newsUCIPEM n. 958 – 16 aprile 2023

newsUCIPEM n. 958 – 16 aprile 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

O2 ABUSI                                              Abusi, mosaici e milioni, ecco la società segreta di Rupnik

05 ADOTTIVITÀ                                    Siamo tutti figli adottivi

07 Centro Internaz. Studi Famiglia Newsletter CISF – n. 14,12 aprile 2023

09 CENTRO GIOVANI COPPIE           Settimo e ultimo incontro del ciclo 2022-2023

09 CHIESA NEL MONDO                    I vescovi francesi vanno avanti. Più trasparenza e spazio ai laici.

10                                                           Vescovi portoghesi: sospendere i preti accusati di abusi? Andiamoci piano

12 CITTÀ DEL VATICANO                    Vaticano accetta la sfida dei nativi americani e fa i conti con la dottrina della scoperta

14 CLERICALISMO                                Il paradosso del clericalismo. La patologia ecclesiale e le forme storiche della “uscita”.

17 DALLA NAVATA                              II Domenica di Pasqua (in Albis)  – Anno A

17 COMMENTO                                   Commento di p. Enzo Bianchi

19 DIRITTI                                             Al centro i diritti dei bambini

21 DONNE NELLA (per la ) CHIESA L’uomo che le vide arrivare

23                                                          Sull’uso equivoco di due principi intorno al ministero femminile.

26 FORUM ASS. FAMILIARI                Assegno unico: Bordignon “ancora troppi nuclei non sono stati raggiunti”.

27 FRANCESCO VESCOVO ROMA    Papa Francesco: all’Usmi, “il Sinodo non è un Parlamento, una raccolta di opinioni”

27 MIGRANTI E RIFUGIATI                 “Italia non impara da esperienza con ucraini e non esce da logica emergenza”

29 NOI SIAMO CHIESA                       Vittorio Bellavite ci ha lasciato ed ha raggiunto la Meta celeste

30 OMOFILIA                                        Dichiarazione di suore Usa in solidarietà con le persone transgender

31                                                           Uomini di Chiesa, tra mascolinità e ideale sacerdotale

33 PACE                                                 Pacem in terris, Bettazzi e i 60 anni di una rivoluzione

34 PASTORALE                                      Proposte pastorali per single: l’inchiesta di “Jesus”

34 RESURREZIONE                               Gesù sotto altra forma. L’enigma del risorto

35 SIN0DO SULLA SINODALITÀ        Conclusa la “tappa continentale” del Sinodo. Sotto l’occhio vigile del Vaticano

37                                            Al via i lavori per il documento di lavoro a base dell’assemblea del prossimo ottobre

37                                                          L’attesa di un futuro diverso per la Chiesa

39 TESTIMONI                                      L’irrefrenabile radicalismo evangelico di Don Tonino Bello

40                                                           Tonino Bello, vescovo laico che ha insegnato la pace alla Chiesa.

ABUSI

Abusi, mosaici e milioni, ecco la società segreta di Rupnik

Si chiama “Rossoroblu” la società fondata nel 2007 da Marko Rupnik «per la creazione e posa in opera, in laboratorio e sul luogo, di mosaici, vetrate, affreschi, murales, sculture, pitture in tutte le varie tecniche ed arti». La srl, con sede a Roma in via Paolina 25, dove si trova il Centro Aletti, appartiene per il 90% a Rupnik e per il 10% a Manuela Viezzoli, una ex sorella della comunità Loyola che ora fa parte del “cerchio magico” delle sue fedelissime, le laiche consacrate della Comunità della divino-umanità.

In almeno due casi abbiamo la prova che è stata questa società a trattare le commissioni dei mosaici: in occasione dell’imponente lavoro al santuario di san Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo e per i lavori di decorazione nella chiesa del cimitero di Lubiana.

Il famoso artista, il gesuita accusato di abusi nei confronti di diverse suore, non poteva scegliere un nome più evocativo per la srl che gestisce le commissioni e i pagamenti dei suoi mosaici. Rosso, oro e blu sono i suoi colori: il rosso a indicare la divinità, il blu l’umano e il giallo la santità secondo la tradizione cristiana del primo millennio, come ha più volte spiegato lo stesso Rupnik. Sono il suo marchio di fabbrica, come i grandi occhi neri delle figure sacre, ritratte con le pupille dilatate a occupare tutta l’orbita. Una società di cui nemmeno il superiore di Rupnik, padre Johan Verschueren, delegato del Preposito generale della Compagnia di Gesù per le Case internazionali dei gesuiti a Roma, era a conoscenza. «È una notizia completamente nuova per me e anche abbastanza scioccante», ha detto, interpellato da “Domani”. Possedere una società non è ammissibile per un gesuita, «perché è contro il voto di povertà» ha aggiunto padre Verschueren. Chi allora ha permesso a Rupnik di gestire direttamente i profitti derivati dalle sue opere?

L’artista e il sacerdote. Più si diffondono le testimonianze delle vittime (un’altra religiosa, suor Samuelle, qualche giorno fa ha raccontato al giornale francese “La vie” le molestie subite da Rupnik al Centro Aletti), più quei rossi, gialli e blu accesi di Rupnik sembrano incombere su chi li osserva e sollevano non pochi dubbi sul futuro delle opere. Si può distinguere il lavoro dell’artista dalle responsabilità del sacerdote? Al momento a Rupnik è vietato accettare nuove commissioni di lavori artistici, ma l’interdizione si estende anche all’atelier artistico del Centro Aletti di cui lui è il fondatore e l’ispiratore?

Domande imbarazzanti, perché coinvolgono non solo la reputazione di Rupnik ma il futuro stesso del Centro Aletti e di non poche istituzioni religiose e chiese in tutto il mondo. Interrogativi spinosi che qualcuno ha cominciato a porsi: il 27 marzo il vescovo di Tarbes e Lourdes Jean-Marc Micas e il rettore del santuario di Lourdes Michel Daubanes hanno affermato in un comunicato ufficiale che «i mosaici di padre Rupnik che decorano la basilica del santuario di Lourdes potrebbero essere rimossi a causa della sofferenza delle vittime che vengono al santuario in cerca di conforto». Rupnik era stato anche nominato responsabile della decorazione interna ed esterna della nuova chiesa di Saint-Joseph-le Bienveillant, la cui costruzione è iniziata diversi mesi fa nella parrocchia di Montigny-Voisins, non lontano da Parigi. L’8 dicembre 2022 scorso, però, venuto a conoscenza delle accuse al gesuita, il vescovo di Versailles Luc Crepy, d’accordo con don Pierre-Hervé Grosjean, parroco di Montigny-Voisins le Bretonneux, ha deciso di interrompere ogni collaborazione. Segnali importanti che arrivano dalla Francia, un paese sempre un passo avanti sul tema degli abusi clericali e del rispetto delle vittime, e che presto potrebbero fare scuola anche altrove.

