#data.20150505.com02.bollettino.sede00020.tit00010
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PASTORALE FAMILIARE
Fedeli separati: la diocesi di Milano li accoglie.
Un Ufficio diocesano per l’accoglienza delle persone il cui matrimonio è andato in crisi. Un servizio pastorale per coloro che vivono l’esperienza della separazione coniugale o sono giunti alla scelta di separarsi.
Oggi, mercoledì 6 maggio, l’Arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, ha firmato il decreto con il quale istituisce il nuovo organismo di Curia denominato Ufficio diocesano per l’accoglienza dei fedeli separati.
Scrive il cardinale Scola nel Decreto che istituisce l’Ufficio: «La presenza di molti fedeli che vivono l’esperienza della separazione coniugale e lo specifico dovere del Vescovo di provvedere adeguatamente all’accompagnamento di queste situazioni, suggeriscono la costituzione di una nuova e specifica articolazione organizzativa della Curia arcivescovile che offra la sua competenza ai fedeli che vivono la prova della separazione, valorizzando al meglio le numerose risorse già operanti nel territorio diocesano in questo ambito (in primo luogo i Consultori familiari cattolici, i patroni stabili e il Tribunale ecclesiastico)». Un Ufficio che – aggiunge il Cardinale nella lettera ai fedeli che accompagna il Decreto – nasce dal desiderio della Chiesa ambrosiana di «approfondire il significato e le conseguenze pratiche dell’affermazione centrale della Relatio Synodi circa la famiglia come soggetto di evangelizzazione.
Il Santo Padre, nell’intervento finale della III Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, ha rivolto a tutti i fedeli questa raccomandazione: “Ora abbiamo ancora un anno per maturare, con vero discernimento spirituale, le idee proposte e trovare soluzioni concrete a tante difficoltà e innumerevoli sfide che le famiglie devono affrontare; a dare risposte ai tanti scoraggiamenti che circondano e soffocano le famiglie”.
Cosa farà concretamente il nuovo Ufficio? È lo stesso cardinale Scola a spiegarlo nella lettera ai fedeli: «L’Ufficio è pensato come un servizio pastorale per i fedeli che vivono l’esperienza della separazione coniugale agevolando, laddove se ne diano le condizioni, l’accesso ai percorsi canonici per lo scioglimento del matrimonio o per la dichiarazione di nullità. Caratteristiche peculiari di tale ufficio sono le seguenti: essere espressione diretta della cura del Vescovo verso i fedeli; favorire l’accelerazione dei tempi per un eventuale avvio del processo di verifica di nullità; collaborare con l’opera dei consultori familiari, le cui competenze restano immutate, e con i patroni stabili del Tribunale ecclesiastico. L’Ufficio svolgerà le sue funzioni in modo gratuito».
Il nuovo servizio sarà operativo dall’8 settembre 2015, festa di Santa Maria Nascente. La sede principale sarà a Milano in Arcivescovado e – novità per un ufficio di Curia – avrà due sedi periferiche a Lecco e a Varese per avvicinarsi sempre più ai bisogni di tutti.
«L’Ufficio ha una spiccata sensibilità pastorale e pertanto l’ascolto dei fedeli separati comprende anche l’aiuto ai fedeli per una rilettura della loro situazione alla luce dell’insegnamento cristiano. In questo senso, quando ne ricorrono le condizioni, può invitare la coppia a prendere atto della sua condizione di separazione, esortandola a viverla in modo conforme all’insegnamento della Chiesa, secondo lo stile di misericordia e reciproco perdono richiesto dalla legge evangelica. In quest’ultimo caso l’Ufficio può anche promuovere la formalizzazione della separazione in presenza di vincolo, con decreto canonico dell’Ordinario», spiega il Cancelliere arcivescovile, monsignor Marino Mosconi.
Il nuovo Ufficio dipenderà direttamente dall’Arcivescovo, sarà posto sotto la responsabilità del vicario episcopale per la Cultura, la Carità e la Missione, monsignor Luca Bressan e sarà condotto da un responsabile, nominato per l’occasione, don Diego Pirovano, affiancato da consulenti che a loro volta potranno avvalersi di esperti esterni scelti tra i collaboratori dei Consultori familiari e del Tribunale ecclesiastico regionale.
