Per un’assistenza globale alla persona malata

Per un’assistenza globale alla persona malata

Autori: Carlo Alfredo Clerici e Tullio Proserpio

          Questo libro nasce da incontri ripetuti nel tempo, al mattino, davanti al distributore automatico del caffè, fra due persone, un medico ed un sacerdote. Ci troviamo all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Il medico è uno psicologo clinico e lavora prevalentemente nel reparto di oncologia pediatrica dell’Istituto. Il sacerdote è uno dei cappellani della stessa Fondazione ed è consulente soprattutto per le cure palliative. Dagli incontri casuali per il caffè mattutino scaturisce tra i due operatori una relazione che porta ad uno scambio di esperienze legate al contatto con pazienti oncologici. Si sviluppa così un intreccio di considerazioni sull’importanza della spiritualità nella cura dei malati. In una alternanza di capitoli, medico e sacerdote parlano delle esperienze vissute, dei successi degli insuccessi. La relazione tra di loro diventa fonte di crescita reciproca a vantaggio di loro stessi e, a cascata, dei malati. Fede e scienza non sono in contraddizione, non sono mondi alieni tra i quali non c’è possibilità di comunicazione alcuna; entrambe hanno una finalità comune, quella di aiutare l’uomo malato a non perdere mai la speranza (“Fede è sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi” Paradiso XXIV,64), avvalendosi anche delle conoscenze che la scienza ci offre. In quest’ottica si inserisce la spiritualità sia per il sacerdote o comunque assistente spirituale che per l’operatore sanitario in senso stretto.

          La medicina nasce come scienza per l’uomo. Aggiungo che già Ippocrate, nel 5º secolo avanti Cristo, diceva che la tecnofilia, cioè l’amore per l’arte medica, doveva essere abbinata alla filantropia, cioè l’amore per l’uomo. Il medico ascoltava il malato, la sua descrizione dei sintomi, la sua storia, quindi trattava non tanto la malattia quanto la persona che soffriva. L’evoluzione scientifica ha stravolto nel tempo questa visione della medicina in cui la relazione era un punto fondamentale. I sintomi soggettivi passano in secondo ordine rispetto ai segni oggettivi, per la spiegazione dei quali ci sono a disposizione esami di laboratorio efficaci. Arriva poi l’aiuto degli strumenti diagnostici, sempre più sofisticati, al punto che ci mostrano l’interno del nostro corpo rendendo quasi superfluo l’esame obiettivo. Si passa così dal medico che ascolta i sintomi del paziente al medico che osserva i segni oggettivi e da ultimo al medico che si affida agli strumenti allontanandosi ancora di più dal paziente, dalla relazione con lui, oggetto di indagine e non soggetto portatore di malattia. A tutto ciò si aggiunge che le strumentazioni diagnostiche più avanzate (TAC, RMN, PET, SPECT, ecc) sono molto costose e sollecitano ad una riflessione economica le strutture sanitarie, quelle pubbliche per fornire un’assistenza economicamente sostenibile, quelle private per programmare margini di utile. È pur vero che se nei secoli si è passati dal malato alla malattia, negli ultimi decenni è riemersa la necessità di “umanizzare” la medicina, riportando in primo piano il malato affetto da una malattia rispetto alla malattia che colpisce un malato (vedi Balint, Jaspers). Parallelamente si sono sviluppati studi sulla comunicazione medico-paziente (Levenstein) e sono emerse le proposte della cosiddetta “medicina narrativa”, che si fa carico della storia della malattia del paziente, tenendo conto, oltre che degli eventi biologici, anche del vissuto esperienziale della persona. È la psichiatria soprattutto ad avvertire l’esigenza di in ritorno alla missione iniziale della medicina, quella di essere scienza per l’uomo nella sua integrità bio-psico-sociale. E la psichiatria riconosce gli aspetti spirituali di ogni uomo come parte integrante del suo essere.

          La Chiesa cattolica, che in passato proibiva ai religiosi di sottoporsi alla psicanalisi, col tempo ha riconosciuto che le scienze psichiatriche, psicologiche e sociologiche hanno dato una accelerazione della storia (Concilio Ecumenico Vaticano II). Il dialogo tra psicologia, psichiatria, psicanalisi e pensiero cattolico porta alla convergenza sulla importanza della spiritualità. Si precisa che la spiritualità non coincide con la religiosità, è un termine più ampio, è l’insieme dei valori umani che orientano la vita di una persona quali la rettitudine, la solidarietà; è la lente con cui ognuno di noi legge il mondo e se stesso e ricerca lo scopo della vita. La religiosità rientra nell’ambito della spiritualità, ne è una parte, e trova la sua sorgente nella presenza di un essere superiore in cui credere. Si basa su credenze, pratiche, rituali e simboli che avvicinano al sacro e al trascendente, con connotazioni diverse a seconda del credo specifico in cui è inserita, ad esempio credo cristiano cattolico o cristiano ortodosso, credo ebraico, credo musulmano. Si capisce che è possibile avere esperienze spirituali anche al di fuori della religione.