Il patrimonio artistico. In attesa del responso della Compagnia di Gesù, che a breve dovrebbe pronunciarsi sulla sorte del sacerdote e che ha già detto di ritenere attendibili le denunce raccolte nei mesi scorsi dal team referente incaricato di ascoltare le vittime, è quindi interessante approfondire come funziona “l’industria” delle opere di Rupnik. Oltre 220 mosaici, affreschi e vetrate in chiese e istituzioni religiose – questo il numero dei lavori eseguiti dal Centro Aletti dal 2000 al 2022 – a cui bisogna aggiungere i quadri, le vetrate e le opere funerarie di proprietà di privati. Una produzione enorme e diffusa in tutto il mondo, frutto del pensiero di Rupnik e dell’opera dell’atelier del Centro, che si propone «come via per aiutare un nuovo incontro tra l’arte e la fede, tra le diverse chiese e gli artisti», come si legge sul sito del Centro. Un «permanente cantiere comunitario», che si occupa quasi esclusivamente di arte liturgica e di cui fanno parte artisti e architetti, «in modo da poter gestire tutte le fasi del lavoro, dalla progettazione dello spazio ecclesiale fino alla realizzazione dell’arredo liturgico e delle opere d’arte». Senza entrare nel merito del valore artistico di queste opere, siamo certamente di fronte a un patrimonio considerevole dal punto di vista economico. In particolare i mosaici, che hanno reso famoso Marko Rupnik a livello internazionale, hanno prodotto ricavi stimati in decine di milioni di euro. E qui dunque sorge la domanda: quanto costa un mosaico realizzato da Rupnik e dalla sua corte di artisti?

Il costo dei mosaici. Reperire i dati è tutt’altro che semplice. Il Centro Aletti non ha risposto alle domande di “Domani” e sul sito non c’è traccia di cifre, né si trova di più sui siti delle istituzioni che hanno commissionato le opere, come se fosse di cattivo gusto parlare di denaro in mezzo a tanta professione di fede. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo rintracciato il preventivo per il mosaico di 250 metri quadri realizzato nel 2017 sulla facciata esterna del santuario della Madonna dei Fiori di Bra (Cuneo): ammontava a 250mila euro (coperti interamente dai fedeli), ma la cifra è lievitata in corso d’opera.

Il lavoro al santuario di san Pio, invece, è costato ai frati minori cappuccini più di sei milioni di euro già dieci anni fa (il cantiere è stato ape to dal 2009 al 2013), secondo quanto riferisce una fonte interna. Si tratta di un percorso iconografico di oltre 2.400 metri quadri, pensato per arricchire la chiesa costruita da Renzo Piano e che comprende il mosaico della rampa di accesso alla chiesa inferiore, gli arredi della cripta, il crocefisso, l’altare esterno e infine la decorazione della cappella del Santissimo sacramento.

Possiamo quindi soltanto immaginare quale cifra da capogiro richieda il progetto, tuttora in corso, al santuario nazionale dell’Aparecida, nello stato di San Paolo in Brasile, la più grande chiesa del continente americano e la seconda al mondo dopo San Pietro in Vaticano. Qui Rupnik e la sua équipe hanno già terminato di decorare l’ingresso nord della basilica, 2.300 metri quadri di mosaico con scene dall’Antico testamento. Restano ora le altre tre facciate da ultimare. Interpellati da “Domani” sui costi dell’opera e sulle previsioni per il prossimo futuro (chi completerà il lavoro? Sarà appaltato ad altri?), i responsabili del santuario brasiliano hanno preferito non rilasciare dichiarazioni.

In Slovenia. Parlare di Rupnik non è facile nemmeno quando si tratta del suo paese natale. Secondo i dati pubblici forniti dalle stesse parrocchie e dai media sloveni, già vent’anni fa il prezzo dei mosaici di Rupnik oscillava tra i mille e i tremila euro al metro quadro, e il prezzo è aumentato negli anni successivi di pari passo con la notorietà del sacerdote. Le dimensioni delle opere variano dai 50 ai 200 metri quadri, quindi il ricavo totale dei mosaici sloveni arriverebbe a circa 6 milioni di euro. In Slovenia, dove l’atelier artistico del Centro Aletti, secondo i dati ufficiali, ha realizzato 38 opere, i parroci delle chiese che sfoggiano i mosaici sono quasi tutti molto reticenti a rivelare l’esito delle trattative.

A Semič, piccolo comune vicino al confine con la Croazia, Rupnik ha realizzato i mosaici per la cappella di santa Teresa del Bambin Gesù nel 2019: intervistato da Domani sull’opera, il parroco Luka Zidanšek parla addirittura di «accordo segreto» e si rifiuta di rivelare quanto è stato pagato il lavoro. Nella chiesa della santa Vergine di Polje, a Lubiana, dove i mosaici non solo ricoprono le pareti del battistero e della cappella della santa Vergine ma adornano tutta la facciata della chiesa, le cose non sono andate meglio: Janez Bernot, il parroco che ha commissionato il lavoro (realizzato fra il 2017 e il 2020), accoglie con freddezza la domanda e dice che «non ricorda» e che comunque «si è trattato di un accordo commerciale riservato».