Redazione Zenit 06 maggio 2015
www.zenit.org/it/articles/fedeli-separati-la-diocesi-di-milano-li-accoglie
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SINODO SULLA FAMIGLIA
Il dibattito langue, ma qualcosa si muove
Della ragione per cui papa Francesco abbia deciso di convocare due Sinodi sullo stesso tema ci eravamo su queste pagine già soffermati. Per alcuni, la scelta sarebbe soprattutto dovuta all’intenzione del papa di dare la più ampia possibilità di confronto e dibattito ai padri sinodali, in maniera da giungere se non ad una mediazione condivisa, almeno ad una evoluzione del dibattito, che su alcuni temi particolarmente spinosi (gay, divorziati, convivenze) ha visto finora due fronti irriducibilmente contrapposti; per altri, il doppio Sinodo risponderebbe al desiderio di Francesco di mettere l’accento sulla dimensione della collegialità ecclesiale, attribuendo ai vescovi, riuniti prima in assise “straordinaria”, poi in sede “ordinaria”, di esprimersi su temi tanto cogenti e di portata generale da non poter essere affrontati dal solo pontefice.
Ci sono poi interpretazioni più “maliziose”: un dibattito a “due round” porterebbe i temi oggetto del dibattito sinodale a perdere progressiva forza presso l’opinione pubblica, dopo esser stati “diluiti” in un tempo superiore ai due anni attraverso un tortuoso percorso di interventi, polemiche e dibattiti, peraltro non decisivi (il Sinodo resta infatti un mero organo consultivo). Da questa doppia manche sinodale il papa trarrebbe inoltre l’indubbio vantaggio di veder confermata la sua aura di pontefice aperto ed in ascolto dei tempi, scaricando – ancora una volta – la responsabilità della mancata riforma ad una gerarchia cattolica rissosa e incapace di leggere ed interpretare i segni dei tempi.
Bergoglio manterrebbe in questo modo il carisma del pastore-profeta che dice esattamente le cose che ciascuno vorrebbe sentirgli dire, nonostante la Chiesa continui a fare esattamente le scelte che ha sempre fatto, e che l’opinione pubblica laica e cattolica ritiene ormai anacronistiche.
La parola chiave che risolverebbe l’evidente contraddizione tra questi due poli è la “misericordia”, tema del Giubileo appena annunciato dal pontefice. Misericordia come attenzione, sensibilità, ascolto, sollecitudine pastorale nei confronti delle vicende e delle storie individuali, dentro una cornice dottrinaria che però resterebbe inalterata. Esempio eclatante di questa politica dei “due forni” le parole pronunciate dal papa di ritorno dalla giornata mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro, quando ai giornalisti che gli chiedevano della situazione dei gay credenti rispose «Chi sono io per giudicare», salvo poi non modificare di una virgola il magistero ecclesiastico sull’omosessualità (al punto da far problema, a quanto finora si sa, che un gay credente perfettamente conforme al magistero cattolico possa diventare ambasciatore presso la Santa Sede).
Se poi si aggiunge che è lo stesso Bergoglio, peraltro analogamente a quanto aveva già fatto subito dopo il Sinodo del 2014 con una intervista al quotidiano argentino La Nación (7/12/2014), a depotenziare la portata dei risultati del Sinodo che sta per celebrare, riesce più facile ipotizzare un dibattito senza sbocchi pratici, che si esaurirà per consunzione o per mancanza di sintesi, piuttosto che destinato a modificare l’approccio pastorale della Chiesa su temi particolarmente sensibili. Nel corso di un’intervista, in occasione dell’anniversario del secondo anno di pontificato, rilasciata alla giornalista Valentina Alazraki dell’emittente messicana Televisa (13/3) e ripresa anche da Radio Vaticana, Bergoglio ha definito infatti «smisurate» le aspettative che si stanno concentrando sul Sinodo. Comportandosi grosso modo come quei leader sindacali che prima di uno sciopero o di una manifestazione ammonissero i propri lavoratori a non sperare di ottenere particolari risultati dalla mobilitazione in cui si stanno impegnando.
Dentro il mondo cattolico il dibattito pre-sinodale stenta a decollare per queste ed altre ragioni – ad esempio il questionario destinato alle Chiese locali in vista della preparazione dei lavori sinodali, assai più “fiacco” del precedente – ed anche per l’indubbio clamore e l’attesa che la nuova kermesse annunciata dal papa, il Giubileo che si aprirà il prossimo 8 dicembre, ha suscitato tra credenti e non credenti.
