Ruolo e funzione del tirocinante nel colloquio psicologico

Ruolo e funzione del tirocinante nel colloquio psicologico

          Il titolo di questo contributo può apparire un po’ strano e indurre ad aspettative di argomentazioni di carattere burocratico giuridico (questioni di privacy, consensi, responsabilità, ecc.). Niente di tutto questo, le questioni formali le considero date per acquisite e scontate; in realtà vorrei condurre una riflessione più in termini clinici, terapeutici e relazionali partendo da questa domanda di fondo: in che cosa una seduta psicologica in cui è presente un tirocinante può differenziarsi? La presenza di un collega o di una collega che sta completando il suo percorso formativo, può dare alla seduta un qualcosa in più? Esistono degli aspetti che arricchiscono questo momento? O al contrario esistono degli aspetti che lo possono rendere meno efficace? E in che modo coinvolgere il collega durante la seduta perché questa presenza risulti efficace e significativa?

Le considerazioni che farò rispecchiano unicamente la mia lunga esperienza di lavoro con colleghi/e in formazione e il modo che ho personalmente trovato per ottimizzare il loro contributo per il paziente.

          Nella mia esperienza come tutor sono partito, credo come tanti colleghi, da un atteggiamento che potremmo definire “protettivo” verso il paziente e “difensivo” nei confronti del ruolo terapeutico. L’idea di fondo in questa prima fase è stata la seguente: il tirocinante in quanto presenza estranea al processo terapeutico è quasi sicuramente un elemento che può disturbare il paziente, farlo sentire osservato, studiato, invaso. In questa prospettiva il tirocinante poteva essere tollerato e proposto solo dai pazienti più sicuri, più capaci di sostenere questa esposizione e naturalmente tolto non appena si potesse scorgere un minimo segno di disagio nel paziente.

          Mi sono accorto però ben presto che la presenza silente e osservativa del tirocinante, che si limitava a prendere appunti durante la seduta, non faceva altro che rendere questo “corpo estraneo” inviso e forse addirittura persecutorio. Per questo ho pensato a delle strategie che potessero mettere in gioco il tirocinante rendendolo parte attiva e fare in modo che potesse arricchire la seduta stessa. Vengo quindi a spiegare concretamente come mi comporto durante la seduta e successivamente cercherò di ragionare su quali cambiamenti può introdurre questa modalità nella qualità della seduta stessa.

Il primo passo è naturalmente proporre la presenza del tirocinante al paziente: nel mio caso devo dire che molto raramente ho trovato delle opposizioni, in genere persone con tratti paranoici o molto inibite. Nel proporre questa presenza e chiedere naturalmente il

consenso al paziente, ribadisco il fatto che anche il collega è tenuto al segreto professionale e che lo sta facendo per completare il suo percorso formativo. Aggiungo anche che la presenza di un collega potrebbe aiutarci perché “in genere con più teste possono venire nuove idee e nuovi punti di vista”. Questa frase vuole introdurre quindi il paziente all’idea che il tirocinante è uno psicologo che collabora in qualche misura alla buona riuscita della seduta aggiungendo anche il suo punto di vista e la sua comprensione.

          Durante l’incontro poi ho ideato due momenti in cui il tirocinante viene coinvolto: all’inizio e alla fine. All’inizio vi è spesso la necessità di spiegare al tirocinante il motivo del colloquio, la problematica che si sta affrontando. E’ chiaro che questo potrebbe essere fatto prima dell’arrivo del paziente, tuttavia io trovo sempre molto utile questa premessa che si svolge in questo modo: chiedo il permesso al paziente di poter fare una breve sintesi del perché ci stiamo vedendo spiegandolo al tirocinante. Questo breve riassunto mi permette di verificare se la mia “narrazione” e rappresentazione del paziente è adeguata e centrata per il paziente stesso. Al termine della mia breve descrizione, chiedo al paziente se si sente ben rappresentato dalle mie parole o vuole correggere o aggiungere qualcosa. Questo momento è importante per orientare il paziente rispetto al problema presentato e in qualche misura lo aiuta a sentire che la terapia è un processo volto alla risoluzione di problemi definiti e non una sorta di magica trasformazione personale o peggio la conferma di uno stigma di un deficit o di un’etichetta diagnostica. Riuscire a riassumere adeguatamente la situazione del paziente è poi un ottimo passaggio che rafforza l’alleanza terapeutica e permette al paziente di sentirsi contenuto “nella mente del terapeuta”.

