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Suicidio assistito, ma a determinate condizioni
Autore: Armando Savignano
Con una sentenza della Consulta viene aperta la strada al suicidio assistito sia pure a determinate condizioni. Tale pronunciamento segue quello del Comitato Nazionale di Bioetica che, come abbiamo scritto nel precedente numero di «Etica Salute e Famiglia», pur con molti distinguo, si era mosso nella stessa direzione. «La Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Nella sostanza, viene confermato quanto era già stato anticipato un anno fa nell’ordinanza 207, allorché aveva sollecitato il Parlamento a modificare l’attuale normativa, che punisce sempre e comunque non solo chi istiga, ma anche chi collabora al suicidio di una persona. La Corte subordina la possibilità di ricorrere al suicidio assistito «al rispetto delle modalità previste sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua», nonché «alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente».Tale pronunciamento ha suscitato vivaci dispute; mentre il mondo laico concorda con quella sentenza, gran parte del mondo cattolico si mostra contrario, perché ritiene la vita un bene non negoziabile, mentre ha sempre mostrato attenzione a prendersi cura degli ammalati, la cui morte deve essere sempre più dignitosa ed umana alleviando il dolore attraverso la somministrazione delle cure palliative. Come ha sottolineato Papa Francesco: «Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia». Forti perplessità sono state espresse anche dalla Federazione nazionale dell’ordine dei medici, i quali hanno chiesto che il Parlamento permetta di ricorrere all’obiezione di coscienza, memori del Giuramento di Ippocrate, il cui incipit così recita: «Giuro di fare il bene del malato. «Quello che chiediamo ora- affermano i medici – al Legislatore è che chi dovesse essere chiamato ad avviare formalmente la procedura del suicidio assistito, essendone responsabile, sia un pubblico ufficiale rappresentante dello Stato e non un medico». Perché i medici considerano la morte un rivale da battere, non un alleato. Altrimenti si stravolge totalmente il senso profondo dell’agire del medico e quell’alleanza terapeutica col malato. Inoltre, quando si parla di malati inguaribili si può far riferimento a tante malattie diverse, ad esempio a pazienti con malattie degenerative, a situazioni in cui il dolore viene percepito come insopportabile. Potrebbe così diventare molto facile l’accesso al suicidio assistito. Ma, dal punto di vista bioetico, si può anche ritenere che vi siano ragioni etiche e giuridiche per negare che esista un diritto al suicidio assistito, sia perché non esiste alcun diritto alla morte, sia perché il diritto costituzionalmente rilevante della tutela della vita, in modo particolare nelle condizioni di estrema fragilità clinica, psicologica, sociale ed economica prevale sul diritto ad esercitare la propria autonomia quando questa si rivolge contro se stessa nell’atto della richiesta del suicidio.