NewsUCIPEM n. 802 – 19 aprile 2020

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Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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 “Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

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02 ADOZIONE NAZIONALE                          di maggiorenne: quando si può prescindere dal divario di età

03 AFFIDO CONDIVISO                                L’UNCC contro l’invenzione del “genitore collocatario”                

04 ANONIMATO NEL PARTO                      Diritto all’anonimato della madre: ultime sentenze

06 ASSEGNO DIVORZILE                               Assegno di divorzio e potenzialità reddituali dell’ex coniuge

07 ASSEGNO MANTENIMENTO COPPIE Assegno di mantenimento per coppie non sposate

08 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI     Lui non vuole riconoscere il bambino, dovrò pensare a tutto io?

09 AUTORITÀ PER L’INFANZIA                  Coronavirus, inserire un esperto dei minori nella task force

09 BIBBIA                                                           Le Lettere di Paolo

10                                                                          Lo straniero nella Bibbia

12 CENTRO INTER.STUDI FAMIGLIA       Newsletter CISF – n.15, 15 aprile 2020

13 CHIESA CATTOLICA                                  Chiesa dopo il virus: futuro plurale

15                                                                          Insieme sulla stessa barca

16                                                                          Il sociologo Garelli: “Al tempo del Covid cresce il bisogno di Dio”

18 CHIESA ORTODOSSA                               Un documento (prima volta) sulla dottrina sociale della Chiesa

19 CITTÀ DEL VATICANO                             Il diaconato femminile interroga storia e teologia

21 CONSULTORI UCIPEM                            Como. “Affrontiamo l’emergenza”.

21                                                                          Messina. La coppia al tempo del coronavirus

21                                                                          Pescara. Attivo il servizio di ascolto a distanza contro la paura

22 CORONAVIRUS                                          Il disagio psicologico dentro e dopo l’emergenza

23                                                                          La dignità del morire al tempo del coronavirus

24                                                                          Una domanda e una risposta di fronte alle sfide del coronavirus

27                                                                          Il sovrano e la barchetta

27                                                                          Agamben. Una risposta

28                                                                          Amore e sesso ai tempi del covid: gli impatti sociali

30                                                                          Coronavirus, come incide sulla natalità

30 DALLA NAVATA                                        Domenica in albis – Anno A – 12 aprile 2020

31                                                                          Le ferite del Signore e la gioia di credere

31 DIRITTI                                                          Il diritto alla speranza

32 EMPATIA                                                      L’empatia è già presente nei bambini a 5 mesi

33                                                                          La faccia sconosciuta e miracolosa dell’empatia

34                                                                          6 consigli per avere più empatia con i tuoi amici

35 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA        Nel dopo-pandemia la speranza di rinascere uniti

36                                                                          Annuario pontificio 2020. Novità e critiche

37                                                                          L’Annuario pontificio mescola le carte sul Papato

38 LITURGIA                                                     Genealogia rituale e teoria de forme parallele del medesimo rito

41                                                                          Riforma della Chiesa e riforma liturgica: una questione teologica

43                                                                          La parrhesìa come condizione della tradizione ecclesiale

46 MOBBING                                                    Se il maltrattamento psicologico avviene interno della famiglia?

47 POLITICA                                                      Pandemia come guerra ossia la banalizzazione della complessità

49 TEOLOGIA                                                    “Chiesa, Internet e sacerdoti”. Intervista al teologo José Arregui

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ADOZIONE

Adozione di maggiorenne: quando si può prescindere dal divario minimo di età

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 7667, 3 aprile 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_38016_1.pdf

 Deve ritenersi possibile l’adozione di persona maggiorenne anche se non è rispettata la differenza minima di età tra adottante e adottato di 18 anni prevista dall’art. 291 del codice civile. Di tale istituto, infatti, si rende opportuno effettuare una rivisitazione storico-sistematica anche alla luce della giurisprudenza unionale, così da consentire una ragionevole riduzione del divario di età per tutelare quelle situazioni familiari consolidatesi da lungo tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris.

La vicenda: insussistenza differenza minima di età tra adottante e adottato. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella pronunciandosi sul ricorso di un uomo che aveva manifestato l’intenzione di adottare la figlia maggiorenne della sua convivente e rimasta orfana di padre a 6 anni. L’adottante evidenziava di averla cresciuta come fosse sua figlia da quando aveva 12 anni. Tuttavia, tale domanda veniva rigettata dal Tribunale per insussistenza della differenza minima di età di 18 anni tra adottante e adottato prevista dall’art. 291 del codice civile. Decisione confermata anche in sede di reclamo dalla Corte d’Appello secondo cui nessuna ragione speciale avrebbe giustificato la deroga al requisito legale dell’intervallo minimo di età.

Adozione maggiorenni: evoluzione storico – sistematica. Gli Ermellini disattendono, in prima battuta, l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dai ricorrenti circa l’asserita disparità di trattamento con l’adozione di minori. Nel richiamare diverse pronunce della Corte Costituzionale in materia, si rammenta come vi sia una disciplina differente che caratterizza l’adozione di minori rispetto a quella di maggiorenni quanto a struttura, funzione e ampiezza dei poteri attribuiti al giudice.

Ciononostante, la Cassazione ritiene che l’art. 291 c.c., nel richiedere la differenza di 18 anni tra adottante ed adottato, introduca un’evidente ingiusta limitazione e compressione dell’istituto dell’adozione di maggiorenni, nell’accezione e configurazione sociologica assunta dall’istituto negli ultimi decenni. Si è persa, infatti, l’originaria connotazione diretta ad assicurare all’adottante la continuità della sua casata e del suo patrimonio. Oggi, invece, l’adozione di maggiorenni ha assunto la funzione di riconoscimento giuridico di una relazione sociale, affettiva e identitaria, nonché di una storia personale, di adottante e adottando, con la finalità di strumento volto a consentire la formazione di famiglie tra soggetti che, seppur maggiorenni, sono tra loro legati da saldi vincoli personali, morali e civili. In sostanza, l’istituto ha perso la sua originaria natura di strumento volto a tutelare l’adottante per assumere una valenza solidaristica che, seppure distinta da quella inerente all’adozione di minori, non è immeritevole di tutela.

Interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 291 c.c.. In tale mutato contesto sociale, il limite di 18 anni appare, secondo la Cassazione “un ostacolo rilevante ed ingiustificato all’adozione dei maggiorenni, un’indebita ed anacronistica ingerenza dello Stato nell’assetto familiare in contrasto con l’art. 8 CEDU, interpretato nella sua accezione più ampia riguardo ai principi del rispetto della vita familiare e privata”. La Corte ritiene dunque si sia formato un diritto vivente che legittima un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 291 c.c. che tenga conto anche della giurisprudenza unionale secondo cui l’accezione “vita privata e familiare”, di cui all’art. 8 CEDU, è intesa in senso ampio, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona. Nel caso in esame, l’adottante presenta una differenza d’età con l’adottanda di 17 anni e 4 mesi. Tuttavia, la figlia della convivente (ora 36enne) vive con lui dall’età di sei anni ed essi formano un nucleo familiare ormai consolidato e compatto da circa trent’anni.

Adozione maggiorenni possibile anche con divario di età inferiore a 18 anni. Nel caso di specie, si chiede di concretizzare la lunga convivenza “di fatto” tra adottante a adottanda (quale figlia della convivente dell’adottante) attraverso un riconoscimento formale che suggelli la consolidata comunione di affetti e di vita vissuta. Precludere l’adozione in esame, “ritenendo insuperabile l’ormai vetusta e anacronistica volontà legislativa della differenza minima di età di ben 18 anni, costituirebbe espressione di un’interpretazione puramente letterale della norma” che non tiene conto, a parere del collegio, di argomentazioni di carattere sistematico ed evolutivo. Pertanto, viene formulato dalla Corte il principio di diritto secondo cui “in materia di adozione di maggiorenne, il giudice, nell’applicare la norma che contempla il divario minimo d’età di 18 anni tra l’adattante e l’adottato, deve procedere ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile dell’articolo 291 del c.c., al fine di evitare il contrasto con l’articolo 30 della Costituzione, alla luce della sua lettura da parte della giurisprudenza costituzionale e In relazione all’articolo 8 della Convenzione Europea per la Protezione del Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, adottando quindi una rivisitazione storico – sistematica dell’istituto, che, avuto riguardo alle circostanze del singolo caso in esame, consenta una ragionevole riduzione di tale divario di età, al fine di tutelare le situazioni familiari consolidatesi da lungo tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris”.

Lucia Izzo       studio Cataldi 10 aprile 2020

www.studiocataldi.it/articoli/38016-adozione-di-maggiorenne-quando-si-puo-prescindere-dal-divario-minimo-di-eta.asp

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AFFIDO CONDIVISO

L’UNCC contro l’invenzione del “genitore collocatario”

L’Unione Nazionale Camere Civili [associazione maggiormente rappresentativa degli avvocati civilisti italiani] ne contesta la legittimità e l’opportunità. E il Tribunale di Verona ne coglie parimenti l’inidoneità nell’emergenza. Non si può che apprezzare la meritoria iniziativa dell’Unione Nazionale Camere Civili (UNCC) che, a cura della sua sezione Famiglia, ha elaborato una sorta di piccola guida che riassume e risolve i principali dubbi interpretativi collegati all’emergenza sanitaria e all’applicazione dei decreti governativi che disciplinano i comportamenti dei genitori separati. Tuttavia, il maggior merito dell’UNCC è nell’aver voluto riflettere contestualmente sulla possibilità che le relazioni tra questi e i loro figli vengano gestite diversamente.

www.studiocataldi.it/articoli/37955-rapporti-genitori-separati-e-figli-il-vademecum-degli-avvocati-civilisti.asp

In sostanza l’UNCC, non limitandosi a prendere atto passivamente dello stato dell’arte, rileva correttamente l’irrazionalità degli schemi prevalentemente adottati, partendo proprio dalla evitabilità di buona parte degli imbarazzi attuali di fronte alle ragionevoli disposizioni del governo. In altre parole, la prescrizione di trasferire i figli da una abitazione all’altra rispettando il calendario dettato in sentenza ha messo a nudo l’assurdità della diffusissima modalità di contatto che prevede una frequentazione organizzata sui weekend alternati e una pluralità di “visite pomeridiane” sparpagliate e senza pernottamento: tipicamente oltre ai w-e alternati due pomeriggi presso il “genitore non collocatario” quando il w-e è con l’altro e uno quando questi ha i figli con sé nel w-e. Il che comporta otto spostamenti nell’arco di due settimane, mentre con un affidamento paritetico – tipicamente a settimane alternate (la formula caldeggiata dai figli dei separati oggi adulti) – sarebbero solamente due. Un semplice e convincente confronto, che ha indotto l’UNCC a anzitutto a riconoscere l’inidoneità e pericolosità di questa formula nella particolare situazione presente, suggerendo accorpamenti dei momenti di incontro.

            Ma le Camere Civili hanno meriti ben maggiori. In realtà, infatti, la loro presa di distanza non si limita alla situazione contingente, ma mette in atto una contestazione del tutto generale con toni e apprezzamenti progressivamente più radicali. In pratica, cioè, l’UNCC, con l’abilità dei consumati giuristi, – dico e non dico, ma faccio capire tra le righe – manifesta fin dall’inizio del documento il proprio dissenso dalla prassi corrente sia utilizzando le virgolette ogni volta che utilizza termini che non condivide (da genitore “collocatario” a “diritto di visita”, a “il cosiddetto “genitore non collocatario” “) sia sottolineandone l’improprietà dell’introduzione mediante giri di parole pesantemente negative che mettono in evidenza le criticità come: “Accade, infatti e non di rado, che il genitore indicato nel provvedimento come “collocatario” ritenga di avere maggiori diritti e tenda spesso ad assumere un atteggiamento impositivo e/o prevaricatore, o che il “non collocatario” non si occupi del figlio o viceversa subisca malamente il comportamento del genitore “collocatario”; o come “la fittizia discriminazione tra collocatario e non collocatario”.

            Fino a che, mandato in soffitta il vieto e pretestuoso argomento del “ping-pong” e del “pacco postale”, l’UNCC prende di petto il problema e boccia esplicitamente la prassi attuale: “… E’ dunque più che probabile che il problema abbia una matrice culturale, la cui responsabilità è da individuare all’interno del sistema legale. In altre parole, la discriminazione fra genitori – entrambi affidatari ed entrambi parimenti responsabili della cura, educazione e istruzione dei figli introdotta dall’invenzione del genitore prevalente come figura giuridica – dovrebbe essere fatta cessare, come è avvenuto in molti Tribunali”.

            Non si può, dunque, che ringraziare l’UNCC per questa coraggiosa presa di posizione, anche se appare ancora presto, purtroppo, a chi scrive, per affermare che i Tribunali virtuosi sono “molti”. Certamente lo è, ad ogni modo, il Tribunale di Brindisi, constatata la visibile ispirazione delle Riflessioni alle linee guida di quella sede, rappresentata nella Commissione Famiglia dell’UNCC.

            Inoltre, innegabilmente il loro numero appare in crescita, preso atto anche di un recentissimo decreto del Tribunale di Verona (27 marzo 2020, Giudice Est. Raffaella Marzocca, che sembra venire tempestivamente in soccorso delle tesi delle Camere Civili, quanto meno nell’emergenza.

https://www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_38002_1.pdf

Questo, infatti, trasforma un affidamento con collocatario (il padre) in un paritetico che prevede il cambio di casa ogni due settimane per tutto il tempo che durerà l’emergenza, senza escludere l’estate. Poi, in effetti, si tornerà all’antico, anziché conservare il nuovo regime. Quest’ultimo aspetto può apparire come un punto debole del decreto, ma va osservato che comunque il provvedimento antecedente era decisamente più avanzato rispetto alla prassi dominante, prevedendo due giornate consecutive infrasettimanali presso il genitore “non collocatario”, quando questi non ha il w-e, entrambe con pernottamento. E un pomeriggio isolato nell’altra. Merita, infine, sottolineare che a Verona il genitore non collocatario è la madre; certamente del tutto idonea e incolpevole, altrimenti la giudice non le avrebbe lasciato i figli per due settimane consecutive.

            Poiché la guerra all’affidamento paritetico (anzi, addirittura all’affidamento condiviso, considerato legge da abrogare e oggetto di una petizione in tal senso) è condotta in misura largamente prevalente da gruppi veterofemministi (anche interni al sistema legale), che pretendono di agire “nell’interesse della donna”, resta a chi scrive la curiosità di sapere quanto quella madre possa essere felice e soddisfatta della loro tutela.

Marino Maglietta         Studio Cataldi          7 aprile 2020

www.studiocataldi.it/articoli/38002-l-uncc-contro-l-invenzione-del-genitore-collocatario.asp

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ANONIMATO NEL PARTO

Diritto all’anonimato della madre: ultime sentenze

  1. Identificazione della madre naturale. In mancanza di un interesse serio e non emulativo in capo alla istante, va respinta la richiesta volta ad ottenere l’autorizzazione all’accesso ai documenti amministrativi ai fini delle identificazione della madre naturale, la quale deve essere tutelata nel suo diritto all’anonimato.                          Tribunale minorenni Perugia, 19/07/1999
  2. 2.       Prioritaria tutela della madre. La legislazione italiana, vietando l’accesso alle informazioni sulla propria nascita nel caso di parto anonimo, viola l’art. 8 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, poiché, senza bilanciare i contrapposti interessi della madre (all’anonimato) e del figlio (alla conoscenza) impedisce alla persona di sapere da chi è nato.                                                Corte europea diritti dell’uomo sez. II, 25/09/2012, n.33783
  3. Diritto all’anonimato della madre naturale. Ai sensi dell’art. 24 comma 1, L. 7 agosto 1990, n. 241, è escluso il diritto di accesso al certificato di assistenza al parto del soggetto adottato che intenda conoscere l’identità della propria madre per ragioni di salute, perché, nonostante l’esistenza di un interesse giuridicamente rilevante come quello alla salute, viene considerato prevalente il diritto all’anonimato della madre naturale ex art. 70, R.D. 9 luglio 1939, n. 1238.

T.A.R. Roma, (Lazio) sez. III, 17/07/1998, n.1854

4.         Diritto all’anonimato e individuazione del nome della madre. Il divieto di rendere note le origini biologiche del figlio naturale abbandonato all’assistenza pubblica senza il consenso della propria madre fu sancito da legge datata e in seguito si è affermato attraverso il diritto all’anonimato della madre, che, in occasione del parto, dichiari di non voler essere nominata, consentendo, se vi fosse interesse, il rilascio in copia del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica decorsi cento anni dalla formazione. Infra tale periodo i documenti stessi possono rilasciarsi omettendo i dati che permettano di identificare la madre. Quindi, il divieto di accedere agli atti amministrativi, ove rendessero identificabile la madre che voglia rimanere anonima, è posto da norma speciale, facente eccezione alle regole generali che disciplinano i limiti di tempo e le modalità per ottenere le informazioni, la cui finalità sarebbe elusa se l’identità della madre fosse accertabile anzitempo.              T.A.R. Ancona, (Marche) sez. I, 13/11/2008, n.1914

5.         Istituto di ricovero: i documenti protetti dall’anonimato. Prima dell’entrata in vigore della L. n. 184 del 1983, esisteva un divieto di accesso da parte dei figli non riconosciuti alle informazioni relative all’identità dei genitori biologici; divieto desumibile, da un lato, dalla tutela accordata nel nostro ordinamento all’anonimato e, dall’altro, dal divieto posto a carico degli istituti di ricovero di rivelare l’identità della madre, a prescindere da una successiva adozione.            Consiglio di Stato sez. IV, 17/06/2003, n.3402

6.         Accesso alla documentazione contenente le generalità della madre naturale. Non sussiste nell’ordinamento un diritto assoluto all’anonimato della madre naturale, alla quale è riconosciuta al momento del parto la facoltà di non essere nominata, per cui deve consentirsi l’accesso agli allegati all’atto di nascita laddove sussista un interesse giuridicamente rilevante alla loro conoscenza. Laddove sia intervenuta l’adozione del richiedente l’accesso alla documentazione contenente le generalità della madre naturale deve essere negato stante l’espresso divieto, previsto dalla legge sulle adozioni, per i figli adottivi di avere notizie sui propri genitori naturali.                    T.A.R. Ancona, (Marche), 07/03/2002, n.215

7.         Figli adottivi: è possibile conoscere le generalità della madre deceduta? La morte della madre, che si era avvalsa della facoltà di non essere nominata nell’atto di nascita del figlio, dato in adozione, senza che abbia potuto essere interpellata ai fini dell’eventuale revoca di tale dichiarazione, conformemente a quanto statuito da Corte Cost. 278/13, non osta all’accoglimento della domanda del figlio stesso, che chiede di conoscerne le generalità, fermo che il trattamento di siffatti dati concernenti la sua identità personale deve essere eseguito in modo corretto e lecito, senza cagionare danni, anche non patrimoniali, all’immagine, alla reputazione e ad altri beni di primario rilievo costituzionale di eventuali terzi interessati (discendenti, familiari).                                            Cassazione civile sez. I, 09/11/2016, n.22838

8. Violazione del diritto all’identità. È costituzionalmente illegittimo l’art. 28, comma 7, l. 4 maggio 1983 n. 184, come sostituito dall’art. 177, comma 2, D. lg. 30 giugno 2003 n. 196, nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, D.P.R. 3 novembre 2000 n. 396 – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.

La disposizione censurata prefigura una sorta di “cristallizzazione“ o di “immobilizzazione“ nelle modalità di esercizio della scelta della madre per l’anonimato, che assume connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad “espropriare” la persona titolare del diritto a conoscere le proprie origini ai fini della tutela dei suoi diritti fondamentali da qualsiasi ulteriore opzione, ma, mentre può ritenersi ragionevole che la scelta per l’anonimato legittimamente impedisca l’insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare invece ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”, potendosi quella scelta riguardare, sul piano di quest’ultima, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta, mentre sarà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della pertinente verifica (sent. n. 425 del 2005).

Corte Costituzionale, 22/11/2013, n.278

9.         Parto anonimo e morte della madre. Non è accogliibile l’istanza di autorizzazione ad accedere alle informazioni circa la propria origine , nonché l’identità della madre biologica che abbia optato per l’anonimato, in caso di morte della medesima, se risulti che la donna deceduta abbia avuto altri figli, non essendo desumibile il dato se essi siano a conoscenza della vicenda adottiva, e non potendosi procedere all’interpello degli stessi al solo fine di apprendere la conoscenza o meno di tale vicenda, perché ciò comporterebbe inevitabilmente la comunicazione di tale dato particolarmente sensibile.            Tribunale minorenni Genova, 23/05/2019

10.       La richiesta di riconoscimento di maternità del minore dichiarato adottabile. La dichiarazione di adottabilità del minore nato da un parto in anonimato non preclude alla madre di richiedere il riconoscimento di maternità. Tale richiesta sarebbe inammissibile allorquando, a seguito della dichiarazione di adottabilità del minore, segua l’affidamento preadottivo.     Cassazione civile sez. I, 03/12/2018, n.31196

11.       Dichiarazione giudiziale di maternità: l’anonimato. Pur rimanendo fermo il principio in base al quale, in mancanza di una diversa determinazione, deve essere rispettata la volontà della madre biologica di rimanere anonima, a seguito della morte di costei, la diversa determinazione in tal senso può essere posta in essere dai suoi eredi. Per l’effetto, venute meno le ragioni di tutela della scelta a suo tempo compiuta dalla donna, è ammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità nonostante la volontà espressa al momento del parto di rimanere anonima.                      Tribunale Roma, 12/05/2017

La legge per tutti        15 aprile 2020

    www.laleggepertutti.it/372601_diritto-allanonimato-della-madre-ultime-sentenze

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ASSEGNO DIVORZILE

Assegno di divorzio e potenzialità reddituali dell’ex coniuge

I nuovi orientamenti della Cassazione in tema di assegno di divorzio all’ex coniuge con un commento di A. Focante

Quali sono i nuovi orientamenti della Corte di Cassazione in ordine all’assegno di divorzio ed all’atteggiamento dell’ex coniuge dotato di potenzialità professionali e reddituali?

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 3661, 13 febbraio 2020

Commento dell’Avv. Agnese Focante

Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge si fonda su principi di autodeterminazione e auto-responsabilità. Pertanto, assumono rilievo sia la capacità, di quest’ultimo, di procurarsi i mezzi di sostentamento necessari, sia le potenzialità professionali e reddituali, che lo stesso è chiamato a valorizzare con una condotta attiva e non limitandosi ad attendere eventuali opportunità di lavoro, gravando nel frattempo sul coniuge economicamente più abbiente facendo leva sulla solidarietà post coniugale.

            Si ribadisce, ancora una volta, l’irrilevanza del tenore di vita in costanza di matrimonio, ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio, evidenziando il dovere in capo all’ex coniuge di porre in campo la propria capacità lavorativa.

Il caso. In costanza di matrimonio la moglie, iscritta all’università, lavorava presso una casa editrice. Lavoro e studi vengono, dalla stessa abbandonati con la nascita del primo figlio, decidendo di occuparsi, in prima persona della cura dei figli, stante gli impegni lavorativi della carriere dirigenziale del marito. Alla morte dei propri genitori, la moglie eredita da entrambi, mentre il marito nel frattempo andava in pensione.

            A seguito del divorzio, il Tribunale di Roma riconosceva alla moglie un assegno divorzile di € 4.000 che, a seguito dell’appello veniva ridotto ad € 1.500/mensili. Contro tale decisione la ex moglie ricorre in Cassazione, sostenendo che la Corte d’appello: – non avrebbe proceduto correttamente nel parametrare l’inadeguatezza dei mezzi economici del coniuge debole, al tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio; – avrebbe omesso di valutare il notevole miglioramento dei redditi del marito, nel corso della vita matrimoniale, intervenuto dopo la trasformazione del suo rapporto di lavoro da dipendente ad autonomo; – avrebbe attribuito troppa rilevanza all’apertura della successione paterna, senza che fosse stato accertato un apprezzabile miglioramento nelle sue condizioni patrimoniali; – avrebbe erroneamente ridotto la misura dell’assegno a causa della sua mancata iniziativa nella ricerca e nel reperimento di una occupazione, senza tener conto che l’attitudine al lavoro può dirsi rilevante quando vi sia una effettiva possibilità di svolgere un’attività lavorativa retribuita e adeguata alla qualificazione professionale. La Cassazione respingeva il ricorso della donna.

Il dovere di sfruttare tutte le potenzialità professionali e reddituali personali per l’ex coniuge. La suprema Corte di Cassazione, non accogliendo il ricorso, ha confermato che i principi che secondo la ricorrente non sono stati correttamente applicati dalla corte d’appello, non sono più quelli posti a base della più recente giurisprudenza della Corte, in quanto la corresponsione di un assegno di divorzio non deve più avere il fine di far mantenere all’ex coniuge lo stesso tenore di vita di cui godeva in costanza di matrimonio. Il riconoscimento dell’assegno di divorzio e la sua misura devono fondarsi sulla comparazione delle condizioni economico patrimoniali delle parti, sulla riscontrata inadeguatezza dei mezzi del richiedente e sull’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Va, inoltre, accertata se tale sperequazione sia la diretta conseguenza del contributo, non economico, fornito dal richiedente, che a sacrificio delle proprie aspettative professionali, ha provveduto alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi; ciò anche in relazione all’età del richiedente e alla durata del matrimonio. L’assegno, pertanto, va quantificato al fine di garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato a un simile contributo. L’ex coniuge non deve assumere un atteggiamento deresponsabilizzante ed attendista

            La Corte, inoltre, ha precisato, in merito alla capacità lavorativa e la mancata attivazione per la ricerca di un’occupazione a seguito della separazione, che ciò che rileva non sono le occasioni concrete di ottenere un lavoro, ma la capacità di procurarsi i propri mezzi di sostentamento e le potenzialità professionali e reddituali.

L’ex coniuge non deve assumere un “atteggiamento deresponsabilizzante e attendista, di chi si limiti ad aspettare opportunità di lavoro riversando sul coniuge più abbiente l’esito della fine della vita matrimoniale”, ma a seguito dello scioglimento del matrimonio, deve valorizzare le proprie potenzialità con una condotta attiva.

Testo integrale dell’ordinanza

Paolo Storani  – Law In Action 14 aprile 2020

www.studiocataldi.it/articoli/38065-assegno-di-divorzio-e-potenzialita-reddituali-dell-ex-coniuge.asp

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ASSEGNO MANTENIMENTO COPPIE

Assegno di mantenimento per coppie non sposate

    Quanti soldi deve versare il convivente di una coppia di fatto in caso di rottura dell’unione? Quali sono i criteri di calcolo degli alimenti?

            Tempo fa hai iniziato una convivenza con un uomo. Avete vissuto a lungo sotto lo stesso tetto comportandovi proprio come se foste una normale famiglia, al pari cioè di una coppia sposata. Senonché è arrivata anche per voi la crisi e avete così deciso di separarvi. Grazie allo stipendio del tuo ex compagno avete potuto sino ad oggi far fronte a tutte le necessità economiche: avete pagato le bollette, l’affitto e fatto la spesa quotidianamente. Tu invece, ti sei presa cura del ménage domestico, lo hai aiutato in alcune attività, hai badato all’appartamento e a tutti i bisogni della famiglia. A fronte di ciò ti sei accontentata di lavori saltuari, quasi tutti precari. Non avendo ora di che vivere, ti chiedi se esista un assegno di mantenimento per coppie non sposate. Cosa prevede la legge per i partner conviventi? È previsto un sussidio, una forma di alimenti o qualsiasi altro sostegno economico che consenta, alla parte economicamente più debole della coppia, di tirare avanti almeno per i primi anni? Cerchiamo di fare il punto della situazione.

Coppie non sposate: esiste il mantenimento? Per le coppie non sposate non esiste alcun diritto al mantenimento nei confronti dell’ex compagno o compagna. Ciò che infatti è previsto per marito e moglie, dove il coniuge con il reddito più elevato deve garantire all’ex l’autosufficienza economica, non vale invece per le coppie di fatto. L’unico dovere di mantenimento è nei confronti dei figli delle coppie non sposate per i quali sussistono gli stessi obblighi previsti per le famiglie tradizionali, ivi compresa la tutela penale. E difatti, il reato di omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento dei figli si configura anche in caso di violazione degli obblighi di natura patrimoniale nei confronti di figli minori nati da genitori non legati dal vincolo formale del matrimonio [Cass. sent. n. 44695/4.11.2019].

            A ben vedere non esiste neanche l’obbligo di restituzione delle spese sostenute nell’interesse della famiglia in quanto inquadrate come adempimento di un normale dovere di solidarietà, implicito anche nelle coppie non sposate. Solo eventuali costi sostenuti per la costruzione o la ristrutturazione della casa andranno restituiti nei limiti del 50% e sempre che si siano conservate le relative fatture. Se uno dei due conviventi dovesse eseguire in favore dell’altro una donazione di non modico valore (ad esempio una casa, un conto in banca, ecc.), l’altro sarebbe tenuto a versargli gli alimenti nel caso in cui questi dovesse trovarsi in condizioni di estrema miseria. Tale obbligo però si riferisce a qualsiasi tipo di donazione, anche tra parenti o estranei, non solo quindi ai partner. Gli alimenti peraltro non sono equiparabili al “mantenimento”. Innanzitutto scattano solo se il donante è in condizioni di estremo disagio, dettato dall’impossibilità oggettiva di lavorare e procurarsi un reddito (si pensi a una persona gravemente malata o anziana); in secondo luogo l’ammontare è ridotto alle sole necessità di vita (vitto e alloggio).

            Insomma, quando finisce una «unione di fatto» – così come le chiama la legge – non è dovuto alcun assegno di mantenimento. Salvo però in un solo caso che vedremo qui di seguito.

Assegno di mantenimento per coppie non sposate. Come anticipato, esiste un solo caso in cui il partner di una coppia non sposata può rivendicare l’assegno di mantenimento e ciò avviene solo se i due hanno firmato un cosiddetto patto di convivenza. Si tratta di un vero e proprio contratto che, invece, alle coppie sposate non è consentito (visto che la legge vieta i cosiddetti “patti prematrimoniali”). I conviventi possono regolare nel contratto i rapporti di natura patrimoniale relativi alla convivenza come ad esempio:

  • Modalità di uso della casa;
  • Spese durante la convivenza: i conviventi possono stabilire in quale modo e misura ciascuno di essi partecipa alle spese derivanti dalla convivenza o dall’attività lavorativa domestica ed extradomestica;
  • Regime patrimoniale: i conviventi potrebbero ad esempio applicare il regime della comunione legale tra coniugi;
  • Mantenimento del convivente: il contratto può prevedere un’obbligazione di mantenimento reciproca o di un convivente a favore dell’altro. Ad esempio uno dei partner potrebbe obbligarsi a versare una somma di denaro (in un’unica soluzione o periodica) o a trasferire beni (immobili, mobili o titoli) o diritti prevedendo che l’altro convivente si obblighi, da parte sua, a determinate attività o a determinati servizi (ad es. conservazione e pulizia dell’abitazione, assistenza medica).

È possibile anche regolare le conseguenze dell’inadempimento di tale obbligo con una clausola risolutiva espressa, o disciplinando la diffida ad adempiere o fissando una penale a carico dell’inadempiente.