Il secondo momento che creo è alla fine della seduta in cui chiedo al/alla collega tirocinante se ha un commento, un’osservazione o una domanda. Il più delle volte le colleghe (devo parlare a questo punto al femminile perché sono la stragrande maggioranza) ribadiscono con le loro parole e la loro sensibilità, qualche aspetto fondamentale che è emerso dalla seduta e che io già avevo offerto al paziente: una comprensione, un rispecchiamento, un’indicazione.

          Queste parafrasi di ciò che ho già espresso al paziente in realtà non sono affatto delle vuote ripetizioni ma al contrario rappresentano degli ulteriori rispecchiamenti che avvalorano e rendono più profondo il senso di comprensione e di condivisione che si è verificato. Un esempio molto semplice: in una persona affetta da sensi di colpa eccessivi rispetto al suo ruolo genitoriale, dopo che in seduta si è cercato di esaminare tutti gli aspetti della realtà per poter posizionare il paziente in una visione più obiettiva di sé stesso, il rimando del tirocinante che ribadisce qualcosa del tipo: “io sento per come si è espresso che lei vuole veramente bene a suo figlio, lo si capisce da questo… e anche da questo…”, questo tipo di comunicazione dunque può rafforzare la comunicazione del terapeuta e dare un senso di realtà più convincente al paziente.

          Altre volte il contributo della tirocinante è ancor più creativo in quanto talvolta la chiamo in causa proprio in ragione delle sue caratteristiche personali: stiamo parlando in genere di ragazze che sono piuttosto giovani (dai 25 ai 30 anni). In diversi casi quindi posso chiedere loro di esprimere su alcune questioni il loro personale punto di vista, o cosa pensano di un certo comportamento, per aiutare il paziente a riconoscere gli aspetti propri della realtà e comprendere anche le reazioni che si possono generare. Un esempio di questo tipo di “ingaggio esperienziale” si è creato con un giovane molto inibito che dopo essere stato lasciato dalla fidanzata è rimasto bloccato, sfiduciato di trovare un’altra ragazza.  Con la tirocinante si è creato una sorta di problem solving per capire quali erano gli approcci più promettenti per risultare attraenti e affidabili e fare un invito adeguato.

          Questo tipo di pratica mi ha permesso di verificare che solamente in pochi casi i pazienti non gradivano la presenza della tirocinante, e che al contrario quando questa non era presente frequentemente i pazienti mi chiedevano un po’ dispiaciuti il motivo di tale assenza.

          Vengo ora a delle considerazioni più generali che non vogliono essere però considerate estensibili a tutti i colleghi perché credo che questo dipenda molto dall’approccio teorico e soprattutto dallo stile di lavoro di ciascuno.

Il mio modo di lavorare con il paziente, credo lo si sarà capito tra le righe, è ispirato ad un modello cognitivo comportamentale ma soprattutto ad una modalità relazionale in cui prevale la comprensione, la chiarificazione, il rispecchiamento e in generale la flessibilità per mettere al centro la problematica del paziente e raggiungere un risultato cercando le vie più efficaci.