Per quanto riguarda gli edifici civili, i mosaici di Rupnik svettano per svariati metri di altezza all’interno del complesso residenziale “Vila urbana”, nel centro storico della capitale, a pochi passi dalla cattedrale. Qui, invece del Cristo, si vede il drago, simbolo della città di Lubiana, ma il tratto dell’artista è inconfondibile. Il valore dell’opera non è pervenuto. Del costo dei lavori realizzati prima del 2012 abbiamo qualche notizia in più grazie alla tesi di laurea in ingegneria civile di Arnold Oton Ciraj su “Aspetti di spesa della costruzione di nuove strutture sacrali”. Nel descrivere la metodologia e i risultati, l’autore ammette che è stato arduo ottenere dati e che le arcidiocesi di Lubiana e Maribor, le due più grandi diocesi slovene, lo avevano addirittura avvertito in anticipo che sarebbe stato molto difficile ottenere informazioni sui costi di costruzione. «La maggior parte non ha nemmeno risposto – scrive Ciraj nella tesi – In molti casi le parrocchie, per vari motivi, non conservano questi dati e ci si chiede se siano mai esistiti su carta». Quando esistono, sono spesso lacunosi o approssimativi. «Spesso i lavori venivano pagati in contanti e non se ne fa menzione nei registri finanziari», sottolinea l’ingegnere.

Dei quaranta committenti interpellati, quasi nessuno ha voluto dichiarare l’esito degli accordi finanziari. Ciraj è riuscito a ottenere informazioni sul prezzo delle opere di Rupnik solo da tre parrocchie slovene, dove sono presenti i mosaici più imponenti: san Marco evangelista a Capodistria, il complesso cimiteriale di santa Croce a Lubiana e la chiesa di sant’Elena a Pertoče, vicino al confine con l’Ungheria. Secondo i media cattolici sloveni dell’epoca, la chiesa di Peritose ha pagato 250mila euro nel 2009 per un mosaico di 92 metri quadri che occupa tutto il presbiterio, mentre la parrocchia di san Marco a Capodistria ha corrisposto circa 100mila euro nel 2003 per un mosaico di 115 metri quadri, a cui si aggiungono i 22mila euro donati dalla società per azioni del porto di Capodistria per un nuovo mosaico di 40 metri. Per gli 80 metri quadri del mosaico nella chiesa di Tutti i santi nel cimitero di Lubiana, invece, la stima del costo, calcolata sul prezzo al metro quadro, arriva facilmente ai 150mila euro. Inoltre, si apprende dal sito della parrocchia di Semica, a 70 chilometri da Lubiana, che nel 2019 aveva calcolato di spendere 50mila euro per un mosaico di 70 metri quadri, senza però aver ancora ricevuto un attendibile preventivo di spesa. Alcune parrocchie, a quanto pare, non hanno infatti avuto dal Centro Aletti una esatta stima dei costi, come nel caso della piccola parrocchia di Vrhpolje, a trenta chilometri dal confine italiano, dove i lavori per il mosaico di 180 metri quadri (all’epoca il più grande mosaico di Rupnik in Slovenia), iniziati nel 2013, sono stati terminati anni dopo per la difficoltà nel reperire i fondi necessari.

Le offerte dei fedeli. Un articolo del 2016, uscito sul periodico Novi Glas, conferma le difficoltà incontrate dal sacerdote responsabile della parrocchia, don Janez Kržišnik. «L’enorme quantità di lavoro – spiega il prete –

ha richiesto costi enormi che non possono nemmeno essere stimati con precisione». I mosaici di Rupnik sono infatti finanziati principalmente con i doni dei parrocchiani e anche per questo motivo non si capisce tanta reticenza nel rendere note le cifre. Di fronte a questa mancanza di trasparenza, è logico chiedersi dove siano finiti i soldi. Chi ha incassato il denaro? Chi ci guadagna?

L’attuale parroco di san Marco, don Ervin Mozetič, non sa dire a chi sia stata corrisposta l’intera cifra spesa nel 2003 (più di 122mila euro), mentre il sacerdote incaricato all’epoca, Jožef Koren, ricorda soltanto che si trattava di un bonifico bancario su un conto fornitogli da Rupnik. Lo stesso succede al cimitero di Lubiana: il sacerdote responsabile, Peter Možina, non era presente nel 2009, quando sono stati realizzati i lavori. Il parroco precedente, Tomai Prelovšek, raggiunto al telefono da “Domani”, invece non ha dubbi: il pagamento è stato effettuato con un versamento direttamente a quella che gli viene presentata come «la società del Centro Aletti», la Rossoroblu srl. Questa società in realtà è di Rupnik, perché il gesuita la possiede al 90%. Dalla visura camerale si evince infatti che è stata fondata nel settembre 2007 da Rupnik e da Viezzoli, con un capitale sociale di partenza di diecimila euro; alla fine del 2022 risulta avere 15 dipendenti, mentre il bilancio dell’anno precedente registra un fatturato di 1.176.500 euro e un utile di 119.607 euro. L’andamento societario è in crescita (più 32,50% nel 2019) e l’utile negli ultimi anni è sempre aumentato, passando dai 41.490 euro del 2017 fino ai 95.481 euro del 2020. Amministratrice unica e rappresentante dell’impresa è Manuela Viezzoli e i soci risultano essere sempre loro due, Viezzoli e Rupnik. Al 31 dicembre 2021, nell’attivo dello stato patrimoniale, la società presenta, tra l’altro, 593.713 euro di crediti, quasi tutti crediti commerciali. Questo credito è aumentato nell’esercizio 2021 di 117.015 euro, che corrisponde quasi esattamente all’utile d’esercizio della società (119.607 euro). La società, insomma, va a gonfie vele.

Il bilancio appare comunque scarno rispetto al peso delle committenze evidenziate: altro denaro potrebbe essere passato semplicemente «di mano in mano» come testimonia Ciraj nella sua tesi? Denaro che, lo ricordiamo, arrivava soprattutto dalle collette dei fedeli. I fondi della società Rossoroblu potevano essere usati per finanziare qualsiasi attività: per esempio – ma è solo un’ipotesi – la “chiesa dell’uomo nuovo”, la cui costruzione a Roma ovest, secondo una nostra fonte, era già stata annunciata al clero dal vicario generale della capitale, il cardinale Angelo De Donatis.

Da notare anche che, nonostante le grandi entrate e i profitti dei mosaici, il Centro Aletti ha ben due fondazioni che chiedono contributi per finanziarne le attività, la fondazione Agape a Roma e la fondazione Centro Aletti, creata in Slovenia nel 2002 da Marina Štremfelj, un’altra ex sorella della Comunità Loyola. Secondo il sito web del Centro Aletti, la fondazione slovena è stata creata con lo scopo specifico di «sostenere e incoraggiare, anche finanziariamente» le attività dell’Aletti di Roma. Non è chiaro come pensasse di farlo, visto che i bilanci mostrano entrate basse e addirittura numeri in rosso da alcuni anni.