            Quanto al mantenimento, i conviventi potrebbero prevedere il pagamento di una somma di denaro a titolo di mantenimento dell’altro convivente privo di reddito adeguato. Il contratto può stabilirne l’ammontare, le modalità di pagamento (ad esempio in un’unica soluzione o a rate), la durata (ad esempio per un periodo pari a quello di durata della convivenza) e le modalità di effettuazione (ad es. assegno circolare o bonifico bancario).

            Insomma, tutto è rimesso alla volontà delle parti. Il contratto non deve essere necessariamente firmato prima dell’inizio della convivenza ben potendo essere sottoscritto in qualsiasi momento, anche successivo all’avvio della convivenza. Per stipulare un patto di convivenza le parti possono recarsi da un notaio o da un avvocato. La legge infatti stabilisce che tale accordo va redatto con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico. Il professionista che ha ricevuto l’atto deve provvedere, nei successivi 10 giorni, a trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe.

            La legge per tutti        14 aprile 2020

www.laleggepertutti.it/388562_assegno-di-mantenimento-per-coppie-non-sposate

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ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI

Lui non vuole riconoscere il bambino, dovrò pensare a tutto io?

    Obbligo di riconoscimento e di mantenimento: cosa prevede la legge e quali sono i diritti della madre di una coppia non sposata? Dopo un breve periodo di convivenza, tu e il tuo ex compagno avete scoperto di aspettare un figlio. Alla notizia dell’imminente nascita, lui però è scappato. La paura della paternità – nascosta sotto la scusa di un litigio – lo ha portato ad andarsene via per sempre. Non intende neanche riconoscere il bambino, il che la dice lunga sulle effettive ragioni che lo hanno spinto a intraprendere tale scelta. Così, ora che stai per partorire, ti interroghi sul futuro del tuo piccolo: chi gli farà da padre? Chi lo manterrà? Ma soprattutto ti chiedi: visto che lui non vuole riconoscere il bambino, dovrò pensare a tutto io?

Scappare non aiuterà il tuo ex a sottrarsi all’adempimento degli obblighi di legge. Ecco allora i diritti che, in quanto madre, ti spettano.

Il mio ex deve riconoscere il figlio? Non si può scegliere se riconoscere o meno il bambino nato da un’unione di fatto, ossia da una relazione non sfociata in matrimonio. Si tratta di un dovere cui non ci si può sottrarre. Certo, deve comunque trattarsi del proprio figlio, cosa che si può verificare tramite il test del dna.

Il padre, quindi, è tenuto a riconoscere il figlio della propria ex compagna anche se ha rotto il legame con quest’ultima. Se non lo fa, la madre può citarlo in giudizio affinché sia il giudice a ordinargli di sottoporsi all’analisi del sangue per verificare la paternità. Se lui dovesse rifiutarsi anche dinanzi al provvedimento del tribunale, allora tale comportamento verrà ritenuto al pari di una tacita ammissione di paternità e sarà il magistrato stesso a decretare il rapporto di filiazione e, quindi, il riconoscimento del bambino. Insomma, il figlio di una coppia non sposata avrà sempre un padre che è quello naturale, sia che questo lo voglia riconoscere spontaneamente che non voglia farlo, poiché, in questo secondo caso, ci sarà sempre il giudice a provvedere al posto suo.

Obbligo di mantenimento del figlio di un padre non sposato. I genitori – sia che abbiano deciso di sposarsi che di convivere – hanno sempre l’obbligo di contribuire – ciascuno in base alle proprie capacità economiche – al mantenimento dei figli, tenendo conto dei bisogni di questi. Non si tratta solo di provvedere al sostentamento alimentare ma anche alle esigenze di istruzione ed educazione, alla vita di relazione, allo sport, ai trasporti, ecc. Tale obbligo sussiste per il solo fatto di aver generato al mondo un figlio e permane anche in caso di separazione della coppia. Coppia che, come detto, non deve necessariamente essere unita dal matrimonio. Con la conseguenza che, il padre di un bambino nato da una coppia di fatto, non può lasciare alla madre l’onere di provvedere a tutte le esigenze del piccolo ma dovrà contribuire secondo le proprie capacità.

Se dovesse comportarsi così, la donna avrebbe due frecce nel proprio arco:

  • potrebbe denunciare l’uomo per «violazione degli obblighi familiari», comportamento che costituisce reato anche per le coppie non sposate;
  • potrebbe contemporaneamente citare l’uomo dinanzi al tribunale affinché il giudice lo condanni al pagamento di un assegno mensile di mantenimento. E, qualora non dovesse provvedere neanche dopo la sentenza, potrebbe pignorargli lo stipendio o gli altri beni.

Senza una sentenza, come si stabilisce il mantenimento per i figli? L’obbligo di mantenere i figli sorge non per via di una sentenza del tribunale, la quale interviene solo in caso di disaccordo dei genitori, ma già con la nascita del bambino. È in quel momento stesso che il padre e la madre devono iniziare a provvedere, in proporzione alle rispettive sostanze, ai bisogni del figlio. Ai fini della ripartizione degli oneri finanziari, si deve avere riguardo, come disposto dall’articolo 148 del codice civile, non solo alle sostanze, ma anche alla capacità di lavoro professionale o casalingo di ciascun genitore, valorizzando le accertate potenzialità reddituali.

            Detto ciò, il padre – dopo aver riconosciuto il figlio – è anche tenuto a garantire alla madre i soldi necessari al suo mantenimento. Quest’ultima, in caso contrario, potrebbe – come detto sopra – ricorrere al giudice affinché condanni il padre al pagamento di un assegno mensile parametrato alle sue capacità.

Per quanto tempo il padre deve versare il mantenimento al figlio? Non c’è un termine massimo per l’obbligo di mantenimento. La legge dice che i genitori devono provvedervi finché i figli non sono in grado di badare a sé stessi, ossia non acquistano un reddito sufficiente a mantenersi. Il che potrebbe voler dire anche dopo molto tempo dalla maggiore età.

Posso chiedere i danni al padre di mio figlio che è scappato? Quando un uomo scappa dinanzi alla paternità commette un illecito non solo penale ma anche civile. I figli stessi potrebbero citarlo, una volta divenuti adulti, per aver compromesso la loro stabile crescita che, non solo a livello materiale ma anche emotivo e psicologico, non può fare a meno della figura paterna

La legge per tutti        14 aprile 2020

www.laleggepertutti.it/388720_lui-non-vuole-riconoscere-il-bambino-dovro-pensare-a-tutto-io

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AUTORITÀ PER L’INFANZIA

Coronavirus, inserire un esperto in infanzia e adolescenza nella task force per la fase 2

Inserire un esperto in materia di infanzia e adolescenza nel Comitato incaricato di proporre le misure per fronteggiare l’emergenza Covid-19 e per avviare la ripresa graduale nei diversi settori delle attività sociali, culturali, economiche e produttive. L’esperto dovrà possedere una competenza trasversale sull’infanzia e sull’adolescenza e sulle relative politiche, nonché sul sistema di tutela minorile. È quanto ha proposto con una nota l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano al Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte.

“La complessa situazione che attraversa il Paese richiede l’attivazione di differenti professionalità per fronteggiare l’emergenza e le sue conseguenze nel medio e lungo periodo, individuando soluzioni innovative compatibili con il distanziamento sociale” dice Filomena Albano. “A tal riguardo c’è la necessità di pianificare interventi che garantiscano la continuità dei servizi dedicati alle persone di minore età e che rafforzino i sistemi di prevenzione, protezione, integrazione e inclusione destinati a bambini e adolescenti. Occorre puntare sui diritti dei più piccoli, ponendo al centro le persone di minore età, perché il futuro che seguirà l’emergenza è destinato a coinvolgerle direttamente”.

“Sarebbe inoltre opportuno – conclude la Garante – prevedere che il Comitato si confronti con l’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, insediatosi lo scorso 8 aprile, al cui interno si intende costituire un gruppo di lavoro ristretto che si focalizzerà sulle conseguenze dell’emergenza per i minorenni più vulnerabili e sui possibili strumenti per farvi fronte”.

Autorità garante per l’infanzia 15 aprile 2020

www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/15-04-2020_coronavirus_inserire_un_esperto_in_infanzia_e_adolescenza_nella_task_force_per_la_fase_2.pdf

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BIBBIA

Le Lettere di Paolo

Traduzione del testo originale in una lingua italiana fluente e suggestiva, per rendere la straordinaria forza e ricchezza del linguaggio paolino. Commento fondato su un’accurata analisi del testo, arricchita da sensibilità e intuizione femminili.

            Particolare attenzione – nei commenti e nel saggio conclusivo – alla presenza decisiva delle donne nella Chiesa delle origini e nell’epistolario di Paolo

            Dopo i Vangeli pubblicati nel 2015, questo è il secondo volume del progetto di traduzione e commento di tutto il Nuovo Testamento a cura di un gruppo di bibliste italiane coordinate da Rosanna Virgili (relatrice al 18° congresso Ucipem 2003 –Vicoforte di Mondovì)

A cura di Rosanna Virgili, Emanuela Buccioni, Rosalba Manes.

https://www.libreriadelsanto.it/libri/9788851421816/le-lettere-di-paolo.html?utm_source=Newsletter&utm_medium=email&utm_content=readmore&utm_campaign=nl1522+Le+lettere+di+Paolo+tradotte+e+commentate+da+tre+bibliste

 

Lo straniero nella Bibbia

La Bibbia ebraica dice in un unico e solo versetto di amare il prossimo (vicino) come te stesso (Lev 19,18), mentre ben una quarantina di passi prescrivono di amare lo straniero, in genere unito all’orfano ed alla vedova, e non solo di non opprimerli, di non lederne i diritti come in Deuteronomio 27,19 ed Esodo 22,20-23.

Segnaliamo inoltre Numeri 35,15 (diritto di asilo e rifugio); 9,14s (parità rituale) e 15,14-16 [uguaglianza giuridica fra l’israelita e lo straniero, presente anche in Esodo 12,49: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero»]. In Levitico 23,22 e in Deuteronomio 24,17-22 e 26,11s si prescrive di non spigolare e non racimolare l’uva e gli ulivi, di non mietere fino al margine del campo lasciando il resto delle messi al povero e al forestiero, oltre alle decime triennali per loro.

Ius soli generalizzato. Deuteronomio10,18s ci introduce in un atteggiamento ulteriore che nasce dal comportamento amoroso di Dio stesso: «perché il Signore vostro Dio…, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama lo straniero e gli dà cibo e vestito. Amate dunque lo straniero, poiché anche voi siete stati stranieri nel paese d’Egitto». È chiaro che il gruppo che si trova più in difficoltà è quello degli immigrati, particolarmente bisognosi e sprovvisti del necessario, tanto che Dio dà loro cibo e vestito. E lo si capisce perché spesso la loro presenza è conseguenza di un’immigrazione dovuta a guerra e miseria. Israele quindi, ricordando la sua condizione originaria di straniero e la successiva liberazione nell’esodo (anche quello odierno è un esodo, non più dalla schiavitù egiziana ma da quella libica), e abbattendo le frontiere che lo separavano dagli altri popoli, assume la stessa preoccupazione amorevole di Dio a tal punto da considerare il forestiero come un indigeno.

            Infatti l’autore biblico va oltre i confini e le misure tradizionali introducendo l’idea di un popolo inclusivo (non sovranista e nazionalista), come si evince in modo ancor più esplicito da un altro testo del Levitico (19,34): «Lo straniero che dimora con voi sarà come uno nato da voi. Tu l’amerai come te stesso». La preoccupazione del legislatore va alla radice della mentalità (per sradicarla) da cui nasce l’ostilità verso lo straniero: ossia non considerarlo come parte del proprio popolo. Il testo ebraico (e pure i LXX) non dice, come suonano le traduzioni consuete: «Lo tratterete come colui che è nato tra voi», ma: «Sarà come uno nato fra di voi» come autoctono in voi (così i LXX; perché tradurre il verbo essere con trattare?). L’uguaglianza si pone sul piano dell’origine, non solo del modo di agire nei suoi confronti. Questo è Ius soli generalizzato, addirittura applicato anche a chi fisicamente non è nato tra noi; a maggior ragione se anche geograficamente è pure nato in mezzo a noi (italiani). È analogo al passaggio linguistico di contiguità in latino fra hostis (nemico) e hospes (ospite), in italiano fra ostile e ospite.

Passando al NT, Xenos (straniero, da cui xenofobia) ricorre 4 volte in Matteo 25,35-44 sempre a proposito della terza opera di misericordia (mai negli altri vangeli): «Ero forestiero e (non) mi avete ospitato», che non ha bisogno di grandi spiegazioni perché l’identificazione di Gesù con lo straniero è immediata. Segnaliamo solo che per «ospitare-accogliere» l’evangelista ricorre al verbo synagein (sostantivo synagôge) che designa l’adunanza dell’assemblea, per far capire che non s’intende il mero esercizio di un’ospitalità provvisoria e temporanea nei confronti di un puro destinatario di un servizio. Si suggerisce, in verità, un’accoglienza fatta di partecipazione, condivisione, integrazione e comunione, senza rinunciare a tutte le opere di misericordia [compresi gli ammalati (assistenza sanitaria) e i carcerati (assistenza penale)], che calzano pure oggi a pennello per i nostri migranti. Tali opere non sono un surplus ad libitum [a piacimento], bensì una questione cruciale per il cristiano: è già un problema disinteressarsene (nel linguaggio antico i peccati di “omissione”), figuriamoci essere contro di esse quando riguardano gli immigrati, peggio ancora se da parte di certe frange cattoliche.

            Straniero di me. C’è poi il finale della lettera ai Romani (16,23) da cui, in un normale saluto di cortesia, emerge un dato sorprendente: «Vi saluta Gaio che mi ospita.», letteralmente «straniero di me» (xenos mou), ossia «ospitale con me». La parola straniero contiene il significato vuoi di ospitante, vuoi di ospitato, come del resto il termine italiano “ospite”. Per il NT «essere stranieri» (fuori dalla propria terra) comporta l’essere ospitati: è nella parola e nel concetto stesso, a partire già dalla lingua greca. Si noti che xenos trattiene il significato originario, ad es. le divinità straniere [più precisamente i demoni stranieri] di Atti 17,18; e pure il verbo xenizein conserva l’etimo di «dire cose strane» (Atti 17,20) o «trovare strano» (Prima Pietro 4,4). Ma nello stesso testo del medesimo autore (Luca) significa più spesso «dare o ricevere ospitalità» come in Atti 10,6; 10,23; 21,16 e 28,7. Si dà inoltre il sostantivo xenia, nel significato di accoglienza ospitale e a volte pure di cittadinanza; in modo molto tangibile negli unici due casi in cui ricorre nel NT (Atti 28,23 e Filemone 22) significa alloggio [hospitium, come l’italiano “foresteria” che designa l’alloggio per i forestieri (nei conventi)]. Straniero voleva dire ospite tout court! L’estraneità significava intrinsecamente accoglienza!

Luca 24,18: «Tu solo (Gesù viandante coi due di Emmaus) sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che è accaduto…». Il termine per “forestiero” è paroikeis [participio], da cui i nostri termini parroco/parrocchia (il cui significato oggi è cambiato); tuttavia gli stranieri-forestieri allora erano “parrocchiani” (così pure il sostantivo paroikoi in Efesini 2,19). Tenendo presente che anticamente la “parrocchia” indicava il soggiorno in un paese straniero, sottolineiamo oggi come le nostre parrocchie si debbano aprire appunto ai “parrocchiani” (pellegrini accolti e integrati).

            Luca 9,51-55: Gesù sta attraversando la Samaria che lo respinge; i focosi figli del tuono Giacomo e Giovanni chiedono di annientare i villaggi col fuoco dal cielo (…come i campi Rom?), ma Gesù rimprovera aspramente (letteralmente «si voltò e li minacciò») le due colonne “identitarie” della chiesa primitiva che vogliono “fulminare” chi non crede in Cristo. E sempre in Samaria (Luca 10,38-42) Gesù è accolto dalle sorelle Marta e Maria nella loro casa: quindi le due amiche di Gesù sono (pensate come) samaritane (Emanuel Hirsch, Frühgeschichte des Evangeliums, (Protostoria del vangelo), Tubinga 1941, vol. II, p. 212s). Risulta perciò del tutto marginale l’origine etnica: essere samaritane, o giudee di Betania come nel quarto vangelo (Gv 11,1-12,11; tradizioni discordanti, o anch’esse emigrate??).

Luca 10,29-37: la parabola (o meglio il racconto esemplare) del Buon Samaritano del quale sottolineiamo le numerose azioni operative: fattosi vicino, gli fasciò le ferite, vi versò olio (per lenire) e vino (per disinfettare; sarebbe più logico l’inverso: vino, olio, bende), lo caricò sul suo giumento, lo portò alla locanda, e si prese cura di lui (sottinteso anche durante la notte). Il giorno seguente diede due denari all’albergatore promettendo di rifondergli l’eventuale surplus al suo ritorno; è un commerciante uso a percorrere sovente quel tratto. Secondo Joachim Jeremias (Le parabole di Gesù, Paideia-Brescia 1967, p. 242) si tratta di una somma ragguardevole, pari al costo del sostentamento e dell’assistenza di una persona per parecchi giorni. Qui infatti, con un’inversione “anomala”, è un benestante straniero che soccorre e si prende cura di un “autoctono”: la scena è vista dalla Giudea e da Gerusalemme ove la parabola originariamente è stata raccontata «con il sacerdote e il levita davanti agli occhi degli ascoltatori e a pochi passi dalla strada che parte da Gerusalemme verso Gerico» (Hirsch 211). E si tratta per di più di un mercante in viaggio (v. 33): infatti lascia dei soldi all’albergatore perché non si può fermare; e non come il sacerdote e il levita che, finito il loro turno al tempio di Gerusalemme [per cui potevano rischiare l’impurità di toccare eventualmente un morto], se ne stavano tornando a casa «rilassati e senza premura». Jeremias inoltre osserva come (nella fiction dell’ambientazione scenica) sia difficile pensare che avesse con sé il materiale per medicare le ferite; deve aver ricavato delle bende lacerando il proprio copricapo-turbante e/o strappando la sottoveste di lino.

I Samaritani, odiati aramei pagani. Anche allora ci furono parecchi atti di terrorismo; circa vent’anni dopo il ministero pubblico di Gesù (nel 52 d. C. secondo la testimonianza dello storico Giuseppe Flavio), dei Galilei che attraversavano la Samaria per andare a Gerusalemme (molto probabilmente in pellegrinaggio), furono massacrati nel loro passaggio attraverso i villaggi samaritani. Ma prima e durante la vita (pubblica) di Gesù ci sono stati altri massacri e sabotaggi, come la profanazione notturna del tempio di Gerusalemme nel 12 d. C. sempre ad opera dei samaritani, che erano considerati dai giudei alla stessa stregua dei pagani, e non tanto degli eretici-scismatici; così si comprende pure meglio, in reazione a queste azioni eversive, la richiesta dei figli di Zebedeo di bruciare i loro villaggi. Orbene, nonostante questi atti terroristici e il fatto che i Samaritani lo rifiutino, Gesù raccontò la parabola del Buon Samaritano in cui, per reazione contro l’implacabile odio tradizionale, con tono di sfida assegnò l’esemplare comportamento di caritatevole benefattore ad un “arameo pagano” [Hirsch 212].

            Luca 16,19-31: anche il racconto esemplare del ricco (Epulone) e del povero Lazzaro riguarda il nostro tema. La teologia della liberazione è sempre più soppiantata in America (Nord e Sud) dalla cosiddetta teologia della “prosperità”, ad opera di cristiani conservatori super-finanziati. Seconda questa concezione la prosperità economica e l’ascesa sociale, per non dire la ricchezza opulenta, sono il segno della benedizione e del favore divino. Proprio questa parabola intende contestare polemicamente tale valorizzazione giudaica della ricchezza quale segno della grazia divina, che è esattamente il contrario delle beatitudini (il «Guai a voi ricchi» di Luca 6,24s).

            Il mendicante Lazzaro «era stato gettato (ebeblêto) alla porta del ricco» [e non che «giaceva alla sua porta»]. Anche parte dei migranti attuali non sono tanto sopraggiunti [l’etimo di advena, alternato da S. Girolamo con peregrinus e hospes nel tradurre xenos], bensì gettati dagli scafisti verso le nostre coste/porti/porte, per poi approdare sui marciapiedi e dormire sotto i portici, o sulle panchine in riva al Po a Torino o nelle aiuole (prive di panchine) antistanti la Stazione di Milano. L’elemosina non basta: il Vangelo è cosa ben diversa da «una predica sulle pie opere di carità» […eine Predigt von den Liebeswerken; Hirsch 213].

Mauro Pedrazzoli       “Il foglio” di Torino    n. 466

www.ilfoglio.info/default.asp?id=18&ACT=5&content=806&mnu=18

 

 

 

 

 

 

 

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – N. 15, 15 aprile 2020

UE- Associazioni Familiari Europee. COFACE Families Europe (Confederazione delle organizzazioni familiari nell’Unione europea). In questi giorni la tecnologia digitale “la fa letteralmente da padrona”, ed emerge in tutta la sua forza il fatto che la mancanza di mezzi e/o di abilità legate alla padronanza di queste tecnologie può provocare nuove forme di svantaggio sociale e di emarginazione: si pensi alle persone più anziane, spesso limitate nel restare informate o nel chiedere tempestivamente aiuto, o agli studenti che devono seguire da casa le lezioni dei professori.                                                           www.coface-eu.org

https://translate.googleusercontent.com/translate_c?depth=1&hl=it&prev=search&rurl=translate.google.com&sl=en&sp=nmt4&u=http://www.coface-eu.org/60-anniversary/pieces-of-coface-history/&usg=ALkJrhgGuqIvb6UsTv0ptHI-NC8USgEpNg

COFACE Families Europe ha approntato una Digital Families Map (Mappa delle Famiglie Digitali), una sorta di prontuario di alcune buone pratiche digitali – accuratamente descritte e valutate – messe a punto da associazioni familiari di vari Paesi europei aderenti alla COFACE

www.coface-eu.org/wp-content/uploads/2020/03/Digital-families_FINAL.pdf

I Paesi presenti in questa “mappa” sono Belgio, Bulgaria, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Spagna e Finlandia. E l’Italia? Non pervenuta, a segnalare uno dei ritardi strutturali che affliggono il nostro Paese, e un campo in cui l’associazionismo familiare è chiamato a recuperare il gap con gli altri Paesi europei.

Unione Europea e migranti. Una riflessione oltre l’emergenza. Il Comitato Europeo per i Diritti Sociali (ECSR), organismo del Consiglio d’Europa, il 24 marzo 2020 ha pubblicato il Rapporto 2019 sul rispetto della Carta Sociale Europea da parte dei suoi 37 Stati membri. Sono state analizzate 896 situazioni problematiche, delle quali 289 sono state giudicate non-conformi alla stessa Carta Sociale, mentre in altri 154 casi non è stato possibile mettere un giudizio per mancanza di informazioni adeguate. Il Comitato ha espresso le sue maggiori preoccupazioni per la situazione dei minori (e delle loro famiglie, se accompagnati) migranti e richiedenti asilo, a cui viene spesso negato il diritto ad essere accolti in sicurezza.

www.coe.int/en/web/european-social-charter/-/social-rights-of-children-families-and-migrants-in-danger-across-europe-latest-annual-conclusions-from-the-european-committee-of-social-rights?utm_source=email&utm_campaign=eNB_March&utm_medium=email

Vedi anche ICCFR-CISF. Roma, 14-16 November 2019: “Famiglie e minori rifugiati e migranti. Proteggere la vita familiare nelle difficoltà”.

https://iccfr.org/iccfr-conference-2019-in-rome-italy-migrant-families-and-children/documentation

Regioni e smart working. Bandi per sostenere aziende e lavoratori. Regione Lazio. Dopo il bando della Regione Lombardia per aiutare le imprese a potenziare il lavoro a distanza, anche la Regione Lazio offre una simile opportunità, mettendo in campo 2 milioni di euro per favorire e sostenere le imprese aventi almeno tre dipendenti che vogliono avviare azioni di smart working. Il bando – denominato “Piani Aziendali di smart working. Adozione di modelli e strumenti da parte delle imprese e dei titolari di Partita IVA del Lazio”

www.regione.lazio.it/rl_formazione/?vw=documentazioneDettaglio&id=52218%20.

Mappa on line delle occasioni di sostegno durante l’emergenza coronavirus. La ONG “ActionAid” ha predisposto una piattaforma informatica allo scopo di aiutare i cittadini a mettersi in contatto con le più varie associazioni e istituzioni, consentendo loro di trovare informazioni e una vera e propria mappa delle iniziative di solidarietà e di aiuto che stanno nascendo giorno dopo giorno nel loro territorio. La piattaforma [consultabile qui], oltre a cercare di offrire un aiuto concreto in questi giorni così difficili, ha anche lo scopo di aiutare a ritrovare – sia pure a distanza – un senso di comunità, facendo sentire vicini soprattutto quanti in questa crisi sono più esposti a condizioni di vulnerabilità: anziani, persone con patologie croniche, donne che subiscono violenza, persone migranti, bambine e bambini, persone che vivono sotto la soglia di povertà.                         www.covid19italia.help

USA. Trasformare un convegno di mille persone in un ciclo di seminari on line. L’AFCC (Association of Family and Conciliation Courts), rete internazionale di operatori del diritto di famiglia e della giustizia minorile, aveva dedicato la sua 57.a Conferenza annuale (New Orleans, 27-30 maggio 2020) al tema When a Child Rejects a Parent: Are We Part of the Problem or the Solution? (Quando un bambino rifiuta un genitore: siamo parte del problema o la soluzione?).

www.afccnet.org/Portals/0/Conferences/AFCC%20NOLA%202020%20Program%20-%20Final.pdf

Il programma era come al solito intenso e di alta qualità: oltre 90 workshop, relazioni in plenaria, stand di moltissime associazioni e reti professionali. Insomma, un’occasione preziosa di incontro e scambio di esperienze tra oltre 1.000 partecipanti dagli USA e da molti Paesi stranieri. A fronte dell’emergenza pandemia, ovviamente, l’evento è stato cancellato; tuttavia i promotori hanno riorganizzato i vari contenuti in forma innovativa, trasformando l’evento in un ciclo di 16 webinar (seminari formativi via web – in inglese), riprendendo così i contenuti e i materiali già preparati. Il tutto sarà poi rieditato e messo a disposizione a partire dal numero speciale di aprile 2020 della rivista Family Court Review.

www.afccnet.org/Publications/Family-Court-Review

I seminari on line avranno luogo dal 12 maggio l 7 luglio 2020

https://translate.google.com/translate?hl=it&sl=en&u=https://www.afccnet.org/Conferences-Training/Webinars&prev=search

Dalle case editrici

  • Forcades Teresa, Il corpo, gioia di Dio. La materia come spazio di incontro tra divino e umano, Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR), 2020, pp. 96.

Il corpo non è la prigione della nostra anima, né un mero “involucro” da abbandonare quando diventerà inservibile. Così lo ha inteso il pensiero platonico, dualistico e gerarchico, e così ha continuato a intenderlo per molti secoli la teologia tradizionale. Ma in realtà, come sottolinea in queste acute pagine l’autrice, teologa e monaca benedettina catalana, nella visione biblica e cristiana non c’è spazio per il dualismo tra corpo e anima, tra mondo materiale e mondo spirituale.

In contrasto con l’antica visione segnata dalla paura e dal sospetto nei confronti del corpo – seduttore e peccatore e quindi oggetto di penitenza –, ma anche con la visione contemporanea di un corpo ridotto a oggetto di desiderio, discriminato e controllato, il cristianesimo non disprezza il corpo ma lo onora, come principio dell’individualità senza cui l’anima non raggiungerebbe mai la sua pienezza. E come nella Genesi il mondo materiale, anziché alienato da Dio, è il luogo del suo incontro con l’essere umano, così nel messaggio cristiano la materia è ciò che ci permette di sperimentare ciò per cui siamo stati creati: l’amore per Dio e l’amore per gli altri esseri. Non è la materia, dunque, a opporsi allo Spirito e a ostacolarne l’espressione, ma la paura, la violenza, la mancanza d’amore.

Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio     http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

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CHIESA CATTOLICA

Chiesa dopo il virus: futuro plurale

I giorni dell’epidemia hanno suscitato in molti inquietudini profonde e interrogativi nuovi. Un tempo improvvisamente interrotto e sospeso, segnato da tanto dolore e dall’isolamento, ha generato pensieri, paure, ma ha anche risvegliato sogni e speranze in rapporto a quanto stiamo vivendo e nuove domande sul futuro possibile. Tale interrogazione, unita al desiderio di confronto, ha condotto un piccolo gruppo composto di storici, filosofi, catecheti, liturgisti, teologi – accomunati da impegno di studio e sensibilità ecclesiale e politica – a confrontarsi, innanzitutto per condividere l’ascolto di quanto tale situazione sta generando nelle nostre vite, e poi per pensare insieme quale potrà essere un futuro sia per la Chiesa sia per la società nel passaggio di questa crisi globale.

Un’iniziativa di confronto e pensiero condiviso. L’iniziativa, partita dopo la metà di marzo da una sollecitazione di Serena Noceti, teologa e instancabile animatrice di processi ecclesiali, insieme a Vittorio Berti storico del cristianesimo di Padova, si è concretizzata in una prima serie di incontri a distanza con l’ausilio dei mezzi tecnologici. Innanzitutto è stato condiviso uno scambio di riflessioni sul presente. Si è poi giunti a formulare un programma di lavoro comune quale servizio alla comunità ecclesiale, in un tempo vicino alla Pasqua in cui la sospensione delle celebrazioni nelle chiese apriva questioni nuove.

Un progetto di lavoro comune. Si è concordato di formulare una proposta articolata in tre obiettivi con suddivisione dei compiti:

  1. L’impegno a scrivere insieme una lettera aperta, raccogliendo alcuni spunti per animare una riflessione più ampia e un dialogo di persone e comunità;
  2. La preparazione di un sussidio quale proposta di celebrazione domestica del triduo pasquale;
  3. La pubblicazione di un e-book quale raccolta di brevi saggi sull’esperienza di questo tempo della pandemia attorno ad alcune parole chiavi significative da individuare sulla base dello scambio attuato.

Insieme sulla stessa barca. È stato così inaugurato un sito, che ha preso il suo titolo dall’immagine proposta da papa Francesco nella meditazione del 27 marzo 2020 in una piazza san Pietro deserta commentando la pagina evangelica di Gesù e i discepoli sulla barca nella tempesta: tutti insieme sulla stessa barca. Un’immagine che riassumeva il senso di condivisione di una comune condizione di fragilità e l’interrelazione dell’umanità, di popoli diversi e dell’ambiente, casa comune, nel tempo dell’epidemia.

Di fronte alle sfide del presente: una lettera aperta

            Nella lettera aperta elaborata con il coordinamento di Simone Morandini e Riccardo Saccenti è stata evidenziata la sfida che ci è posta di fronte e indicata la prospettiva di immaginare futuro, come deponendo un seme sotto la neve: «La sfida è quella di capire come vivere questo tempo, così pieno di esperienze di dolore, di sofferenza, di morte, magari vissuta nella solitudine … un tempo che ci rivela in modo diverso chi siamo: ci mostra la nostra fragilità ed evidenzia tante contraddizioni della forma sociale presente e le rende più acute, … che mette in discussione certezze e obbliga a ripensare ciò che dà valore e qualità alla nostra vita».