          Mi rendo conto quindi che la presenza del tirocinante non fa altro che confermare e avvalorare un approccio terapeutico relazionale che sento mio e che ora cercherò di definire per punti:

  1. l’essenza del processo di aiuto è la costruzione di una mappa di comprensione condivisa in cui la realtà interna del paziente, la componente relazionale e comportamentale vengono definite congiuntamente in modo sufficientemente completo dal paziente con l’aiuto del terapeuta. In questa fase il tirocinante apporta un arricchimento di questa comprensione perché diviene un elemento che può aggiungere aspetti identificatori ed empatici nei confronti del paziente o verso qualche altra figura importante per lo stesso. Ad esempio nella consulenza dei genitori con figli adolescenti, il punto di vista di una giovane collega può rispecchiare meglio il comportamento del ragazzo e renderlo più plausibile al genitore.
  • Un aspetto che credo sia altrettanto importante da sviluppare durante il processo di aiuto è un atteggiamento orientato al problem solving. Con questo mi riferisco al lavoro in cui il problema viene prima definito e poi si cerca in modo creativo e aperto tutte le soluzioni possibili, scegliendo le più idonee da sperimentare concretamente. Anche in questo, la presenza e l’apporto di idee del tirocinante conferma quest’atteggiamento mentale: nessuno ha già una soluzione, né il paziente, né il terapeuta, occorre cercarla attraverso un confronto nel quale ogni idea nuova può essere utile e da valutare. Se il tirocinante, per inesperienza o scarsa conoscenza del paziente, avanzasse una proposta poco praticabile, sarebbe comunque utile prenderla in considerazione, esaminarla attentamente e nel complesso rimandare al paziente che ciò che più conta è la ricerca sensata di un progresso senza aspettarsi soluzioni definitive e già preconfezionate.
  • L’atteggiamento psicologico che va promosso in un percorso terapeutico è centrato su alcuni punti che potremmo così definire:
  • rispetto e valorizzazione per ciascuno
    • accettazione di sé e superamento di ogni senso di “inadeguatezza ontologica” o di stigma
    • flessibilità e capacità di guardare alle cose da diversi punti di vista
    • valorizzazione della pluralità, della diversità
    • normalizzazione delle difficoltà e dei momenti di crisi
    • incoraggiamento di ogni movimento esplorativo o creativo
    • impegno in un lavoro di progressione che non è esente da insuccessi o da fatiche
    • accettazione serena del proprio limite
    • autoironia e umorismo.

          Questi aspetti che ho delineato sono a mio modo di vedere confermati da un setting di seduta dove accanto alla voce principale e guida del terapeuta, ha spazio e legittimità una voce più giovane e meno esperta che tuttavia ha la possibilità di cogliere utili aspetti della realtà o anche di avanzare idee e punti di vista da considerare.

          Si tratta quindi di muovere il paziente da una visione rigida, dogmatica, tutto o niente o egocentrica della realtà ad una visone pluralistica, capace di includere la complessità, il non perfetto, il contraddittorio, l’ambivalenza.

          Il nostro modo di essere terapeuti è in qualche misura anche un modello di questo atteggiamento dinamico, pratico e flessibile, e per questo la presenza di una tirocinante in seduta può rafforzare questa visione a più voci, dove anche il terapeuta quasi prossimo alla pensione, chiede autenticamente curioso alla collega che certamente potrebbe essere sua figlia: “tu cosa ne pensi di ciò che sta venendo fuori in questa seduta?”.

Paolo Breviglieri

Psicologo Psicoterapeuta

 Consultorio di Suzzara

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Scuola e famiglia per una società migliore

          La famiglia è il primo riferimento, la prima cellula sociale che accoglie il nuovo nato che diventerà “uomo”, membro della società alla quale appartiene. La famiglia è il pilastro più importante per lo sviluppo della persona che con sani principi ed esempi contribuisce alla crescita emotiva e relazionale dell’individuo. Il grembo materno è la sua prima dimora, accogliente, sicura e protettrice dalle insidie del mondo esterno. In quella “prigione dorata” comincia il suo cammino rassicurato dal linguaggio del corpo materno dove tutto è filtrato e adeguato alle sue esigenze.

          Poi la nascita, evento tanto grande quanto difficile e doloroso ma che accanto alla mamma e insieme a lei diventa possibile. Fuori dal grembo materno tutto è diverso, sarà compito della famiglia che lo accoglie porre le basi per un adulto sano ed equilibrato all’interno della società.