La legge e la misericordia. In ogni caso, qualcosa si muove. Ed in una linea che potrebbe interpretare efficacemente lo “spirito” del pontificato di Francesco e la sua insistenza sul concetto di “misericordia”. P. Innocenzo Gargano, religioso camaldolese e docente di Storia dell’esegesi patristica al Pontificio Istituto Biblico, ha infatti recentemente formulato una nuova, originale proposta sulla questione della riammissione dei divorziati risposati all’eucarestia. In un saggio pubblicato sull’Urbaniana University Journal, quadrimestrale di teologia della Pontificia Università Urbaniana (n. 3/2014), Gargano riprende il discorso della montagna di Gesù e lo interpreta come un programma di liberazione dalle strettoie della osservanza “burocratica” della legge mosaica. La quale peraltro, sottolinea il monaco camaldolese, venne affidata al popolo ebraico attraverso le celebri tavole in due versioni diverse e successive. La differenza tra le prime e le seconde tavole ricevute da Mosè sul Sinai è ritenuta in questo senso molto importante. «Infatti delle prime tavole si dice che erano “tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra” (Es 32,15); e inoltre che “le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole” (Es 15,16). Delle seconde tavole invece si dice che “Il Signore disse a Mosè: ‘Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le parole che erano sulle tavole di prima, che hai spezzato’” (Es 34,1). Apparentemente sembra che si tratti delle stesse tavole, ma in realtà altro erano le tavole “opera di Dio” e altro erano le “due tavole di pietra” che Mosè si era dovuto costruire da sé, sia pure su comando di Dio». Le prime rappresenterebbero la volontà di Dio nella sua originaria purezza; le altre la necessaria mediazione tra questa legge ed un “popolo di dura cervice” che non sarebbe stato in grado di accoglierla così com’era.
vedi newsUCIPEM n. 529 – 18 gennaio 2014, pag. 18
www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=232:newsucipem-n-529-18-gennaio-2015&catid=84&Itemid=231
Nel caso del divorzio, continua Gargano, Gesù sembra escludere che «si possa parlare di ingresso nel regno, con il richiamo esplicito al testo di Gen 2,24 che si rifà alla Legge inscritta nelle stelle: “Non divida l’uomo quello che Dio ha congiunto” (Mt 19,6). Quando però, sollecitato dai suoi interlocutori che gli chiedono: “Perché allora Mosè ha ordinato l’atto di ripudio e di ripudiarla” (Mt 19,7), Gesù, cercando la motivazione di fondo di quel primo principio, si accorge che di fatto quella prescrizione mosaica manifestava un’accondiscendenza che è propria di Dio. Da qui: da una parte la constatazione che “per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli” (Mt 19,8); dall’altra l’assenza di qualsiasi decisione di cassare una simile prescrizione mosaica, coerente con ciò che ha già dichiarato solennemente nel discorso della montagna: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5,17)».
Due atteggiamenti che secondo il biblista e patrista escluderebbero la possibilità di leggere il passo di Gen 2,24 «da una prospettiva unicamente giuridica o, peggio ancora, tassativa, come si è stati inclini a considerarla nella tradizione cristiana occidentale, e in quella cattolica in particolare. In questo caso saremmo infatti di fronte ad una interpretazione del testo che esulerebbe totalmente dal contesto globale della vita e dell’insegnamento di Gesù, così come appare dal Nuovo Testamento, e dal contesto culturale e religioso in cui agiva ed insegnava il maestro di Nazareth, come risulta dal linguaggio analogo a quello utilizzato da Matteo nel discorso della montagna, compresa la frase stereotipata: “ma io vi dico” (Mt 19,9)». Insomma, per Gesù lo stesso Mosè aveva piegato le esigenze della Legge inscritta nella natura delle cose fin dal principio «per la durezza del vostro cuore» (Mt 19,8), cioè per tener conto della capacità di comprensione dell’essere umano. «Gesù non nega dunque la gravità di chi è imprigionato nella “durezza di cuore”, e tuttavia non lo condanna esplicitamente. La sua decisione è un’altra: accettare la propria debolezza e tuttavia non dimenticare mai che l’obiettivo fissato (skopòs) è una cosa, ma l’obiettivo raggiunto (telos) è un’altra».
La parola chiave, ancora una volta, è la “misericordia” (e questo riferimento ad uno dei ritornelli del pontificato di Francesco dà forza ancora maggiore all’analisi di Gargano). «Lo sganciamento dell’uomo dalla presa rigida della cosiddetta “littera” della Legge – chiarisce il monaco camaldolese – è in realtà un leit motiv di tutto l’insegnamento di Gesù di Nazareth. Ne fanno testo, e proprio nell’evangelista Matteo, non soltanto il discorso programmatico della montagna», ma anche, «la dichiarazione solenne dello stesso Gesù: “Il Figlio dell’uomo è signore del sabato” (Mt 12,8)».
Peccatori e penitenti o figli di Dio? La lettura fatta da Gargano ha l’indubbio vantaggio di essere radicata nell’ermeneutica biblica e di saldarsi con quello che ormai sembra l’approccio scelto da Francesco per il suo pontificato (la legge resta inalterata, ma ciò non esclude comprensione, accoglienza, misericordia nei confronti dei singoli casi), e di avere quindi una maggiore forza argomentativa rispetto ad altre, che hanno però un approccio in generale decisamente più progressista, perché non pensano al divorziato come a un peccatore da perdonare e riammettere ai sacramenti, ma pongono in discussione il concetto stesso di indissolubilità del matrimonio.