  1. Tre ambiti particolari sono individuati nella lettera con il suggerimento di domande per riflettere. Questo tempo interpella la vita della Chiesa, invitata a cogliere la chiamata del Vangelo racchiusa nel restare a casa. Come vivere questo tempo perché sia generativo, per uno stile di Chiesa rinnovato e fedele al Vangelo?
  2. L’ambito della realtà socio-ambientale è provocato a superare un sistema economico-finanziario iniquo che genera disuguaglianze globali, per costruire invece un futuro sostenibile in un’ottica di ecologia integrale. Come coltivare una forte coscienza della vita assieme sul pianeta, alla luce dell’interconnessione sperimentata in questi giorni?
  3. Questo tempo indica anche – con la forza della realtà – che la pace è possibile, se riscopriamo la dimensione planetaria della nostra esistenza. Come far germinare da questi giorni di incertezza prospettive feconde, che rafforzino anche l’impegno contro la povertà e la grande crisi socio-ambientale del mutamento climatico?

    Celebrare la fede a casa: un sussidio per il triduo pasquale. Alcuni membri del gruppo – Andrea Grillo, teologo liturgista che ha coordinato il lavoro, Serena Noceti e Alessandro Cortesi – si sono resi disponibili per l’elaborazione di un sussidio per la vivere nella dimensione domestica il triduo pasquale: è intitolato #iocelebroacasa e ha delineato tre itinerari, sapienziale, rituale, battesimale per la celebrazione dei giorni della Pasqua.

            Il sussidio pubblicato nel sito è stato una proposta per vivere i riti e le parole della Pasqua nel contesto e nell’esperienza della casa quale forte esperienza di Chiesa, isolati ma non soli e valorizzando la liturgia della vita. Nell’opera di realizzazione si sono affiancati altri preziosi collaboratori nella cura della sezione dedicata ai bambini (Morena Baldacci), nell’attività di editing (Federico Manicardi) e nelle illustrazioni e disegni (Luca Palazzi).

Parole e proposte per un futuro diverso possibile. A breve uscirà un e-book, col coordinamento di Vittorio Berti e Marco Giovannoni, che raccoglierà diversi saggi su alcune parole chiave di questo tempo della pandemia. Saranno affrontati da diverse angolature e con sguardi plurali alcuni temi sintetizzati in dieci parole che delineano i tratti dell’esperienza per leggere il presente e orientarsi al futuro: tempo sospeso (Enzo Biemmi), prossimità (Vittorio Berti), terra (Simone Morandini), corpo (Riccardo Saccenti), futuro (Alessandro Cortesi), pubblico (Marco Giovannoni), saperi (Riccardo Saccenti), compartecipazione/Chiesa (Serena Noceti), periferie (Fabrizio Mandreoli), autorità/libertà (Andrea Grillo).

            Il desiderio condiviso nel gruppo – che ha vissuto con spirito di amicizia e condivisione questo impegno – è quello di suscitare una riflessione che si allarghi in ambiti diversi. Appare infatti urgente accogliere e pensare le sfide poste da questo momento, in vista di un’azione tesa a costruire una società più solidale e a suscitare processi di riforma della Chiesa alla luce dell’esperienza di dolore e ripensamento che stiamo vivendo.

Alessandro Cortesi, docente di teologia sistematica Istituto scienze religiose Toscana aprile 2020

www.ilregno.it/moralia/blog/chiesa-dopo-il-virus-futuro-plurale-alessandro-cortesi

 

Insieme sulla stessa barca

Una lettera per vivere questo tempo. Prendiamo la parola per condividere speranze, interrogativi ed esigenze. Siamo persone che esprimono sensibilità e intelligenze diverse della realtà; persone che si sentono interrogate in molti modi da questo momento e assieme convocate da una Pasqua ormai vicina, che vivremo in forme profondamente diverse dal solito. Per questo desideriamo aprire un dialogo con tanti e tante, vicini e lontani, di cui questa lettera è come una prima tappa.

La pandemia minaccia tutti gli esseri umani, al di là di ogni confine geografico e politico; è esperienza totalizzante, che attraversa le pieghe dell’esistenza e investe la dimensione sociale ed economica, civile e politica ed assieme quella religiosa. L’espressione “io resto a casa” scandisce ormai la quotidianità di miliardi di esseri umani e non è solo questione di prescrizioni per la salute pubblica; è un’incisione profonda nella storia e nelle coscienze.

Tutti e tutte ci troviamo coinvolti in un’esperienza che accomuna nella paura, nel dolore, nella preoccupazione; ci troviamo segnati dalla consapevolezza, profonda e provocante, di essere partecipi di un’unica condizione, legati gli uni agli altri in orizzonte planetario. Tutti e tutte assistiamo alla generosa testimonianza di tanti che, nel mondo della sanità o del lavoro o del volontariato, operano secondo le parole di Gesù: «ero malato e mi avete visitato» (anche se molte e diverse sono le motivazioni, religiose o no).

Abitare questo tempo. La sfida è quella di capire come vivere questo tempo, così pieno di esperienze di dolore, di sofferenza, di morte, magari vissuta nella solitudine. Tempo di angoscia per familiari e amici, ma anche per i più deboli, per chi non ha risorse e appoggi, per i senza casa o per chi è in cerca di rifugio. Tempo di solitudine o di forzata condivisione di spazi ristretti (questo è per molti “io resto a casa”); di agire rischioso e drammaticamente urgente per alcuni, di vuoto e di inazione per tanti altri. Tempo di ansia per la perdita del lavoro e di preoccupazione per una vita familiare da tirare avanti. Tempo che ci rivela in modo diverso chi siamo: ci mostra la nostra fragilità e ci fa toccare con mano quanto essenziali siano le reti di relazioni in cui siamo inseriti ed il sostegno che ci offrono. Tempo che evidenzia tante contraddizioni della forma sociale presente e le rende più acute: la produzione di armi continua, come fosse attività essenziale, mentre mancano dispositivi elementari negli ospedali e troppi sperimentano la povertà. Tempo, quindi, che mette in discussione certezze ed obbliga a ripensare ciò che dà valore e qualità alla nostra vita.

Tre ambiti, fra i molti possibili, ci appaiono come luoghi di crisi e assieme di possibilità di rinnovamento: la vita della Chiesa in questo tempo, la realtà socio-ambientale, la sospensione delle guerre.

  1. La vita della Chiesa: la nuda realtà delle cose che ci investe ne rivela la profonda relazione col mondo, quale indicata dalla Costituzione Gaudium et Spes del Vaticano II. Scopriamo che la Chiesa non è solo “nel mondo” ma ne è a pieno titolo parte. Come leggere allora con sapienza questo crinale delle nostre vite e della storia, per offrire consolazione a chi piange, sostegno a chi opera generosamente e spesso in condizioni precarie, aiuto a chi vive quotidianità stravolte? Quale parola dona in questo contesto il Vangelo? Cosa può significare alla sua luce questo forzato “restare a casa”? Si tratta di testimoniare ancora il volto del Dio vivente, del Dio della vita: non un Dio che manda il male, ma Colui che nello Spirito è vicino alle vittime del dolore e le sostiene. Ma occorre anche reimparare il senso profondo della preghiera – invocazione a Colui che tutto salva e sostiene – proprio mentre guardiamo con speranza e fiducia all’agire di medici, sanitari e ricercatori duramente impegnati per salvare tante vite e all’agire di tanti lavoratori che, spesso senza garanzie, sostengono la possibilità della convivenza e della vita tout court. La giusta cura di queste settimane per rendere possibile a molti l’esperienza della celebrazione eucaristica, grazie alle tecnologie a distanza, espone anche a un rischio: quello di fare del sacramento il solo tratto della fede, quasi dimenticando che esso è incontro con Cristo di una comunità e mai atto fine a sé stesso. Con tale attenzione occorre guardare anche a tante significative esperienze (momenti di preghiera, veglie) che mirano a far vivere quella religiosità popolare che attinge ad una tradizione antica. Come sempre nei grandi tempi di riforma della Chiesa, le azioni rituali condivise del popolo fedele vanno integrate in una lettura sapienziale, per vivere la fede alimentandola alla luce della Parola. La preghiera condotta da papa Francesco il 27 marzo 2020 ha mostrato come sia possibile celebrarla in modo che sia respiro di vita, accoglienza del soffio dello Spirito in un momento in cui in molti sensi ci manca l’aria. Per questo la prossima tappa del percorso che proponiamo sarà la pubblicazione sullo stesso sito www.insiemesullastessabarca.it di un sussidio per il Triduo pasquale, per aiutare chi lo desidera a viverlo, in queste circostanze anomale, nelle case, riscoprendole come luoghi ecclesiali.
  2. La realtà socio-ambientale: ci chiediamo come coltivare futuro in questo tempo, guardando anche a ciò che sarà dopo; come custodire un senso forte di comunità inclusiva, evitando che questo tempo alimenti l’erosione e la destrutturazione dei legami. Se c’è una cosa che stiamo imparando è che le relazioni contano, che vanno coltivate nel quotidiano come tesoro prezioso, più di tanti altri aspetti della vita: solo valorizzandole possiamo contrastare i tempi più difficili. Urgente allora ripensare le forme della vita assieme, riscoprendo il valore di parole come giustizia, bene comune, solidarietà, diritti di tutti, attenzione per i fragili – che una certa narrazione vorrebbe considerare ‘scarti’, da lasciare ai margini. Si tratta di superare un sistema economico-finanziario iniquo che genera disuguaglianze globali, per costruire invece un futuro sostenibile per il pianeta: “tutto è connesso” ricorda l’ecologia integrale di Laudato Si’!
  3. La sospensione delle guerre: la pandemia dilagante ha portato ad una decisione passata in secondo piano nell’opinione pubblica, ma potenzialmente epocale; ad un cessate il fuoco planetario che sta fermando le guerre combattute sul pianeta. Solo una pace imposta da circostanze angosciose che ne oscurano il valore? O forse piuttosto il segno della consapevolezza di tanti dell’appartenenza all’umanità? di fronte ad un pericolo che minaccia tutti si azzerano le volontà di potenza e le rivendicazioni di interessi particolari. Certo, tale dato confligge con la scelta di molti governi, di considerare prioritarie le attività economiche legate alla produzione di armi. Ma esso indica anche – con la forza della realtà – che la pace è possibile, se riscopriamo la dimensione planetaria della nostra esistenza.

Domande aperte. Restano tante domande, che riprenderemo anche nelle tappe successive di questo percorso di dialogo (incontri on-line, un e-book): come vivere questo tempo perché sia generativo, per uno stile di chiesa rinnovato e fedele al Vangelo? Come coltivare una forte coscienza della vita assieme sul pianeta, alla luce dell’interconnessione sperimentata in questi giorni? Come far germinare da questi giorni di incertezza prospettive feconde, che rafforzino anche l’impegno contro la povertà e la grande crisi socio-ambientale del mutamento climatico?

Vogliamo condividere questa presa di coscienza e la centralità di questi interrogativi. Crediamo questo possa essere l’inizio di un percorso che richiede la durata della sapienza, ma che ha radici in questo momento. Questo è anche un tempo per pensare, per progettare, per dialogare e per immaginare futuro, come deponendo un seme sotto la neve in attesa della primavera che attendiamo e speriamo.

Vittorio Berti, Enzo Biemmi, Alessandro Cortesi, Marco Giovannoni, Andrea Grillo,

Fabrizio Mandreoli, Simone Morandini, Serena Noceti, Riccardo Saccenti.

https://www.insiemesullastessabarca.it/wp-content/uploads/2020/03/LetteraInsiemeSullaStessaBarca.pdf

www.insiemesullastessabarca.it/chi-siamo

 

Coronavirus. Il sociologo Garelli: «Al tempo del Covid cresce il bisogno di Dio»

Nell’Italia al tempo del Covid-19 emerge una ricerca spirituale. E di fonti di senso. I record tv del Papa e del Rosario? «Legati ai cattolici più convinti ma c’è anche un interesse laico». Parla lo studioso che nel suo ultimo libro analizza il sentire religioso della Penisola «Il successo delle proposte sacre sul web sottolinea l’affermarsi di comunità di elezione rispetto a quelle ordinarie» «La sfida è intercettare i cristiani un po’ anonimi senza credere che sia facile recuperarli»

            Parla lo studioso che nel suo ultimo libro analizza il sentire religioso della Penisola «Il successo delle proposte sacre sul web sottolinea l’affermarsi di comunità di elezione rispetto a quelle ordinarie» «La sfida è intercettare i cristiani un po’ anonimi senza credere che sia facile recuperarli»

Ne siamo convinti tutti. La matematica potrà anche risultare fredda però non mente. Il suo linguaggio è perentorio, preciso, in apparenza senza trappole. E qui i numeri parlano chiaro. Nel tempo della pandemia, dalla Messa mattutina del Papa ai Rosari promossi dalla Cei, in tv e sui social il sacro “sfonda”. Un dato per tutti: venerdì 27 marzo 2020 la preghiera straordinaria di Francesco davanti a una piazza San Pietro vuota è stata seguita da 17 milioni 400mila spettatori pari al 64,6% dell’intera platea televisiva. Ma cifre record si ripropongono quotidianamente, con Raiuno e Tv2000 a tirare la fila. Più spettatori significano più credenti? A grandi ascolti corrisponde anche un aumento della pratica religiosa? Il professor Franco Garelli, {relatore al XV congresso UCIPEM – Erice 1997} tra i più noti sociologi italiani, ha da poco pubblicato il saggio Gente di poca fede (Il Mulino; pagine 264) che offre la fotografia di un Paese incerto su Dio ma ricco di sentimenti religiosi. «Questi numeri – osserva Garelli – indicano che in quelli che possiamo definire i cattolici più attivi e convinti c’è un grande movimento di ricerca di fonti spirituali. Un flusso molto interessante verso l’utilizzo di nuove tecnologie per compensare la difficoltà di partecipare a celebrazioni liturgiche dal vivo, per avere momenti di espressione religiosa anche nella pandemia. E la Chiesa livello di base si è data molto da fare per garantire forme alternative di partecipazione. Buona parte ovviamente segue il Papa che ha scelto di far partecipare alla Messa mattutina tutto il Paese. Una presenza continua ma discreta che colpisce in particolare i credenti più vicini che possono seguirlo ogni giorno».

            L’interesse però non riguarda solo loro. Anche il mondo laico dimostra attenzione, perché trova un Papa che si presenta come una figura calata nelle vicende umane, che propone il messaggio religioso con uno stile semplice ma di prossimità, di vicinanza, di compartecipazione delle sofferenze e delle angosce. Colpisce questa presenza del Pontefice straordinaria nella sua ordinarietà, umile, non ex cathedra, che parla a braccio, che offre un pensiero facilmente comprensibile, che tocca la sostanza del discorso religioso ma anche delle cose concrete. Significa che nei momenti difficili come quello che stiamo vivendo si è comunque alla ricerca di fonti, di risorse di senso. E il Pontefice pur nella stanchezza, dovuta agli anni, con il respiro affannoso e l’incedere un po’ claudicante, sa tenere viva la speranza.

            L’esperienza di questo tempo potrà, se non ridisegnare, modificare le comunità dei credenti? Sta facendo crescere nella consapevolezza di molti l’idea che ci può essere una ricerca di spiritualità o di punti di riferimento oltre i confini ordinari, perché attraverso Internet uno può collegarsi con le parrocchie che vuole, con le comunità con cui si identifica di più, che riescono a organizzare meglio, che sanno offrire meditazioni, riflessioni, luoghi più significativi. Questo va nella direzione dell’affermarsi di una “comunità”, di una “parrocchia”, di elezione rispetto a una comunità ordinaria. Dà la possibilità alla gente di selezionare, di vedere, di connettersi con realtà ritenute più significative che sanno interpretare meglio il tempo presente, che facilitano il discernimento.

            Il bisogno di rapporti più “normali” però non viene meno. Il virtuale è importante, soprattutto in riferimento ai giovani, ma non cancella l’esigenza dei rapporti umani anche nel campo dello spirito. C’è sempre la nostalgia di una comunità, di un rito reale, non formale, cui uno partecipa e che gli scandisce la vita. Resta il bisogno di un luogo, di un punto di riferimento, di uno spazio, di un ambiente fatto di volti, di un popolo cui si appartiene, anche fisicamente rappresentato.

            In “Gente di poca fede” lei parla del cattolicesimo culturale come fenomeno emergente nel nostro Paese. L’attenzione ai riti in tv va in questa direzione? Credo che il cattolicesimo culturale ne sia meno protagonista. Non per nulla all’inizio dicevo che i più presenti sono i credenti convinti e attivi, meno quelli che vivono ai margini di una vita di fede, che interpretano il cattolicesimo, il cristianesimo in chiave identitaria, etnico-culturale più che religiosa e spirituale. Questi ultimi, che pure possono in parte riconoscersi con il Papa, avrebbero bisogno di figure religiose con un’alta capacità di mediazione, in grado di interpretare anche il lato spirituale di un’appartenenza di tipo culturale. E oggi non se ne vedono tante nel nostro Paese. Non è facile trovare interpreti capace di gettare un ponte tra il credere e un’appartenenza più anagrafica che spirituale dal punto di vista religioso.

            Da più parti la Chiesa si interroga su che cosa maturerà al termine di questo periodo. Si parla di ritorno all’essenziale…. Io ho promosso e commissionato all’istituto Ipsos una ricerca su “Gli italiani e la religiosità durante il Covid-19”. Dall’indagine emerge che in questo periodo prevalgono più i segni di fede che di indifferenza religiosa, più la vicinanza che la distanza da Dio. Sono pochi quelli che prendono spunto dalla pandemia per distaccarsi ancora di più, tuttavia la crescita del bisogno, della domanda religiosa e spirituale resta circoscritta, coinvolge molto di più i credenti praticanti o i cattolici impegnati rispetto alla totalità dei credenti cattolici. E questo mi dà l’idea che non possiamo più rappresentare il nostro Paese come quello di un cattolicesimo di popolo. Dobbiamo uscire da questa prospettiva non perché la Chiesa rinunci a offrire il suo messaggio ai credenti o che si ritengono tali in chiave culturale più che religiosa spirituale. Credo anzi che debba prestare attenzione anche a questi “quasi credenti”, anche a chi sta ai margini della fede.

            Tenendo però conto della loro distanza con i credenti impegnati e attivi, mi sembra di capire. Si tratta di mondi che si stanno separando e quindi anche di fronte a questa pandemia le reazioni sono diverse. C’è chi avverte maggiormente il tasso di spiritualità, riflette, prega, si interroga, e chi reagisce in modo laico pur dichiarandosi credente, cioè malgrado permanga in lui un sentimento religioso non interpreta necessariamente queste vicende alla luce di una lente, di una prospettiva di fede. A mio avviso questo aspetto emerge chiaramente, sta crescendo, anche nel modo di intendere il cristianesimo c’è un diverso linguaggio, un diverso alfabeto, una diversa lettura della realtà.

            Mondi differenti dunque. Con i quali bisogna prefigurare un tipo di rapporto o di presenza o di attenzione pastorale diversa. Non è che ci sia un’assenza di domanda, ma in molti casi è una domanda che non ha più retroterra, troppo nella penombra cristiana o cattolica per essere cogliibile. C’è un’area di credenti un po’ anonimi, che non staccano la spina del rapporto con la Chiesa ma hanno un segnale della fede molto debole. E che non si possono considerare prossimi all’altra metà dei credenti, perché mancano alcune condizioni di base, si hanno riferimenti culturali diversi. Credo che la Chiesa debba prendere consapevolezza di questo, non pensando che si tratti di cristiani un po’ sconnessi ma facilmente recuperabili. Non è così, qui si tratta di distanze da colmare o comunque di approcci differenti, esiste una domanda di senso verso la quale occorre ricalibrare il rapporto. E una comunità mediamente vecchia nel suo personale religioso e anche per certi aspetti un po’ burocratizzata può avere difficoltà a relazionarsi con un’istanza che cresce soprattutto a livello giovanile.

Riccardo Maccioni                 Avvenire                    19 aprile 2020

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/cos-cresce-il-bisogno-di-dio

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CHIESA ORTODOSSA

Un documento sulla dottrina sociale della Chiesa per la prima volta nella storia ortodossa

www.goarch.org/social-ethos

 “Offrire un riferimento comune su questioni e sfide vitali nel mondo di oggi, in modo coerente alla visione cristiana ortodossa”. Questo lo “scopo” del documento “Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa Ortodossa” che è stato pubblicato oggi dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. È la prima volta che il mondo ortodosso prende una simile iniziativa. Il Patriarca Bartolomeo: “Frutto di un lavoro teologico collettivo” portato avanti con “saggezza e prudenza”

Una dichiarazione sulla dottrina sociale della Chiesa ortodossa è stata pubblicata e diffusa in tutto il mondo in 12 lingue. È la prima volta che il mondo ortodosso nel suo insieme scende in campo e sotto l’egida del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli prende una simile iniziativa, spinto dalla necessità di affrontare in maniera composita le sfide sempre più complesse del mondo moderno. Il documento – dal titolo “Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa Ortodossa” e consultabile sul web – si suddivide in 9 paragrafi (82 articoli con 36 note) che includono una introduzione ed una conclusione e i diversi temi trattati: la Chiesa nella sfera pubblica; povertà, ricchezza e giustizia civile; Guerra, pace e violenza; relazioni ecumeniche e relazioni con altre fedi; ortodossia e diritti umani; scienza, tecnologia, mondo naturale.

  1. Introduzione. E’ tempo si servire il Signore
  2. La Chiesa nella sfera pubblica
  3. Il corso della vita umana
  4. Povertà, ricchezza e giustizia civile
  5. Guerra, pace e violenza
  6. Relazioni ecumeniche e relazioni con altre fedi
  7. Ortodossia e diritti umani
  8. Scienza, teologia e mondo naturale
  9. Conclusione

All’interno di questi macro-temi, vengono affrontate tematiche che riguardano il cambiamento climatico, il consumismo, la democrazia e il razzismo, le donne, il matrimonio e il divorzio, il monachesimo con riferimento al celibato, ma anche le grandi piaghe dell’abuso sessuale, della schiavitù e della guerra. Scopo del documento – si legge nel comunicato che lo accompagna – “è offrire un riferimento comune su questioni e sfide vitali nel mondo di oggi in modo coerente alla visione cristiana ortodossa”. Un “punto di vista” assolutamente non dogmatico – spiegano al Sir fonti del Patriarcato – sui grandi temi del mondo moderno, sapendo che

            Solo partendo da una “visione comune” e in un confronto sempre aperto, la Chiesa può porsi in dialogo con l’uomo contemporaneo e avere una parola evangelica per la storia di oggi. È la prima volta nella storia ortodossa, che viene presa una simile iniziativa. Tutto nasce nel 2016, nell’ambito del Santo e Grande Concilio della Chiesa ortodossa che si è tenuto a Creta: in quella occasione i rappresentanti e i leader delle Chiese ortodosse hanno cercato di affrontare le questioni che attraversano il mondo contemporaneo ma il Patriarca ecumenico Bartolomeo I capì che era necessario proseguire, “nello spirito del Concilio”, questo sforzo. Ha così nominato una commissione speciale di teologi nel 2017 che con il contributo delle diverse chiese, ha redatto un documento che è poi stato presentato e approvato lo scorso anno dal Sinodo. Storica è anche la composizione della Commissione stessa: a partecipare alla stesura del documento, non c’erano solo “gerarchi” della Chiesa e neanche solo membri del clero ma laici, tra cui due donne. Tutti comunque teologi e studiosi provenienti da Europa e Asia, nonché dal Regno Unito e dagli Stati Uniti. Il testo ha avuto l’approvazione del Patriarca ecumenico che ha dato il via alla “sua pubblicazione formale come frutto di un lavoro teologico collettivo” portato avanti con “saggezza e prudenza”.

            Nella prefazione al documento, il presidente della Commissione John Chryssavgis ammette: “il compito di produrre una singola dichiarazione sulla dottrina sociale della Chiesa Ortodossa è per sua natura una impresa complicata, per non dire controversa. La Chiesa Ortodossa opera all’interno di una grande varietà di contesti culturali e storici, ognuno con le proprie preoccupazioni e tradizioni sociali e politiche”. Il mondo ortodosso però prende atto che “nel nostro tempo, la Chiesa si trova spesso impreparata a rispondere alle realtà del pluralismo e della globalizzazione”. In alcuni contesti, “la Chiesa è tentata semplicemente di opporsi al mondo, spesso denunciando e disprezzando in assoluto tutte le sue forme e mode”. Nel documento, i teologi ammettono: “Troppo spesso, coloro che pretendono di parlare a nome della tradizione Ortodossa, credono che la Chiesa possa preservare la sua integrità, solo allontanandosi ciecamente dal presente e volgendosi acriticamente verso il passato, cercando rifugio in una visione pietrificata e sentimentalizzata degli ordinamenti cristiani dei primi secoli”.

            La tradizione “è molto più di un deposito statico ereditato dal passato” e molto più di “un ricordo delle parole dei Padri di un tempo”. È piuttosto “realtà viva e dinamica”. Per questo, nella stesura del testo, la Commissione ha cercato di evitare “astrazioni nebulose e generalizzazioni radicali” così come le “dichiarazioni semplicistiche, pietistiche o legalistiche” e un “linguaggio dai toni di giudizio o condanna”. “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”. “La Chiesa Ortodossa – si legge nella conclusione – vede come sua vocazione il condannare la crudeltà e l’ingiustizia, le strutture economiche e politiche che favoriscono e mantengono la povertà e la disuguaglianza, le forze ideologiche che incoraggiano l’odio e il fanatismo; ma non è sua vocazione il condannare il mondo, le nazioni o le anime. La sua missione è quella di manifestare l’amore salvifico di Dio, dato in Gesù Cristo a tutta la creazione”.

M. Chiara Biagioni     Agenzia SIR   16 aprile 2020

https://www.agensir.it/mondo/2020/04/16/patriarcato-ecumenico-un-documento-sulla-dottrina-sociale-della-chiesa-per-la-prima-volta-nella-

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CITTÀ DEL VATICANO

Il diaconato femminile interroga storia e teologia

La prima commissione sul diaconato femminile era stata istituita dal Papa il 2 agosto 2016 e aveva concluso i lavori a dicembre 2018. Francesco ne aveva parlato all’ assemblea dell’Unione internazionale delle superiori generali (Uisg) il 10 maggio 2019, rispondendo alla domanda di una religiosa. “La commissione ha lavorato bene ma poi – aveva spiegato – ognuno aveva la propria idea. E si deve studiare la cosa, perché io non posso fare un decreto sacramentale senza un fondamento teologico, storico. Ma si è lavorato abbastanza. Il risultato non è un granché. Ma è un passo avanti”. Ma cosa avevano accertato gli studiosi?

“C’era una forma di diaconato femminile al principio – aveva proseguito il Papa – soprattutto in Siria. Aiutavano nel battesimo, in caso di scioglimento del matrimonio, ecc”. Per quanto riguarda la forma di ordinazione, “non c’era una formula sacramentale”, ma secondo quanto appurato dagli studiosi – aveva aggiunto Francesco – potrebbe essere “come è oggi la benedizione abbaziale di una badessa, una benedizione speciale per il diaconato delle diaconesse… Per questo dobbiamo cercare cosa c’era all’inizio della Rivelazione, e se c’era qualcosa, farla crescere”.

La seconda Commissione per lo studio del diaconato femminile è stata istituita da papa Francesco l’8 aprile 2020 scorso. Presieduta dal cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo de L’Aquila, ne fanno parte padre Denis Dupont-Fauville, della Congregazione per la Dottrina della fede (segretario); Catherine Brown Tkacz, Lviv (Ucraina); Dominic Cerrato, Steubenville (Stati Uniti); don Santiago del Cura Elena, Burgos (Spagna); Caroline Farey, Shrewsbury (Gran Bretagna); Barbara Hallensleben, Friburgo (Svizzera); don Manfred Hauke, Lugano (Svizzera); James Keating, Omaha (Usa); monsignor Angelo Lameri, Crema (Italia); Rosalba Manes, Viterbo (Italia); Anne-Marie Pelletier, Parigi (Francia).

Riflettere sul diaconato femminile significa operare un attento e faticoso discernimento tra storia e teologia, tra ministeri laicali e ministeri ordinati ma, soprattutto – fa notare monsignor Angelo Lameri, docente di liturgia e di sacramentaria generale alla Lateranense – significa mettere l’accento più sul sostantivo che sull’aggettivo. “Se non abbiamo ben chiari i contorni del diaconato, inteso come ministero a sé stante e non come mero momento di passaggio verso il sacerdozio, rischiamo di comprendere più difficilmente quale potrebbe essere il ruolo della donna”, secondo le indicazioni del Papa che qualche giorno fa ha dato vita a una nuova commissione di studio di cui Lameri è stato chiamato a far parte con altri nove esperti. Unici italiani, oltre a lui, il presidente, l’arcivescovo dell’Aquila, cardinale Giuseppe Petrocchi e la biblista Rosalba Manes, docente alla Gregoriana.

Com’è noto, la prima commissione istituita nel 2016 dal Papa su sollecitazione dell’Uisg (Unione internazionale superiore generali) aveva concluso i suoi lavori circa un anno fa senza arrivare a una conclusione unitaria. Era stato il Papa stesso a spiegarlo durante la conferenza stampa sull’aereo di ritorno dal viaggio a Skopje, in Macedonia, l’8 maggio scorso, e poi in un incontro sempre con l’Uisg. “Le formule di ordinazione diaconale trovate fino adesso non sono le stesse per l’ordinazione del diacono maschile, e assomigliano piuttosto a quella che oggi sarebbe la benedizione abbaziale di una badessa”. Il Papa aveva anche detto che queste ordinazioni erano frequenti soprattutto in Siria e che la commissione, pur avendo lavorato bene, non era giunta a una conclusione unitaria.

Monsignor Lameri, dopo il lavoro della prima commissione, quali saranno allora i filoni che sarete chiamati ad approfondire?

A mio parere, dovremo lavorare sotto un duplice aspetto: innanzi tutto il dato oggettivo storico, per quanto sarà possibile accertare. Dall’altro lato il dato di natura teologica, perché quello storico, pur importante, non è di per sé sufficiente, e va sempre inteso in relazione a un’ermeneutica, cioè a uno sforzo interpretativo della volontà di Gesù, che orienta il discernimento per l’oggi in ordine al nostro tema.

Quanto sarà importante il dato evangelico, cioè la predilezione che Gesù sembra mostrare nei confronti delle donne?

Da un certo punto di vista è vero che Gesù verso donne si mostra non pienamente allineato con la cultura del suo tempo. Sappiamo che le donne fanno parte del suo seguito, ed è una donna la prima persona a cui appare dopo la Resurrezione. Ma il dato del Nuovo Testamento si può interpretare anche in modi diversi. È vero che Gesù mostra di avere un’alta concezione della dignità femminile, ma tra i dodici non ci sono donne. Come interpretare questa scelta? Da un lato infatti la tradizione ecclesiale ha assegnato a una donna – Maria Maddalena – il titolo di “apostola degli apostoli” in quanto prima testimone della risurrezione, dall’altro però questo non ha comportato una sua assunzione nel ministero apostolico.