          Ma la famiglia non è la sola ad occuparsi della formazione dell’individuo. Un ruolo importante e indispensabile lo ricopre la scuola. La scuola è studio, conoscenza, cultura, ma è anche educazione e teatro di crescita civile dove crescono le relazioni al di fuori della cerchia famigliare, le amicizie e le relazioni importanti che rimangono impresse anche per tutta la vita di una persona. All’interno della scuola si rinforzano i valori trasmessi dalla famiglia d’origine, ci sono le norme non scritte ma adottate da tutti per il comportamento civile di ogni individuo. Sin dagli anni ’90 uno dei progetti che a tutt’oggi è attivo soprattutto nelle scuole secondarie di primo grado è il “progetto affettività/sessualità”, tanto ambizioso quanto peculiare e delicato da portare a termine.

          Le figure coinvolte sono extrascolastiche, non appartenenti al corpo docenti ma che provengono da altre strutture come i Consultori famigliari; nello specifico sono l’ostetrica e lo psicologa/o che, in collaborazione svolgono incontri dedicati all’interno delle classi.

Il che non vuole dire esporre argomenti di carattere accademico, ma entrare nel vissuto dei ragazzi pur rispettandolo e nello stesso tempo dare loro una impronta educativa senza invadere il ruolo primario della famiglia. Cosa più facile a dirsi che a farsi.

          Se l’insegnante si occupa dell’anatomia degli organi riproduttivi, l’ostetrica e la psicologa affrontano il capitolo della relazione nel senso più esteso del termine. Attraverso un dialogo condiviso si incoraggiano gli alunni a parlare di sé, delle proprie emozioni.

I nostri goal sono:

–  la conoscenza delle emozioni ed dei sentimenti, per favorire la buona relazione con l’altro/a;

–  la prevenzione della violenza di genere;

– la gestione della sessualità con atteggiamenti responsabili, evitando quindi conseguenze spiacevoli ed effetti negativi soprattutto sulla ragazza, come ad esempio l’interruzione volontaria di gravidanza.

          Dando l’opportunità ai ragazzi di parlare di sé, si sottolinea l’importanza del rispetto per sé stessi e nei confronti del prossimo. Non meno importante è l’informazione corretta su argomenti che facilmente si trovano sui social ma di dubbia affidabilità.

          Ritengo importante sottolineare il punto di forza di questi incontri, programmati ma molto apprezzati dai ragazzi in quanto gestiti da operatori “non giudicanti”. Essendo extrascolastici non vi è valutazione alcuna e nel contempo danno risposte immediate e importanti informazioni sui servizi alla persona.  Si sottolinea la possibilità di rivolgersi a strutture dedicate, come il “Consultorio Giovani” creato per accogliere ragazzi dai 14 ai 20 anni che vogliono adottare un metodo contraccettivo o soddisfare altri bisogni. In questo servizio troveranno l’ostetrica, la ginecologa, lo psicologo e altre figure professionali.

          Vi è la solida convinzione, quindi, che la scuola insieme alla famiglia, possa contribuire positivamente ad una società migliore. I genitori saranno supportati e accompagnati nel loro difficile ruolo in una società sempre più attrezzata di smartphone e tablet, dove simboli come le “emoticon” hanno sostituito il vero dialogo con il prossimo, mancando dei veri rapporti interpersonali, fatti di sguardi, emozioni, energia vitale, condizioni indispensabili per le vere e autentiche relazioni.

Cristina Danielis

Ostetrica

Educare insieme, insegnanti e genitori
Scuola e Famiglia: una Relazione Possibile (2) – ArsDiapason

Fede e fine vita.

Testimonianze

          Affrontare il tema della malattia e del fine vita non è facile, tuttavia può aiutare a comprendere l’altra faccia della medaglia, cioè la bellezza, la gratuità per quanto la vita ci offre ogni giorno.