Rupnik, se pur convocato ripetutamente, si è finora rifiutato di presentarsi al suo superiore, padre Verschueren. Il suo caso è un dossier sempre più scottante, visti i tanti elementi problematici che lo caratterizzano: gli abusi sulle ex sorelle della Comunità Loyola, le testimonianze delle vittime rese al team referente della Compagnia, la scomunica per aver assolto in confessione la donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale, il ruolo, ancora tutto da investigare, avuto dal Centro Aletti nel coprire e avallare la condotta a dir poco spregiudicata del suo fondatore. A questo, oggi, si aggiungono gli ingenti guadagni realizzati negli ultimi vent’anni con i mosaici.

Davvero niente male per un sacerdote che ha fatto voto di castità, povertà e obbedienza.

Federica Tourn e Maija Zidar     “Domani”           15 aprile 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202304/230415tournzidar.pdf

ADOTTIVITÀ

Siamo tutti figli adottivi

Nella storia è stato evidente un fatale fraintendimento: si sono giustificate con la religione alcune posizioni politiche con un duplice effetto, quello di attribuire a Dio cose che non ha mai detto e di deresponsabilizzarci dalla fatica di fare delle scelte rispetto a nuove sfide e nuovi contesti. Così è stato per giustificare la schiavitù, o la negazione di certi diritti alle donne come per esempio alla fine dell’800 quello di voto. Tuttavia, come per esempio dimostrò l’equipe delle studiose riunitesi attorno al progetto della Bibbia delle donne capitanato da  Elizabeth Cady Stanton,(α1815.ω1902) alla prova dei testi le posizioni non appaiono poi così ovvie. In Italia ultimamente nel discorso pubblico questo fraintendimento avviene di frequente ripiombandoci con certi dejà vu indietro nel tempo. Faccio due esempi:

In un senso simile lo incontriamo anche nel passo 1 Cor 4,14-15. Paolo utilizza qui l’analogia padre-figlio nei confronti dei cristiani da lui generati nella fede al Vangelo. Paolo si riferisce spesso ad un suo ruolo di paternità nei confronti dei primi cristiani (Filemone 10). Sappiamo che egli utilizza per sé anche la metafora della madre come in 1Ts 2,7-8: «siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature» o ancora in 1 Cor 3,1-3, ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano.

Restiamo alla valenza teologica dell’adozione: è davvero strano a fronte dei testi scritturistici che siano proprio coloro che si richiamano a valori cristiani ad insistere così tanto sulla necessità biologica della figliazione, quasi cancellando i tanti anni di predicazione e riflessione che la Chiesa ha fatto sulla paternità e maternità responsabile, quando in tempi non troppo remoti si collocava tra i più accaniti fautori del superamento delle logiche biologiche.

Non dimentichiamo poi che è proprio nella riflessione su Gesù Cristo – che si chiama in termini tecnici «cristologia» – che il cristianesimo afferma con forza che di figli naturali ve n’è uno solo, Gesù Cristo il Figlio di Dio, il resto dell’umanità dovrebbe considerarsi figlia di adozione. Nel bel testo della Lettera ai Romani in cui si descrive tutta la creazione nel travaglio delle doglie di un parto, San Paolo ricorda che siamo tutti figli adottivi e ciò che lo attesta è una questione spirituale non carnale: «...avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria».

Quell’intermezzo tra l’essere venuti al mondo e l’essere adottati è descritto da Paolo come una sofferenza: «gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli» Rm 8, 23 e una tale sofferenza non è patita solo dagli esseri umani, ma da tutta la creazione (v. 19) anzi dallo Spirito stesso che in vista di permettere tale «filiazione spirituale» è all’opera con sforzi inenarrabili (v. 26).

La genitorialità è sempre adottiva. Ha scritto Massimo Recalcati che «la genitorialità è sempre adottiva» perché essa non si realizza per gli esseri umani nel momento in cui si viene al mondo, ma quando vi è il riconoscimento simbolico del genitore che riconosce in quel «venuto al mondo» suo figlio. Questo ha fatto Giuseppe, prototipo del padre che accoglie un figlio biologicamente non suo, permettendo al bimbo tutela, riconoscimento e accoglienza; questo accade anche nell’episodio del Battesimo quando Gesù uscendo dalle acque arriva alla consapevolezza della sua missione descritta dal testo come una voce che dai cieli gli dice «Tu sei mio figlio» (Mc 1,11; Lc 3,22). È quel riconoscere giuridicamente e simbolicamente («tu sei mio figlio») a rendere propriamente figli, non la legge della genetica fatta di ovuli e spermatozoi che ci fa «venire al mondo come conigli», cantava De Gregori. Quest’ultima forma di generazione, direbbe qualcuno, appartiene agli animali.

A fronte di un messaggio biblico così ricco, affatto sporadico nei testi neotestamentari e che struttura i nuclei stessi della fede, della teologia e dei dogmi cristiani, riesce davvero difficile capire che viaggio facciano i pensieri di chi attribuisce alla religione una posizione come quella recentemente assunta da alcuni politici sulla cancellazione delle registrazioni alla nascita di bambini non nati biologicamente dalle persone che intendono mettere in atto il più spirituale degli atti simbolici umani: l’atto simbolico della genitorialità adottiva, quella stessa che Dio ha fatto da sempre in Cristo con il genere umano e che ci ha resi tutti figli adottivi e capaci di amare come lui. Forse è bene ricordare che Giovanni Paolo II in un testo che per altro non brilla per aperture nei confronti dei modelli patriarcali ha scritto che «il mistero dell’eterno ‘generare’, che appartiene alla vita intima di Dio…in se stesso non possiede qualità ‘maschili’ né ‘femminili’. È di natura totalmente divina. È spirituale nel modo più perfetto, poiché ‘Dio è spirito’ (Gv 4, 24), e non possiede nessuna proprietà tipica del corpo, né ‘femminile’ né ‘maschile’». (Mulieris Dignitatem 8).