Ma è anche vero che qui non c’è in gioco il ministero sacerdotale, ma quello diaconale. Ed è stato fatto notare che si tratta di rispondere ad esigenze pastorali specifiche, secondo prassi ecclesiali tra l’altro già largamente presenti in molte aree geografiche, per esempio in Amazzonia.

Infatti siamo chiamati a ragionare sul diaconato, nello specifico quello femminile. Quindi, prima che all’aggettivo, grande attenzione al sostantivo. Cos’è il diaconato? Per oltre mille anni siamo stati abituati a leggerlo quasi unicamente come tappa di passaggio verso il sacerdozio, in funzione liturgica. Poi con la decisione del Concilio Vaticano II di ripristinare il diaconato permanente, ha assunto anche una funzione di servizio alla comunità ecclesiale, secondo l’immagine di Cristo servo. Però si tratta di una fisionomia ancora da definire compiutamente. Tanto più se la prospettiva è quella di collegare questo servizio al ruolo della donna.

Da questo punto di vista c’è forse un altro equivoco da chiarire. Parliamo di ministerialità laica o anche di ministerialità ordinata?

Se dovessimo considerare in modo specifico la ministerialità in genere, il quadro sarebbe meno complesso. Già san Paolo VI, dopo il Concilio, aveva lasciato aperto il discorso sui ministeri laicali. Oltre al lettorato e all’accolitato, validi per tutta Chiesa, in prospettiva pastorale è stata lasciata aperta la possibilità alle singole conferenze episcopali di istituire altre figure ministeriali in rapporto alle specifiche esigenze locali. San Giovanni Paolo II nell’esortazione postsinodale Christifideles laici, sollecitato dal Sinodo dei Vescovi del 1987, aveva auspicato una revisione del documento di Paolo VI sui ministeri in modo da tener conto dell’uso delle Chiese locali. Ora, il dibattito emerso in questi anni, e in particolare durante il Sinodo dell’Amazzonia, sembra sollecitare un approfondimento.

Cioè una riflessione più coraggiosa anche sulle possibilità di aprire ai ministeri ordinati, pur se solo in chiave di servizio pastorale?

Quando parliamo di ministero ordinato non possiamo solo tenere presente gli obiettivi pastorali, ma dobbiamo rispettare la natura stessa del sacramento, anche in riferimento alla realtà della sua istituzione. La Chiesa non ha il potere di adattare a suo piacimento quello che Gesù Cristo ha istituito. Ed è qui che dobbiamo fare i conti con la storia. Comprendere perché il consolidarsi di ciò che la Chiesa ha desunto dalla volontà di Cristo sia andato in una certa direzione e che spazi ci siano per un’eventuale evoluzione.

È prevedibile immaginare quali strade di innovazione potranno essere percorse?

Difficile dirlo adesso. Dovremo avere l’umiltà di riprendere le conclusioni della precedente commissione, vedere a che punto sono giunti, rimettere in campo gli interrogativi e da lì ripartire. Sarà un lavoro lungo e difficile.

Luciano Moia “Avvenire” 15 aprile 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202004/200415lamerimoia.pdf

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Como. “Affrontiamo l’emergenza “.

 A seguito delle ordinanze pubbliche, il Consultorio La Famiglia di Como mantiene sospesa la propria attività in sede fino a data da definire, ad eccezione dell’assistenza ostetrico-ginecologica, per tutto il periodo della gravidanza, che riaprirà da giovedì 23 Aprile 2020. E’ necessario prendere appuntamento o mandando una email.

            Per tutti gli altri servizi il Consultorio è on line, anche per la nuova utenza; seguite il nostro sito, in particolare le news e la nuova sezione “Affrontiamo l’emergenza “.

www.lafamigliaconsultorio.org

 

Messina. La coppia al tempo del coronavirus

In questo periodo in cui buona parte delle coppie e delle famiglie si trovano coinvolti in una convivenza h24, a cui non sono abituate, possono evidenziarsi problematiche varie che portano anche a delle serie difficoltà eppure questa potrebbe essere anche una grossa opportunità per ritrovarsi, riaccendere il dialogo e ripartire più vicini di prima ed allora come fare?

  • Trovare in casa uno spazio ed un tempo per potersi dedicare a sé stessi. Solo se stiamo bene con noi stessi ci possiamo dedicare all’altro.
  • Fare attività fisica in modo da abbassare i livelli di aggressività.
  • Trovare un tempo per dedicarsi in modo esclusivo alla coppia condividendo attività piacevoli da fare insieme come vedere un film, giocare ad un gioco di società, cucinare insieme, fare ginnastica insieme, ballare etc.
  • Prendersi del tempo per rivedere insieme le foto e i video dei primi passi del proprio rapporto per rivivere le emozioni talvolta sopite.
  • Condividere con l’altro/a ricordi, emozioni, progetti.
  • Usare le paroline magiche come “Per favore” ” Grazie” “Scusa” ” Mi dispiace”.
  •  Sorprendere quando possibile l’altro/a con un’attenzione speciale: il caffè a letto, una carezza inaspettata, la sua pietanza preferita.
  •  Se si è credenti, anche se di religioni diverse, pregare insieme.

www.consultorio-ucipem.messina.it/la-coppia-al-tempo-del-coronavirus

 

Pescara. Covid-19: attivo il servizio di ascolto a distanza contro la paura

“Abbiamo pensato di offrire questo contributo – premette don Cristiano Marcucci, presidente del Consultorio– per gestire le situazioni emotive d’emergenza di tutte quelle persone che, con il passare del tempo, si accorgono di fare fatica attraverso la manifestazione di elementi e condizioni emotive faticose, com’è anche normale che sia. Parliamo di difficoltà come ansia, paura e fatica nella gestione delle relazioni in spazi ristretti. Situazioni non sempre visibili, ma che posso essere affrontate grazie ad un supporto telefonico».

Si chiama “Lontani ma vicini” il nuovo servizio di ascolto a distanza gratuito istituito dal Consultorio per affrontare un silenzio che fa rumore come quello prodotto dall’isolamento sociale casalingo che ognuno di noi, responsabilmente, si è dovuto imporre nel rispetto dell’ultimo decreto governativo del 9 marzo 2020 per arginare il contagio da Coronavirus Covid-19.

            Sarà così possibile contattare, dalle 16 alle 18, il servizio telefonico, nel quale si alterneranno nella risposta fino a 50 operatori tra medici, consulenti familiari e psicologi: «In situazioni di questo genere – approfondisce don Cristiano -, s’innesca il meccanismo di una paura che diventa collettiva, sistemica, mondiale e questa dinamica ci coinvolge tutti profondamente. Ci scava dentro, tirando fuori tutte le nostre paure sulla base della nostra storia personale. È un meccanismo psichico inconsapevole, inevitabile, che tende a far emergere in noi tutte quelle situazioni faticose, nascoste, spaventose, che normalmente blocchiamo e che invece, adesso, vengono a galla».

Insomma, il problema è dentro di noi, non fuori: «Razionalmente – ricorda don Marcucci -, non sappiamo in quali tempi e con quali danni, di fatto ne usciremo». Non a caso, il servizio sarà attivo all’imbrunire: «Di giorno, finché c’è il sole – osserva il presbitero – anche stando in casa, tra balcone, giardino e garage, qualcosa si fa sempre. Il disagio, invece, emerge nelle ore serali quando tutto ciò viene meno».  Insomma, la paura unita al silenzio può far affiorare un senso di angoscia e smarrimento in ognuno di noi, ma si può e si deve chiedere aiuto: «Ci può stare tranquillamente – rassicura don Cristiano -, l’importante è saperlo e laddove emerge la fatica di gestire questi sintomi, ci si può far aiutare».

            Per spiegare ancora meglio la finalità di questo servizio, il Consultorio Ucipem si è affidato alle parole dello psicologo statunitense Carl Rogers: “Quando qualcuno ti ascolta davvero senza giudicarti, senza cercare di prendersi la responsabilità per te, senza cercare di plasmarti, ti senti tremendamente bene. Quando sei stato ascoltato ed udito, sei in grado di percepire il tuo mondo in modo nuovo ed andare avanti. È sorprendente il modo in cui problemi che sembravano insolubili diventano risolvibili quando qualcuno ti ascolta”.

www.laporzione.it/2020/03/16/covid-19-ucipem-attivo-il-servizio-di-ascolto-a-distanza-contro-la-paura

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CORONAVIRUS

Il disagio psicologico dentro e dopo l’emergenza

Servirà un supporto psicologico terminata l’emergenza Covid-19? Possibile. Ma nel frattempo cosa possiamo fare? Si sente parlare sempre più spesso della necessità di interventi psicologici una volta che l’emergenza Coronavirus sarà terminata. Credo che vadano posti un paio di distinguo, legati alle situazioni che stiamo vedendo e vivendo. Vi sono in Italia zone molto diverse per intensità e densità di contagiati e di vittime. Nelle zone a maggiore intensità è evidente come il livello di tensione sia maggiore, la paura di contagio più elevata, i drammi quotidiani vissuti in modo diretto.

Un’altra precisazione va posta in merito all’intensità emotiva con cui stiamo vivendo questi giorni: vi sono situazioni di convivenza difficile o di angoscia per ciò che sta capitando o di solitudine, altre ancora traumatiche (mi riferisco alle morti in ospedale, senza il conforto dei famigliari), ai vissuti dei professionisti del sanitario che sono in prima linea e, oltre alla fatica psicofisica, alla preoccupazione per se stessi e i familiari di rischio contagio, vivono situazioni drammatiche sul posto di lavoro. E’ indubbio che chi ha vissuto la perdita di un familiare (in genere un genitore) senza sapere dove fosse, come abbia terminato la sua esistenza, senza essersi potuto occupare della salma, senza aver potuto celebrare il funerale con tutti i suoi rituali e il potere di elaborazione che ha in sé, si troverà sulle spalle un grave fardello e sentirà, probabilmente, la necessità di un supporto psicologico.

Così come chi, dall’altra parte, ha dovuto accompagnare i malati all’estremo saluto, o vivere le sofferenze, incrociare sguardi disperati, compiere scelte estreme, fungere da ambasciatore degli ultimi messaggi tra il malato in ospedale e i familiari a casa. Esperienze decisamente forti e traumatiche, che avranno molto probabilmente bisogno di spazi e momenti di ascolto e di rielaborazione.

Si può agire fin da subito. Ma vi sono tutta una serie di altre situazioni, e sono la stragrande maggioranza, per le quali è possibile agire qualcosa fin da subito, senza attendere la fine dell’emergenza. E non mi riferisco al fatto di chiedere un aiuto fin da subito, strumento ovviamente sempre disponibile, seppur a distanza. Abbiamo l’atteggiamento, proprio durante questa fase di isolamento, di convivenza forzata, di guardare sempre il dopo, oltre la fine, senza mai soffermarsi su quello che stiamo vivendo. E così ragioniamo anche rispetto al sostegno psicologico. Ne avrò bisogno, dopo. Sì ma oggi, cosa posso fare per me? Per evitare di rivolgermi ad un professionista quando sarò in condizioni pessime? Sarà il mio un approccio controtendenza o “controinteressi” di categoria, ma credo fortemente in un lavoro di prevenzione, svolto a livello individuale, contagiando, in positivo, i componenti della famiglia.

Un’attenzione al benessere personale e famigliare. Un primo passo è riuscire a mettere parola, con altri adulti (il partner, gli amici), su ciò che ci sta capitando e come noi lo stiamo vivendo. Abbiamo da un lato l’obbligo di proteggere i figli, dall’altro il dovere di tutelare noi stessi. Un primo rischio è di caricarci tutto sulle spalle, di celare quello che stiamo provando, di tenere dentro di noi le preoccupazioni (di salute, per noi e per altri, economiche, lavorative, ecc) che stiamo vivendo. Occorre trovare il giusto equilibrio fra la tutela di noi stessi e quella dei nostri figli, fra quanto va condiviso e quanto no. La condivisione con altri adulti.

Con-dividere significa mettere in comune. Oggi abbiamo anche l’opportunità di condivisione a distanza, che, con i dovuti accorgimenti, si può tramutare in momenti di estrema vicinanza. Con-dividere significa mettere in comune. Rende forse meglio l’idea di condivisione il verbo spagnolo “compartimos”, in quanto dà maggiormente l’idea di “fare parte”, mentre in italiano dà più l’idea della divisione. Però il senso è di mettere in comunione il sentire dell’uno con quello dell’altro, trovare delle risonanze emotive nello scambio. Poter sentire di avere qualcuno emotivamente vicino in un momento delicato, nonché incerto e quindi fonte di preoccupazioni. Qualcuno che sente e prova quello che stiamo provando noi o verso il quale possiamo comunque manifestare il sentire di questi giorni.

Un secondo passo può essere vivere il momento, riuscire a dare valore alla situazione che si è creata. Accettarla, ma non subirla. Accettare una situazione non significa abbassare il capo. Significa riuscire a dare un senso a ciò che ci è capitato. Non parlo di un senso filosofico, divino o esistenziale, ma semplicemente riuscire a vedere delle opportunità quali la vicinanza con i figli, la cura di noi stessi e dei nostri interessi, la cura dei legami con persone care, ma che avevamo trascurato.

Un terzo spunto potrebbe essere quello di lasciare degli ancoraggi temporali di ciò che stiamo vivendo.

La sensazione di questi giorni è di avere messo un paletto ad una certa data, identificata come la fine del tunnel, mentre viaggiamo a fari spenti guardando solo la luce al fondo. L’invito è invece quello di accendere i fari e di vedere quello che c’è nel tunnel. Non solo, ma di lasciare traccia del nostro passaggio: non sappiamo bene quando tutto ciò è iniziato, da quando siamo a casa, per che giorno viviamo. Rischiamo così di stare in un tempo sospeso per poi tornare in una dimensione nuovamente e fortemente scandita dal tempo. Così facendo usciremo dal tunnel, ma con un buco alle spalle, un vuoto temporale, che rischia di inghiottirci, nel tempo. Volevamo fuggire, scappare e rischiamo di esserne risucchiati. Il lavoro quotidiano da intraprendere può essere la scansione temporale, ricordando i giorni che stiamo vivendo, dando loro semplicemente il nome, leggendo il quotidiano (che non comperiamo più, essendo tutto on line e leggendo articoli qua e là), scrivendo un mini diario (attività che potrebbe anche diventare di famiglia e aiutarci anche quando lo rileggeremo), facendo un album fotografico di questi giorni, inventandoci e scrivendo un gioco al giorno, una ricetta al giorno, un pensiero al giorno, ecc.

Se poi ci sarà bisogno di un sostegno, ben venga, ma lo si farà con un’adeguata consapevolezza di ciò che abbiamo passato, del tunnel che abbiamo attraversato. Con le luci accese.

Massimo Giugler, psicologo clinico – Studio Sigrè – 17 aprile 2020

Newsletter varieventuali n. 113 – aprile 2020    

www.rossetorri.it/dopo-lemergenza

 

La dignità del morire al tempo del coronavirus

La lettera aperta di un gruppo di teologhe e teologi evangelici e cattolici affinché nessuno muoia nella solitudine, nemmeno nel pieno dell’emergenza coronavirus.

«La morte è entrata nelle nostre case. Ogni giorno riceviamo con sgomento le cifre dei decessi a causa del virus. E’ diventato un bollettino di guerra guardare il telefono, leggere e ascoltare le notizie di cronaca. Cifre sproporzionate. Dietro l’anonimato dei numeri ci sono volti, nomi, storie, persone che hanno intersecato le nostre vite: i nostri genitori, parenti, amici, colleghi e conoscenti. Molti di loro hanno vissuto la tragedia di morire da soli, senza l’affetto dei loro cari. Potrebbe accadere anche a noi. Il virus colpisce in modo indistinto. Potrebbe succedere anche a noi di ritrovarci in ospedale, da soli, senza la presenza di un familiare. Si pensa con spavento alla propria morte, ma ora appare ancora più terribile l’idea di doverla affrontare nella solitudine, senza la possibilità di congedarsi dai propri cari.

Sappiamo che, da sempre, il reparto di terapia intensiva è luogo interdetto ai visitatori; e che nei momenti di epidemia, le cautele si fanno ancora più stringenti. Tuttavia, nel dibattito democratico che non dovrebbe venir meno anche in questi momenti di emergenza, vorremmo richiamare l’attenzione sul venir meno del carattere umanizzante del morire, senza il quale si lascia la persona morente nella solitudine affettiva. Chi muore da solo non ha la possibilità di far udire la propria voce, le sue ultime volontà. Al massimo, le può consegnare al personale medico. Un metro di misura dell’umanità di una società civile è dato dal tutelare i più deboli, dando voce a quanti non hanno voce.

Riteniamo che anche questo rivesta il carattere di emergenza che muove le decisioni di questi giorni. Chiediamo, dunque, che ci si interroghi seriamente su questo aspetto e che si provi a formulare un protocollo che tenga assieme le ragioni della salute con quelle degli affetti. E’ veramente improponibile pensare che una persona cara, nell’assoluto rispetto delle norme sanitarie, possa essere presente per accompagnare un proprio congiunto nel delicato momento del passaggio dalla vita alla morte?

Si può, con fatica, accettare la solitudine della tumulazione: una volta passata l’emergenza, ci potranno essere gesti pubblici per elaborare il lutto. Ma per chi muore, non si possono differire i tempi: c’è un unico momento. Nessuno merita di morire da solo, nemmeno in una situazione come l’attuale, sotto il ricatto del sacrificio per il bene dei propri cari. Come il personale sanitario, con le dovute cautele, può avvicinarsi al morente, così, a nostro giudizio, è necessario pensare di prevedere la presenza di un congiunto.

Ci appelliamo, dunque, all’intelligenza vigile e creativa di quanti hanno a cuore di promuovere la dignità del vivere e del morire di tutte e tutti. Nell’emergenza, insieme all’eccellenza sanitaria e al governo politico della situazione, facciamo emergere anche una chiara attenzione al profilo umano di quanti sono vittime dell’epidemia».

Lidia Maggi; Paolo Squizzato; Andrea Grillo; Fabio Corazzina; Cristina Arcidiacono; Massimo Aprile; Paolo Curtaz; Carlo Molari; Gianni Marmorini; Silvia Giacomoni; Marco Campedelli; Angelo Reginato.

Agenzia Nev  27 marzo 2020 

https://www.nev.it/nev/2020/03/27/la-dignita-del-morire-al-tempo-del-coronavirus

 

Una “domanda” e una “risposta” di fronte alle sfide del coronavirus.

Riportiamo due articoli, comparsi entrambi su Settimana News, di due noti intellettuali italiani, Giorgio Agamben e Andrea Grillo, che si confrontano dialetticamente sulla interpretazione della reale portata della pandemia da coronavirus e sulle successive azioni messe in campo dalle Istituzioni per fronteggiarla. Due differenti posizioni non del tutto isolate a livello di opinione pubblica e di mezzi di comunicazione di massa. Una occasione per andare oltre luoghi comuni spesso acriticamente accolti e non motivatamente verificati.

Giorgio Agamben (Roma 1942), filosofo, laurea honoris causa in teologia Università di Friburgo

Una Domanda. La peste segnò per la città l’inizio della corruzione… Nessuno era / più disposto a perseverare in quello che prima giudicava essere / il bene, perché credeva che poteva forse morire prima di raggiungerlo (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 53). Vorrei condividere con chi ne ha voglia una domanda su cui ormai da più di un mese non cesso di riflettere. Com’è potuto avvenire che un intero paese sia, senza accorgersene eticamente e politicamente, crollato di fronte a una malattia? Le parole che ho usato per formulare questa domanda sono state una per una attentamente valutate.

            La misura dell’abdicazione ai propri principi etici e politici è, infatti, molto semplice: si tratta di chiedersi qual è il limite oltre il quale non si è disposti a rinunciarvi. Credo che il lettore che si darà la pena di considerare i punti che seguono non potrà non convenire che – senza accorgersene o fingendo di non accorgersene – la soglia che separa l’umanità dalla barbarie è stata oltrepassata.

Il corpo scisso. Il primo punto, forse il più grave, concerne i corpi delle persone morte. Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?

            Abbiamo poi accettato senza farci troppi problemi, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai avvenuta prima nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre mondiali (il coprifuoco durante la guerra era limitato a certe ore) la nostra libertà di movimento. Abbiamo conseguentemente accettato, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio.

            Questo è potuto avvenire – e qui si tocca la radice del fenomeno – perché abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità puramente biologica, da una parte, e in una vita affettiva e culturale, dall’altra. Ivan Illich ha mostrato, e David Cayley l’ha qui ricordato di recente, le responsabilità della medicina moderna in questa scissione, che viene data per scontata e che è invece la più grande delle astrazioni. So bene che questa astrazione è stata realizzata dalla scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa.

            La nostra rassegnazione. Ma se questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e temporali che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e diventa un sorta di principio di comportamento sociale, si cade in contraddizioni da cui non vi è via di uscita. So che qualcuno si affretterà a rispondere che si tratta di una condizione limitata del tempo, passata la quale tutto ritornerà come prima. È davvero singolare che lo si possa ripetere se non in mala fede, dal momento che le stesse autorità che hanno proclamato l’emergenza non cessano di ricordarci che quando l’emergenza sarà superata, si dovrà continuare a osservare le stesse direttive e che il “distanziamento sociale”, come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione della società. E, in ogni caso, ciò che, in buona o mala fede, si è accettato di subire non potrà essere cancellato.

            Chiesa e giuristi. Non posso, a questo punto, poiché ho accusato le responsabilità di ciascuno di noi, non menzionare le ancora più gravi responsabilità di coloro che avrebbero avuto il compito di vegliare sulla dignità dell’uomo. Innanzitutto la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza, che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi principi più essenziali. La Chiesa, sotto un papa che si chiama Francesco, ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi. Ha dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli ammalati. Ha dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che, rinunciare al proprio prossimo, significa rinunciare alla fede.

            Un’altra categoria che è venuta meno ai propri compiti è quella dei giuristi. Siamo da tempo abituati all’uso sconsiderato dei decreti di urgenza attraverso i quali di fatto il potere esecutivo si sostituisce a quello legislativo, abolendo quel principio della separazione dei poteri che definisce la democrazia. Ma in questo caso ogni limite è stato superato, e si ha l’impressione che le parole del primo ministro e del capo della protezione civile abbiano, come si diceva per quelle del Führer, immediatamente valore di legge. E non si vede come, esaurito il limite di validità temporale dei decreti di urgenza, le limitazioni della libertà potranno essere, come si annuncia, mantenute. Con quali dispositivi giuridici? Con uno stato di eccezione permanente? È compito dei giuristi verificare che le regole della Costituzione siano rispettate, ma i giuristi tacciono. Quare silete, iuristæ, in munere vestro? [Perché, o giuristi, tacete di fronte a quello che è il vostro compito?]

La norma, il bene, la libertà. So che ci sarà immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur grave sacrificio è stato fatto in nome di principi morali. A costoro vorrei ricordare che Eichmann, apparentemente in buon fede, non si stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della morale kantiana. Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà.

            Settimana News, 16 aprile 2020

 

Andrea Grillo, (Savona 1961), teologo, liturgista

Fin dall’inizio di questa triste stagione della “pandemia”, mi sono accorto che Giorgio Agamben stava interpretando i fatti – o, forse meglio, alcuni aspetti dei fatti – in modo molto, troppo originale. Ora, con questo articolo apparso su SettimanaNews, “Una domanda”, ho compreso del tutto dove sta il problema della sua domanda. Ma andiamo per ordine: ricostruiamo la “sua” domanda, cerchiamone il senso, e confrontiamola con un’altra domanda.

La domanda sbagliata sulla barbarie nazionale. Fin dalle prime righe Agamben chiarisce quale sia la domanda che lo tiene agitato da più di un mese. Eccola: “Com’è potuto avvenire che un intero paese sia, senza accorgersene eticamente e politicamente, crollato di fronte a una malattia?” Con questo crollo l’Italia avrebbe superato il limite tra umanità e barbarie. La domanda è, dunque “Come abbiamo potuto diventare barbari?”.

            E la barbarie consiste, per Agamben, in tre cose: nella morte e sepoltura senza esequie di tanti uomini e donne; nella concessione di limitare il nostro movimento e le nostre amicizie e amori; nell’aver affidato alla medicina di separare vita biologica e vita spirituale. Tutto questo, dice Agamben, è avvenuto “soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare”. E questo “principio di distanziamento sociale” diventerà “il nuovo principio di organizzazione della società”. Quindi “ciò che si è accettato di subire non potrà essere cancellato”.

            Secondo Agamben tutti siamo responsabili di questo “cedimento”, ma soprattutto lo sono due soggetti, che non avrebbero vegliato sulla dignità dell’uomo. Anzitutto la Chiesa, divenuta “ancella della scienza”, che è la nuova religione, e perciò Agamben ricorda alla Chiesa che Francesco, non il papa, il santo, abbracciava i lebbrosi, che “visitare i malati” è un’opera di misericordia, e che se si abbandona il prossimo si perde la fede.

            Ma anche i giuristi hanno le loro colpe, per aver lasciato che il potere esecutivo sostituisse il potere legislativo, determinando una deriva dispotica. Con il timore che lo “stato di eccezione” si mantenga per sempre. E dopo aver ricordato come anche Eichmann, il famoso nazista, avesse compiuto i più terribili crimini dicendo di obbedire alla legge morale, egli chiude il suo articolo con questa frase chiarificatrice: “Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà”.

La premessa falsa. La domanda, così come formulata da Agamben, impone una interpretazione dei fatti assolutamente univoca. In effetti, se vi fosse una situazione di una qualche incertezza, una vaga sensazione di pericolo, e un governo decidesse di affidare ai medici ogni potere, di chiudere in casa tutta una nazione e di separare drasticamente i vivi dai morti, sottraendo i secondi dal controllo dei primi, e “smaltendoli” nella maniera più disumana, Agamben potrebbe certamente alzare il suo grido scandalizzato e chiedere a tutti, anzitutto alla Chiesa e ai giuristi, di tornare in sé, di non tradire la loro vocazione e missione. Bene.

            Tutto questo scenario è subordinato, però, ad una ipotesi che non tiene conto della dura realtà. Perché questa domanda, se formulata così, sembra proprio una domanda retorica, una domanda vuota, una domanda campata per aria. Perché i tre “scandali” – i defunti senza esequie, le assenze di libertà e l’imporsi del presidio sanitario – non sono anzitutto la “strategia illusionistica per realizzare un colpo di stato”, in nessun modo possono essere ricondotti a ciò che Agamben, con una formula che dire riduttiva è un eufemismo, ha definito come una azione compiuta “soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare”. Io ho qui una impressione: fin dall’inizio di questa vicenda, quando i suoi contorni e la sua gravità non erano ancora del tutto chiari, Agamben ha preso questa linea di lettura: è una forzatura istituzionale, non c’è nulla di serio, si fa passare una influenza per una peste.

            Questa, in quel momento, poteva essere considerata una imprudenza, ma solo all’inizio, come è capitato a qualcun altro, e ci poteva anche stare. Il punto, però, è che oggi Agamben continua a lavorare con questa “premessa maggiore” della sua argomentazione. Il suo sillogismo, così, è diventato il più fallace e il più vuoto di tutta la storia della filosofia. Il filosofo dovrebbe sapere bene che se mette, all’inizio del ragionamento, una premessa falsa, tutto il resto delle sue parole tracolla come un castello di carte. Se tutto ciò che è accaduto, anche nelle sue forme più tragiche, viene letto sotto la luce di una “finzione” – la assenza di un reale pericolo per la vita di decine di migliaia di persone – è ovvio che contenimento, isolamento, distanziamento, presidio sanitario e “lettura medica” della realtà risultano solo come forzature, atti arbitrari, imposizioni dello stato di eccezione, sconfinamento nella barbarie.

Altra domanda, forse quella giusta. La domanda da sollevare, da parte di un filosofo, in una contingenza come questa, non può essere basata su una premessa falsa. Come abbiamo visto, nel testo di Agamben si parte dalla domanda, che è formulata subito, nelle prime righe. Poi se ne illustrano i contenuti, e l’autore è costretto a calare sul tavolo la sua “carta fasulla”. Alla fine si arriva alla conclusione, ed è lì che comprendiamo la debolezza più grande della sua argomentazione.

            Quando infatti egli scrive che “una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà”. Proprio qui, in questa frase finale, si capisce tutto. Il bene e la libertà sono, per Agamben, concetti senza sfumature, senza mediazioni, senza gradi. Un massimalismo del bene e una totalizzazione della libertà producono solo scandalo senza esperienza.

            Che tanto più si rafforza nello scandalo quanto più non può permettersi alcuna esperienza. Per questo, invece, la domanda giusta sarebbe: “Come è potuto avvenire che un intero paese, pur soffrendo eticamente e politicamente, possa riuscire a reggere di fronte a una epidemia tanto grave?”.

            Non è un caso che, nello sguardo di Agamben, siano proprio la Chiesa e i giuristi ad essere messi sul banco degli imputati. Quelli che nel suo testo appaiono come “traditori”, in realtà sanno da millenni che nella storia, in ogni storia, c’è un bene massimo e un bene possibile. E che la storia è proprio la difficile mediazione, sofferta e provvisoria, tra questi poli.

 Anche nella nostra storia di questi giorni, purché si accetti il principio di realtà – ossia la effettiva pericolosità del virus – occorre “contemperare” livelli diversi del bene. Solo in questo caso può essere cosa ragionevole e anche atto benedetto rinunciare a un bene per conseguirne un altro, rinunciare ad una libertà per garantirne una più importante.

            Ovviamente, non tutto ciò che è avvenuto è privo di limiti, di questioni o di domande assai legittime. Ma est modus in rebus. La frase che conclude il testo di Agamben – così drastica e in fondo così disumana – resta del tutto cieca su questo versante accorato e accurato della mediazione, di cui sono ricche le grandi tradizioni, tra cui quella ecclesiale e quella giuridica. E mentre queste sapienze millenarie sembrano garantire una apertura che può essere capace di restare “maestra in umanità”, la lettura ideologica e congetturale di Agamben appare solo come la espressione troppo accigliata e troppo nostalgica di una infanzia destinata a restare sempre senza storia.

Settimana News, 17 aprile 2020

https://francescomacri.wordpress.com/2020/04/17/dibattito-una-domanda-e-una-risposta-di-fronte-alle-sfide-del-coronavirus/#more-55024

{Genesi 1, 28 «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra.»  Il dominio è lento e faticoso, con alterne vicende. Dopo i microbi, sarà il tempo dei virus. Ndr}

 

Il sovrano e la barchetta

Dopo la pubblicazione dell’intervento di Giorgio Agamben su SettimanaNews abbiamo sentito alcuni amici. Persone che guardano con sapiente intelligenza alla vita del paese e delle comunità cristiane. Si va dal pieno consenso alle parole di Agamben (visto come l’unica voce in Italia che usi ancora la ragione), all’apprezzamento per alcuni passaggi (in particolare quello sul morire e sui morti), fino a un senso di estrema distanza. Per quanto ci riguarda, desideriamo fare solo alcune brevi precisazioni senza entrare nel merito del dibattito che si è aperto. Per questo siamo lieti di ospitare un confronto il più ampio possibile sul nostro sito.

