Rapporto tra ambiente esterno e ambiente interno negli esseri umani

Per quanto riguarda il rapporto tra ambiente interno e ambiente esterno, molti autori si sono cimentati nel ribadirlo, ma anche nel cercare di spiegarne le modalità con le quale questo rapporto si instaura ed evolve.

Non solo Freud e gli altri psicoanalisti ma anche molti altri autori hanno ribadito con forza, in tutte le loro opere, l’evidenza che le radici della nostra vita emotiva risiedono nell’infanzia e soprattutto nella prima infanzia.

Per Osterrieth (1965, pp. 15-16):

 “Non si ereditano l’intelligenza, la capacità di concentrazione, la pigrizia, la virtù o il senso degli affari, come si eredita una collana di perle o un servizio da tavola. L’ereditarietà non assicura probabilmente la trasmissione di caratteristiche psicologiche o morali belle e fatte, come si pensa comunamente. E certamente più giusto pensare che ciò che si trasmette, siano predisposizioni, sensibilità o insensibilità, che permettano l’acquisizione nel corso della vita di certe attitudini o di certe caratteristiche di comportamento. Inoltre è necessario che le circostanze consentano a queste predisposizioni di manifestarsi e offrano le modalità secondo le quali esse si plasmeranno”.

È forse utile ricordare che, in realtà, organismo e ambiente sono in continua interazione, e che, secondo le caratteristiche dell’ambiente, certe tendenze ereditarie saranno non soltanto permesse ma favorite, concretizzandosi in attitudini o in tratti di carattere, altre saranno inibite, e appariranno solo in forma alterata, altre infine non saranno mai stimolate e le reazioni concomitanti non si verificheranno mai. “In breve, qualunque sia l’importanza e il peso dei fattori ereditari, l’uomo non è condizionato soltanto da questi: lo è altrettanto dalle condizioni in cui vive e in cui il suo sviluppo è avvenuto (Osterrieth, 1965, p. 19).

‹‹Si può senz’altro affermare che le circostanze della vita e le esperienze dell’individuo determinano in larga misura il modo in cui la sua struttura ereditaria troverà espressione››.[1] E ancora: ‹‹Si sottovaluta che il più delle volte si trasmettono non malattie ma predisposizioni verso certe malattie piuttosto che altre. Si trasmette una maggiore o minore sensibilità ai traumi psichici piuttosto che disturbi o malattie psichiche. Anche perché perfino nei gemelli veri non vi è un uniforme comportamento per cui parecchie attitudini e tratti del carattere si trovano nell’individuo in quanto sono stati incoraggiati dall’ambiente, mentre altri sono stati costantemente inibiti››.[2]

E ancora Osterrieth (1965, p. 28):

“Il bambino non è bambino perché è piccolo, -scriveva Claparéde già cinquant’anni fa – è bambino per diventare adulto”. E questo tirocinio è lungo, visto che il livello adulto da conseguire è notevolmente complesso ed evoluto. Esso non può effettuarsi, l’abbiamo visto, che per tramite di un ambiente adulto umano, il quale incessantemente rivela al bambino i comportamenti propri della sua specie e alla società di cui fa parte e che lo rende sociale. Il bambino diventa umano ”secondo” la cultura e i gruppi familiari ai quali partecipa”.

Ed infine:

“Si può senz’altro affermare che le circostanze della vita e le esperienze dell’individuo determinano in larga misura il modo in cui la sua struttura ereditaria troverà espressione”. (Osterrieth, 1965, p. 28).

Per De Ajuriaguerra (1993, p. 116):

 ‹‹Non esiste sviluppo comprensibile al di fuori del suo ambiente››.[3]

 ‹‹Senza alcun dubbio esistono dei pattern caratteristici di ogni specie, trasmessi per via ereditaria, che si manifestano sotto forme equivalenti in un insieme di individui della stessa specie. Ma i pattern possono essere attivati dall’ambiente, dagli stimoli tattili, visivi, uditivi, etc., o modificati per l’assenza o per l’azione qualitativamente o quantitativamente inadeguata degli apporti dell’ambiente›› (De, AJURIAGUERRA, 1993, p. 116).[4]

Bowlby (1982, p. 22) afferma:

‹‹Il punto di vista che sostengo, come si potrà notare, si basa sulla convinzione che gran parte dei disturbi psichici e dell’infelicità siano dovuti ad influenze ambientali su cui siamo in grado di intervenire e che possiamo modificare››[5]