Appare già alquanto disumano negare ad un bimbo il diritto ad essere riconosciuto come figlio a livello legale, che poi si debba giustificare questa aberrazione con riferimenti religiosi risulta perfino raccapricciante. Ma l’Italia è analfabeta in questioni teologiche, con una colpa diretta di chi ha voluto tenere – forse con l’illusione di meglio controllarla – la formazione teologica al di fuori dalle Università statali. Il risultato è – tra l’altro – quello di avere una classe politica che stravolge il messaggio evangelico per proclamarsi cattolica e dall’altra un popolo di credenti incapace di separare il grano dal loglio. Nella recente discussione che ha ruotato attorno all’indicazione ai sindaci di annullare le registrazioni dei bambini alla nascita infatti non si è stati in grado di tenere distinti discorsi contro l’omogenitorialità da quelli contro la Gpa (gestazione per altri). Viene il dubbio che si siano tenuti legati per colpirli entrambi. Non si intende qui affermare infatti che la Bibbia sia univoca nel dare indicazioni morali o nel dettarci l’agenda bioetica dello sviluppo tecnologico. Proprio perché non lo è, è lecito avere posizioni sfumate e differenti su queste grandi spinose sfide. Innanzitutto sarebbe bene imparare a tenere distinti i problemi che ricadono sotto l’ombrello della Gpa da quelli che ricadono sotto l’ombrello delle coppie omogenitoriali e dei diritti dei bambini. Ma anche di gestazione per altri la Bibbia parla e forse non sempre nel modo in cui ce lo aspetteremmo. La matriarca Sara infatti si serve di Agar (Gen 16) per concepire il desideratissimo figlio che tra l’altro è stato promesso da Dio stesso e non arriva; lo stesso fanno le mogli di Giacobbe (sì due) Rachele con Bila e Lia con Zilpa (Gen 30).

Su Maria, madre del Figlio di Dio, andrebbe fatto un discorso diverso, benché nella lettura classica esso potrebbe ben ritenersi un caso di un affitto di utero, e in questo caso da parte di Dio stesso. Per non mettere troppa carne al fuoco forse è bene tornare in dettaglio su certe questioni in un prossimo contributo.

Selene Zorzi      “Rocca” n. 8      15 aprile 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202304/230409zorzi.pdf

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n. 14, 12 aprile 2023

§ Natalità al minimo storico, il “caso Italia” rimbalza in tutto il mondo.

https://unicalmondo.musvc2.net/e/t?q=3%3dBZ7YFZ%26n%3dS%26y%3dX6S%26z%3dX4SKZ%26w%3d85PrI_3wUp_D7_tqdv_46_3wUp_CByM8.EuJlP.kJ_3wUp_CBkJ_3wUp_CBh9wAu_HbyR_Rq_NSsa_XhRKX5_Hby1l7cR_Rqf6_HbyR_RqEp4t9cJzNk-1yJq-RKX4.FoB%26f%3dC6Ox3C.JgJ%26tO%3d8RJf

Dopo l’uscita dei dati Istat con gli indicatori demografici del 2022, che segnano la natalità al minimo storico (1,24 il numero medio di figli per donna), il “caso Italia” è rimbalzato su tutti i giornali stranieri: un aggiornamento preoccupato dal TG di Sky Australia    YouTube 23”al link                                          www.youtube.com/watch?v=9sHvOLLeDeA

§ Il simulatore INPS sull’assegno unico: strumento digitale “a misura di famiglia”.

https://servizi2.inps.it/servizi/AssegnoUnicoFigli/Simulatore

 Può essere utilizzato in modo semplice, senza password, SPID o identità elettroniche, e consente ad ogni cittadino di prevedere l’entità dell’assegno unico: è il simulatore di calcolo introdotto dall’Inps che  consente a ogni famiglia una prima verifica, da fonte affidabile e istituzionale per capire un po’ meglio, con i semplici passaggi proposti dal software, quali sono gli elementi dell’assegno unico che fanno la differenza, oltre che prevedere cosa succederà, ad esempio in caso di arrivo di un figlio in più. Ne parla questa settimana il direttore Cisf, Francesco Belletti, su Famiglia Cristiana.

www.famigliacristiana.it/articolo/simulatore-inps-per-lassegno-unico-quando-linnovazione-digitale-aiuta-davvero.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_12_04_2023

§ Famiglia e digitale: sfide educative per genitori ed educatori. È il titolo del seminario che si terrà il prossimo 20 aprile (ore 17.30) presso la Villa Casati Stampa di piazza Soncino a Cinisello Balsamo (MI) a cura del Cisf e del Centro Culturale San Paolo, con la collaborazione di alcune realtà del territorio e il patrocinio del comune di Cinisello Balsamo [prossime info sulla pagina Facebook del Cisf]

§ Nel decennale del pontificato, “don Zilli” e gruppo San Paolo lanciano una raccolta fondi per borse di studio in Congo. Si devono sostenere i giovani, perché studino e vadano avanti. Sono una delle ricchezze di questo paese”: a fronte dell’appello lanciato da papa Francesco durante il viaggio in Congo nel febbraio scorso, il Gruppo Editoriale San Paolo www.associazionedonzilli.it ha risposto promuovendo il progetto di solidarietà dell’Associazione don Zilli: intitolare a Papa Francesco, per il suo decennale di pontificato, una raccolta fondi per l’istituzione di borse di studio a favore degli studenti, seminaristi e laici, della Facoltà di comunicazione dell’Università Saint Augustin di Kinshasa                                                                                           www.donaperilfuturo.it

§ Anziani, costituito l’intergruppo parlamentare per l’invecchiamento attivo. Presentato il 29 marzo al Senato, su iniziativa del Sen. Ignazio Zullo (FdI) e dell’On. Paolo Ciani (PD-IDP), in collaborazione con HappyAgeing – Alleanza Italiana per l’Invecchiamento Attivo, l’Intergruppo si propone di sostenere le politiche in favore degli anziani in particolare nelle aree rilevanti quali immunizzazione, alimentazione, attività fisica, screening e corretto utilizzo dei farmaci [a questo link il comunicato stampa].

