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(3^ parte)
Un esponente moderno dell’antica tradizione che collega amore umano e Assoluto (cioè Dio) è il grande poeta indiano Tagore (1861 – 1941), premio Nobel per la letteratura nel 1913. Ascoltiamolo:
In una lirica egli esprime quanto il suo fragile vaso, cioè il suo cuore, sia aperto ai “doni infiniti” di chi l’ha fatto.
Mi hai fatto senza fine: questa è la tua volontà.
Questo fragile vaso continuamente tu vuoti e continuamente riempi di vita sempre nuova.
Questo piccolo flauto di canna hai portato per valli e colline: dentro di esso hai soffiato melodie eternamente nuove. Su queste mie piccole mani scendono i tuoi doni infiniti. Passano le età, e tu continui a versare e ancora c’è spazio da riempire.
Con un cuore piccolo e grande insieme, l’uomo ama cose terrene, ma cerca oltre tali cose, cerca soprattutto il rapporto con l’amore senza limiti.
Il tono del poeta è efficace nel rendere l’idea che “l’amore basta all’amore”, ma è anche una grande fatica, forse la più dura che attenda l’uomo nella sua vita, perché è una realtà più grande di lui.
Vi mostrerò la via
L’apostolo Paolo ci illumina le grandezze e le esigenze di tale amore.
Da sottolineare che in Paolo è evidente il rapporto tra l’amore che preme alla porta d’ogni cuore umano e il bisogno di assoluto. Anzi egli va oltre: assicura che proprio nell’amore, che è il compendio di tutte le leggi e dell’intero decalogo (Rom 13,10), noi siamo
esauditi dall’Alto così che l’immenso anelito di cose supreme viene soddisfatto per “grazia”, cioè per l’incontro che il cuore umano può e deve fare con il cuore di Cristo, Dio fatto uomo.
Paolo e ogni credente autentico avverte esperienzialmente che, nella docilità-amicizia con Cristo, alla maniera dei Dodici, gli viene dato un “cuore nuovo” con cui partecipa a tutto un diverso modo di percepire sé, di cogliere la presenza di Dio, di vivere il rapporto con gli uomini. Ama “in Dio”, vibra d’affetto “nel Signore Gesù” e la sua vita è, per questo tipo di amore, orientata secondo tutta una logica più piena e sicura.
E’ la logica della prima lettera di Paolo ai Corinti, in quel capitolo 13 “senza il quale un uomo non è più uomo” (Loew). In esso si vede l’agape” quale incontro dell’amore riversato da Dio in cuore umano così che questo ormai agisce in modo perfettamente libero, superando tutte le barriere del possibile falso amore, cioè dell’egoismo.
In quest’inno di Paolo sulla carità si indica la chiara supremazia dell’aspetto religioso, ma si parla essenzialmente dell’amore verso il prossimo, quindi dell’amore umano, però ormai rinnovato, in cui tutte le sfumature della nostra natura nei suoi aspetti positivi vengono riprese e garantite.
Ecco il testo immortale dell’Apostolo rivolto ai gentili.
“Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte…
La carità è paziente, è benigna la carità…
La carità non avrà mai fine.
Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1Cor 12,31; 13,1-13).
La fede come reciprocità di due fiat, di due sì
La fede è la risposta all’atteggiamento kenotico (abbassamento, cfr. Fil. 2,7) di Dio. Proprio perché l’uomo può dire di no, il suo sì assume una grande risonanza e si pone in sintonia con il sì di Dio. E proprio per questo Dio accetta di essere rifiutato, misconosciuto, rigettato, estromesso dalla sua creazione. Sulla croce Dio, contro Dio ha preso le parti dell’uomo; come dice Péguy: “Dio è stato dell’uomo”.
Nicola Cabasilas lo afferma meravigliosamente: “Dio si presenta e dichiara il suo amore… rifiutato, attende alla porta…. Per tutto il bene che ci ha fatto non domanda che il nostro amore; in cambio ci libera da ogni debito” (La vita in Cristo). Il cristiano è un uomo
miserabile, ma egli sa che c’è Qualcuno ancor più miserabile, questo Mendicante d’amore alla porta del cuore: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Il figlio viene sulla terra per sedersi alla “tavola dei peccatori”. L’amore non può essere che oblazione fino alla morte. Dio muore affinché l’uomo in Lui viva.
La fede è la reciprocità di due sì, l’incontro dell’amore discendente di Dio e dell’amore ascendente dell’uomo. La voce di Dio è silenziosa ed esercita una pressione infinitamente discreta, mai irresistibile.
Che l’uomo sia libero non significa affatto che sia la causa della sua salvezza; significa piuttosto che Dio stesso non può costringere il suo amore. La fede dice: “Offri la tua piccola ragione e ricevi il Logos” – “dona il tuo sangue e ricevi lo Spirito”. L’esperienza della fede è prima di tutto la risposta; la semplice invocazione del nome di Dio rende immediatamente presente quel Qualcuno che è misconosciuto ed insieme intimamente conosciuto da sempre.
Le prove sono insufficienti, perché Dio è il solo criterio della sua verità. In ogni pensiero su Dio è Dio che si pensa nello spirito umano. La prova filosofica dell’esistenza di Dio significa che la fede non s’inventa, che la sua origine non è arbitraria; la fede è un dono, ma offerto a tutti affinché Dio possa stabilire la sua dimora in ogni uomo. Secondo i Padri della Chiesa lo Spirito Santo è il dono presente in modo personale e per questo la domanda al Padre della sua venuta non conosce mai rifiuto, perché ciò contraddirebbe alla natura stessa dello Spirito: “Quanto più il Padre vostro celeste donerà lo Spirito Santo a quanti lo imploreranno!”, dice il Signore.
Conclusione
La preghiera silenziosa e profonda ci mette di fronte alla verità di noi stessi e alla verità di Dio.
La verità di noi stessi è che siamo fatti per amare e abbiamo bisogno di essere amati (cfr. Redemtor Hominis, n. 10).
La verità di Dio è che Dio è amore, un amore misterioso ed esigente, ma insieme tenerissimo e misericordioso. Questo amore con cui Dio ci avvolge è la chiave della nostra vita, il segreto del nostro agire.
Mons. Egidio Faglioni