Nella sua asprezza il breve testo di Agamben ha fascino, ma anche le sue afasie:

  • La sovranità è oramai uscita dal modello costruito dalla modernità, annidandosi nelle maglie impenetrabili di un’oligarchia fatta di interessi economici privati e volontà di controllo statale – questo con il pieno consenso dei cittadini;
  • Il «diritto si sta suicidando» (Jacques Eluì) da tempo, prendendo il posto della coscienza del singolo cittadino su questioni di ordine morale e di comportamenti personali – a questo hanno contribuito sia l’avanguardia dell’emancipazione per i nuovi diritti individuali sia il neo-liberalismo tecno-finanziario, anche qui non senza il nostro quantomeno tacito assenso a questo suo snaturamento:
  • Un’ipotesi fortemente anti-istituzionale come quella di Agamben dovrebbe essere più avveduta nel non esaurire la fede cristiana nella Chiesa in quanto pura istituzione – l’astrazione così prodotta è del tutto speculare a quella che immagina la comunità senza istituzioni, con l’unica differenza che la tensione fra pratica quotidiana della fede da parte delle comunità cristiane e la sua rappresentanza istituzionale è reale (esiste davvero già adesso).

La storia, anche quella della Chiesa, non va usata ma compresa. Per il cristianesimo un martirio senza fede è, nel migliore dei casi, suicidio e, nel peggiore, mero terrorismo. Per fede i martiri sono stati certo disposti a sacrificare sé stessi, se non vi era altra via di praticare la dovuta corrispondenza al Vangelo, ma di sicuro non lo erano a condannare a morte i propri fratelli e sorelle nell’umano – rischiare la vita dell’altro in nome della propria fede è semplicemente contraddittorio col gesto di Gesù.

Se guardiamo al cristianesimo reale e praticato, e non a un’immagine distorta della sua totale identificazione con l’istituzione, la fede non ha assolutamente abdicato alla cura del prossimo. Basti pensare al numero di sacerdoti che sono morti in questi mesi, proprio per essere rimasti in contatto con la loro gente; alle pratiche della carità che le comunità cristiane hanno saputo ripensare in fretta; e anche ai modi che esse si sono inventati per accompagnare degnamente la morte e i morti dovendo pagare lo scotto di una distanza fisica da loro e dai loro cari.

Un vassallaggio incondizionato della fede cristiana rispetto alla scienza («diventata la vera religione del nostro tempo» secondo Agamben) ci sembra altrettanto improbabile: l’istituzione teologica, in nome di quella fede, è impegnata da tempo in un confronto, né servile né dispotico, col sapere scientifico. D’altro lato, era uno scienziato, Richard Feynman, a distinguere tra scienza come passione per la scoperta, che presuppone un permanente non sapere (e comporta quindi l’impossibilità di una parola scientifica con pretesa normativa), e la tecnica come uso e applicazione delle conoscenze raggiunte. Come consapevolezza del non sapere e passione per la scoperta la scienza ha nella sua prassi gli anticorpi che ne impediscono la trasformazione in religione. Se qualcosa del genere è avvenuto, ciò non riguarda la scienza e non è stato fatto in suo nome.

Mai come in questi mesi si è rivelata sia la provvisorietà del sapere scientifico, con le contraddizioni che in esso sono circolate (e circolano), sia la genuina passione della comunità scientifica a favore dell’umano – dal personale ospedaliero ai ricercatori che stanno mettendo in rete conoscenze e procedure per far fronte a una nuova minaccia per l’umanità.

Come redazione ci auspichiamo che il confronto aperto dall’intervento di Agamben possa proseguire sul nostro sito raccogliendo competenze e prospettive diverse. È qualcosa che ospitiamo ben volentieri.

Redazione settimana news                 18 aprile 2020

www.settimananews.it/chiesa/sovrano-la-barchetta

 

Agamben. Una risposta

Dice Agamben nel suo intervento su SettimanaNews: “una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà.” Questo è un punto fondamentale intorno a cui si arrovella tanta parte del pensiero occidentale da secoli, se non proprio dalle sue origini, da Parmenide e Zenone. Il problema è immenso, formidabile e ci scuote l’anima forse anche perché sentiamo il peso di questi millenni di riflessione nelle due righe. Ma questo è anche un cortocircuito, interessantissimo, fondamentale per mille sviluppi ideali e pratici, e dobbiamo tesaurizzarlo per questo. Ma anche forse dobbiamo tenere in mente che è un cortocircuito.

Praticamente cosa vorrebbe fare il professore Agamben? – chiederebbero i miei amici cinesi con alle spalle due millenni di tradizione culturale molto diversa. Avrebbe voluto celebrare funerali pubblici, concedere l’ultimo addio dei parenti ai malati e così moltiplicare il numero delle vittime per cento o mille? Perché in pratica, così sarebbe successo.

            A Venezia il primo Lazzaretto nel 1423 fa separava forzatamente i malati dai sani, gli infermi dai loro parenti. Calpestava le tradizioni cristiane fortissime del tempo per la salvezza della comunità. Oggi si è andati oltre, sì, ma anche le tradizioni ora sono diverse, e probabilmente il salto che si fece nel 1423 contro le tradizioni imperanti sulla sacralità dei defunti a Venezia fu ben più ampio di quello di oggi. Ciò che salvò Venezia allora, con la fondazione di quella che poi divenne una istituzione fondamentale fino all’attuale pestilenza del Covid 19, su il senso pratico, di realtà che prevalse sul principio, l’idea importantissima ma in pratica letale al momento, della cura e la sacralità dei morti.

            Qui c’è un principio che il papa ha ripetuto più volte, che la realtà è più importante dell’idea. Ciò non significa che l’idea va uccisa e squartata sull’altare del vile e cinico realismo, ma rende conto di quello che fa ogni massaia in cucina ogni giorno: si prende conto della realtà. Se vuole fare la matriciana e non trova il guanciale, usa la pancetta o il prosciutto o mangia semplicemente quello che c’è. Ciò non significa che la ricetta non serve, perché senza ricette mangiamo male, ma che le idee devono trovare un’incarnazione ragionevole a seconda delle circostanze.

            Ciò quindi ha un’estensione sul ruolo della Chiesa nella società e nella politica. Essa non può fermarsi ad affermare principi sacrosanti ma difficilmente applicabili. Né naturalmente, avere un senso di realismo significa trasformare San Pietro in un banco per il traffico delle indulgenze.

            Ma in un momento in cui la politica mondiale sembra oscillare tra l’affermazione astratta di principi e la quasi speculare totale resa al più bieco cinismo, si crea forse uno spazio enorme, un vuoto, di ragionevolezza che andrebbe occupato.

Francesco Sisci  19 aprile 2020

www.settimananews.it/diritto/agamben-risposta-2-2/

 

Amore e sesso ai tempi del covid: gli impatti sociali

L’effetto dell’isolamento sociale sulla vita intima delle persone, tutta trasferita online, è una situazione sociologicamente piuttosto interessante. Vediamo le conseguenze e gli spunti su cui riflettere una volta tornati alla nuova normalità. L’effetto dell’isolamento sociale e della quarantena sulla vita intima delle persone è una situazione sociologicamente piuttosto interessante per due ordini di motivi.

  1. In primo luogo, perché per la prima volta un isolamento sociale di tali proporzioni ha rivelato alcune dinamiche molto interessanti sulla vita di coppia, specialmente se la coppia in questione vive sotto lo stesso tetto, come dimostra l’aumento dei divorzi che ha riguardato l’area di Wuhan.
  2. In secondo luogo, la vita intima presuppone la vicinanza fisica, situazione molto difficile da attuare in condizioni di isolamento sociale quando i partner sono distanti, e per tale motivo è interessante osservare le strategie adottate per risolvere questo problema.

Per comodità di analisi, divideremo la vita intima delle persone in tre aspetti distinti: l’amore, il sesso, il desiderio sessuale esemplificato dalla pornografia. Inoltre, per facilità di studio useremo i comportamenti collettivi attivati attraverso le piattaforme digitali, perciò faremo riferimento ai dati sull’andamento di alcune tecnologie come fonte informazioni.

L’amore e il dating online ai tempi del covid-19. Cominciamo con l’amore. Per prima cosa l’idea che l’isolamento forzato delle coppie sposate abbia portato ad un aumento dei divorzi, al momento è solo una evidenza aneddotica, dato che già la Cina negli ultimi tre anni stava assistendo ad una crescita dei divorzi chiesti in larga parte dalle donne e non è chiaro se la pandemia da coronavirus abbia agito come un acceleratore di questo tipo di comportamento. La Online Dating Association (ODA) si è affrettata a fare delle linee guida per i propri soci – le più grandi compagnie di servizi per il dating online – per far si che anche durante l’isolamento sociale si possano gestire gli incontri in sicurezza, essenzialmente usando la tecnica dell’appuntamento in videoconferenza o altre strategie di distanziamento fisico.

Questa dimensione dell’appuntamento con lo streaming video ha portato l’implementazione di servizi di videochat da parte di tutte le principali app di dating come Plenty Of Fish e Once. Servizi come OKCupid hanno assistito ad un aumento delle chat in cui si parla di coronavirus (il 188% in più tra gennaio e febbraio) oppure ci sono stati picchi nelle video chat come nel caso di Ship (60% in più nella settimana del 15 marzo). Ciononostante, secondo App Annie, un servizio specializzato nell’analisi del mercato delle app, c’è stato un calo nelle chat di dating [incontri] proprio per via dell’impossibilità di dare seguito all’incontro – più o meno romantico – che avviene online e per questo motivo l’industria degli incontri digitali è corsa ai ripari. La tendenza sembra quella dell’affiancamento di funzionalità video ai servizi di chat che già esistono nelle diverse app. Qualcuno ha deciso di procedere al lancio di nuovi servizi come Adult Friend Finder che per confermare il suo posizionamento nel mercato delle app dell’amore romantico e per venire incontro alle esigenze della sua clientela ha inaugurato un servizio di streaming del matrimonio con qualità video da 4K che può essere richiesto con password – se si vuole limitare la visione a quelli che sarebbero stati gli invitati – o senza password – se si vuole trasformare il giorno più bello della propria vita in un evento mediale.

        L’unica app che sembra non aver subito il colpo più di tanto è proprio Tinder: gli analisti ritengono che la sua user experience che l’ha reso celebre (lo swipe dei contatti) ha fatto si che l’esperienza di dating non sia solo per la ricerca del partner (sessuale nel caso di Tinder), ma venga percepita come una forma di intrattenimento.

Il sesso, il porno e il mercato dei sex toy. Le caratteristiche del posizionamento di Tinder ci portano al tema del sesso. Dal punto di vista tecnologico è molto complesso monitorare questo tipo di comportamento per tutta una serie di motivazioni legate allo scarso sviluppo delle app relative alle attività sessuali e per via di comprensibili pruderie legate alla pratica. C’è un modo indiretto per analizzare questo comportamento ed è il mercato dei sex toy [giocattoli sessuali]. Secondo alcuni dati, questo mercato ha avuto una certa impennata proprio tra febbraio e marzo 2020. Analizzando i propri dati di vendita, la società tedesca Womanizer specializzata nella commercializzazione di una particolare gamma di prodotti per l’autoerotismo femminile, ha rilevato un aumento delle vendite del 75% negli USA, del 71% a Hong Kong e del 60% in Italia.

            Ma i dati più interessanti sull’impatto del coronavirus sono senza dubbio appannaggio del porno. Il porno ha avuto una crescita piuttosto tumultuosa in questo periodo di quarantene e pandemie. I dati di Pornhub parlano chiaro: in Italia si è passati da una percentuale di traffico che era del 5,3% fino al 10 marzo, ad una percentuale del 57% a partire dall’11 marzo, giorno in cui la società ha deciso di fornire gratuitamente il proprio accesso premium come contributo per incoraggiare le persone a stare a casa. Oltre ai dati di traffico, molto interessante è l’analisi dell’audience. In pratica è stato rilevato che a livello mondiale c’è stata una crescita repentina di tutto il pubblico, ma in maniera particolare di quello femminile che dallo 0,8% del 24 febbraio sono passate al 21,5% in soli 30 giorni. Il paese che ha assistito alla maggiore crescita delle donne utenti di Pornhub è l’Italia con il 36% in più nella settimana 16-20 marzo rispetto al giorno medio, seguita da Messico (34%), Francia (33%), Spagna (32%).

            Amore, sesso, porno: questi dati sono piuttosto caotici ed eterogenei ed è sicuramente necessaria una analisi più approfondita e dettagliata di quanto sia stato possibile fare. Sicuramente sarà un tema su cui riflettere una volta tornati alla nuova normalità. C’è però qualche interessante considerazione iniziale. In primo luogo le app di dating sono ormai una realtà per fasce sempre più ampie di popolazione: queste piattaforme digitali stanno sostituendo la casualità dell’incontro territoriale con la strategia dell’incontro relazionale, da una scelta del partner di tipo locale ad una strategia di ricerca di tipo valoriale, e su questa componente l’isolamento sociale della pandemia ha mostrato quanto importante sia sviluppare un nuovo galateo del flirt che abbia delle regole anche per il contatto da remoto.

Conclusioni. Le dinamiche relative ai sex toy hanno mostrato che la sessualità femminile è sempre più un settore di mercato interessante che sottende anche una nuova consapevolezza del desiderio sessuale della donna. L’isolamento sociale ha rinforzato questa dimensione in cui la sessualità della donna si può esprimere anche attraverso l’assenza del partner. Il porno invece ha rivelato che il desiderio sessuale che passa attraverso lo sguardo è una componente anche della vita sessuale della donna, mettendo in crisi il trito stereotipo che vuole che nel desiderio gli uomini siano ligi ad un’estetica della vista e le donne ad un’estetica del tatto.

            La pandemia ha visto aumentare le donne utenti di servizi di porno online, rinforzando l’idea di una sessualità femminile molto più complessa di quanto eravamo abituati a pensare come uomini.

            C’è da vedere come queste tendenze sociali verranno a riorganizzarsi nel momento in cui questo periodo di eccezionalità sociale e relazionale verrà meno. La sessualità è una esperienza individuale mediata dalla struttura sociale che è complessa, articolata e per certi versi misteriosa e in questo universo la tecnologia digitale ha ormai un suo spazio, aprendo una gamma di possibilità, esperienze, attività tutte da esplorare.

            Ovviamente la relazione sessuale è un’attività culturale che rimanda alla nostra dimensione animale e pertanto da esercitare in presenza della fisicità della fonte del desiderio. Se così non fosse si rischierebbe il paradosso del feticista di Karl Kraus che brama una scarpa da donna e deve contentarsi di una femmina intera.

Davide Bennato, docente di Sociologia dei media digitali – Università di Catania          14 aprile 2020

www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/amore-e-sesso-ai-tempi-del-covid-gli-impatti-sociali

 

Coronavirus, come incide sulla natalità

La pandemia di Covid-19 rischia di accentuare il calo demografico. Eravamo già da anni alle prese con una diminuzione delle nascite. Il Coronavirus, certamente, non migliorerà la situazione. Al contrario: secondo i demografi rischia di peggiorarla sensibilmente per motivi facilmente immaginabili. In primis, la crisi economica collegata alla malattia, che farà probabilmente passare a molte coppie la voglia di fare figli, in mancanza di certezze occupazionali. È l’agenzia di stampa Adnkronos a spalancare questo fosco scenario davanti ai nostri occhi.

            L’anno scorso, l’Italia ha toccato un nuovo record in negativo, con circa 435mila nati, il livello più basso dal 1918, secondo l’Istat. Il futuro dopo la pandemia non appare roseo, a giudicare dalle dichiarazioni di due dei tre demografi interpellati da Vittoria Vimercati per l’agenzia di stampa.

            “È più verosimile che prevalga un impatto negativo – spiega Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica sociale dell’Università Cattolica di Milano, ai microfoni di Adnkronos – . Specie con le difficoltà economiche e il clima di incertezza che frenano sia la scelta di avere figli per le coppie già formate e sia la possibilità dei giovani di diventare indipendenti e formare una propria famiglia. È vero che dopo le grandi epidemie del passato e dopo la seconda guerra mondiale [e la pandemia della “spagnola” con 600.00 morti in Italia, 50 milioni nel mondo, con un tasso di letalità del 2,5%] c’è stata una ripresa di vitalità demografica, ma in questo caso non è scontata che avvenga”. Per due ragioni, secondo Rosina: “Non si è vista nessuna ripresa delle nascite dopo la crisi economica del 2008, che invece ha lasciato conseguenze persistenti di fragilità sulle nuove generazioni. Il secondo motivo è che l’uscita dalla crisi sanitaria attuale potrebbe essere lunga, senza un vero momento chiaro di fine tempesta. Bisognerà costruire progressivamente una normalità nuova e serviranno anni prima che il paese e le persone riescano a fissare nuove coordinate di riferimento all’interno delle quali collocare il proprio percorso di sviluppo e le proprie scelte di vita”.

            Certo, c’è anche un possibile rovescio della medaglia: le coppie avranno più tempo per stare insieme e per occuparsi dei figli, lavorando da casa. E quando l’emergenza finirà qualcuno sentirà senz’altro un richiamo verso il matrimonio o il progetto di mettere su famiglia. Ma per gli esperti intervistati dall’agenzia restano ipotesi minoritarie.

            Anche secondo Francesco Billari, demografo e sociologo dell’università Bocconi di Milano, ci sarà un calo dei nuovi nati. “Tra gli esperti – dice Billari – c’è un po’ di discussione sul tema per alcuni studi fatti dopo gli attacchi terroristici in Israele, dove si osservava un consequenziale boom di neonati. Si tratta, però, di situazioni momentanee, con shock economici transitori”. In Italia e, di fatto, nel resto del mondo, ora che la pandemia è globale, “siamo di fronte a una situazione che prospetta uno shock economico permanente”. Quindi, spiega, “il futuro ci appare come difficile, se non peggiore, e già l’Italia non andava bene prima”. L’ottimismo che vacilla non è un buon viatico per programmare gravidanze. “Oggi – sostiene il sociologo – i figli si fanno in momenti in cui c’è ottimismo e si pensa ad un futuro migliore. La mia ipotesi è che non ci sarà un baby boom, ma piuttosto l’opposto”.

            Pensa positivo, invece, il sociologo Franco Ferrarotti, 94 anni. “Io lo sono di natura – confessa all’Adnkronos – ma sono convinto che dopo questa grave prova della pandemia come reazione istintiva ci sarà una forte ripresa della natalità“. La condizione, però, è che passi la paura del contagio, una volta arrivati gli strumenti, farmaci e vaccini, per combattere l’emergenza sanitaria. “È già successo molte volte nel mondo: quando un paese si sente minacciato, ecco che poi, appena terminata la paura, esplode la rinascita”. In tutti i sensi. Il distanziamento sociale “è una mutilazione innaturale per i nostri popoli dei paesi mediterranei – conclude Ferrarotti -. Qesto Coronavirus non avrà conseguenze permanenti: un giorno tutto tornerà come prima“

            La legge per tutti                    14 aprile 2020

www.laleggepertutti.it/388668_coronavirus-come-incide-sulla-natalita

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DALLA NAVATA

II Domenica di Pasqua. Della Divina misericordia. Anno A  19 aprile 2020

Atti Apostoli       02, 42. Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere.

Salmo                 117, 02. Dica Israele: «Il suo amore è per sempre». Dica la casa di Aronne: «Il suo amore è per sempre». Dicano quelli che temono il Signore: «Il suo amore è per sempre».

1 Pietro                 01, 06. Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà.

Giovanni             20, 30. Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

                                                Le ferite del Signore e la gioia di credere

I discepoli erano chiusi in casa per paura dei giudei. Hanno tradito, sono scappati, hanno ancora paura: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando? E tuttavia Gesù viene. Una comunità chiusa dove non si sta bene, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e ci si sente allo stretto.

E tuttavia Gesù viene. Non al di sopra, non ai margini, ma, dice il Vangelo, in mezzo a loro. E dice: Pace a voi. Non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di una affermazione: la pace è, la pace qui. Pace che scende dentro di voi, che proviene da Dio. È pace sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sui sogni non raggiunti, sulle insoddisfazioni che scolorano i giorni. Qualcuno però va e viene da quella stanza, entra ed esce: i due di Emmaus, Tommaso il coraggioso. Gesù e Tommaso, loro due cercano.

Si cercano. Otto giorni dopo, erano ancora lì tutti insieme. Gesù ritorna, nel più profondo rispetto: invece di rimproverarli, si mette a disposizione delle loro mani. Tommaso non si era accontentato delle parole degli altri dieci; non di un racconto aveva bisogno, ma di un incontro con il suo Signore. Che viene una prima volta ma poi ritorna, che invece di imporsi, si propone; invece di ritrarsi, si espone alle mani di Tommaso: Metti qui il tuo dito; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.

La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto dell’amore, e allora resteranno eternamente aperte. Su quella carne l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come l’amore stesso. Il Vangelo non dice che Tommaso abbia davvero toccato, messo il dito nel foro.

A lui è bastato quel Gesù che si propone, ancora una volta, un’ennesima volta, con questa umiltà, con questa fiducia, con questa libertà, che non si stanca di venire incontro, che non molla i suoi, neppure se loro l’hanno abbandonato. È il suo stile, è Lui, non ti puoi sbagliare: mio Signore e mio Dio. Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Una beatitudine per noi che non vediamo, che cerchiamo a tentoni e facciamo fatica, che finalmente sento mia.

Grande educatore, Gesù: forma i suoi alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, alla ricerca personale più che alla docilità. Beati i credenti! La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante. Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: col rischio di essere felici, portando le nostre piaghe di luce.

www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-del-19-aprile-2020-p-ermes-ronchi

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DIRITTI

Il diritto alla speranza

Il diritto rivendicato dal papa. Renderlo effettivo significa attivare un processo costituente per rifondare l’ordine mondiale sull’universalismo nei diritti, sull’uguaglianza, sulla solidarietà e sulla consapevolezza della nostra comune fragilità, della nostra interdipendenza e del nostro comune destino.

La newsletter del 16 aprile inviata dal sito “Costituente Terra”, a firma del filosofo del diritto e del costituzionalismo Luigi Ferrajoli

 

Nella sua omelia di sabato 11 aprile 2020, Papa Francesco ha parlato del “diritto alla speranza” come “diritto fondamentale”. Ovviamente non si tratta di un diritto stabilito da leggi o Costituzioni. Si tratta, piuttosto, di un meta-diritto, una sorta di principio costitutivo della morale e della politica che forma il presupposto di qualunque lotta per i diritti e per la trasformazione in senso progressivo della società. Mi ha ricordato un celebre passo di Inmmanuel Kant del 1793: “senza la speranza di tempi migliori, un serio desiderio di fare qualcosa di utile per il bene generale non avrebbe mai eccitato il cuore umano”.

La speranza nel progresso, infatti, forma il presupposto sia dell’impegno morale che di quello politico. Ma soprattutto quel “diritto alla speranza” mi ha ricordato Il principio speranza di Ernst Bloch, scritto tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta del secolo scorso e pubblicato da Garzanti in tre volumi nel 1994. Il principio della speranza si contrappone infatti ad ogni accettazione passiva di quanto accade come inevitabile, perché necessario e senza alternative. Che è precisamente la fallacia realistica che ha sorretto le politica liberiste di questi anni: la tesi che non esistono alternative all’attuale realtà delle relazioni economiche, politiche e sociali e il discredito come utopia di quella “speranza di tempi migliori” evocata da Kant come presupposto di qualsiasi impresa informata al bene comune.

La pandemia del coronavirus sta mostrando drammaticamente la mancanza di realismo proprio di quanti suppongono che la realtà possa rimanere come è senza andare incontro a catastrofi. Con il suo quotidiano bilancio di nuovi contagi e di morti, essa sta mostrando l’imprevidenza e la dissennatezza delle nostre politiche, sedicenti realistiche, incapaci di affrontare le sfide globali dalle quali dipendono la salute e la vita di miliardi di persone. Benché il pericolo di una pandemia fosse stato più volte previsto, nulla è stato fatto, dalle nostre politiche “realiste” per fronteggiarlo. In vista delle guerre si fanno esercitazioni militari, si costruiscono bunker, si mettono in atto simulazioni di attacchi e tecniche di difesa e si accumulano armi sempre più micidiali. Contro il pericolo annunciato di una pandemia non è stato fatto nulla. Il coronavirus ci ha fatto scoprire l’assurda insufficienza del numero dei medici e degli infermieri e l’incredibile mancanza di reparti di terapia intensiva, di respiratori, di tamponi e di mascherine.

Ci siamo accorti di essere stati privati, dal “realismo” delle nostre politiche, delle misure più elementari per fronteggiare il contagio. La follia estrema è stata raggiunta nel Paese più potente del mondo, gli Stati Uniti, dove si è continuato a produrre armi contro nemici inesistenti e si è rilanciato la corsa agli armamenti nucleari, mentre decine di milioni di poveri venivano abbandonati a se stessi perché privi di assicurazione medica e decine di migliaia di americani stanno morendo a causa dell’assenza di una sanità pubblica e per la mancanza di posti-letto e di test diagnostici.

Il diritto alla speranza rivendicato da papa Francesco equivale al diritto di contestare e contrastare queste insensate politiche di morte. Come è già avvenuto nella storia, la tragedia che stiamo vivendo può determinare un risveglio della ragione in ordine alla necessità di prendere sul serio e di dare attuazione, istituendo nuove funzioni e istituzioni globali di garanzia, alle grandi promesse – l’uguaglianza, la pace, la dignità della persona, i diritti umani – formulate in tante Carte costituzionali e internazionali all’indomani degli orrori dei fascismi e delle guerre mondiali. Il diritto alla speranza e il principio politico della speranza sono il presupposto necessario di questo ripensamento e di questa rifondazione razionale della politica e del diritto. E’ infatti da questa comune speranza, in grado di coinvolgere l’impegno di tutti gli esseri umani, che può provenire l’energia costituente necessaria a rifondare l’ordine mondiale sull’universalismo nei diritti, sull’uguaglianza, sulla solidarietà e sulla consapevolezza della nostra comune fragilità, della nostra interdipendenza e del nostro comune destino.

Questo primato e questa universalità dei diritti fondamentali non sono stati soltanto negati in passato dalle politiche liberiste, informate al primato del mercato. Continuano di nuovo a essere negati dalla corsa dissennata alla riapertura dei mercati sollecitata dai poteri economici, anche a costo di un nuovo scatenarsi dei contagi, per il timore della concorrenza o peggio per la volontà di conquistare fette di mercato a danno di altri. Non solo. Sono negati anche dalle ideologie e dalle politiche populiste e sovraniste, anti-europeiste e anti-cosmopolitiche, che vorrebbero farci regredire ai nefasti conflitti nazionalisti e identitari della prima metà del secolo scorso.

La pandemia del coronavirus, colpendo tutto il genere umano, senza distinzioni di nazionalità e di ricchezze, può farci ripensare il nostro futuro e generare la speranza di un reale mutamento di rotta. Può provocare la presa di coscienza dei pericoli di altre gravi catastrofi – ambientali, nucleari, umanitarie – che incombono sul nostro futuro e che possono essere fronteggiate soltanto dalla costruzione di istituzioni globali di garanzia: un’Organizzazione mondiale della Sanità in grado di gestire in maniera globale e omogenea le pandemie e le aggressioni alla salute, a garanzia non solo dell’uguaglianza ma anche della massima efficacia delle misure contro il contagio; l’istituzione di un demanio planetario a tutela di beni comuni come l’acqua, l’aria, i grandi ghiacciai e le grandi foreste; la messa al bando delle armi nucleari ed anche di quelle convenzionali, la cui diffusione è responsabile di centinaia di migliaia di omicidi ogni anno; il monopolio della forza militare in capo all’Onu; un fisco globale in grado di finanziare i diritti sociali alla salute, all’istruzione e all’alimentazione di base, pur proclamati in tante Carte internazionali. Sono queste le grandi novità che il principio della speranza rende oggi pensabili e possibili.

Con i più cordiali saluti                                    Luigi Ferrajoli

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/il-diritto-alla-speranza

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EMPATIA

L’empatia è già presente nei bambini a 5 mesi

Un recente studio ha dimostrato che bimbi così piccoli sono già sensibili ai sentimenti degli altri. Intorno lo sviluppo dell’empatia nel corso dell’infanzia il mondo scientifico sta da tempo dedicando grande interesse. Martin Hoffman, psicologo americano, professore emerito di psicologia clinica e dello sviluppo alla New York University, ha proposto una teoria che vede l’empatia e il senso morale nei bambini progredire attraverso 5 fasi come spiega la dottoressa Serena Costa nell’articolo “Sviluppo dell’empatia nei bambini: quali fasi?”.

  1. La reazione emotiva dei primi mesi, non volontaria, in cui ad esempio un bambino piange in presenza di un altro neonato che fa altrettanto.
  2. A seguire la sofferenza empatica egocentrica, quando intorno al primo anno di vita il bambino riesce ad imitare le espressioni emotive ed attivarsi per cercare di calmare un bambino in difficoltà: aiuto prevalentemente finalizzato a porre termine al proprio stato di angoscia generato dal pianto del compagno
  3. Poi la sofferenza empatica quasi egocentrica, tra il primo e il secondo anno di vita, periodo in cui i bambini diventano più consapevoli del fatto che ciò che provano gli altri è distinto da ciò che provano loro. Iniziano a voler consolare un compagno di giochi abbracciandolo o accarezzandolo, agendo però dalla propria prospettiva: il pupazzo che eventualmente gli porgeranno è quello che loro stessi usano per calmarsi.
  4. Infine la sofferenza empatica veridica: intorno ai 2 anni, periodo in cui il bambino si rende conto di essere una persona con pensieri ed emozioni propri, diversi dagli altri, quando egli non offre più il suo orsacchiotto ma quello del compagno che piange.
  5. Si arriva così al periodo dai 6 ai 13 anni, in cui l’esperienza empatica diventa sempre più complessa e matura grazie allo sviluppo delle competenze linguistiche e di un senso di sé stabile e coerente. Inizia a differenziarsi la capacità empatica in base all’identità degli altri: ad esempio scegliere di regalare un proprio giocattolo ad un bambino che appare povero ma non ad un altro che ha l’aria benestante.

Una recente ricerca condotta in collaborazione fra due università israeliane, e riportata sulla rivista British Journal of Psychology, si è proposta di evidenziare se bambini di soli 5 mesi sono in grado di essere sensibili ai sentimenti degli altri (psicologiacontemporanea.it). A 27 bambini di età compresa fra i 5 e i 9 mesi sono stati mostrati due video: in uno un personaggio a forma di rettangolo dotato di occhi si arrampica su una collina dove incontra una figura a forma di cerchio con cui scende mostrando chiare sensazioni positive o neutre; nel secondo la figura a forma di cerchio ostacola quella rettangolare nella salita e quest’ultima evidenzia reazioni di angoscia compreso il pianto.