§ Giusti gli aumenti nel contratto collettivo badanti, ma le famiglie vanno sostenute.

www.quotidianosanita.it/cronache/articolo.php?articolo_id=111912

È quanto esprimono in una lettera aperta inviata al governo 25 organizzazioni nazionali, secondo cui gli aumenti previsti dal nuovo Contratto collettivo nazionale per colf, badanti e collaboratori domestici è “un atto che giustamente adegua le retribuzioni, mediamente molto basse, riconosciute a chi assicura assistenza domestica presso milioni di famiglie italiane”. D’altra parte, senza un adeguato riconoscimento fiscale di queste spese e con una contribuzione del Fondo per la non Autosufficienza quasi irrilevante, scrivono le associazioni, questi aumenti andranno a gravare solo sulle famiglie, con conseguenze come il ricorso al lavoro irregolare, il ricorso a ricoveri frettolosi in RSA, la rinuncia a percorsi di vita indipendente, la rinuncia agli assistenti familiari con un aggravio del lavoro domestico.

§ CONSULTORI FAMILIARI. Al via a Roma il Sinodo dei consultori di ispirazione cristiana. Il 15 e 16 aprile si tiene a Roma il sinodo dei consultori che aderiscono alla Cfc-Confederazione dei consultori familiari di ispirazione cristiana. Il programma prevede momenti di formazione attraverso la presentazione della Presidente della CFC prof.ssa Livia Cadei e del Direttore dell’Ufficio di Pastorale Familiare della CEI fr. Marco Vianelli, nonché la conclusione dei lavori affidata ad Aurelio Mosca, psicologo dirigente del Dipartimento Pipss ATS Milano

www.cfc-italia.it/cfc20/index.php?option=com_content&view=article&id=134:al-via-a-roma-il-sinodo-dei-consultori&catid=9:news-nazionali&Itemid=137

§ Due corsi online dedicati al welfare 4.0. Saranno aperti e disponibili alla frequenza per i prossimi tre anni i due corsi di alta formazione online (“MOOC – Massive Online Open Courses”) proposti nell’àmbito del progetto “Welfare 4.0 – Definizione di un welfare comunitario di inclusione” dalla Federazione FISH, in collaborazione con la struttura Federica Web Learning dell’Università Federico II di Napoli, e dedicati rispettivamente a “La discriminazione sulla base della disabilità” e a “Per un welfare comunitario di inclusione”. Dopo aver effettuato la registrazione sulla piattaforma, è possibile selezionarli con una ricerca per titolo.             www.federica.eu

§ Save the date

www.upra.org/evento/giornata-di-studio-irc-matrimonio-e-verginita-due-strade-ununica-vocazione-allamore

www.edf-feph.org/events-slug/the-right-to-work-launch-of-the-edf-human-rights-report-on-employment

www.elfac.org/event/international-congress-on-family-networks-antidote-to-loneliness

www.tavolonazionaleaffido.it/2023/03/30/4-maggio-2023-40-anni-dalla-legge-184-roma

www.ncfr.org/events/teaching-tuesday-family-science-goes-high-tech-enhancing-student-learning-chatgpt

Iscrizione   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

https://a4e9e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fgg=wsswt/e-ge=s/fh0=ott49a1:a=.-4&x=pv&65kac&x=pp&qzb9g6.b9g9h/:i4-7d=vs2_NCLM

CENTRO GIOVANI COPPIE SAN FEDELE

Settimo e ultimo incontro del ciclo 2022-2023

“Grammatica dell’inaspettato”

Giovedì 20 aprile 2023 ci incontreremo con Don Paolo Alliata – sacerdote della Diocesi di Milano

sul tema:

“Nudi e crudi. Narrazioni e messe in scena dell’imprevisto”

di persona alle ore 21,00, nella Sala Ricci in piazza San Fedele 4, a Milano. Non è necessario prenotarsi.

Chi non riesce ad esserci potrà comunque vedere e ascoltare la conferenza sul canale YouTube del Centro.

www.youtube.com/@centrogiovanicoppiesanfede37/about

Don Paolo Alliata (Milano, α1971) è sacerdote della Diocesi di Milano. Laureato in Lettere classiche, cerca di raccontare, nella predicazione e negli scritti, il grande Mistero cristiano ricorrendo volentieri a immagini e temi tratti dalla letteratura e dal cinema.

Scoprirsi vuoti. L’imprevisto. Possiamo anche respingerlo, combatterlo e ignorarlo. Considerarlo come un problema o guardarlo come un dato di fatto da cui occorre riprendere a tessere la vita.

Ecco il bivio a cui si trova la coppia protagonista di NUDI E CRUDI (1996) di Alan Bennet.

www.centrosanfedele.net/incontri/nudi-e-crudi-narrazioni-e-messe-in-scena-dellimprevisto

CHIESA NEL MONDO

I vescovi francesi vanno avanti. Più trasparenza e spazio ai laici

Nuovo atteso appuntamento per la Chiesa francese, quello dell’assemblea plenaria ordinaria dei vescovi, svoltasi a Lourdes dal 28 al 31 marzo, ancora e sempre, necessariamente, con un focus sulla crisi degli abusi clericali. I vescovi sono stati invitati a votare le sessanta proposte emerse dai lavori – durati circa un anno – di nove gruppi composti per lo più da laici e creati sulla scia del rapporto Sauvé che, come si ricorderà, costituì il frutto del lavoro della Commissione indipendente sugli abusi, Ciase, nell’autunno 2021. Oltre alle proposte, i gruppi hanno anche prodotto una relazione di 200 pagine.

In sede assembleare, i vescovi, riferisce “Le Pèlerin” (6/4), si sono espressi in merito alle raccomandazioni espresse da tre gruppi in particolare, lasciando alle équipe diocesane e alle diverse strutture della Conferenza episcopale francese (CEF) il compito di far proprie le altre, facendole «diventare la norma per il comportamento di ciascuno di noi», ha spiegato il presidente della Conferenza episcopale,

(α1962) mons. Eric de Moulins Beaufort, vocazione adulta, nel suo discorso conclusivo.

Il primo gruppo di lavoro si è espresso sull’accompagnamento del ministero episcopale, del quale è stato chiesto un monitoraggio, con visite regolari di una coppia prete-laico esterna alla diocesi per valutare l’azione del vescovo; i consigli episcopali dovranno includere un terzo di laici, tra cui diverse donne; si è chiesto di prevedere una formazione per i primi cinque anni di episcopato e una formazione permanente, ma anche una sorta di “tutoraggio” da parte dei vescovi più esperti; e di programmare incontri regolari tra il vescovo e i sacerdoti.