“Se un bambino è sereno e sicuro oppure infelice e non in armonia con la società, dipende in gran parte dall’adeguatezza o meno delle prime cure che ha ricevuto”(Bowlby, 1982, p. 2).[6]

Per Ackerman (1970, p. 69):

 ‹‹L’eredità fissa dei limiti al potenziale sviluppo della personalità, ma a darle una forma concreta è l’esperienza sociale››.[7]

Per Bettelheim (1987, p. 23):

 “La teoria freudiana pone l’accento sia sull’immodificabilità di gran parte della nostra eredità evolutiva, sia sull’importanza delle prime esperienze: benché non sia possibile modificare minimamente tale eredità, le prime esperienze determinano le modalità in cui essa troverà espressione nella personalità di ciascuno” .

“Le prime esperienze infantili non solo influiscono sulla formazione dell’autostima e sulla percezione di sé in rapporto agli altri, ma determinano anche il modo in cui interpreteremo le esperienze successive” (Bettelheim, 1987, p. 26).

Quanto ai fattori ambientali intesi in senso lato, prevalgono quelli legati all’assenza della madre o di entrambi i genitori, oppure alla personalità frustrante dei genitori, (a volte già frustrati come figli e quindi rifiutanti i propri figli).  essi concorrono, come oggi viene opportunamente sottolineato all’insorgere o all’aggravarsi dell’iniziale “difficoltà di comunicazione”. (Mastrangelo 1975 p.307). “

L’influenza dell’ambiente nello sviluppo degli esseri viventi è tanto maggiore quanto maggiore è la sua complessità per cui come dice Portmann citato da Osterrieth (1987, p. 23),

“l’animale nasce in certo qual modo “pronto”, per la vita, biologicamente “compiuto” o quasi, ma richiuso, si potrebbe dire, nelle possibilità, relativamente ridotte e immutabili, che questa compiutezza gli assicura. Il bambino “incompiuto”, al contrario, procederà nella propria formazione corporea e andrà provvedendosi dei mezzi di adattamento a contatto dell’universo sociale e materiale nel quale si trova prematuramente immesso, rispondendo a condizioni necessariamente incerte e variabili. Non disponendo di meccanismi belle e fatti, siamo costretti a fabbricarceli; di qui la nostra infanzia è la risposta all’incompiutezza iniziale, all’impotenza pressoché totale del bambino, che aveva così colpito Jean-Jacques Rousseau”.

Lo stessi concetto e ripreso da Isaacs (1995, p. 20).

‹‹Possiamo affermare che, in genere, quanto più i piccoli di una determinata specie animale hanno bisogno di assistenza e quanto più a lungo rimangono dipendenti dai genitori, tanto più sono dotati di intelligenza e di spirito di adattamento, tanto meno vivono seguendo le regole fissate dalle leggi dell’ereditarietà e dalla genetica››.[8]

e Winnicott (1973, p. 130):

‹‹Al giorno d’oggi parliamo molto spesso di bambini disadattati: ma i bambini disadattati sono tali perché il mondo non è riuscito ad adattarsi correttamente a loro all’inizio e durante i primi tempi››.[9]

Per Wolff (1970, p.9):

‹‹Le esperienze dell’infanzia non vanno perdute. Quando esse sono positive, l’individuo raggiunge la maturità conservando intatte le sue potenzialità riguardo ai rapporti umani, al lavoro, alla felicità. Egli risponde all’ambiente in modo realistico e sa adattarsi al mutare delle circostanze. Quando le esperienze infantili lo stressano in modo schiacciante, si ha un arresto dello sviluppo della personalità e può essere messo in movimento uno schema di comportamento disadattato, che si ripeterà per tutta la vita. Esso, come un destino malvagio, impedisce per sempre all’individuo di realizzare appieno le sue potenzialità nella vita adulta.[10] Arresto nello sviluppo non significa, però, che da quel momento tutto diverrà statico ma che vi sarà una deviazione della personalità con un ritardo nelle manifestazioni di cambiamento che caratterizzano il corso normale dello sviluppo di un minore››.