Il “test di preferenza”. Poi gli sperimentatori hanno sottoposto i bambini ad un “test di preferenza”, presentando loro un contenitore con le due figure rettangolari e valutando a quale delle due si avvicinassero. Più dell’80% di loro sceglieva la figura che era stata vittimizzata e che aveva espresso sentimenti di angoscia. In un secondo studio venivano mostrate le due scene, senza presentare il contesto e il motivo della tristezza o dello stato d’animo positivo. In questo caso non si assisteva alla preferenza per il personaggio a disagio in assenza di una ragione apparente. I risultati del nostro studio indicano che, anche durante il primo anno di vita, il bambino è già sensibile ai sentimenti degli altri e può anche trarre conclusioni complesse sul contesto di una particolare manifestazione emotiva.

            I ricercatori hanno pertanto concluso che i bambini evidenziavano una preferenza empatica nei confronti della “vittima”, a sostegno delle crescenti prove dell’emergere della compassione umana e della moralità a partire dalla tenera età, anteriormente al primo anno di vita.

Silvia Lucchetti           Aleteia            17 aprile 2020

https://it.aleteia.org/2020/04/17/bambini-5-mesi-provare-empatia/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it

 

La faccia sconosciuta e miracolosa dell’empatia

Il ruolo essenziale di questa risorsa psicologica per spegnere il fuoco dell’aggressività e costruire un mondo più umano. Paolo Albiero e Giada Matricardi hanno affrontato per l’editore Carocci l’affascinante e complesso tema dell’empatia con il loro volume “Che cos’è l’empatia”. I semplici esempi che seguono sono appena capaci di trasmettere il senso della “magia” che l’empatia è in grado di creare nelle nostre relazioni con il prossimo. L’espressione preoccupata di una mamma che sentendo il suo bambino piangere diversamente dal solito capisce che si lamenta per qualcosa di serio. Telefonando ad un amico per un breve saluto, solo dal tono della sua voce intuiamo che è in grande difficoltà. Lo studente appena bocciato che viene abbracciato e rincuorato da un compagno presente all’esame. La gioia provata da molti di noi nell’assistere all’incontro di due persone che non si vedevano da anni. Il misto di felicità e compassione nel volto di un soccorritore che ha appena salvato dei migranti caduti in mare.

            Come possiamo definire concretamente l’empatia? Il termine empatia, fino a qualche decennio fa quasi sconosciuto, è una delle parole più usate (e forse abusate) nei diversi contesti – professionali e non – in cui si dibatte e riflette in generale sui rapporti umani. Come possiamo darne una definizione che non suoni come una fredda etichetta scientifica? Potremmo affermare, parafrasando uno specifico passo del libro, che è la capacità di “mettersi nei panni degli altri”, comprendendone i punti di vista (la componente intellettuale dell’empatia) e condividendone lo stato emotivo (la componente affettiva dell’empatia), quindi provando un’emozione uguale o simile a quella della persona con cui stiamo interagendo, consapevoli che la causa del nostro vissuto risiede nell’emozione percepita in lei. L’empatia è una capacità fondamentale per godere relazioni positive con gli altri e stimolare comportamenti a favore del prossimo, facilita la cooperazione negli ambienti di lavoro e di studio, modula il flusso delle emozioni negative (rabbia, disgusto, noia, imbarazzo) spesso emergenti nei rapporti interpersonali. Tempera le reazioni aggressive che si attivano contenendo sia quelle dirette – fisiche o verbali – prevalenti nei bambini di entrambi i sessi e nei giovani maschi, sia quelle indirette, più tipiche delle giovani donne e degli adulti senza distinzione di genere.

L’aggressività negli uomini e nelle donne. La maggior parte della attenzione scientifica e della sensibilità comune si è rivolta ad esplorare il rapporto fra empatia e comportamenti a favore degli altri, trascurando il suo ruolo nell’influenzare le condotte aggressive sia dei maschi che delle femmine. Gli autori giustamente sottolineano come per molto tempo si è erroneamente ritenuto che i maschi fossero più aggressivi dell’altra metà del mondo (per l’esattezza un po’ più della metà numericamente), a causa di una “lettura” riduttiva in senso fisico del termine aggressività che, invece, va inteso in senso ampio come comportamento orientato a ledere qualcuno sotto il profilo corporeo e/o psicologico, creandogli sofferenza e disagio. Vista sotto questa prospettiva l’aggressività non è quantitativamente diversa fra i due generi, bensì espressa con modalità differenti, privilegiando il cosiddetto sesso debole le forme indirette.

Silvia Lucchetti           Aleteia            6 agosto 2019

https://it.aleteia.org/2018/08/06/cosa-essere-empatia

 

6 consigli per avere più empatia con i tuoi amici

            “Ascolta senza giudicare o commentare…a meno che non ti venga richiesto”. “Volevo solo che tu mi ascoltassi”, e tu pensi (o dici): “Ma ti sto ascoltando”. Se ti è successo, può essere il momento di cambiare il tuo modo di ascoltare e di adottare un ascolto un po’ più empatico. Ecco sei consigli per ascoltare in modo più empatico e migliore.

  1. Presta tutta la tua attenzione. Sì, spesso puoi riuscire ad ascoltare mentre sei al cellulare o fai qualsiasi altra cosa, ma per sentirsi ascoltati a un livello più profondo abbiamo anche bisogno che gli altri ci vedano e di vedere la reazione dell’altra persona. Oltre a questo, dedicare tutta la tua attenzione alla persona nel momento in cui parla può aiutare a far sì che abbia la sensazione che lei – e ciò che dice – sia importante per te.
  2. Ascolta senza giudicare o commentare – a meno che non ti venga richiesto. Può essere difficile, ma cerca di ascoltare partendo da una prospettiva emotiva, non razionale. Pensa che stai ascoltando un bambino che ha bisogno di essere accolto, non un adulto che prende decisioni che possono essere valorizzate basandosi su efficienza o pragmatismo. Ascoltare ha a che vedere con il fatto di aiutare la persona a sentirsi ascoltata e a comprendere se stessa, non con la tua ansia di esprimere un’opinione o un giudizio o di offrire una soluzione al problema.
  3. Non minimizzare i problemi dell’altra persona. Ciascuno vive in un luogo del mondo e ha la propria storia. Se la persona vuole essere ascoltata, è perché ciò che ha da dire è importante per lei. Quando banalizzi o minimizzi qualcosa, stai paragonando quella cosa a un livello ideale, e quel livello può fare due cose: pone te al posto di un’autorità che sa di qualcosa e pone l’altro al posto di chi non conosce una cosa ovvia. Il rapporto, anche quando non è intenzionale, in quel momento si verticalizza, ma per ascoltare è necessario un rapporto tra uguali.
  4. Presta attenzione ai messaggi non verbali. Osserva le emozioni che accompagnano il modo di parlare del tuo interlocutore. Stai attento a percepire il tono di voce e le espressioni verbali e gestuali che utilizza parlando, perché tutto questo fa parte di ciò che sta dicendo. Quando ascoltiamo qualcuno in modo più attento e profondo, in realtà stiamo ascoltando non solo ciò che dice verbalmente, ma anche come si sente in relazione a ciò che sta dicendo.
  5. Non è necessario rispondere immediatamente. Trattieni il tuo impulso di rispondere sul momento e resta tranquillo se ti senti spinto a dire qualcosa. Se sei tranquillo, può essere che la persona stessa offra una soluzione che ti sorprenderà o che continui la conversazione fino a parlare di qualcosa di simile a quello a cui stavi pensando tu.
  6. Verifica di aver capito. Verificare se hai capito bene serve a vari propositi in un buon ascolto. In primo luogo ti aiuta a essere preparato a rispondere, in secondo luogo aumenta la connessione, in terzo luogo può aiutare la persona a percepire alcuni aspetti di ciò che dice. Per verificare di aver capito, puoi dire qualcosa come “Quello che mi stai dicendo è che…?” e parafrasare quello che ha detto la persona, o “Vorrei capire meglio quello che mi stai dicendo, puoi dirmelo in un altro modo?” Puoi anche porre domande come “E com’è andata?”, “E cosa ne pensi?”, per capire meglio ciò che la persona ti ha detto.

Ascoltare con più empatia può aiutare il tuo interlocutore a liberare emozioni e a sentirsi amato e importante per te, il che a sua volta promuove la fiducia e il rispetto e la riduzione delle tensioni, facilitando la soluzione dei problemi, sia per l’altra persona che per te.

Psiconlinews   26 giugno 2015           [Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

https://it.aletei.org/2015/06/26/6-consigli-per-avere-piu-empatia-con-i-tuoi-amici

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Nel dopo-pandemia la speranza di rinascere uniti

Sulla rivista spagnola “Vida Nueva” il Papa indica un “Piano per risorgere” dopo il Covid-19. Il virus, dice, ha provocato grande dolore ma ci ha fatto riscoprire un’unica famiglia. È il tempo di avere un nuovo sguardo sul mondo, mettendo in circolo gli “anticorpi della solidarietà”. Non possiamo riscrivere la storia “con le spalle rivolte alle sofferenze degli altri”.

www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-04/un-piano-per-risorgere-covid-papa-francesco-vida-nueva.html

La pietra sul sepolcro era enorme, le donne che la mattina di Pasqua vanno al sepolcro non l’avrebbero mai spostata. Questo però non le ferma. Anche in mezzo “alle tenebre e allo scoraggiamento, portavano i loro sacchetti di profumo” per ungere il corpo del loro Maestro. E poi la sorpresa, che le fa scoppiare di gioia. “Improvvisamente Gesù uscì per incontrarle e le salutò dicendo: ‘Rallegratevi'”.

L’ultima parola. “Invitare alla gioia potrebbe sembrare una provocazione e anche uno scherzo di cattivo gusto di fronte alle gravi conseguenze che stiamo subendo a causa del COVID-19”. Francesco è consapevole che aprire la sua riflessione con la scena evangelica della Pasqua – il racconto di una risurrezione mentre il virus implacabile semina morti – potrebbe essere un gesto di “ignoranza o irresponsabilità”. Ovunque, riconosce, il mondo si sta chiedendo chi tirerà via la “pietra tombale” della pandemia, che tra lutti e angoscia per il futuro minaccia, dice, “di seppellire ogni speranza”. Gli anziani soli in quarantena, le famiglie “che non sanno più come portare un piatto di cibo sulle loro tavole”, “la pesantezza degli operatori sanitari e dei funzionari pubblici che si sentono esausti e sopraffatti”, adesso è tutto questo che “sembra avere l’ultima parola”.

 “Se c’è qualcosa che abbiamo potuto imparare in tutto questo tempo, è che nessuno si salva da solo. Le frontiere cadono, i muri si sgretolano e tutti i discorsi fondamentalisti si dissolvono di fronte a una presenza quasi impercettibile che manifesta la fragilità di cui siamo fatti.” Ma è proprio in quell’“annuncio traboccante” del Vangelo – “Non è qui, è Risorto” – che Francesco trova le ragioni profonde, non solo di fede ma anche umane, del suo “Piano per risorgere”, pubblicato da “Vida Nueva”. È la stessa umanità di quella scena a suggerirglielo. L’umanità pavida degli apostoli, che erano scappati via, e l’umana praticità delle discepole che grazie a quel “tipico, insostituibile e benedetto genio femminile” vanno al sepolcro “astutamente” e nonostante tutto. Anche nel mondo flagellato dal coronavirus, osserva il Papa, abbiamo visto “molti che cercavano di portare l’unzione della corresponsabilità per curare e non rischiare la vita degli altri”.

“Un piano per risorgere”.  “Abbiamo potuto scoprire – elenca – quante persone che già vivevano e che hanno dovuto subire la pandemia dell’esclusione e dell’indifferenza hanno continuato a lottare, ad accompagnarsi e a sostenersi”. Abbiamo visto “l’unzione versata da medici, infermiere e infermieri, dal personale che riempie gli scaffali nei supermercati, dagli addetti alle pulizie, custodi, trasportatori, forze di sicurezza, volontari, sacerdoti, suore, suore, nonni ed educatori e tanti altri”. Tutti loro, afferma Francesco, “non hanno smesso di fare ciò che sentivano di poter fare e che dovevano dare”.

Il tempo favorevole. La notizia “straripante” della Risurrezione arriva alle donne proprio in una situazione simile, mentre stavano occupandosi di fare la cosa giusta. Il loro gesto di pietà cambia. La loro unzione, sottolinea il Papa, “non è per la morte, ma per la vita”. Quella notizia permette di “rompere il cerchio che impediva loro di vedere che la pietra era già stata rotolata via”. E questa, asserisce Francesco, “è la nostra speranza” che apre una crepa nella situazione attuale e ci permette “di contemplare la realtà sofferente con uno sguardo rinnovatore”. Dio, ribadisce, “non abbandona mai il suo popolo, è sempre con lui, soprattutto quando il dolore diventa più presente”.

            Il Papa torna su un punto incontrovertibile. “Se c’è qualcosa che abbiamo potuto imparare in tutto questo tempo, è che nessuno si salva da solo. Le frontiere cadono, i muri si sgretolano e tutti i discorsi fondamentalisti si dissolvono di fronte a una presenza quasi impercettibile che manifesta la fragilità di cui siamo fatti”. “È urgente – insiste –discernere e trovare il polso dello Spirito”, quello che può “dare impulso, insieme ad altri, alle dinamiche che possono testimoniare e canalizzare la vita nuova che il Signore vuole generare in questo momento concreto della storia”. Per Francesco “questo è il tempo favorevole del Signore, che ci chiede di non accontentarci o di non accontentarci e ancor meno di giustificarci con logiche sostitutive o palliative che ci impediscono di assumere l’impatto e le gravi conseguenze di ciò che stiamo vivendo. Questo è il momento giusto per incoraggiare una nuova immaginazione del possibile con il realismo che solo il Vangelo può dare”

Riscrivere bene la storia. “Un’emergenza come COVID-19 è sconfitta prima di tutto dagli anticorpi della solidarietà”, ricorda il Papa utilizzando l’espressione contenuta nel documento “Pandemia e fraternità universale” pubblicato dalla Pontificia Accademia per la Vita lo scorso 30 marzo. “Una lezione – prosegue – che spezzerà tutto il fatalismo in cui eravamo immersi e ci permetterà di sentirci di nuovo architetti e protagonisti di una storia comune e, quindi, di rispondere insieme a tanti mali che affliggono milioni di fratelli in tutto il mondo. Non possiamo permetterci di scrivere la storia presente e futura con le spalle rivolte alle sofferenze di tanti”.

Le giuste risposte. Il Papa ha una certezza: “Se ci comporteremo come un unico popolo, anche di fronte alle altre epidemie che ci affliggono, potremo avere un impatto reale”. E una serie di domande dalle cui risposte il pianeta potrà rinascere. “Riusciremo ad agire responsabilmente di fronte alla fame che tanti soffrono, sapendo che c’è cibo per tutti? Continueremo a guardare dall’altra parte con il silenzio complice di fronte a quelle guerre alimentate dal desiderio di dominio e di potere? Saremo disposti a cambiare gli stili di vita che fanno sprofondare così tanti nella povertà, promuovendo e incoraggiandoci a condurre una vita più austera e umana che consenta un’equa distribuzione delle risorse?”. Come comunità internazionale “adotteremo le misure necessarie per fermare la devastazione dell’ambiente o continueremo a negare l’evidenza? La globalizzazione dell’indifferenza continuerà a minacciare e a tentare il nostro cammino… Che ci trovi gli anticorpi necessari della giustizia, della carità e della solidarietà”.

            “Non abbiamo paura – conclude – di vivere l’alternativa della civiltà dell’amore, che è “una civiltà della speranza: contro l’angoscia e la paura, la tristezza e lo scoraggiamento, la passività e la stanchezza”. La civiltà dell’amore si costruisce ogni giorno, ininterrottamente. Richiede l’impegno di tutti. Essa presuppone, quindi, una comunità impegnata di fratelli”.

Alessandro De Carolis – Città del Vaticano    Vatican news  17 aprile 2020[GM1] 

    www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-04/papa-francesco-articolo-vida-nueva-covid-piano-risuscitare.html?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=NewsletterVN-IT

 

Annuario pontificio 2020. Novità e critiche

La novità dell’Annuario. Il 25 marzo 2020 viene pubblicato l’Annuario Pontificio 2020 che presenta una novità sui titoli del Papa. Nella pagina con la foto al nome Francesco segue – come in precedenza – il solo titolo “vescovo di Roma”. Sul retro di questa pagina fino all’edizione dell’anno scorso la biografia di Jorge Mario Bergoglio era preceduta dai titoli “Vicario di Gesù Cristo / Successore del Principe degli Apostoli / Sommo Pontefice della Chiesa Universale / Primate d’Italia / Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana / Sovrano dello Stato della Città del Vaticano / Servo dei Servi di Dio”. Nel nuovo Annuario questi titoli sono sotto la biografia, separati da essa con una linea di demarcazione, introdotti dalla dicitura “Titoli storici”. Interrogato dai giornalisti il portavoce Matteo Bruni ha detto che la locuzione “titoli storici” indica “il legame con la storia del papato”. Ossia, che si tratta di titoli che segnalano la continuità della considerazione unica che la figura del Papa ha avuto nei secoli.

        “Gravissimo”. Per le reazioni di critica alla novità dell’Annuario riporto quella dell’ex nunzio Carlo Maria Viganò, [“il coronavirus è una punizione divina”] “Un gesto quasi di sfida – verrebbe da dire – in cui Francesco trascende ogni titolo; o peggio: un atto di ufficiale modifica del Papato, con il quale egli non si riconosce più custode, ma diventa padrone della Chiesa, libero di demolirla dall’interno senza dover rispondere ad alcuno. Un tiranno, insomma. Non sfugga ai Pastori e ai fedeli la portata di questo gravissimo gesto, con il quale il dolce Cristo in terra – come Santa Caterina chiamava il Papa – si svincola dal proprio ruolo di Vicario per proclamarsi, in un delirio di orgoglio, monarca assoluto anche rispetto a Cristo. Ci avviciniamo ai giorni sacri della Passione del Salvatore, che inizia nel Cenacolo con il tradimento di uno dei Dodici; non è illegittimo chiedersi se le parole di comprensione con cui il 16 giugno 2016 Bergoglio ha cercato di riabilitare Giuda non fossero un goffo tentativo di discolpa anche per se stesso”.

www.aldomariavalli.it/2020/04/04/carlo-maria-vigano-nellannuario-pontificio-2020-un-gesto-di-sfida

    Luigi Accattoli, vaticanista di lungo corso, scrive:

  1. Mia prima nota. Credo che per intendere questa novità sui titoli papali occorra tener presente un suggerimento venuto dalla Commissione teologica internazionale, così riferito da Yves Congar nell’articolo “Titoli dati al Papa”, pubblicato da “Concilium” 8/1975, pp. 75-88: “La Commissione Teologica Internazionale, nella Sessione del 1970, ha raccomandato quasi all’unanimità di evitare titoli che rischiano di essere fraintesi, come per esempio Capo della Chiesa, Vicario di Cristo, Sommo Pontefice; e ha raccomandato di usare invece: Papa Santo Padre, Vescovo di Roma, Successore di Pietro, Pastore supremo della Chiesa”.
  2. Mia seconda nota. La preferenza di Francesco per il titolo di “Vescovo di Roma”, risalente all’inizio del Pontificato; e quest’ultima riaffermazione di quella preferenza consegnata al nuovo Annuario vanno poste in relazione al suggerimento della Commissione Teologica Internazionale che richiamavo al commento precedente: Papa Bergoglio la fa sua e rimodula conseguentemente l’uso dei titoli ricevuti dalla tradizione. Questo vuol dire che Francesco non si considera “vicario di Cristo”? No, non credo sia questa la sua intenzione. Quel titolo ha due valenze: una che può essere riferita a ogni vescovo, un’altra che partendo da quella comunanza è poi divenuta esclusiva. Francesco l’accetta nella prima valenza, che l’avvicina agli altri vescovi; ma preferisce non usare quel titolo, pur storicamente significativo, perché al momento suona come un distacco della figura papale rispetto agli altri vescovi. Un’altra riprova, questa, della sua preferenza per il titolo di “vescovo di Roma”, che appunto l’avvicina agli altri successori degli Apostoli: primo tra loro, ma uno di loro.
  3. Mia terza nota. Nel testo citato sopra, Congar ricorda che nella Chiesa antica il titolo di “vicario di Cristo” era attribuito a tutti i vescovi e documenta come quest’uso largo si sia mantenuto dal V al XII secolo, finendo poi con l’essere progressivamente ristretto al Vescovo di Roma. Segnala poi come il Vaticano II nella Costituzione “Lumen Gentium” recepisca il titolo papale di “vicario di Cristo” ma attribuisca questo titolo anche ai vescovi. Per questa ripresa dell’uso antico rimanda, in particolare, ai paragrafi 21 e 27 del capitolo III della Costituzione. “Dalla tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e dall’uso della Chiesa sia d’Oriente che d’Occidente, consta chiaramente che dall’imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione è conferita la grazia dello Spirito Santo ed è impresso il sacro carattere in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua vece” (paragrafo 21). “I vescovi reggono le Chiese particolari a loro affidate come vicari e legati di Cristo [94], col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà, della quale però non si servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella santità, ricordandosi che chi è più grande si deve fare come il più piccolo, e chi è il capo, come chi serve (cfr. Lc 22,26-27). Questa potestà, che personalmente esercitano in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in ultima istanza sottoposto alla suprema autorità della Chiesa” (paragrafo 27).
  4. Conclusione breve. Nell’uso del titolo di “vicario di Cristo” per il Papa si deve tener conto del fatto che esso in origine si applicava al Vescovo di Roma in quanto veniva dato a ogni vescovo: e in tal senso lo dovremmo intendere anche oggi, altrimenti esso dice troppo. Ed è per evitare di dire troppo che Francesco lo ha collocato tra i “titoli storici

15 aprile 2020                                    www.luigiaccattoli.it/blog/se-il-papa-sia-ancora-vicario-di-cristo

 

L’Annuario pontificio mescola le carte sul Papato

            Lo scorso 25 marzo è stato pubblicato l’Annuario Pontificio 2020 a cura dell’Ufficio Centrale di Statistica della Chiesa. Questa nuova edizione ha acceso nelle ultime ore un dibattito tra specialisti ed appassionati per un cambiamento grafico che non è sfuggito agli occhi dei più attenti: a pagina 24, quella relativa al pontefice, la biografia ecclesiastica di Jorge Mario Bergoglio è stata anteposta all’enumerazione dei titoli del papa, a loro volta introdotti dalla locuzione “titoli storici”.

            Da quando è cominciato l’attuale pontificato, questa non è la prima novità dell’Annuario Pontificio: già nell’edizione del 2013, si ‘separò’ il nome pontificale ed il titolo di “Vescovo di Roma” dalla breve biografia e gli altri titoli a lui spettanti, stampati in una seconda pagina. Fino alla scorsa edizione, la seconda pagina si apriva con il titolo di “Vicario di Gesù Cristo” in carattere grande seguito da tutti gli altri; l’ultima, invece, vede un ridimensionamento grafico di questa dicitura, ora di grandezza pari a quelle di “Successore del Principe degli Apostoli”, “Sommo Pontefice della Chiesa Universale”, “Primate d’Italia”, “Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana”, “Sovrano dello Stato della Città del Vaticano” e “Servo dei Servi di Dio”. Il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, ha spiegato al giornalista Gianni Cardinale che l’aggiunta “titoli storici vuole indicare il legame con la storia del papato”. In base a questa spiegazione, secondo il vaticanista di “Avvenire”, “i titoli tradizionali attribuiti al Pontefice non vengono ‘storicizzati’ ma mantengono intatta la loro attualità; altrimenti sarebbero stati cancellati”.

            I cambiamenti nella corposa documentazione sulla gerarchia della Chiesa cattolica, invece, non sono piaciuti al cardinale Gerhard Ludwig Müller che in una dichiarazione al giornalista Guido Horst se l’è presa con il “dilettantismo teologico degli statistici”. “Uno sguardo ai testi del Vaticano II sull’insegnamento cattolico vincolante del papa come Pastore supremo della Chiesa – ha detto il prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della fede – avrebbe salvato i redattori dell’Annuario Pontificio 2020 dall’imbarazzo di svalutare elementi essenziali dell’insegnamento del primato episcopale come un semplice accessorio storico”. Secondo Müller sarebbe «una barbarie teologica respingere i titoli del papa “successore Pietro, rappresentante di Cristo e capo visibile di tutta la Chiesa” come un semplice bagaglio storico» perché «sebbene siano cresciuti storicamente» fanno emergere «elementi essenziali dell’insegnamento cattolico sul Primato, che risale all’istituzione di Cristo e quindi divino e non solo umano – ecclesiastico».

            La novità più vistosa dell’edizione 2020 è il ridimensionamento grafico del titolo di “Vicario di Gesù Cristo”: l’uso divenne diffuso nel XII secolo – con l’opposizione del decretalista Uguccione – e fu consolidato da Innocenzo III perché – come spiegò in uno studio specialistico lo storico Girolamo Arnaldi – «collegava tale titolo con la dignità, a un tempo, sacerdotale e regale del Signore, anche se la rivendicazione dell’autorità terrena per allora si risolveva in un’affermazione di principio, salvo che per ciò che concerneva il dominio temporale della Sede apostolica».

            Interpellato dal “La Nuova Bussola Quotidiana”, don Roberto Regoli, professore di storia contemporanea alla Pontificia Università Gregoriana, ha spiegato che in precedenza veniva utilizzato “Vicarius Petri”, mentre “Vicario di Gesù Cristo” era un titolo papale tipicamente medievale usato lungo la storia anche per altri vescovi ed addirittura per l’imperatore. Quali conseguenze comportano questi cambiamenti? Nessuna, secondo il docente dell’Ateneo di piazza della Pilotta, che ci ha ricordato come l’Annuario Pontificio sia “un semplice catalogo informativo” ed uno “strumento storico molto fallibile” tanto che “lo stesso elenco dei papi che vi è inserito si è evoluto nel corso degli anni”: non a caso, nel suo “La costruzione del catalogo dei papi”, Antonio Menniti Ippolito ha raccontato che nel 2000, quando rivestiva l’incarico di condirettore dell’Enciclopedia dei papi della Treccani, gli pervenne la richiesta dell’allora Presidente del Comitato di Scienze Storiche, il cardinale Walter Brandmuller, di “fornire materiale utile a rivedere gli elenchi di pontefici riportati nell’Annuario” e che questo lavoro condusse “a circa settanta modifiche nella cronotassi pubblicata sull’Annuario dell’anno successivo”.

            Come va interpretato, invece, l’inserimento di “titoli storici” nella pagina dell’edizione 2020? Secondo Maria Antonietta Visceglia, professoressa emerita di Storia moderna alla Sapienza Università di Roma, rappresenta “un segno di modernità” che indica “una disponibilità a storicizzare il papato, a non considerarlo esclusivamente sul piano teologico”. “Non credo si possa interpretare come una svalutazione – ha aggiunto la docente – ma piuttosto come un altro modo di presentare la figura del papa perché questi titoli hanno un significato dottrinario”. Da parte degli statistici, dunque, ci sarebbe stato “un gesto di umiltà, da un lato, ma anche di storicizzazione”, secondo il parere della storica. Un’interpretazione dei cambiamenti avvenuti che, da un punto di vista e da una sensibilità differenti, sembra essere parzialmente vicina a quella fornita dal cardinale Müller nella sua riflessione sull’argomento affidata a Guido Horst.

            Nico Spuntoni   La nuova bussola quotidiana                                    4 aprile 2020

www.lanuovabq.it/it/lannuario-pontificio-mescola-le-carte-sul-papato

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LITURGIA

“Fa’ la cosa giusta”. Genealogia rituale e teoria delle forme parallele del medesimo rito

Il dibattito ecclesiale, che si interroga sulle involuzioni della tradizione liturgica, può elaborare strategie di azione e modi della riflessione tra loro assai differenziati. In questo dibattito il ruolo del teologo sistematico consiste nel porre questioni di ermeneutica della tradizione e nel controllare l’opportunità nell’uso delle categorie implicate in tali interpretazioni. Come è evidente, al centro della questione sta una coppia di categorie sistematiche, inventate dal Motu Proprio Summorum Pontificum [Benedetto XVI – 7 luglio 2007], mediante le quali è possibile ridurre una questione di senso della tradizione liturgica ad una burocrazia che amministra diritti soggettivi.

www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html

Le due categorie sistematiche più problematiche che si trovano nel documento – una di carattere giuridico e l’altra di carattere sistematico – sono le seguenti:

a) La riduzione della “autorità della azione rituale” all’esercizio di un “diritto del chierico”, che può scegliere liberamente una o l’altra forma del rito romano, quando celebra senza popolo (SP, art. 2). Questo scadimento della “forma rituale” a diritto soggettivo del ministro ordinato compromette sul piano sistematico il significato complessivo della azione rituale in rapporto alla fede e alla economia della esperienza ecclesiale. Fa del rapporto con la forma rituale il frutto di un “attaccamento soggettivo”, che scavalca ogni autorità ecclesiale: se la vede direttamente con Dio (e con la commissione Ecclesia Dei) senza nessun altro riferimento territoriale.

b) La teorizzazione di “due diverse forme” (ordinaria e straordinaria) come espressioni differenziate dello stesso rito romano (SP art. 1) costituisce allo stesso tempo la elaborazione di una “ardita profezia visionaria”, con intento di pacificazione, ma anche la invenzione di una “pericolosa ipostasi astratta”, che spalma sul presente una dinamica storica conflittuale, pretendendo di rendere sincronica e irenica la diacronia di una critica e di un superamento. Così la sua “utopia” si converte rapidamente in una “distopia”.

            Non si può negare che, nel testo di Summorum Pontificum si sia cercato di offrire un precaria copertura a questa “nuova e azzardata disciplina giuridica” (a), mediante la sua “giustificazione sistematica” (b). Ma su entrambi i versanti, della struttura disciplinare e della sintesi dogmatica, le cose entrano in grave contraddizione e non riescono a conseguire l’effetto desiderato. Il dispositivo giuridico e quella sistematico entrano in risonanza, creano un rimbombo e arrivano ad interferire tra loro, avendo, come effetto, una duplice lacerazione: della disciplina della liturgia e della teoria che la dovrebbe giustificare. Non si riesce più a “fare la cosa giusta” perché non si pensa più rigorosamente la tradizione. E il pensiero azzardato di un parallelismo astratto tra forme diverse tenta di trasformare in fatti inoppugnabili quelle strategie che di fatto costituiscono pratiche di opposizione ideologica alla liturgia scaturita dal Concilio Vaticano II. E a fronte di tali strategie a nulla valgono dichiarazioni formali contrarie. Ed è curioso che alcuni soggetti ecclesiali autorevoli, anzitutto i canonisti, ma spesso anche teologi sistematici di non poca esperienza, non riescano a pensare fino in fondo le parole che stanno utilizzando quando parlano di questo tema. Questo sarebbe un compito centrale del teologo sistematico: pensare bene quello che sta dicendo. Proviamo a farlo qui, a modo di esempio e in forma creativa.