È stata bocciata invece l’ipotesi di avere un delegato laico diocesano o una segreteria generale, nonché di indicare su tutti i materiali con cui viene comunicata la nomina di un nuovo vescovo la dicitura: «Chiunque sia a conoscenza di un grave impedimento (penale o canonico) all’ordinazione episcopale è pregato di contattare la Nunziatura al seguente indirizzo…»; la richiesta alla Nunziatura di garantire un periodo di discernimento di almeno 48 ore tra l’annuncio di una nomina episcopale e la risposta dell’interessato.

Approvata, invece, la raccomandazione di convocare ogni tre anni un’assemblea della Chiesa in Francia di tipo sinodale, in cui ogni vescovo sia accompagnato da due laici. Per quanto riguarda la vigilanza e il controllo delle associazioni di fedeli (ossia delle cosiddette “nuove comunità”), si è votato a favore di una vigilanza collegiale che si basi sull’attuazione delle 4 fasi del Vademecum del Consiglio per i Movimenti e le Associazioni dei Fedeli (CMAF) con l’aiuto di attori della diocesi o della provincia, e della verifica, prima di ogni riconoscimento, della storia del gruppo, del progetto, del cammino del fondatore, in consultazione con i vescovi della provincia.

Obbligo di rendicontazione per le associazioni. Approvato anche un quadro nazionale di statuti canonici per le associazioni di fedeli (che includa l’obbligo di visitare le associazioni private; che specifichi le condizioni di ingresso e di uscita) e una disposizione di legge speciale specifica per la Conferenza episcopale francese che stabilisca un obbligo di rendicontazione annuale per le associazioni private di fedeli. Tra i mezzi di monitoraggio delle associazioni di fedeli da effettuare attraverso un esercizio collegiale e collaborativo della vigilanza, i vescovi hanno dato l’ok a visite ordinarie regolari, una Rete Nazionale per il Monitoraggio delle Associazioni di Fedeli (RESAF), che riunisca diverse competenze; una consultazione tra i vescovi interessati per quelle associazioni di fedeli con presenza nazionale che mostrino segni di disfunzione; l’intervento presso una conferenza episcopale straniera nel caso in cui un vescovo di quella conferenza accolga una comunità sciolta da un vescovo francese o dalla Santa Sede. Si provvederà anche alla creazione di un elenco nazionale delle associazioni di fedeli, e a un archivio sistematico delle visite ordinarie e straordinarie e i loro esiti.

È stata anche sollecitata una ricerca accademica interdisciplinaresui meccanismi di disfunzione della comunità. Non si è votato invece sulla proposta riguardanti i mezzi di accompagnamento e riparazione: sull’accompagnamento a più livelli, cioè, delle persone che lasciano un gruppo o in caso di scioglimento di un’associazione di seguaci, e sullo studio di mezzi umani e finanziari di riparazione per gli adulti vittime di abusi all’interno di un gruppo o di un’associazione di fedeli: su questi temi, infatti, sono in corso i lavori della CEF.

L’episcopato chiede infine alle diocesi e alle strutture della CEF di accogliere e applicare direttamente le misure di condivisione di buone pratiche di fronte ai casi segnalati; confessione e accompagnamento spirituale, accompagnamento degli accusati, discernimento vocazionale e formazione dei futuri sacerdoti, accompagnamento del ministero dei sacerdoti, analisi delle cause della violenza sessuale nella Chiesa.

Ludovica Eugenio            Adista Notizie n° 14                       15 aprile 2023

Vescovi portoghesi: sospendere i preti accusati di abusi? Andiamoci piano

Per il 20 aprile la Conferenza episcopale portoghese ha indetto una giornata nazionale di preghiera per le vittime di «abuso sessuale, di potere e di coscienza nella Chiesa» perché «nostro Signore Dio conceda la guarigione delle loro ferite, il coraggio a quanti li accompagnano, il conforto alle loro famiglie e renda la Chiesa sempre più un ambiente sicuro». A dimostrazione, dunque, che la gerarchia ecclesiastica lusitana sta prendendo sul serio il percorso di purificazione iniziato con l’istituzione, l’11 gennaio 2022, di una Commissione indipendente di indagine. La Commissione ha avuto a disposizione tutti gli archivi delle diocesi relativi ai casi di pedofilia commessi da preti dal 1950 fino a tutto il 2022 e, com’è noto, il 13 febbraio ha reso noto i risultati: sono state (intanto) convalidate 512 testimonianze di abusi sessuali, su un totale di 564 testimonianze ricevute, relative a 4.815 vittime in tutto il periodo considerato.

Molto è però il lavoro ancora da affrontare. Paula Margarido, segretaria del Coordinamento nazionale delle Commissioni diocesane per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili, ha dichiarato all’agenzia Ecclesia (3/4) che queste istituzioni esistono per «ricevere accogliere» le vittime, offrendo loro supporto psicologico e psicoterapeutico. «Stiamo andando avanti – dice – perché ci sono ancora vittime che, effettivamente, hanno difficoltà a parlare della situazione. A volte diventa più facile scrivere». «Capisco che è un grande dolore, ma se rimangono anonimi – aggiunge a mo’ di appello – ci saranno più difficoltà a combattere questo male, da parte delle commissioni diocesane e della stessa Chiesa».

Che il lavoro svolto fin qui non basti è convinzione anche dell’episcopato che il 3 marzo ha deciso in Assemblea plenaria l’istituzione di una seconda Commissione a continuazione del percorso intrapreso. Ma si è praticamente limitato a questa iniziativa, non decidendo invece sulla sospensione cautelativa dalle loro attività pastorali dei preti denunciati per abuso dalle vittime.

Vescovi come Pilato? Nella conferenza stampa tenuta quello stesso giorno, il presidente della CEP e vescovo di Leiria-Fatima, mons. José Ornelas,α1954

 alla domanda se teme che più bambini siano a rischio di essere vittime di abusi, ha dato per scontato di sì: «Ho paura – ha detto –, ma non posso rimuovere un prete dal ministero perché qualcuno è venuto e ha detto “Questo signore ha abusato di qualcuno”. Chi l’ha detto? In che luogo? Quando? Togliere un prete dal ministero è una cosa seria».