Sempre lo stesso autore:

 ‹‹Certe circostanze possono essere dannose per i bambini, non per ciò che esse procurano, ma per ciò che non procurano: esse possono privare i bambini di essenziali esperienze di apprendimento››(Wolff, 1970, p. 10).[11]

A questo riguardo non possiamo non ricordare quello che dicono Imbasciati, Dabrassi e Cena ( 2007, p. 4):

‹‹Sappiamo che la maturazione cerebrale è in relazione all’esperienza e che questa inizia ad essere esperita già dal feto. È l’esperienza che regola lo sviluppo micromorfologico e funzionale del cervello››.[12]

Gli stessi autori (Imbasciati, Debrassi e Cena, 2007, p. 7) aggiungono, inoltre:

‹‹ Si è ritenuto a lungo, e in parte tuttora alcuni ritengono, che la maturazione del tessuto nervoso, quale si riscontra morfologicamente e fisiologicamente, dipenda esclusivamente dalla realizzazione del programma genetico che riguarda il completamento morfofunzionale di tutti gli organi corporei e che investirebbe pertanto anche il cervello, che verrebbe così “completato” gradualmente, prima e dopo la nascita, nei primi mesi. La mente scaturirebbe così dalla maturazione biologicamente predeterminata del cervello. Al contrario si è dimostrato che la maturazione è un processo che avviene solo se c’è l’esperienza: non solo, ma che la qualità dell’esperienza determina il tipo di maturazione. […] Gli studi sugli animali hanno da tempo dimostrato che l’architettura istologica corticale è in relazione al tipo di apprendimento cui l’animale è stato sottoposto. Più moderne tecniche, tra cui i metodi di neuro-immagini (PET), mettono in evidenza, anche nell’uomo, come sia l’esperienza che viene acquisita, ossia il tipo di apprendimento conseguito, che condiziona la cosiddetta maturazione neurale››.[13]

Per Stefana e Gamba (2013, p. 357):

“In definitiva è esperienza comune quanto “il sistema psiche” sia assai più complesso di qualsiasi altro sistema conosciuto: è perciò inevitabile, “fisiologico”, che le nostre conoscenze sullo stesso e sulle patogenesi dei disturbi che lo affliggono siano ancora parziali. Conseguentemente non ci si può limitare la chimica e la fisiologia del cervello, o anche il comportamento osservabile, o i riscontri che la moderna tecnologia diagnostica permette, poiché l’importanza di tali approcci al paziente e alla sua psicopatologia non esaurisce la comprensione dell’essere umano e della sua esperienza, che si inserisce in un contesto e in un ambiente la cui scissione dagli elementi di comprensione introduce una semplificazione non priva di rischi. Non si tratta quindi di abbandonare alcuni strumenti classici, ma di arricchirli: “per vedere nella mente di un altro, noi dobbiamo ripetutamente immergerci nel profluvio delle sue associazioni e dei suoi sentimenti; dobbiamo noi stessi essere lo strumento che lo scandaglia, abbandonando una semplicistica separazione dicotomica tra aspetti biologici e influenze psicosociali. Non è questione di “aut-aut, ma di et-et o meglio, una questione di indistricabile fusione (intesa come stato di confluenza) degli uni nelle altre”.

L’evoluzione biologica è quindi la piattaforma su cui si inserisce l’evoluzione psicologica e sociale.

Nonostante queste conoscenze siano ben note da decenni, ciclicamente, nei vari periodi storici e nelle diverse società, l’accento viene posto a volte su una causa, a volte su un’altra. In alcune epoche ed in alcune culture è sottolineato il ruolo dell’ambiente interno, mentre in altre epoche ed in altre culture, viene prevalentemente proposta all’attenzione della società l’influenza dell’ambiente esterno. A volte si evidenziano soprattutto le i fattori legate al nostro patrimonio genetico, altre volte sono le malattie causate da microbi, virus e batteri ad essere messe in primo piano. Così come in alcuni periodi storici ed in alcune culture si pone l’accento sulle patologie legate ad un’alterazione dell’assetto ormonale o biochimico, in altre è messa sono messe in risalto le influenze nefaste delle condizioni socio-economiche.

Non vi è dubbio che delle molteplici realtà che accompagnano e si attivano in senso positivo o negativo nella formazione del benessere o del malessere dell’essere umano, negli ultimi decenni gli elementi genetici e biologici siano stati ampiamente posti in netta evidenza e, quindi sopravvalutati, a scapito delle componenti sociali, ambientali e relazionali che sono per lo più sottaciute, mentre il alcuni casi si prova addirittura a cancellarle.