1. Due “forme rituali” e la loro genealogia. La teoria secondo cui il “rito romano” – come lex orandi della Chiesa cattolica ed espressione della sua lex credendi – si presenterebbe in due forme (ordinaria e straordinaria) che esprimerebbero la medesima fede, è un dispositivo teorico che permette (e promette) di configurare lo spazio potenziale di una grande riconciliazione, ma lo fa al prezzo troppo alto di una totale astrazione, senza radice nel reale. Essa, infatti, astrae dalla storia complessa e controversa, che ha generato, dopo una “forma straordinaria” del rito romano, una “forma ordinaria”. Questo successione non è avvenuta per un “gioco di società” o “come in una scoperta geografica”, ma per una urgenza pastorale inaggirabile. La astrazione, che si paga a caro prezzo, è l’oblio pesante e sordo che in tal modo viene fatto calare sulle ragioni che hanno portato da una forma all’altra. Perché non si tratta di due forme che, autonomamente siano sviluppate, una a Milano e l’altra a Roma, una in Italia e l’altra in Spagna, una per tutti e l’altra solo per i domenicani, per i francescani o per i gesuiti. No, è lo stesso medesimo rito romano che da una forma precedente è stato autorevolmente riformato, per la volontà di più di 2.000 vescovi, nella forma successiva. Anche la terminologia della aggettivazione – ordinario/straordinario – contribuisce ad alimentare questo rischioso oblio sulla storia. Si dimentica che la “diversità” del rito straordinario è la ragione che ha fatto sorgere quel processo che ha prodotto, dopo anni di accurata elaborazione, il rito ordinario. Sistematicamente, dunque, la distinzione tra le due “forme” è il tentativo di traduzione sincronica di una storia di mutamento urgente e qualificante, nel quale un Concilio ecumenico ha giocato il futuro della Chiesa. Di questa storia non si può tacere la realtà, ma anche i passaggi traumatici e necessari. Una tradizione che ha saputo evolvere, cambiare, adattarsi, precisarsi. Come, per l’ultima volta è accaduto tra il 1960 e il 1970.

2. Il divenire di una illusione: la storia non si può cancellare. Il rito del 1962 è l’ultima versione del rito tridentino, ed è il frutto di una piccola e provvisoria riforma compiuta da Giovanni XXIII a partire dal 1960. Giovanni XXIII si era limitato a pochi fondamentali interventi, proprio perché sapeva che di lì a poco si sarebbe tenuto un grande Concilio, che tale Concilio avrebbe stabilito gli “altiora principia”, in base ai quali si sarebbe proceduti ad una grande riforma del rito romano. Che fu effettivamente compiuta negli 8 anni successivi, mediante l’iter di elaborazione dei nuovi riti. Se si analizza serenamente questa storia, si capisce immediatamente che la logica di questo processo non può approdare in nessun caso a “due forme dello stesso rito”, bensì “allo stesso rito in una (sola) forma nuova”. Perciò a me pare che, proprio sul piano sistematico, risulti del tutto fuorviante parlare di “due forme dello stesso rito”. Bisogna parlare, piuttosto, dello stesso rito che passa da una forma inadeguata (giudicata tale esplicitamente dal Concilio Vaticano II) ad una forma adeguata. Chi mai potrebbe credere che la Chiesa abbia celebrato un Concilio ecumenico, abbia istruito commissioni, abbia elaborato documenti, stilato e approvato nuovi ordines, solo per poi teorizzare che alla nuova forma adeguata il singolo prete e anche comunità, a certe condizioni, avrebbero potuto sempre sostituire la forma inadeguata? Le parole giuste, per descrivere le due forme sul piano storico, sono: è lo stesso rito romano, prima nella forma inadeguata e che poi viene riformata nella forma adeguata. Qualsiasi teorizzazione di un possibile parallelismo tra forma inadeguata e forma adeguata deve far dimenticare questa genealogia e tenta di mettere sullo stesso piano ciò che non può stare sullo stesso piano. Come se leggessimo la biografia di una persona come un “accumulo” di forme, e non come un “passaggio” tra forme. Come se la musica del giovane Beethoven e quella dell’ultimo Beethoven non fossero uno sviluppo irreversibile, misterioso e potente, ma una semplice opzione tra diverse espressioni della medesima identità. L’espressione “forme diverse dello stesso rito” acquisisce il suo giusto significato solo sul piano storico, ma diventa un sofisma vuoto se si pretende di assumerla sul piano sincronico. Al centro di Summorum Pontificum vi è, dal punto di vista sistematico, un sofisma astratto, senza fondamento storico e senza praticabilità effettiva. Esso poteva essere giustificato, come lo è stato, come tentativo di favorire una profezia di comunione contro le logiche di uno scisma. Ma si è rivelato, invece, fallimentare, a causa di questa sua debolezza sistematica originaria, dalla quale non ha mai potuto emanciparsi.

3. Forme diverse dello stesso rito, ma in divenire. Anche nella vita non possiamo evitare di pensare la identità nel suo divenire, secondo forme diverse. La stessa persona ha una forma a 5 anni, un’altra a 40 e un’altra ancora a 80. Ma la sua identità non viene dall’accumulo di queste forme. Per essere giovane lascio l’infanzia e per essere adulto lascio la giovinezza e per essere anziano lascio la maturità. Non le lascio mai del tutto, certo, ma le porto con me nella fase nuova in cui mi trovo a vivere. Comunque, non posso essere, contemporaneamente, infante e anziano, maturo e giovane. E la mia continuità non dipende dalla contemporanea scelta di diverse forme, ma dall’assumere pienamente la storia delle mie diverse forme. La vita della Chiesa è come la vita delle persone: sperimenta il mutare delle forme senza perdere la identità in questo divenire. Ma non è obbligata a “poter essere ancora se stessa” solo a patto di assumere, di volta in volta, di giorno in giorno, una delle diverse forme del suo sviluppo.

                Quando uscì prima il MP Summorum Pontificume poi, il 30 aprile 2011, la Istruzione Universæ Ecclesiæ, della Pontificia Commissione Ecclesia Dei restai colpito per il fatto che alcuni teologi, tutt’altro che sprovveduti, non cogliessero affatto la questione sistematica che stava al centro di questi testi, con tutta la loro problematicità, e addirittura parlassero, per questi documenti, di una “lezione di stile cattolico”.

www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commissions/ecclsdei/documents/rc_com_ecclsdei_doc_20110430_istr-universae-ecclesiae_it.html

A mio avviso questo giudizio non è per nulla convincente. Lo stile cattolico custodisce l’unità dell’azione rituale. Ma come si può custodire l’unità se si separa il “rito” dalla sua “forma”? Se cioè si separa il “rito romano” dalla sua “storia delle forme”? La storia del rito romano degli ultimi 60 anni è il passaggio da una forma inadeguata ad una forma adeguata. E la identità del rito romano – che rimane sempre lo stesso rito – si comprende in questo “passaggio” e nella sua irreversibilità storica. Se, istituzionalmente, si pone una disciplina che permette ad ogni parrocchia e anche ad ogni singolo di poter passare, anche quotidianamente, da una forma all’altra del medesimo rito – indifferentemente, quasi a capriccio – questa ambiguità e oscillazione si rivela, più che una affermazione di identità, come una perdita di stile e una mancanza di gusto cattolico. La teologia sistematica è responsabile delle ragioni con cui giustifichiamo le nostre azioni e le nostre omissioni ecclesiali. Proprio nel cuore di SP la ragione sistematica, che regge tutta la impalcatura disciplinare del testo, appare singolarmente debole. Una astrazione, che ha voluto essere profezia di comunione, si dimostra, a causa di questa sua originaria astrattezza, come un motivo di divisione e di lacerazione. Una analisi accurata a livello sistematico esibisce le ragioni che impongono la fuoriuscita da questo dispositivo di emergenza, che non risponde più – e forse non ha mai risposto – alle esigenze per cui è stato creato. Bisogna riconoscere che il Card. Ruini, nel giorno successivo a quello in cui SP fu pubblicato, apparve facile profeta quando scrisse, sull’Avvenire dell’8 luglio 2007, che bisognava evitare “il rischio che un Motu Proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla”. A distanza di 13 anni, questo timore può diventare parola chiara dei teologi e azione risoluta degli ufficiali. Mettiamo fine a questo stato di eccezione che genera illusione e divisione. Mediante un rigoroso ripensamento della tradizione, che non si lasci depistare da concetti ambigui e da visione astratte, la Chiesa può finalmente dire a se stessa: “Fa’ la cosa giusta”. E può farla subito, uscendo da discipline giuridiche aberranti e da sintesi sistematiche astratte.

 Andrea Grillo            blog: Come se non      15 aprile 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/fa-la-cosa-giusta-genealogia-rituale-e-teoria-delle-forme-parallele-del-medesimo-rito

 

Riforma della Chiesa e riforma liturgica: una questione teologica inevasa

Dobbiamo ammetterlo: viviamo un tempo singolarmente difficile. Per questo alcuni, anche per buoni motivi, ritengono che non si debbano sollevare questioni di fondo e sia preferibile tacere, curare le ferite, consolare gli afflitti, coltivare la speranza nel silenzio e nella preghiera. Io rispetto questo avviso, e lo considero una scelta seria e di grande dignità, ma non sono del tutto convinto che questa scelta risulti opportuna e utile su tutti i fronti. La vicenda tragica, che nelle ultime settimane ha colpito l’immaginario collettivo e che ha ottenuto la reazione di una parte dei teologi e del popolo di Dio, è legata alla “pandemia”, alla “quarantena” che determina e alla sua “gestione liturgica”. Il divieto di assembramento e di raduno, iniziato in Italia ai primi di marzo, ha messo al centro della attenzione la liturgia. Una liturgia divenuta improvvisamente “impossibile” ha suscitato un grande dibattito sulla sua “possibilità”, sulla sua “necessità” e anche sulla sua “essenza”. Ma questa domanda nuova, legata alla contingenza epidemica, ha mostrato, in modo insolitamente forte, la connessione tra liturgia e Chiesa, come forse non avevamo mai compreso così bene. Tuttavia, la Chiesa, messa sotto pressione, ha anche evidenziato singolari debolezze, oltre a grandi aperture e a risorse forse prima impensabili. Non da ultimo la situazione ha fatto emergere anche resistenze in campo teologico, legate ad un modo formalistico e algido di interpretare il ruolo della teologia, che non riesce a rispondere alle esigenze di questo tempo. Vorrei provare ad analizzare questi sviluppi recenti in 3 passaggi: esamino la domanda di liturgia (1), scopro le correlazioni con la identità ecclesiale, illustrandone debolezze e le risorse (2), e chiarisco il ruolo che una teologia attrezzata e dinamica potrebbe avere in tutta questa vicenda.

1. La liturgia impossibile e la natura della liturgia. Se le Chiese vengono chiuse, non si può celebrare. Come fare? Tanto più che il periodo è impegnativo: arriva Pasqua e la tradizione non solo celebra la festa, ma a Pasqua ha anche concentrato anche i precetti di confessione e di comunione da almeno 800 anni! La risposta a questo enigma ha percorso alcune strade parallele, che possiamo riassumere in forma breve, quasi a mo’ di slogan:

  • Risposta tecnologica: ciò che non fa lo spazio fisico, può fare la “rete”: quindi tutto (o meglio, quasi tutto) si sposta in “streeming”. La connessione, o la trasmissione, cominciano ad essere utilizzate come canali della liturgia o sostitutivi di essa.
  • Risposta canonistico-istituzionale: il diritto e la teologia possono giustificare quasi tutto: è sufficiente intervenire normativamente, o recuperare eccezioni dalla lunga tradizione, e tutto torna a posto. Ad es. se la norma dice che una messa non può essere celebrata senza popolo, è sufficiente dire con una norma che invece è possibile. E il gioco è fatto.
  • Risposta gerarchico-spirituale: quello che conta lo può fare il prete/vescovo (quasi) da solo. D’altra parte l’idea che la messa sia “cosa del prete” si rafforza in regime di clausura, e questa condizione aiuta a recuperare il tema della “sostituzione”: non supplet ecclesia, bensì supplet ecclesiam sacerdos.
  • Risposta dalla base della piramide rovesciata: famiglie e singoli possono celebrare la Pasqua. Si riscopre che i battezzati possono celebrare, lì dove sono. Di qui nasce un grande creatività e iniziativa, poco o nulla organizzata. Perché, in regime di contenimento, alcuni preti per lo più si contengono e pensano alla “loro” Pasqua. Al massimo possono “trasmettere” la loro agli altri assenti.

Si sono messi in moto questi 4 registri, contemporaneamente, utilizzando linguaggi, immaginari, riferimenti, attenzioni e orizzonti diversissimi. Qui, a mio avviso, alcune cose sono apparse chiare. E riguardano come viene pensata/vissuta/annunciata la Chiesa nel momento in cui, per necessità, si è costretti a “metter mano” alla liturgia. Siccome la liturgia, in questo frangente, non poteva “andare da sé”, ha costretto tutti a posizionarsi, a esporsi, a dire, a mostrare. E questo ha rivelato molte cose. Provo a dirne solo alcune.

            2. La Chiesa che celebra e la sua identità. Che cosa celebrare? Quale identità manifestare? Qui, su ognuno dei 4 versanti che ho considerato, emergono identità nascoste, si confermano virtù e vizi, più o meno amplificati. Ovviamente, le cose si sono presentate mescolate e con straordinaria complessità. Modelli e stili di Chiesa si sono esposti: è stata quasi una “ostensione”, indiretta e perciò tanto più interessante, del sacramento della Chiesa. Vediamone alcune:

  1. Le “dirette” spensierate. Pensare che la liturgia possa essere “rappresentata” semplicemente così, mettendo una telecamera che riprende “dalla parte del popolo” la scena, tradisce una certa ingenuità. L’effetto di spettacolarizzazione è inevitabile e rischiosissimo. Il modello di chiesa, implicito, è quello dei “muti spettatori”. Questo non significa che, mettendosi di impegno, non si possa cambiare registro. La tecnologia non è solo “ripresa televisiva”. E’ l’uso del mezzo a mostrare una Chiesa troppo piatta e unidirezionale. Ma non sono mancati usi più virtuosi.
  2. La rinuncia alla liturgia e la difficile tematizzazione del “popolo necessario”. Qualcuno, non molti, ha preferito rinunciare. Se la assemblea non si raduna, io parroco non posso celebrare. Non mi sogno di celebrare davanti ad una telecamera e nemmeno da solo. Prego, ascolto, consolo, ma non celebro. Debbo però cambiare codici, spostarmi su altri piani. E questa è già fatica. Ma fatico anche di più ad argomentare, perché l’idea che la assemblea sia necessaria non ha forza. Anzi, anche alcuni Vescovi sembrano esserne sostanzialmente estranei.
  3. La rassicurazione minimalista e “classica”. Una via molto praticata e trasversale è quella offerta da schemi classici di riflessione, che si presentano come “argomenti risolutivi”: la liturgia vera è quella della vita; Dio è libero di dare la grazia senza sacramenti; la parola è più importante del sacramento;
  4. Il sacramento decisivo è quello del prossimo. Insieme a questi, sul fronte opposto, un’altra serie di “evidenze” per tempi eccezionali: il votum sacramenti ottiene l’effetto del sacramento; la comunione spirituale soppianta quella sacramentale; la sospensione del precetto domenicale libera dai sensi di colpa. Riducendo alla essenza il sacramento e sfrondandolo di ogni uso, ecco risolto ogni imbarazzo. Sublato corpore, la epidemia non spaventa più. E poi, se nel frattempo gli uffici romani riescono, nel pieno della pandemia, a fare la riforma del rito del 1962 e riattivare la macchina della rianimazione anche per le indulgenze, trionfa il “cattolicesimo garantito”. Il fine è di rassicurare, ma forse si aggiunge solo sgomento a spavento.
  5. Il chierico senza ruolo e le comunità presbiterali. Infine, molti preti lo confessano apertamente: non ho mai pregato tanto come in questa Quaresima-Pasqua. Oppure: la veglia con i confratelli in parrocchia – noi da soli – è stata bellissima. La identità presbiterale ed episcopale pensa la Chiesa con schemi molto partecipati, ma soprattutto partecipati interiormente. Inconsapevolmente, tende ad identificarsi con la Chiesa a tal punto da pensare, in assoluta buona fede: “L’église c’est moi”.

3. I teologi, la liturgia e la riforma della Chiesa. In questo tempo e di fronte a queste sfide, la teologia non può né stare a guardare, né preoccuparsi soltanto di non turbare. Deve offrire criteri di intelligenza della realtà e mostrare che cosa ci sta accadendo. I teologi, nella Chiesa, ci sono solo per questo: il loro ministero, che è “magistero della cattedra magistrale”, è di esercitare una parola più libera, perché non immediatamente operativa, al servizio della parola più autorevole, perché immediatamente operativa, del “magistero della cattedra pastorale”. Detto in forma di battuta: “i teologi sono pagati per non fare i pesci in barile”. Il loro mestiere è di non nascondersi, di non sgusciare via, di dire la verità, anche quando è scomoda. Ora il tema liturgico appartiene al dna della riforma della Chiesa. E lo è in una forma molto particolare. Perché il Concilio Vaticano II, quando ha cominciato a incidere, ha cominciato di lì. Dalla riforma liturgica. E chi ha paura della riforma della Chiesa, se deve difendersene, sa che il primo punto da bloccare è proprio la liturgia. Pertanto è importante notare come, per il teologo che abbia a cuore la riforma della Chiesa, comprendere il fenomeno liturgia è assolutamente decisivo. Il linguaggio elementare del rito chiede ai teologi un supplemento d’anima, uno scatto di reni, un colpo d’ala. Lo chiede proprio ora:

a) Infatti, proprio in ambito liturgico, da 13 anni, abbiamo una “questione sistematica” che molti teologi non affrontano con tutta la chiarezza e la urgenza necessaria. Preferiscono non parlarne, o accennarvi da lontano, magari anche lamentarsi, ma non esercitano su di essa il loro mestiere, che consiste nell’ “offrire chiarimenti e salvare i fenomeni” (Juengel).

b) Il chiarimento necessario è questo: se in una Chiesa, che ha celebrato un Concilio, e che come primo atto di questo Concilio, ha realizzato una “riforma complessiva” della azione rituale, all’improvviso si pretende di riconoscere come parimenti vigenti i riti che quel Concilio ha voluto riformare e superare, in questo modo si compromette in radice la riforma della liturgia et quidem la riforma della Chiesa. Il fenomeno da salvare è il cammino coerente della Chiesa nel mondo contemporaneo. Di fronte ad una tale questione una teologia che ragioni solo “ex auctoritate”, che dica “c’è una legge che lo prescrive”, non è una teologia degna di questo nome.

c) Ciò è divenuto particolarmente chiaro in queste settimane di “contenimento”. La confusione dei registri, per certi versi inevitabile, mostra che la tentazione di una liturgia “autoimmune” è ancora fortissima. E lo è su entrambi i versanti. Perché tende a “chiudere” le parti nelle proprie autoevidenze: con i preti che si dicono messa da soli e i non preti che da soli fanno spesso solo ciò che avrebbero fatto 60 anni fa. Se, in questa condizione, i vescovi non riescono a dire una parola veramente chiara sulla liturgia come atto ecclesiale, la teologia deve dirlo con preoccupazione e svolgere la funzione profetica di mettere in guardia tutti, vescovi compresi, da un errore colossale.

            d) In tutto questo ognuno porta solo le proprie responsabilità. Se un pastore non sa parlare adeguatamente dell’eucaristia proprio quando non può celebrarla con il suo popolo, questo è un problema. Come lo è un popolo che se non ha la chiesa accessibile, si attacca al telecomando. Ma ci sono anche le responsabilità dei teologi: di quelli che parlano, per come parlano; e di quelli che non parlano, che preferiscono non avere problemi, che girano la testa dall’altra parte e lasciano cadere le questioni.

            e) Soprattutto in campo liturgico, certamente dal 2007, ma direi già dalla fine degli anni ‘90, dire la verità sembra diventato un problema. Anche nel recente dibattito su Summorum Pontificum si nota una sorprendente tendenza, interessante sul piano strettamente ecclesiale. A notare e ad esprimere come problema la ipotesi di una “doppia forma del rito romano” – che è scandalo liturgico, ecclesiologico e dogmatico – sono stati finora soltanto “non chierici”. I chierici, per il momento, o sono intervenuti per negare che questo sia un problema, o non sono intervenuti affatto. Si potrebbe dire che i chierici o non si accorgono del problema, o se ne accorgono, ma ritengono di non poterlo dire, per obbedienza, per opportunità, per discrezione o per forse timore. Ma questo è uno strano modo di fare i teologi.

            f) Ciò ha sicuramente a che fare con la forma di vita. La forma di vita clericale, di per sé, dovrebbe essere fatta per garantire maggiore libertà. Il prete non può scusarsi dicendo: “non posso parlare, tengo famiglia”. Almeno finché il celibato sarà la norma ecclesiale, questa giustificazione non regge. Ciò non toglie che questa loro maggiore libertà in astratto, risulti bloccata, congelata, paralizzata, soprattutto sul piano liturgico. Ma una cosa molto simile vale anche sul piano del dibattito sui ministeri o sul ruolo della donna nella Chiesa: per lo più si sceglie di tacere, di non pronunciarsi, di sorvolare.

            Ma se i chierici non vedono nella “doppia forma rituale” un problema per la vita della Chiesa, devono sapere che non si potrà fare granché né sul piano liturgico, né sul piano ecclesiale. Se resta sempre valido anche ciò che abbiamo rinnovato solennemente da 50 anni, anche tutto il resto sarà trattato così. E per quanto ancora dovremo insistere per segnalare che domani è la Domenica in Albis, l’Ottava di Pasqua, e che tutti i temi devozionali, spirituali, penitenziali non possono che collocarsi dietro a questo, e non davanti, come un’altra forma rituale? Che è solo la pretesa di una “doppia forma rituale” a permettere di celebrare persino il Venerdì e il Sabato santo come il primo giorno e il secondo giorno di una novena di devozione?

            Il rapporto tra riforma della liturgia e riforma della Chiesa non è mai stato tanto chiaro come in questi giorni. Chi lo capisce, e svolge nella Chiesa il mestiere di teologo, non deve tacere, deve dirlo, nel modo più chiaro e più limpido possibile. Questa non sarà e non potrà mai essere la soluzione di ogni problema. Ma è la difesa ecclesiale e formale, piena e convinta, di un progetto comune e di un orientamento chiaro, dal quale non si può e non si deve deflettere. Per la Chiesa del futuro non sarebbe una piccola cosa.

            Perché se una Chiesa è unita, è unita anzitutto nella liturgia, che è l’espressione più elementare della fede. Ma se nella liturgia la divisione è concepita come normale, o addirittura come normativa, un cammino davvero comune risulterà escluso addirittura per principio. E tutto resterà irrimediabilmente fermo. E in quel caso il teologo non potrà dire: “non me ne ero accorto

Andrea Grillo             blog: Come se non      18 aprile 2020

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La parrhesìa (At 4,13) come condizione della tradizione ecclesiale

Nella messa di ieri, sabato fra l’ottava di Pasqua, abbiamo ascoltato come prima lettura il brano degli Atti degli Apostoli 4, 13-21, che inizia così: “Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni”. In greco il testo suona “theoroùntes de ten tou Pètrou parresìan kai Ioànnou”. Il sinedrio di Gerusalemme resta colpito dalla “parrhesia” di Pietro e di Giovanni. Questa parola, parrhesìa, è un termine-chiave per la stagione di cambiamenti che la Chiesa sta attraversando, sotto la guida del Vescovo di Roma.  Francesco sa che senza parrhesia non si può camminare. Ma che cosa significa questa parola? Che cosa vuol dire essere “franchi”? Come si fa a imitare Pietro e Giovanni, più di 2000 anni dopo, con la medesima franchezza?

            “Parrhesia” è una categoria che merita particolare attenzione. Pertanto cerco di offrire una prospettiva più ampia di analisi e mi lascio guidare da un maestro che potrà apparire piuttosto strano e quasi scandaloso. Michel Foucault, negli ultimi anni di corso al Collège de France si è occupato in profondità proprio di questa categoria. L’ha studiata nelle fonti classiche e, proprio nella sua ultima lezione del 1984, anche nella tradizione cristiana. A me pare che, nel termine parrhesia possiamo trovare il “ponte” che unifica la chiesa delle origini con la chiesa di oggi, e in particolare possiamo scoprirla nel magistero di Francesco, dove la mistica e la politica, la cura del soggetto e l’ascesi del servizio si intrecciano. Sincerità, autenticità, eguaglianza, libertà e fratellanza, tutto insieme, scaturiscono dal termine classico, che appare, da questo punto di vista, provvidenziale per fare sintesi di ciò che Francesco indica come missione di tutti i cristiani. Va aggiunto, tuttavia, che Francesco sa custodire anche il senso “negativo” di parrhesia! Senza mai chiamarla così, evidentemente, Francesco reiteratamente ritorna su quella accezione del “dire tutto” e del “parlare totalmente” che prende il nome di “mormorazione” e di “chiacchiera”. Parrhesia è dunque la cifra di una “apertura” alla verità che struttura la “società aperta”, al cui interno la Chiesa deve trovare la propria dimensione profetica e testimoniale, senza correre il rischio di scambiare il “dire tutto” con il “chiacchierare”. Dunque, bisogna essere franchi e sinceri proprio perché non bisogna chiacchierare!

            Il rettangolo della parrhesia, a partire da M. Foucault. Esaminiamo la “parrhesia”, dunque. Al centro del rapporto con Cristo, che istituisce la compagine ecclesiale, come “comunità sacerdotale”, intorno alla “pietra scartata”, c’è una “parrhesia” che è, allo stesso tempo, libero dono di grazia e libera coscienza del soggetto. Le due cose insieme, in modo complesso e sorprendentemente non contraddittorio. Stanno tra loro come una “polarità”, piena di tensione, non come una contraddizione. Qui, a mio avviso, troviamo uno dei punti originali, e teoreticamente più interessanti, della “teologia di Francesco”, forse ispirata dal pensiero “polare” di Romano Guardini, ma anche segnata dalla storia dell’America e dalle evidenze culturali della cultura gesuita. Su questo “pinnacolo” alto e ardito, si colloca il magistero di Francesco, con una novità di toni e di movenze che davvero suscita stupore ammirato e sorpresa confortante. Finalmente, dal punto più alto (e più basso, nella piramide rovesciata della Chiesa), ovvero dalla più alta autorità, che è riconosciuta come massimo servizio. Francesco sa di poter essere “magister” – originariamente datore di doni – solo nella misura in cui si fa “minister” – recettore di doni. Egli sa di poter essere “magis” solo se riesce ancora ad essere “minus”.

            In questa tensione, egli supera la contraddizione tra libertà di Dio e libertà dell’uomo. Sa che uomini e donne liberi non sono una minaccia, ma l’unica possibilità per la Chiesa di annunciare la “sovrana e inarrivabile libertà di Dio, della sua grazia, della sua misericordia”. Per questo abbiamo bisogno di diffidare non solo delle forme “apparenti” di libertà, ma anche delle forme “vuote o violente” di comunione.

            Orbene, come possiamo pensare la libertà dell’uomo davanti a Dio? Se non come “parrhesia”, come una disponibilità alla verità, alla sincerità, alla autenticità? Per lavorare su questo termine, e indagarne la struttura e implicazioni, non possiamo assumerlo soltanto nella sua accezione “retorica”, che resta inevitabilmente superficiale. Dobbiamo riconoscere che per essere davvero esposti alla “parrhesia” – ai suoi incanti e ai suoi pericoli – non possiamo permetterci una retorica della parrhesia.

            Tra coloro che hanno studiato più profondamente questo termine, sulla base dei testi antichi – pagani e cristiani – come dicevo c’ è senza dubbio Michel Foucault, che non è precisamente un “Padre della Chiesa”. Ma è un pensatore che può permetterci di entrare adeguatamente anche dentro il pensiero ecclesiale, perché ha dedicato gli ultimi anni di vita (morirà nel 1984, alla Salpetrière, a Parigi) allo studio della “parrhesia”, come attestano le edizioni dei Corsi al Collège de France degli anni 1981-1982, 1982-1983 e 1983-1984, dedicati rispettivamente ai temi: L’ermeneutica del soggetto, Il governo di sé e gli altri e infine Il coraggio della verità.

www.filosofico.net/foucault.htm

Ovviamente non avrò qui la possibilità di entrare nell’immensa costruzione filologica, storica e teoretica di questi corsi. Voglio solo assumerne alcune idee importanti, preziose per capire meglio la nozione di “parrhesia” per definire colui che vive la libertà della figliolanza rispetto al Padre e della fratellanza con Cristo e con i fratelli, nella Chiesa.

            Foucault, in un passaggio memorabile del suo secondo testo, presenta una sintesi preziosa, che chiama il “rettangolo della parrhesia”. Ritengo sia utile seguirlo brevemente in questa esposizione dei 4 vertici di tale rettangolo, che egli presenta in questi termini:

  1. Primo vertice del rettangolo: democrazia, eguaglianza di tutti i cittadini;
  2. Secondo vertice del rettangolo: il gioco della superiorità, dell’ascendente, della autorità;
  3. Terzo vertice del rettangolo: il dire-il-vero, il riferimento alla verità;
  4. Quarto vertice del rettangolo: il conflitto e il coraggio del conflitto.

Foucault può così sintetizzare la propria struttura con queste parole, che cito letteralmente: “Condizione formale: la democrazia. Condizione di fatto: l’ascendente e la superiorità di alcuni; Condizione di verità: la necessità di un logos ragionevole. Infine condizione morale: il coraggio, il coraggio nella lotta. La parrhesia, credo, è costituita da questo rettangolo con il vertice costituzionale, il vertice del gioco politico, il vertice della verità e il vertice del coraggio” (Il governo di sé, 169).

            Quando ho letto per la prima volta questo testo mirabile, mi sono subito detto: ecco uno straordinario criterio per una profonda ermeneutica della tradizione di comprensione della vita cristiana, nella interpretazione che di essa possiamo dare oggi, grazie alle intuizioni e sollecitazioni di Francesco. La sua domanda di “parrhesia” può essere interpretata in modo non semplicistico solo se è collocata all’altezza e nella profondità di questo rettangolo, nel quale condizione formale e materiale, condizione oggettiva e soggettiva si intrecciano mirabilmente. E’ solo la loro unità che ci permette di camminare “sulle orme” di Pietro e di Giovanni. Qui è evidente che “parrhesia” non è una mera virtù soggettiva. Potremmo dire che è invece una “condizione complessa” perché vi sia una Chiesa.

             Il quadrilatero della tradizione, pensato con franchezza. Per comprendere la “parrhesia”, dunque, non possiamo pensare semplicisticamente alla “virtù di un soggetto”, o, magari, alle “stravaganze del soggetto sud-americano”!! La condizione di parrhesia è costitutiva del “cittadino cristiano” che voglia camminare sulla via pasquale, sulle orme di Pietro e Giovanni. Per entrare in questo cammino c’è bisogno di “condizioni complesse” che devono essere onorate nella “società aperta”. La Chiesa è sfidata, all’interno di tale società aperta, ad onorare tutte e 4 queste condizioni, per essere davvero “esposta alla verità”.