          La spiritualità da un po’ di tempo, con esperienze però ancora troppo sporadiche, ha cominciato a diventare punto di incontro tra medicina e religione con una integrazione tra due mondi ritenuti troppo diversi e separati tra loro. Ai nostri giorni la Chiesa, e non parlo solo di quella cattolica ma anche di quella protestante e di quella del credo ebraico e musulmano, ha accettato l’idea che la cura pastorale della persona malata tenga conto anche dei valori spirituali. Il dolore non è solo quello fisico ma anche quello psichico e va contrastato su entrambi i piani. La Chiesa deve superare il concetto di “dolorismo” per cui la sopportazione a oltranza del dolore assume un valore etico. Il dolore va contrastato ad ogni livello; così l’assistenza pastorale ammette la collaborazione con le discipline per la salute sia fisico-biologica che mentale che, in buona parte dei casi riescono a togliere il dolore o a renderlo perlomeno accettabile. È iniziato quindi da decenni un percorso comune degli operatori che assistono i malati, dapprima limitato ai reparti di cure palliative, ora in lenta estensione agli altri campi la scienza medica tradizionale ha compreso che oltre agli aspetti biologici deve farsi carico anche di quelli psico-sociali e spirituali. A loro volta gli operatori pastorali non si fermano alla celebrazione della Santa Messa, alla somministrazione dei sacramenti, quale l’unzione degli infermi (che ancora tanti chiamano “estrema unzione”, spauracchio di molti malati gravi ma mentalmente integri, che la assimilano all’ultima sigaretta di un condannato a morte).  Gli operatori pastorali possono essere sia sacerdoti che laici ed è necessario che siano formati adeguatamente a lavorare in un contesto sanitario, a prendere coscienza dei bisogni dei pazienti a tutto campo, siano essi bisogni spirituali che bio-psico-sociali. È un mondo complesso quello della spiritualità. Spesso gli stessi malati faticano a riconoscere i propri bisogni di ordine spirituale, per cui risulta importante che tutti gli operatori sanitari sappiano cogliere le necessità spirituali del malato e le condividano tra loro e con il cappellano. Il cappellano o comunque assistente spirituale deve avere alcune caratteristiche indispensabili per poter espletare questo servizio. Deve conoscere e riconoscere le proprie fragilità ed essere riconciliato con se stesso, in pace. Deve avere una sincera libertà interiore per poter incontrare l’altro senza pregiudizi, per intuire il mistero che c’è in ogni uomo, per avvicinare chi soffre con occhi benevoli, con grande rispetto, con sguardo amoroso ma non pietistico. Serve al cappellano un atteggiamento umile, di ascolto, senza desiderio di proselitismo.

             La relazione deve essere sincera con l’accettazione incondizionata dell’altro, astenendosi dal giudizio. Noi non sappiamo fino in fondo quali pensieri affollano la mente dei malati, soprattutto di quelli affetti da gravi patologie tumorali. Probabilmente loro stessi si chiedono, senza dirlo a noi, che senso abbia una vita segnata dal dolore e da un vissuto di perdita. L’ascolto allora è un’arma importante per riconoscere quei piccoli segni che possono ancora fare intravedere speranze e favorire il recupero del significato del proprio vivere. L’accompagnamento spirituale ovviamente trova terreno già fertile del malato, cristiano, cosciente che la vita per lui volge al termine ma non si conclude con la morte. In ogni caso non deve suscitare stupore il sorgere di dubbi, la fede che è messa a dura prova, il sentirsi abbandonato da tutti, dagli uomini e dallo stesso Dio (Gesù in croce docet). Il dolore è un grande mistero anche per chi crede, perché c’è un’apparente contraddizione nell’agire di un Dio che ama il figlio e lo lascia poi morire in croce. Tutti gli operatori sanitari, compreso il cappellano devono comunque restare ancorati alla realtà e non alimentare false speranze perché le illusioni hanno vita breve e poi fanno precipitare la situazione in un baratro ancora più profondo.

          Concludendo questa sintesi, le esperienze del cappellano e del medico che hanno redatto questo libro ci insegnano che la spiritualità è parte integrante del percorso del malato e va ricercata da tutti gli operatori che a qualsiasi titolo gli si avvicinano, in sinergia e in piena condivisione tra loro, per poter accompagnare il malato nel cammino finale della sua vita. L’augurio è che le istituzioni preposte facciano rientrare la spiritualità nei programmi di insegnamento non solo dei cappellani o di altri assistenti spirituali ma anche di medici, infermieri e quanti altri si confrontano ogni giorno con la persona che soffre. C’è bisogno di operatori preparati e formati.

Alberto Zanoni

Medico Geriatra

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