Quello strano intreccio tra disturbo clinico e disagio esistenziale

Cara Anna

oggi vorrei ragionare con te su una questione che spesso abbiamo incrociato nei nostri incontri con diversi pazienti; si tratta di una domanda, di un dubbio che talvolta emergeva riflettendo sulla persona che avevamo davanti. Un dubbio che talvolta gli abbiamo esplicitato o altre volte abbiamo tenuto solo per noi e che più o meno assumeva questa forma: “il disagio, il malessere che questa persona mi sta raccontando è il segno di qualcosa che non va nel suo funzionamento mentale o di qualcosa che non va nel suo modo di affrontare la vita?” o in altri termini “siamo di fronte ad una disfunzione psichica o ad una incompiutezza e non realizzazione del proprio progetto di vita?”.

          Mi vengono in mente diversi casi che ci hanno fatto sorgere questo interrogativo: penso ad esempio a quel giovane uomo di quasi quarant’anni che ha iniziato a soffrire di ansie di tipo ipocondriaco dopo la morte di un suo giovane amico, e che racconta come la sua vita sia stata fino ad allora “pacifica” : lavoro, hobby, qualche uscita con un amico, qualche avventura con una ragazza, nessuna intenzione di avere una storia fissa, men che meno di avere dei figli, nessuna intenzione di andare fuori dalla casa dei genitori. O quell’altro dirigente che dopo i cinquant’anni ha cominciato a soffrire di attacchi di panico da quando si è accorto che non riusciva più ad essere “performante” come in passato. O penso a quella giovane insegnante che diviene ossessiva per proteggersi dal pensiero per lei devastante di non essere sempre “eccellente per non dire perfetta”, in grado di primeggiare sulle colleghe e mai disposta ad accettare che qualcuna possa aver avuto un’idea migliore della sua.

          Ci sono situazione cliniche in cui queste domande non vengono in mente perché

prevale l’impressione che il disturbo si sviluppi e accada in una esistenza che per altri aspetti sembrava ben orientata ed equilibrata (penso ad esempio ad alcuni episodi di

depressione maggiore o a certi massicci disturbi ossessivi). In questi casi si percepisce

che qualcosa “è andato fuori posto” rispetto al normale funzionamento della persona, in altri casi invece la domanda sopracitata nasce dalla sensazione che il fenomeno

clinico sia la risultante di un’esperienza esistenziale per alcuni aspetti manchevole, povera o distorta.

 In questi casi, per usare le parole di una nota canzone di Franco Battiato, potremmo dire che “non servono tranquillanti o terapie, serve un’altra vita”.

          Credo che potremmo definire sinteticamente questi due ambiti di disagio con queste brevi e sommarie descrizioni. Disturbo clinico: un insieme di comportamenti ed emozioni disfunzionali che provocano sofferenza nel soggetto e nel suo ambiente e che hanno come genesi aspetti multifattoriali di tipo ambientale, temperamentale, genetico, traumatico. Disagio esistenziale: una percezione di mancanza nella realizzazione di sé nei diversi piani su cui di solito si articola la nostra esperienza umana (piano sociale, affettivo, del riconoscimento di sé, piano valoriale, piano spirituale). Mentre la prima dimensione sembra rispondere alla domanda “come sto, come mi sento, qual è il grado del mio benessere”, la seconda risponde all’interrogativo sul senso, la rilevanza e la coerenza della propria esistenza: “che senso ha quello che sto facendo? In che misura la mia vita è degna di essere vissuta perché autentica, significativa, bella, valida?”.

          Nella mia esperienza di ascolto e aiuto nei confronti delle persone portatrici delle più svariate problematiche all’interno di un consultorio familiare, ho visto molto spesso intrecciarsi questi due ambiti di malessere in diverse forme che mi pare possano essere così rappresentate.

a) quando il disagio clinico esprime e ha come matrice il disagio esistenziale.