Continuamente l’opinione pubblica viene informata della scoperta di un nuovo gene che avrebbe una marcata influenza su questa o quella malattia, su questo o quel disturbo o comportamento abnorme o eccessivo. Ciò ha sviluppato nella mentalità comune la falsa opinione che, buona parte delle malattie e dei disagi di tipo psicologico di cui soffriamo noi adulti ma anche i nostri figli come le ansie, le fobie, le dipendenze, l’autismo, l’instabilità psicomotoria, i disturbi del carattere o del comportamento, le psicosi depressive e quelle dissociative , siano su base genetica e, pertanto, incurabili fino a quando non si riuscirà a modificare i geni interessati, così da curare i nuclei e le aree cerebrali geneticamente alterate. La fiducia e le aspettative poste in queste ricerche da parte di un’opinione pubblica poco informata, diventano enormi e incongrue, poiché è dai genetisti o dai farmaci sperimentati e prodotti e non dai nostri comportamenti personali, di gruppo, politici e sociali che si attende la o le soluzioni dei tanti gravi problemi che assillano i bambini.

Ciò mette in scarsa luce e svilisce quanto constatato e studiato dagli illustri studiosi dell’animo umano.

Purtroppo però nell’attesa che le ricerche genetiche diano i loro frutti, si trascurano, sia nell’ambito della prevenzione, sia nell’ambito degli interventi terapeutici lo studio degli aspetti ambientali e relazionali. Per cui, come ben dice Osterrieth (1965, p. 10): ‹‹La nozione fatalistica di ereditarietà incoraggia facilmente ad astenersi da ogni sforzo di educazione e da ogni tentativo per modificare l’ambiente nel quale il bambino cresce; essa costituisce, come ha detto qualcuno, un imponente guanciale di pigrizia pedagogica››.[14]

Questo atteggiamento spinge a considerare molte malattie psichiche come malattie croniche e incurabili, da fronteggiare soprattutto con gli psicofarmaci o mediante terapie abilitative e riabilitative, fino a quando un improbabile, futuro intervento genetico potrà affrontarle ed eliminarle. Nel contempo siamo tutti assolti. Sono assolti i genitori che trascurano i loro figli e li costringono, con i loro incongrui ed egoistici comportamenti, ad innumerevoli sofferenze. Sono assolti i politici e gli amministratori, che possono impunemente utilizzare i soldi pubblici ed indirizzare buona parte delle risorse per migliorare il benessere economico o peggio per costruire sempre più strumenti di guerra, trascurando il benessere sociale, quello familiare e di coppia e, quindi, l’ambiente di vita del bambino, come del giovane, dell’adulto o dell’anziano. Sono assolti i servizi presenti sul territorio, ai quali non si chiede l’efficacia dei loro interventi ma soltanto il numero delle prestazioni effettuate.

Inutile dire che è un messaggio sostanzialmente falso e fuorviante in quanto, se l’umanità ha sempre compreso e accettato la presenza della componente genetica e biologica nello sviluppo umano, nel contempo si è sempre attivata a che le componenti ambientali fossero le migliori possibili, al fine di evitare l’insorgenza o l’aggravarsi delle malattie del corpo e soprattutto di quelle della psiche, nelle quali prevalgono nettamente le componenti affettivo – relazionali e quindi prevalgono la comunicazione, il dialogo e lo scambio emotivo.


[1] Ibidem.

[2] P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Op. cit., p. 18.

[3] J. DE, AJURIAGUERRA, Manuale di psichiatria del bambino, Op. cit., p. 116.

[4] J. DE, AJURIAGUERRA, Manuale di psichiatria del bambino, cit, p. 116.

[5] J. BOWLBY, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1982, p. 22

[6] Cfr. J. BOWLBY, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Op. cit., p. 2.

[7] N.W. ACKERMAN, Psicodinamica della vita familiare, Torino, Boringhieri, p. 69.

[8] S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni – Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 20.

[9] D. W. WINNICOTT, Il bambino e la famiglia, Firenze, Giunti e Barbera, 1973, p. 130.

[10] S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando Armando Editore, 1970, p. 9.

[11] S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, cit, p. 10.

[12] A. IMBASCIATI , F. DABRASSI, L. CENA, Psicologia clinica perinatale, Padova, Piccin Nuova Libreria S.p. A, 2007, p. 4.

[13] A. IMBASCIATI , F. DABRASSI, L. CENA, Psicologia clinica perinatale, Padova, Piccin Nuova Libreria S.p. A, 2007, p. 7.

[14] P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, cit, p. 10

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