            Non è un caso, infatti, che il discorso di Foucault sulla parrhesia sia preceduto dalla analisi – come sempre acuta e illuminante – del famoso scritto kantiano sull’illuminismo, che prevede la “uscita dallo stato di minorità”. Anche la Chiesa, per Francesco, deve uscire dallo stato di minorità, che è la sua “autoreferenzialità”. Questa analisi di Foucault ci permette di scoprire che la “società aperta” ha un rapporto con la parrhesia, e che tale rapporto ha carattere non lineare, complesso. Per questo rappresenta un criterio formidabile per rileggere l’esercizio del magistero in questo tempo, nel quale è urgente “tradurre” la tradizione cattolica nella società aperta. Francesco sa che, sia pure con tutta una serie di abbagli e di svarioni, la società contemporanea effettivamente è uscita dallo “stato di minorità”. A partire da Gaudium et spes questa “uscita” non è più identificabile con il “peccato originale della modernità”. Poi, con Dignitatis Humanæ, abbiamo saputo riconoscere persino la libertà di coscienza come parte della rivelazione cristiana. Quindi, per parlare ad una tale società la Chiesa non può più ammantarsi delle vesti della “societas perfecta” e della “societas inæqualis”. Per questo può diventare “sincera” – può essere ancora capace di parrhesia– soltanto nelle condizioni specificate dal “rettangolo” presentato da Foucault. Proviamo ad esaminare brevemente questo “rettangolo” della parrhesia ecclesiale nel contesto del “cambiamento d’epoca” che stiamo attraversando:

a) La condizione formale della parrhesia: la Riforma della Chiesa. La uscita da una società chiusa e la costruzione di una società aperta è, da 200 anni, una provocazione grande per la Chiesa. La Chiesa aveva “imparato a camminare” nelle forme della amministrazione, della giurisdizione e dell’esercizio della autorità tipiche dell’” ancien regime”. La Riforma della Chiesa è oggi anzitutto il riconoscimento di una “complessità della autorità”, che richiede “procedure complesse” per non smentire l’approccio al reale che la “libertà di coscienza” ha introdotto negli ultimi 200 anni nella esperienza del mondo e della Chiesa stessa.

b) La condizione autorevole della parrhesia: Parola e sacramento come “auctoritates” e come “ascendenti”. La differenza, ecclesialmente, sta sempre “al di qua” e “al di là” dei soggetti implicati. La gestione dei “fatti ecclesiali” deve guadagnare una trasparenza e una elasticità in cui il centro stia, ripeto, prima e dopo, citra e ultra, non “in sé”. La Chiesa “per altro”, non “per sé” è anche, inevitabilmente, una “nuova teoria di politica ecclesiale”. Parrhesia è, in tal senso, accurata distinzione dei livelli di parola e di sacramento rispetto a tutti gli altri.

c) La condizione di verità della parrhesia: la incompletezza della dottrina e della disciplina. Tutta la dottrina e tutta la disciplina “accompagnano” alla verità, che sta nella “esperienza del Mistero” e nella “esperienza degli uomini”. La “esposizione alla verità” è principio di fedeltà e di rigore, ma impone una inquietudine, una incompletezza e una immaginazione sempre vive e sempre in azione.

d) La condizione morale della parrhesia: la condizione di conflitto e il coraggio della testimonianza. Parrhesia non è mai una condizione “garantita”. Ha sempre bisogno di un atto di coraggio, di una entrata in conflitto, di una lotta necessaria alla testimonianza. Il coraggio del confronto, anche del conflitto, permette una apertura maggiore e un’autentica esposizione al vero.

            Forse potrà sorprendere: il fatto di avere “parrhesia”, cosa che come abbiamo visto si presenta come una caratteristica talmente originaria e costitutiva della identità ecclesiale, da essere quasi la prima cosa che viene notata nel comportamento e nelle parole di Pietro e di Giovanni, è una condizione per la “trasparenza della testimonianza ecclesiale”. Una Chiesa che sappia ancora essere “franca” si lascia attraversare dal mistero, si pone seriamente al servizio di una parola e di un’azione più grande di lei, si apre al discernimento paziente e può custodire il centro del messaggio nel dialogo con la cultura.

            La Chiesa è come la luna: ricordiamo le parole di J. M. Bergoglio qualche giorno prima della elezione a papa: “La Chiesa, quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il “mysterium lunæ” e dà luogo a quel male così grave che è la mondanità spirituale”. Quando invece ricorda questo mistero lunare, la Chiesa sa essere luminosa, ma sa di non esserlo di luce propria. E sa anche che, per essere “luna nuova”, deve passare per la invisibilità. Come fa ogni anno, nel Triduo pasquale: si disperde sotto la Croce per ritrovarsi davanti al sepolcro vuoto. Come la “bocca baciata” di cui si canta nel Falstaff, anche la Chiesa, alla sequela del Crocifisso Risorto e con il dono della parrhesia, “non teme ventura, ma si rinnova, come fa la luna”.

Andrea Grillo             blog: Come se non      19 aprile 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/la-parrhesia-at-413-come-condizione-della-tradizione-ecclesiale

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MOBBING

Cosa succede se il maltrattamento psicologico avviene all’interno della famiglia?

Da circa 10 anni sei sposata con un uomo che sicuramente non ti merita. Mai un complimento o un regalo per il tuo compleanno. Ti ripete continuamente che non sei una brava moglie. Si lamenta sempre, eppure ce la metti tutta per fare le cose come vuole lui. Tuo marito, però, non fa altro che offenderti e aggredirti. Cerchi di non reagire perché altrimenti è peggio, ma fare finta di niente non è facile. Inoltre, inizi a soffrire di crisi depressive e non vuoi uscire più di casa. Oppure quante volte capita che la separazione sia accompagnata da una certa conflittualità al punto che si ostacola il diritto di visita del padre o si sminuisce il suo ruolo davanti ai figli? Ebbene, quando le condotte persecutorie e vessatorie si verificano all’interno della famiglia, si parla di mobbing familiare. In pratica, le oppressioni vengono poste in essere nei confronti del coniuge o dei figli. Come difendersi in questi casi?

Cos’è il mobbing familiare? Partiamo subito da due esempi pratici.

Caia vuole lavorare, ma il marito Tizio la umilia continuamente dicendole che è una buona nulla e che nessun datore di lavoro vorrebbe avere alle dipendenze una fallita come lei.

Caio e Tizia sono divorziati da qualche mese. Per ripicca, Tizia impedisce all’ex marito di vedere il figlio e, non contenta, sminuisce il suo ruolo di padre e lo denigra in pubblico.

            Gli esempi riportati sono tutti casi di mobbing familiare. In pratica, si tratta di una serie di comportamenti vessatori, ripetuti nel tempo, che sono posti in essere nei confronti del coniuge o dei figli allo scopo di umiliarli, e quindi di distruggerli psicologicamente.

I requisiti del mobbing familiare. Per riconoscere il mobbing familiare sono necessari i seguenti elementi:

  • Una pluralità di comportamenti persecutori ripetuti nel tempo;
  • Un danno alla salute psicofisica della vittima, la quale comincia a soffrire, ad esempio, di attacchi di panico;
  • Il nesso di causalità, vale a dire la relazione tra la condotta persecutoria e il danno patito;
  • L’intento persecutorio, cioè la volontà di voler mortificare e umiliare la vittima.

Tipologie di mobbing familiare. Il mobbing familiare comprende tutte quelle azioni coercitive e vessatorie, ripetute nel tempo, finalizzate a umiliare la vittima, tanto da causarle gravi danni morali, biologici ed esistenziali. Parliamo di offese, umiliazioni, accuse, rimproveri, provocazioni, ecc. Il mobbing familiare si distingue in:

  • Mobbing coniugale: cioè le accuse e le offese messe in atto nei confronti del coniuge allo scopo di sminuire il suo ruolo all’interno del nucleo familiare;
  • Mobbing genitoriale: ossia quello rivolto al genitore al fine di sminuire il suo ruolo. Nella maggior parte dei casi, si verifica dopo la separazione o il divorzio. Ad esempio, escludere l’ex marito da tutte le decisioni che riguardano i figli.

In buona sostanza, con il mobbing familiare si realizza la volontà di annientare l’altro, coniuge o figlio che sia.

Come riconoscere il mobbing familiare? I tipici comportamenti rivelatori del mobbing familiare sono i seguenti:

  • Totale disistima e disinteresse nei confronti del coniuge o dei figli;
  • Provocazioni ripetute e immotivate;
  • Mancato supporto al coniuge o ai figli;
  • Denigrazione in pubblico o in presenza di conoscenti;
  • Sminuire il ruolo del familiare;
  • Offese, insulti, attacchi verbali e fisici;
  • Comportamenti dispotici.

La lista potrebbe continuare, è importante però capire che deve trattarsi di episodi continuativi. Se, ad esempio, il marito offende la moglie durante una lite isolata non può parlarsi di mobbing familiare. Quindi, è necessaria una certa sistematicità delle vessazione attuate nei confronti del partner o dei figli.

Mobbing familiare: cosa fare? Secondo la giurisprudenza, il mobbing familiare rappresenta una violazione dei doveri matrimoniali. Pertanto, la vittima può chiedere la separazione con addebito a carico del coniuge colpevole. Ti faccio un esempio. Tizio e Caia sono sposati da qualche anno. Tuttavia, Caia non fa altro che offendere e sminuire il marito, esercitando su di lui una pressione psicologica affinché lasci la casa coniugale.

            Ebbene, nell’esempio riportato, il giudice può attribuire la colpa per la fine del matrimonio (il cosiddetto addebito) a Caia, la quale è venuta meno ai suoi doveri coniugali. Ma non finisce qui. La vittima può, infatti, chiedere anche un risarcimento del danno sofferto dimostrando:

  • Le reiterate condotte vessatorie (insulti, offese, rimproveri verbali, provocazioni, ecc.);
  • Il danno alla salute: ad esempio il coniuge che, a causa delle angherie dell’altro, cade in una profonda crisi depressiva tanto da prendere dei medicinali;
  • La relazione tra il danno e la condotta persecutoria.

Resta, infine, la possibilità di presentare una denuncia (o querela, nel caso di reato procedibile a querela di parte come ad esempio per lo stalking) all’autorità giudiziaria (polizia, carabinieri, Procura della Repubblica) nel caso in cui il comportamento vessatorio integri uno specifico reato (come, ad esempio, la minaccia). Con la denuncia scattano le indagini e, una volta instaurato il processo, la persona offesa ha la possibilità di costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento del danno sofferto in caso di condanna del colpevole.

Mobbing familiare: quali sono gli effetti? Le vittime di mobbing familiare sono moltissime e, spesso, tendono a non segnalare la situazione per paura di subire ritorsioni da parte del coniuge. Tuttavia, tale condizione peggiora il proprio stato di salute al punto da sviluppare problemi seri come, ad esempio, tachicardia, attacchi di panico, cefalee, ansia, disturbi del sonno, anoressia, bulimia, ecc. Nei casi più gravi, la vittima può anche manifestare pensieri suicidi o omicidi. Per questo è importante intervenire in tempo.

La legge per tutti        15 aprile 2020

www.laleggepertutti.it/389044_mobbing-familiare

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POLITICA

Pandemia come guerra, ossia la banalizzazione della complessità.

I dieci errori di un paradigma sbagliato

Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane. Simone Weil

 

Non ricominciamo la guerra di Troia. Come insegnano i filosofi del linguaggio, noi abitiamo la lingua che parliamo, perché il linguaggio costruisce e definisce gli elementi concettuali e simbolici del mondo in cui viviamo. La narrazione dell’impegno contro la pandemia in corso come una guerra – come fanno abitualmente i media e i governi di ogni Paese coinvolto – non è dunque solo un’espediente metaforico ma, per le notevoli implicazioni culturali e politiche che questo racconto porta con sé, per il mondo di significati che costruisce, si configura come un vero e proprio paradigma interpretativo. Ma è il paradigma sbagliato, un errore epistemologico, per almeno dieci ragioni che provo qui ad elencare

  1. Semplifica ciò che è complesso. La pandemia che il pianeta sta attraversando è la dimostrazione che viviamo nel più complesso dei mondi possibili, nell’orizzonte dell’incertezza globale, in un sistema di sistemi nel quale davvero “il battito d’ali di una farfalla in Brasile provoca un tornado in Texas”, secondo la celeberrima formula del meteorologo Edward Lorenz. Il paradigma della guerra, invece, è il più banale degli schemi, la semplificazione estrema, la certezza assoluta: la riduzione del fenomeno a mera dicotomia di potenza – tra noi e il nemico – che perde di vista l’interconnessione tra le persone e tra le persone e la natura, ossia l’eco-sistema e le sue interazioni. Usare la narrazione sbagliata significa dunque costruire immaginari e narrazioni fallaci, che portano fuori strada e non aiutano a identificare e costruire soluzioni efficaci e durature.
  2. Impersonifica in un nemico ciò che è elemento naturale. La guerra è sempre guerra contro qualcuno, necessita di un nemico contro il quale scatenare la violenza. Induce a tagliare i nodi gordiani invece che dipanare le matasse. Il linguaggio bellico “umanizza” il virus trasformandolo – da elemento naturale indifferente al genere umano, da studiare e rendere innocuo mettendo in sicurezza le persone dal contagio reciproco – in un antagonista da combattere usando qualunque mezzo, perché in guerra il fine giustifica sempre i mezzi. Fino alla militarizzazione delle città, delle relazioni, della vita civile e politica.
  3. Considera il nemico un alieno, quando è il sistema ad essere malato. Il nemico, per definizione, è alieno, è altro da noi, viene da fuori e ci colpisce alle spalle. E così è stato per questo virus, non a caso bollato da Donald Trump come “il virus cinese”. Ma in una logica di globalizzazione di merci e servizi, dove ogni angolo del pianeta è inter-connesso con tutti gli altri, nessun virus è alieno. Soprattutto quando tra le cause scatenanti della pandemia c’è il tremendo vulnus all’eco-sistema generato dalle deforestazioni e dagli allevamenti intensivi diffusi su tutto il pianeta e quando tra le cause che ne agevolano la diffusione globale c’è l’inquinamento ambientale, come non si stancano di ripetere i ricercatori. Nessuno può illudersi di rimanere sano in un sistema malato, per cui è necessario prendersi cura dell’ambiente anziché incolpare gli alieni.
  4. Favorisce il depotenziamento della procedure democratiche: la guerra è “stato di eccezione” per definizione. Il filosofo Giorgio Agamben ed altri hanno messo in guardia contro lo “stato di eccezione” permanente nel quale rischiano di precipitare le procedure democratiche investite dalla pandemia. Ebbene, quanto più l’impegno per debellare la malattia è assimilato ad una guerra, tanto più è “legittimo” sospendere i vincoli democratici per contrastare l’emergenza: la guerra è lo stato di eccezione per definizione. Di fronte allo sforzo bellico ogni scrupolo democratico è considerato cedimento, ogni critica è considerata complicità con il nemico, ogni provvedimento liberticida è dotato di “necessità e urgenza”, come insegna l’Ungheria di Viktor Orbane. E quanto più profonde e durature saranno queste sospensioni della democrazia, tanto più rischiano di diventare ovunque permanenti.
  5. Legittima la limitazione delle informazioni. Come corollario del punto precedente, la stato di guerra “legittima” la limitazione delle informazioni, perché prima vittima della guerra è sempre la verità. Seppur “a fin di bene” la tentazione dei governi di proteggere i cittadini nascondendo loro notizie scomode o allarmanti è favorita dal ricorso alla logica bellica. Il diritto all’informazione e la trasparenza diventano beni secondari rispetto al bene primario di sconfiggere il nemico. “Tacete il nemico vi ascolta”, slogan diffuso dal fascismo durante la guerra, rimane valido sempre, in ogni guerra.
  6. Divide le persone tra amici e traditori. Ed in una guerra vi sono sempre i disertori o, peggio, i traditori. Contro i quali non si può avere nessuna pietà. Nella guerra al virus i traditori sono gli untori, veri o immaginari, come raccontato magistralmente da Alessandro Manzoni ne La storia della colonna infame. E poiché nell’educazione bellica scovare e consegnare disertori e traditori è un dovere civico, abbiamo migliaia di cittadini pronti a segnalare alle forze dell’ordine la mamma che porta il bambino a sgranchirsi le gambe, l’anziano che fa due passi perché ha la pressione alta, il ragazzo che tira due calci al pallone di fronte a casa… Mentre – al contrario – nessuno si scandalizza che le fabbriche di armi non abbiano mai chiuso (ma quanto ne parla l’informazione? Vedi punto precedente) e la produzione bellica – quella vera – non si sia mai fermata, indifferente ai rischi di contagio.
  7. Crea il mito degli eroi, invece di rispondere dei tagli alla sanità. Insieme ai traditori, in ogni narrazione bellica che si rispetti ci sono sempre gli eroi. In questa guerra senza quartiere contro il virus, eroi sono i medici, gli infermieri ed il personale ospedaliero. Si moltiplicano, giustamente, i segni di riconoscenza nei confronti di chi è impegnato senza tregua a curare e salvare le persone, ma ben pochi chiedono ragione dei tremendi tagli subiti dalla sanità – 37 miliardi in meno in 10 anni, arrivando ad 8,5 posti in terapia intensiva ogni 100mila abitanti contro i 29,2 della Germania – realizzati dai diversi governi che si sono succeduti, che hanno messo in ginocchio il Sistema sanitario nazionale. Ed in croce i suoi operatori, che avrebbero fatto volentieri a meno di diventare eroi.
  8. Rilancia il mito della guerra come energia e mobilitazione positiva. Il continuo far ricorso al paradigma della guerra, allo sforzo bellico di chi è in “trincea” contro il virus, rimanda – consapevolmente o meno – alla ri/costruzione di un immaginario positivo della guerra come sforzo collettivo, come mobilitazione patriottica, come esaltazione della potenza militare. In un Paese nel quale il pudore della guerra, insito nel “ripudio” costituzionale, faceva che sì che veri interventi militari in giro per il pianeta fossero ossimorica mente definiti “missioni di pace”, la guerra – associata ossessivamente all’impegno di chi salva vite umane, invece di ucciderle – è tornata ad essere rivalutata come metafora di valore. Anziché di disonore.
  9. Rilegittima le spese militari, che invece sono causa di debolezza del sistema di difesa e protezione. Come un gatto che si morde la coda, sdoganato il linguaggio bellico, anche le spese militari – cresciute di 25 miliardi di euro in Italia nello stesso periodo in cui venivano tagliati drasticamente gli investimenti alla sanità ed alla ricerca – ricevono di riflesso, nell’immaginario collettivo, ri/legittimazione e rilancio. Quando sarebbe necessaria una riconversione civile dell’industria bellica nel Paese in cui si contano 231 aziende che producono armi ed una sola che produce ventilatori artificiali. Quando sarebbe necessaria la rivalutazione della difesa civile e sociale interrompendo, per esempio, immediatamente il programma di acquisto del 90 cacciabombardieri F35, con il costo di uno dei quali si potrebbero realizzare 1.350 letti in terapia intensiva. Ossia, quanto più si spende in armamenti, tanto meno si può investire in difesa e protezione. Anche dalle pandemie.
  10. Nasconde il tema centrale: prendersi cura l’uno dell’altro, ovvero il contrario della guerra. Lo ha scritto bene anche Guido Dotti, monaco della Comunità di Bose: “Non solo i malati, ma il nostro pianeta, tutti noi non siamo in guerra ma siamo in cura (…) La guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro. La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza”. Non sono i dis/valori e le “virtù” militari da esaltare in questo impegno collettivo contro la pandemia, ma i valori e le virtù civili della solidarietà e dell’empatia. Il prendersi cura l’uno dell’altro significa, come scriveva Aldo Capitini, richiamare se stessi “ad un punto interno così profondo da sentirsi madre di quello, come fosse stato generato dal proprio intimo” appassionandosi alla sua stessa esistenza. E questo atteggiamento Capitini – attento come nessun altro alle parole – non lo chiamava “guerriero”, ma più propriamente “nonviolento”

Pasquale Pugliese       Vita.it             13 aprile 2020

www.vita.it/it/blog/disarmato/2020/04/13/pandemia-come-guerra-ossia-la-banalizzazione-della-complessita-i-dieci-errori-di-un-paradigma-sbagliato/4850

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TEOLOGIA

Chiesa, Internet e sacerdoti”. Intervista al teologo José Arregui

In che modo la società spagnola sta percependo il coinvolgimento della Chiesa e il ruolo che sta giocando nella pandemia? Sta svolgendo la sua funzione sociale?

Non ho a disposizione dati sociologici, ma la mia impressione personale, da questo angolo di Gipuzkoa, è che la Chiesa istituzionale si percepisca più distante o assente che mai. È comprensibile, dal momento che nessuna istituzione sociale era preparata a questa situazione, locale e planetaria, senza precedenti, ma nel caso della Chiesa cattolica il suo dislocamento sociale e culturale diventa molto più evidente. Con pochissime eccezioni, la Chiesa cattolica ha rispettato in modo civile e responsabile le linee guida amministrative sull’isolamento – non poteva essere diversamente -, ma penso che, in generale, si riveli incapace di farsi prossima e samaritana i  questa situazione, di mostrarsi accessibile, vicina, presente in altro modo, di mettersi guanti e mascherine e offrire le sue case e i suoi mezzi materiali o personali al servizio dei più vulnerabili, o di pronunciare almeno una parola umana, comprensibile, di consolazione e di incoraggiamento così necessari.

Perché non è riuscita come istituzione a rendere ben visibile la sua lotta contro la pandemia e non è stata in grado e non ha tentato di rompere il soffitto di vetro dei grandi media, in particolare delle televisioni?

La pandemia ha messo ancor più in evidenza che l’istituzione ecclesiale continua ad essere ancorata a linguaggi, idee, immagini del passato. Le Eucaristie televisive in chiese solitarie mi sembrano rituali di un altro mondo. Anche se gli Stati stanno ricorrendo alla geolocalizzazione per il controllo dei contagi – con il rischio che il controllo finisca per essere così pericoloso come il contagio del virus -, anche se gli scienziati ricorrono all’intelligenza artificiale per cercare il vaccino del Covid-19 – sottomettendosi quasi a forza agli interessi delle principali case farmaceutiche in una gara folle per il guadagno, origine di tutti i mali -, anche se il mondo intero è in bilico di fronte a un futuro che potrebbe essere molto meglio o molto peggio di quello che ci ha portato fin qui …, i vescovi continuano a incoraggiare nel pregare Dio per la fine di questa pandemia (che una buona volta finirà) e molti teologi continuano a girare intorno al dilemma di Epicuro (IV sec. a.C.): se Dio può e non vuole o vuole e non può evitarci queste sofferenze. Finché continuerà ad immaginare Dio come Ente Supremo personale ad immagine umana, la Chiesa continuerà ad essere relegata, sempre più lontana da questa società, dalle sue angustie e dalle sue gioie.

Pensa che la Chiesa istituzionale farà parte del nuovo contratto sociale che sembra che si stia tessendo?

Due condizioni saranno essenziali per questo.

  1. Prima di tutto: che realizzi l’effettiva difesa dei poveri di tutta la Terra, come sta facendo papa Francesco, al di sopra di ogni dogma, rito e norma morale, assuma un paradigma culturale, politico e teologico integralmente ecologico e femminile e accetti radicalmente il principio della laicità sia nell’ordine sociopolitico che spirituale.
  2. E in secondo luogo: che sia disposta a effettuare una rilettura della Bibbia e dell’intera tradizione teologica, al di là di ogni lettera e di ogni significato, una reinterpretazione approfondita di tutti i suoi dogmi e categorie e una riforma assoluta del modello clericale di Chiesa. Altrimenti, la Chiesa istituzionale non sarà lievito, testimone, semplice compagna di viaggio e convitata ad Emmaus …Senza questo la Chiesa continuerà a diventare sempre più estranea a questa società, fino a dissolversi del tutto.

La crisi del coronavirus sta portando alla luce il lato religioso di molte persone, finora nascosto o coperto? Gli indifferenti religiosi ritorneranno al cattolicesimo o andranno definitivamente alla ricerca di nuove spiritualità?

Sembra chiaro che il coronavirus ci faccia sentire nella carne viva la nostra fragilità e vulnerabilità, la nostra finitudine, la nostra morte. All’improvviso l’umanità, a cominciare dalle più grandi potenze, si trova confinata, a confronto con le sue paure, la sua solitudine, la sua morte e la morte delle persone amate, in uno stato di lutto planetario come mai prima si era conosciuto. Ma penso che sarebbe un grande errore pensare che questo significhi il rafforzamento delle religioni tradizionali e, in particolare, della Chiesa cattolica. È molto probabile che molta gente riscopra il profondo bisogno di guardare più profondamente a se stessa, alla natura che siamo, al cielo stellato, di immergerci nel Mistero di ciò che è, di riconciliarsi con le sue profonde ferite, di riconoscere il bisogno di cura e tenerezza, di reinventare l’economia e la politica, di recuperare la pace, il momento di tregua, l’incoraggiamento a livello personale e strutturale, a livello economico, politico, planetario, di sentire ancora una volta che siamo tutti uno e che solo insieme potremo salvarci. È molto probabile che questa pandemia porti molta gente a riscoprire il bisogno della “spiritualità” come profondità della vita e di tutto ciò che è reale, ma non penso che, almeno per la grande maggioranza, la ritrovi nelle istituzioni religiose tradizionali con i loro dogmi, riti e codici.

La paura della morte che ha attraversato il corpo sociale, ha trovato nella Chiesa significato, consolazione e speranza? Senza la possibilità di fare funerali, la Chiesa ha perso l’ultimo rito di passaggio che le rimaneva?

Spero che la situazione attuale sia una parentesi e che potremo tornare a salutare i nostri morti di persona e collettivamente, sia in maniera religiosa o laica. Spero che i funerali religiosi ritornino, ma dopo il coronavirus mi piacerebbe che la Chiesa cambi il suo linguaggio e la sua struttura arcaica e si faccia spazio alle domande e alle proposte (testi, gesti, parola) delle famiglie “non credenti”, così che i lontani e le lontane dalla chiesa possano sentirsi a proprio agio, ricevano un vero conforto e il confine stesso tra la “liturgia” (“azione del popolo”) religiosa e laica vada stemperandosi.

Internet (un tempo demonizzato da molti chierici) ha ricevuto la sua consacrazione come un grande mezzo di umanizzazione e di evangelizzazione?

Grazie a Internet! Senza di esso, la pandemia senza Internet sarebbe stata una catastrofe familiare, sociale, economica … molto più grande per tutti. Senza di esso, anche le istituzioni religiose ne avrebbero risentito molto di più. Ma allo stesso tempo, il coronavirus dovrebbe essere un’occasione per fermarci a pensare con calma a come usare Internet molto più saggiamente, un’occasione per misurare i rischi di passare la giornata incollati a uno schermo o la minaccia di un controllo dittatoriale delle nostre vite da parte degli Stati e dei grandi poteri disumani. Lo stesso vale per le istituzioni religiose: molti vescovi usano massicciamente le nuove tecnologie per diffondere lo stesso messaggio “di sempre”, medievale, incomprensibile. Più si diffonde, più negativo è il suo effetto, più cresce la distanza tra il Vangelo e la cultura, più la Chiesa trascura la sua missione profetica nel mondo di oggi. È tempo di un grande discernimento da parte della Chiesa istituzionale.

Come sarà la Chiesa del post coronavirus? Quali caratteristiche avrà? Quali linee di fondo indicherà? Incideranno le riforme di papa Francesco?

Il coronavirus ci ha dimostrato, ancora una volta, che il futuro è imprevedibile e costituisce un chiaro invito alla cautela anche riguardo al futuro concreto della Chiesa. In ogni caso, questa pandemia potrebbe costituire un segno dei tempi, che chiama la Chiesa a fare un salto in avanti storico in una doppia linea strettamente correlata: un appello, prima di tutto, a convertirsi personalmente e istituzionalmente in Chiesa dei poveri e per i poveri, dando assoluta priorità alle Beatitudini e alla liberazione dei poveri rispetto alla dottrina; un appello, in secondo luogo, a reinventare radicalmente un altro modello non clericale-gerarchico-maschile della Chiesa e, allo stesso tempo, a rinnovare completamente (non solo in linguaggi e forme superficiali) tutta la teologia (credenze, riti, norme …).

La cosa più probabile, mi sembra, è che la Chiesa non sia in grado di rispondere a questa doppia e unica sfida e che, di conseguenza, la distanza tra la Chiesa e il mondo di oggi stia aumentando e la crisi della Chiesa si accentui. Papa Francesco è un profeta mondiale di una Chiesa povera e per i poveri, ma la sua teologia è ancora molto tradizionale. Finché persiste questo squilibrio, la necessaria riforma della Chiesa mi sembra impossibile.

Può continuare a conservare la sua attuale struttura economica, territoriale e funzionale?

La drastica riduzione del numero dei “fedeli” (che credo finirà per estendersi a livello planetario) da un lato, e dall’altro la globalizzazione di Internet richiedono effettivamente che vengano ripensati l’intero funzionamento e l’organizzazione della Chiesa cattolica (parrocchie, diocesi, Vaticano, distinzione tra chierici-laici, esclusione delle donne, sacramenti…). La pesantissima macchina clericale verticale e centralizzata è insostenibile. Ma non si tratta tanto di “forme di organizzazione”, ma di modello di religione e di Chiesa.

La pandemia ha risvegliato nel laicato la consapevolezza del suo essere “popolo sacerdotale” e, quindi, l’esigenza di assumere ministeri ordinati?

Questa consapevolezza viene da molto prima, però è vero che la pandemia e l’isolamento la acuiscono. E non si tratta del fatto che i “laici” assumano “ministeri ordinati”, ma di superare la distinzione tra laici e chierici (distinzione creata dai chierici) e quindi tra “ministeri ordinati” e “ministeri non ordinati”, come se i primi provenissero da “Cristo” attraverso il suo rappresentante sacro (il vescovo) e i secondi fossero “una mera delega della comunità”. Questo schema non ha più senso. Lo impareremo durante l’isolamento? Un coronavirus non dovrà insegnarci questa nuova teologia?

L’attuale prassi sacramentale, specialmente quella dell’Eucaristia e della penitenza, dovrà essere rivista?

Come possiamo capire il fatto che non possiamo celebrare la memoria sacramentale di Gesù perché non possiamo andare in una chiesa o perché un “prete ordinato” non può venire a casa? Come possiamo continuare a sostenere che non c’è “sacramento eucaristico” (che significa ringraziare per la vita) se non c’è “transustanziazione” del pane e del vino o di quello che sia in “corpo di Cristo”? Allora cosa sono il pane, il vino e tutto ciò che è, se non corpo di Cristo, se sappiamo guardarli con gli occhi del Vangelo? E come possiamo capire il fatto che non siamo perdonati se un prete canonicamente ordinato non ci assolva? Cos’è il peccato se non il danno che facciamo a noi stessi e come curarlo se non versiamo un po’ di unguento gli uni sugli altri, confinati in casa o in strada o nelle istituzioni politiche e nelle leggi del mercato che dovranno essere riviste quando passerà questa pandemia. Se non vogliamo che un’altra pandemia molto peggiore la faccia finita con tutti? Cos’è il perdono se non continuare a prendersi cura della vita e confidare nell’altro? La nostra parola, il nostro sguardo e i nostri gesti quotidiani non devono essere il vero sacramento del perdono reciproco “settanta volte sette” ogni giorno?

Intervista al teologo José Arregui di José Manuel Vidal   Religión Digital15 aprile 2020

Traduzione di Lorenzo Tommaselli

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