          In questi casi si ha l’impressione che il sintomo clinico (ansia, depressione, dipendenza, comportamenti ossessivi), diventi il canale attraverso il quale il soggetto esprime o dà corso ad un malessere o ad uno squilibrio che si colloca sul piano della realizzazione della propria esistenza. Penso ad esempio ad alcune dipendenza o ricerche di esperienze per avere una scarica adrenalinica dalle quali poi si diventa sempre più bisognosi, che possono sorgere da un senso di noia, di vuoto, di ripetitività, che mettono in luce la fatica del soggetto nell’espandere e realizzare la propria vita in modo costruttivo. Penso sempre a questo proposito come alcuni stati ansiosi possono nascondere il problema di fare i conti con l’esperienza del limite e in fondo della morte, cosa che la nostra società tende sistematicamente a rimuovere o a relegare sanitarizzandola

           In questi casi credo che l’ascolto e l’analisi della sintomatologia, della sua genesi e del suo significato, non possa mancare di mettere il paziente anche di fronte a interrogativi più generali: forse questo malessere vuol dire qualcosa per la sua vita, forse è un segno di un ambito di esperienza e di realizzazione di sé che occorre affrontare? Il disturbo clinico può essere così il punto d’inizio di un percorso di cambiamento più radicale che non porta solo al benessere psichico ma ad una riconsiderazione della propria vita e ad un suo eventuale bilanciamento.

b) quando il disagio clinico o qualche altra condizione di malattia produce un disagio esistenziale.

          Talvolta i nostri problemi psicologici soprattutto quando riguardano patologie importanti, possono svilupparsi in condizioni di cronicità.  In questi casi la menomazione che ne deriva per il paziente lo porta inevitabilmente a dover ridisegnare la propria condizione esistenziale e cercare di dare un nuovo significato alla propria vita che includa anche la sofferenza psichica a cui è esposto. Questo aspetto si riscontra in modo netto ed evidente quando la persona deve fronteggiare una malattia importante o un cambiamento significativo della propria condizione di vita (lutto, separazioni). In questi casi il paziente traduce in sintomi clinici, ansia e depressione una condizione di sofferenza interiore dettata dallo sforzo di orientare diversamente la sua vita e di ridisegnare in essa un significato coerente e motivante. Penso a questo riguardo ai sintomi depressivi di un paziente costretto da una malattia progressiva alla perdita di autonomia. In questo caso l’aiuto psicologico è consistito da un lato nel contenere questo malessere ma soprattutto nell’accompagnare il soggetto a ridisegnare il proprio senso di vita e a rimodularlo in funzione delle limitazioni crescenti.

c) quando il disagio esistenziale crea dei presupposti che favoriscono lo sviluppo di un disagio clinico.

          In questo caso, diverso rispetto al primo descritto, non vi è la riconducibilità di una condizione clinica ad un aspetto esistenziale; tuttavia, rileggendo la situazione complessiva del soggetto si ha la forte suggestione che quest’ultimo fattore possa aver favorito il sorgere dell’altro.

Mi riferisco ad esempio a situazioni in cui la mancanza di relazioni, di vita sociale significativa, di interessi e di valori profondi, favorisce un processo di ripiegamento, paura e anche alienazione psicologica o di “contorsioni” mentali.

Penso a questo proposito alle dipendenze sia da sostanza che comportamentali (internet, gioco, ecc.). Accanto alle specifiche e conosciute dinamiche psichiche che stanno alla base di questi processi morbosi, è spesso evidente che questi accadimenti psichici possono trovare un terreno più fertile in soggetti che vivono una vita fatta di frustrazioni o di noia, di vuoto e di assenza di un orientamento complessivo.

          Questo ambito molto complesso e per certi aspetti poco definito del nostro lavoro di cura e orientamento con le persone che soffrono psicologicamente, è un aspetto che andrebbe strutturato con maggiore attenzione e approfondito sul piano tecnico. Dobbiamo infatti rifuggire la tentazione di ridurre tutte le espressioni di malessere ad un problema clinico e psicopatologico, o addirittura neuropsicologico.

 Dobbiamo altresì essere disponibili ad accompagnare e a sollecitare il paziente ad esplorare questo ambito della sua visione e percezione della vita per offrirgli uno spazio di crescita e di autodeterminazione consapevole.

          In questo ambito abbiamo la possibilità di attingere al lavoro fondamentale di Victor Frankl, fondatore della logoterapia o alle proposte della scuola di psicoterapia cognitiva/comportamentale denominata ACT Acceptance and Commitment Therapy, ovvero terapia basata sull’accettazione e sull’impegno, sviluppata negli anni ’80 dallo psicologo Steven C. Hayes.