Il liturgista Andrea Grillo, facendo riferimento alla tradizione della Chiesa antica, propone infatti nel suo libro Indissolubile? Contributo al dibattito sui divorziati risposati (Cittadella, 2014) che la Chiesa possa ammettere, «in circostanze determinate e non come una legge generale», che il riconoscimento della nuova unione non avrebbe bisogno di fondarsi sulla “inesistenza originaria” della precedente unione, ma potrebbe constatare la “morte del vincolo” e così dischiudere l’orizzonte di un “nuovo inizio” possibile, vivibile e riconoscibile, anche sul piano della ufficialità ecclesiale.
Giovanni Cereti, nel suo celebre libro Matrimonio ed indissolubilità, nuove prospettive (edito dalle Dehoniane nel 1971), parlava delle “specie” del sacramento del matrimonio, che sono i coniugi stessi. Perché il sacramento sussista, è necessario che perduri la materia che lo ha costituito: nel caso dell’eucarestia, le specie del pane e del vino. Secondo la teologia, se le specie dell’eucarestia si degradano, cessa anche la presenza reale di Gesù in esse. Tanto più questo dovrebbe avvenire se i coniugi non sono più legati da vincoli affettivi. Nella sua versione “light”, accolta anche dal card. Walter Kasper e dai settori più aperti dell’episcopato, la tesi di Cereti (esposta in un altro suo “storico” libro, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, ripubblicato da Aracne editore nel 2013) propone la riammissione dei divorziati all’eucarestia dopo un periodo di penitenza, in virtù di una prassi le cui origini Cereti rintraccia nel canone 8 del Concilio di Nicea.
Valerio Gigante Adista notizie n. 17, 4 maggio 2015
www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=54958
Svizzera, seimila partecipanti alle consultazioni pre-Sinodo.
Sono circa seimila i fedeli svizzeri che hanno risposto all’invito della Conferenza episcopale (Ces) a contribuire con i loro pareri alla stesura del questionario preparatorio del prossimo Sinodo ordinario sulla famiglia a ottobre. Gli esiti delle consultazioni, la cui sintesi è stata già inviata a Roma, confermano sostanzialmente le risposte date al precedente sondaggio on line condotto nel 2013, in accordo con la Ces, dall’Istituto di sociologia pastorale di San Gallo in preparazione al Sinodo straordinario dell’anno scorso, al quale avevano partecipato più di 25 mila persone.
Desiderio di comprensione. Ampio il consenso e l’apprezzamento dei fedeli per gli insegnamenti della Chiesa su matrimonio e famiglia, ma altrettanto diffusa è la comprensione per casi concreti di fallimento dei matrimoni e decomposizione delle famiglie. Di qui l’auspicio che la Chiesa trovi nuove soluzioni per questi casi. Solo una ridotta minoranza è assolutamente contraria a qualsiasi modifica dell’attuale dottrina cattolica in materia.
Richiesta di nuove soluzioni. In particolare, secondo la maggior parte delle persone che hanno partecipato alle consultazioni, l’esclusione assoluta dei divorziati risposati dai Sacramenti dovrebbe essere rivista a favore di un’applicazione più flessibile di questa disposizione che tenga conto dei singoli casi. Con riferimento alle coppie omosessuali, anche se la maggioranza rifiuta l’equiparazione delle unioni tra persone dello stesso sesso al matrimonio, molti sono favorevoli a concedere una benedizione a queste coppie, perché possano avere un loro spazio nella Chiesa. Diffusa è poi la consapevolezza che il matrimonio sacramentale stia diventando sempre più una scelta minoritaria. Di qui, la richiesta di un maggiore impegno della Chiesa nella preparazione e nell’accompagnamento delle coppie che si sposano in Chiesa e di un maggiore sostegno alle famiglie.
I partecipanti. Alle consultazioni sul Sinodo, svoltesi tra gennaio e marzo, hanno partecipato agenti pastorali, catechisti e fedeli impegnati nelle parrocchie e nelle comunità e associazioni ecclesiali. A coordinarle è stato il segretariato della Commissione pastorale della Ces che li ha analizzati e sintetizzati nel rapporto inviato a Roma.
L. Z. Bollettino radiogiornale radio vaticana 8 maggio 2015 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
testo http://www.ivescovi.ch/documenti/comunicati/dibattiti-presinodali-in-svizzera
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