          Questo pensiero mi ha guidato lungo tutte le fasi che hanno preceduto la pubblicazione del mio libro “Esserci fino all’ultimo”: uscito recentemente in libreria, racconta venti storie legate al mondo delle Cure Palliative. Si tratta di un reportage condotto sulla base del vissuto dei pazienti oncologici, dei familiari che hanno perso un loro caro e degli operatori palliativisti; essi danno molta importanza ai ricordi, ai propri desideri e stati d’animo, alla relazione affettiva. Ogni volta ho avuto l’impressione di ascoltare la narrazione di un romanzo: il romanzo della loro vita! Sono storie ricche di spunti per riflettere, per ripensare la propria esistenza.

          Il discorso su Dio e la religione in “Esserci fino all’ultimo” non è centrale, piuttosto tutte le diverse narrazioni ruotano attorno al grande tema della spiritualità dell’essere umano, da cui partire per ritrovare se stessi: tutti siamo coinvolti, credenti e non credenti!

Sono entrato nei vari racconti di fine vita, senza nessun tipo di disagio, solo attraverso un profondo senso di rispetto e di gratitudine per coloro che hanno accettato di condividere la loro ricca esperienza spirituale. Ho sperimentato quel profondo sentimento che,

presente in ognuno di noi, agisce come catalizzatore per definire, identificare gli avvenimenti di cui siamo stati testimoni, specie incontrando il prossimo.

          Mi hanno particolarmente impressionato le riflessioni di chi ha manifestato un certo senso di distacco o addirittura di rifiuto nei confronti di Dio: in quei contesti ho comunque trovato una parte umana viva che mi ha consentito di comprendere aspetti molto importanti dell’intera esistenza. A volte, proprio quando meno ce l’aspettiamo, possono arrivare da qualunque prospettiva culturale, utili stimoli o provocazioni per rivisitare il proprio modo di pensare, le proprie convinzioni al fine di ottenere una prospettiva più ampia della realtà.

           Tutti desideriamo abbracciare una certa verità e la ricerchiamo con tutto noi stessi. Per questo vorrei ricordare la storia del più giovane tra gli intervistati. Giacomo, il nome è inventato, ha 38 anni: “Mi domando – afferma – come abbiamo potuto meritarci tutto questo! Mia mamma è stata operata due volte al seno, mio papà attualmente, pur riuscendo ancora a lavorare, è seguito dall’oncologo, e, infine, io da diciassette anni sto lottando con due tipi diversi di tumore che si sono sviluppati in due periodi diversi della mia vita”. Da qui la domanda: se Dio esiste, perché tanta sofferenza in chi conduce una vita normale e rispettosa del prossimo, quando ci sono individui squallidi, prepotenti che godono di ottima salute e vivono in tutta libertà? C’è anche una seconda questione: di fronte a Dio quanto è fondamentale il grido del sofferente che, così provato dalla malattia, può essere tentato di mettere in discussione, o addirittura rifiutare, l’esistenza del Creatore.  Sinceramente dopo aver conosciuto Giacomo, ho capito che anche chi rifiuta Dio può maturare nella propria vita un amore così puro ed essenziale. Giacomo sosteneva: “Dio mi è del tutto indifferente, l’amore che ho vissuto in famiglia mi ha permesso di continuare a vivere”. Ebbene, dopo averlo ascoltato, ho considerato con molta attenzione le sue parole e penso che potrebbero aver raggiunto il cuore di Dio in modo ancora più straordinario. Chi lo può dire! Come non accostare quelle frasi di Giacomo a quelle di Gesù in croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Credo che proprio in quel momento Cristo abbia raggiunto il culmine del suo atto di amore verso l’umanità. 