La Acceptance and Commitment Therapy si basa su due punti fondamentali:

  1. Consapevolezza e contatto con l’esperienza momento per momento (Mindfulness): è un modo di osservare la propria esperienza che, per secoli, è stato praticato in oriente attraverso varie forme di meditazione. Attraverso tali esercizi esperienziali si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso; si può comprendere che ci sono molte altre cose da fare nel momento presente, oltre a cercare di regolare i propri contenuti psicologici.
  2. Impegno e vita basata su ciò che per noi è importante, “di valore”: quando si è coinvolti nella lotta contro i problemi psicologici spesso si mette la vita in attesa, credendo che il proprio dolore debba diminuire, prima di iniziare nuovamente a vivere.

Questo approccio è volto a portare la persona a riconoscere le cose che per lui sono dei “valori” invitandolo a dare concretezza a questa traiettoria personale per essere coerente con questi valori e sentire che la vita che sta realizzando è “tenuta insieme” da questi aspetti profondi e personali.

          Al di là di quale approccio si voglia seguire, credo che per chi lavora nel campo della salute mentale e psicologica, la dimensione esistenziale del paziente non può essere elusa ed anzi va esplorata e sollecitata.

          Come ci ricorda Abraham Maslow, nella sua piramide dei bisogni umani, oltre a quelli di base, sociali e affettivi vi sono i bisogni di auto realizzazione e i bisogni spirituali. Con questo tema non ci si riferisce necessariamente all’adesione ad una fede o religione, quanto piuttosto allo sviluppo di una visione di sé come inseriti in un tutto in cui la propria esistenza può essere più o meno armonica e significativa.

          Chi soffre psicologicamente può essere aiutato non solo a lenire questa sofferenza e a migliorare il proprio adattamento personale e relazionale, ma anche ad approfondire la consapevolezza di che cosa è per lui davvero importante (valore) e come questo può essere per lui portato avanti nella sua vita (progettualità) per dare alla stessa quella coerenza e quel senso che travalica ogni riconoscimento esterno o ogni consenso sociale.

          Questo tipo di riflessione o di domande è fondamentale e può essere anche cruciale per promuovere e completare il processo di cura psichica finalizzata alla soppressione dei sintomi.

          Recentemente ho avuto modo di fare un’esperienza presso la fraternità di Pieve Romena, nel Casentino. Questa comunità che accoglie molte persone in una ricerca spirituale nata attorno alla guida di un sacerdote, don Luigi Verdi, ha predisposto attorno ad un eremo, un cammino definito “Cammino dei sette passi” in cui le persone possono interrogarsi sulla loro vita con l’aiuto di alcune domande stimolo e di angoli simbolici che possono facilitare la riflessione.

          Senza dilungarmi descrivo alcuni di questi passi. Il primo passo si svolge di fronte al tronco di un grande gelso che è stato abbattuto perché ormai pericolante. È rimasta quindi la base del tronco completamente svuotato al suo interno. La riflessione che vien proposta è legata al nostro voler essere talvolta forti e possenti, ma così facendo ci indeboliamo, quando invece prendiamo coscienza delle nostre fragilità e dei nostri vuoti possiamo accogliere al nostro interno nuove opportunità di crescita, come fa in effetti questo tronco cavo che ospita fiori e nuove forme di vita al suo interno.

Un’altra suggestiva tappa si svolge di fronte ad un orto recintato in cui la riflessione si pone sulla necessità di darsi i tempi di attesa e di lavoro e nello stesso tempo di creare spazi di vita protetti e riservati, proprio come l’orto è protetto dalle invasioni di animali selvatici che potrebbero devastarlo da un alto recinto.

          Quando ho svolto questo cammino ho pensato immediatamente che queste domande e altre simili avrebbero benissimo potuto far parte di un lavoro di accompagnamento e di aiuto psicologico. L’idea che voglio suggerire è proprio quella di trovare un momento con i nostri pazienti, per spaziare oltre il piano squisitamente clinico terapeutico e vedere in loro anche e soprattutto delle persone impegnate e chiamate come noi a creare un disegno della propria vita che sia coerente, orientato e degno di essere perseguito.

Termino con una citazione di V. Frankl che sintetizza perfettamente queste osservazioni:

“Quando diamo un senso alla vita, non solo ci sentiamo meglio, ma siamo in grado di affrontare il dolore.”

Paolo Breviglieri

Psicologo-psicoterapeuta

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