          Sempre prendendo spunto dal libro, un operatore sanitario afferma: “Sa, io sono diventato ateo, mentre prima come credente frequentavo l’ambiente cattolico”. La stessa persona mi ha parlato poi del suo lavoro con grande partecipazione personale: “Considero il fine vita un momento straordinario in cui l’essere umano deve essere trattato in modo speciale. Ho cominciato ad adottare una particolare strategia per essere all’altezza del mio lavoro: ogni volta cerco di guardare, di toccare il paziente, pensandolo amato da qualcuno o che, per il suo lavoro, ha avuto un ruolo di prestigio con tanti amici. Quando gli lavo le mani penso a come le può aver usate: in cucina o in sala operatoria oppure come un abile fabbro; con quelle sue mani, oggi scarne, può avere accarezzato i suoi figli o nipoti. Tutto questo mi aiuta molto.” Da queste frasi molto toccanti, penso si possa dire che il bene cercato, voluto, desiderato da ognuno di noi, non sia una prerogativa assoluta di chi pratica una religione, poiché la bontà è un seme che può crescere e svilupparsi in tutti, basta saperlo accogliere per poi manifestarlo negli ambiti che riteniamo più opportuni, specialmente quelli segnati dalla fragilità umana.

              Prendo spunto da un’altra situazione riportata in “Esserci fino all’ultimo” per spiegare quanto sia importante una testimonianza cristiana veramente autentica, al punto da riuscire a trasformare la vita delle persone. Nel libro parlo di una giornalista ormai in pensione che ad un certo punto si è riconciliata con Dio: “Se il mio atteggiamento nei confronti di Dio è cambiato – afferma – lo devo a quel prete che mi è capitato di ascoltare

un’ unica volta a messa. Di solito in chiesa mi sembrava di sentire sempre i soliti discorsi, ma quella volta, quel sacerdote con delle semplici parole ha raggiunto il mio cuore. Mi sono anche confessata, gli ho raccontato la mia vita, di quando ero stata abbandonata dal primo marito e quasi subito mi ha interrotto per dirmi: “I tuoi figli crescono bene? Fai tutto quello che puoi per loro? Sei in pace con te stessa o hai qualcosa da rimproverarti?         Mi disse che il Signore vuole da noi una grande dedizione agli impegni presi, alla fine concluse dicendomi: “vai in pace”. Quel prete mi ha cambiato la vita e tutto questo mi ha aiutato ad affrontare sia il percorso della malattia che le ultime ore con mio marito”. Considero questa testimonianza una vera dichiarazione di fede che può in certi momenti andare in crisi per le difficoltà della vita, ma sorretta da una continua ricerca del vero bene, spesso ottenuto con grandi sacrifici.

           Vorrei concludere con un’ultima narrazione tratta dal testo. Parto dalla riflessione di una dottoressa delle Cure Palliative: “nella mia lunga esperienza del fine vita ho imparato a credere sia nel miracolo della vita che nel miracolo della morte. In quei momenti ho visto coppie separate che si sono ricomposte, in cui uno dei due coniugi, dopo anni di separazione, si è preso a cuore l’altro come se si fossero di nuovo innamorati. Ho visto una coppia in cui lui se ne era andato anni prima e, una volta tornato, la moglie non l’ha respinto con rancore, anzi gli ha offerto una dedizione vera, gratuita, con un amore che è riemerso grazie alla sofferenza, creando un rinnovato legame e un profondo sentimento di riconoscenza. Quando sei testimone di questi avvenimenti, ti sembra di vivere un evento straordinario per cui non pensi che la morte sia la conclusione di tutto.”

          Dopo tutte queste testimonianze che cosa posso aver capito come credente? Che la fede veramente viva, autentica, è capace di trasmettere una forte e autentica immagine dell’amore di Dio per noi, solo quando è incarnata nella storia delle persone. Può essere una fede con molte ombre, può essere una fede che oscilla tra il credere e il non credere, ma può sempre avere una sua grande dignità, autorevolezza se è pienamente vissuta, ricercando concretamente la verità e il bene nella propria vita. D’altra parte leggendo i Testi Sacri, il Vangelo di Cristo, ci si può rendere conto che tutto il messaggio parte dall’approfondimento di situazioni reali in cui s’innesta il grande insegnamento di Dio che dà valore all’essere umano, sempre posto all’interno del particolare contesto storico in cui vive.

Angelo Rossi

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