Pochi giorni dopo, parlando con l’agenzia Lusa (6/3), lo psichiatra Daniel Sampaio, membro della Commissione, evidentemente deluso, ci ha tenuto a precisare che «la sospensione non è una condanna. È importante sospendere perché, dal punto di vista psichiatrico, c’è un’alta probabilità che queste persone ripetano il loro comportamento. La sospensione è preventiva per le indagini e se non si trova nulla, il sacerdote viene  esercitare il suo ministero».

Delusione condivisa, quella di Sampaio. Sul giornale di Lisbona Correio da Manhã, il direttore Paulo João Santos, ha scritto (6/3) che quello che è venuto fuori dall’incontro del 3 marzo è stato un tentativo di «ridurre colpe e responsabilità. In pratica, la Conferenza Episcopale se ne è lavata le mani come Pilato. Non sorprende che la comunità cattolica si senta tradita». Il minimo che ci si poteva aspettare dai vescovi, ha scritto, era che i preti abusatori sarebbero stati sospesi e che i vescovi che hanno coperto gli abusi nel corso degli anni «si sarebbero dimessi.

Bella sfida, considerando che il cardinale patriarca di Lisbona Manuel Clemente e mons. Ornelas sono sospettati di aver coperto autori di reato di pedofilia. Per quanto riguarda Ornelas, l’ufficio stampa della Conferenza episcopale portoghese ha respinto, il 13 marzo, la «grave e falsa accusa» di insabbiamento di abusi sessuali, emersa durante una trasmissione televisiva, quando era superiore provinciale dei dehoniani in Portogallo. Secondo l’ufficio stampa, inoltre non collimerebbero neanche le date delle azioni criminali con i periodi del suo incarico di superiore religioso.

La complessa questione del risarcimento. Altra cosa non decisa dall’episcopato portoghese è la questione del risarcimento delle vittime che ne facciano richiesta. In conferenza stampa Ornelas ha detto: «La questione del risarcimento è chiara, sia nel diritto canonico che in quello civile. Se c’è un male che viene fatto da qualcuno, è quel qualcuno che ne è responsabile». Il presidente della Conferenza episcopale portoghese è stato più esplicito su questo punto nell’intervista rilasciata a El País (13/3): «In termini penali, la responsabilità è individuale, ma le persone che hanno subito abusi avranno sostegno per ritrovare la pace nella misura del possibile. Quando ne parliamo, parliamo di supporto che inizia con quello psicologico, psichiatrico o spirituale per coloro che lo vogliono e come lo vogliono. Assumiamo già quella spesa in alcuni casi. Sul risarcimento dobbiamo discuterne con le stesse vittime. Non è opportuno che io stabilisca un prezzo». Sottolinea: «Gli aiuti non vanno mai a coprire la sofferenza, ma possono servire per dire io non sono il colpevole e non sono solo». E comunque il sostegno finanziario per le consulenze psicologiche c’è. E non è neanche detto che ci si fermi a questo: «Ci sono persone che possono dire di dover scegliere tra l’acquisto di medicine e l’acquisto di cibo».

Una polemica sul lavoro della Commissione. Anche nell’intervista a El País mons. Ornelas risponde in merito alla rimozione dei sacerdoti accusati. Afferma innanzitutto di non essere mai stato «contrario» a questa misura, come invece alcuni hanno sostenuto. «La tolleranza zero è sempre stata una mia linea di pensiero», dice, come anche l’affermazione «che non c’è posto nella Chiesa per i violentatori. Quello che ho detto è che per sospendere qualcuno serve la sua identificazione e sapere cosa ha fatto. I dati sulla lista della commissione erano destinati allo studio. Quello che abbiamo è una descrizione dei casi, con gli acronimi delle persone che testimoniano. Ora l’importante è sapere chi è e cosa ha fatto perché costituisca una base concreta per l’azione».

C’è qui da precisare che la Commissione nega la “vaghezza” del suo lavoro come denuncia Ornelas. «Non è vero», ha detto Sampaio nell’intervista alla Lusa, «l’elenco è stato ricavato dalle denunce delle vittime – in cui la vittima X dice di aver subito abusi da parte del sacerdote Y – e dall’indagine scaturita dal gruppo di indagine con gli archivi (con l’aiuto della Chiesa). L’elenco che è stato consegnato risulta dall’unione di questi due», «ogni nome è noto alle diocesi»; i vescovi si sono già «confrontati con gli atti» consegnati il 13 marzo, anzi «ci sono già vescovi che lavorano sulla questione».

Eletta Cucuzza  Adista Notizie n° 14                        15 aprile 2023

www.adista.it/articolo/69825

CITTÀ DEL VATICANO

Il Vaticano accetta la sfida dei nativi americani e fa i conti con la “dottrina della scoperta”

La «dottrina della scoperta” non fa parte dell’insegnamento della Chiesa cattolica. La ricerca storica dimostra chiaramente che i documenti papali in questione, scritti in un periodo storico specifico e legati a questioni politiche, non sono mai stati considerati espressioni della fede cattolica. Allo stesso tempo, la Chiesa riconosce che queste Bolle papali non riflettevano adeguatamente la pari dignità e i diritti dei popoli indigeni».

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/03/30/0238/00515.html#it

È in queste poche ma decisive frasi che la Santa Sede ha operato una revisione definitiva rispetto a tre pronunciamenti papali risalenti alla seconda metà del XV secolo che, tutti insieme, hanno costituito la base ideologica per quella dottrina della scoperta utilizzata nei secoli seguenti allo scopo di espropriare gli indigeni americani delle loro terre e di mettere in pratica politiche violentemente assimilazioniste il cui obiettivo era la cancellazione delle loro tradizioni e culture.

La richiesta era stata avanzata alla Chiesa cattolica dai rappresentanti dei nativi americani in occasione della visita del papa in Canada dell’estate scorsa; Francesco infatti aveva deciso di intraprendere il viaggio per chiedere perdono, a nome della Chiesa e delle sue istituzioni, per il trattamento ricevuto dai ragazzi indigeni nelle cosiddette scuole residenziali, promosse dal governo e gestite in gran parte da congregazioni religiose cattoliche. Fra ‘800 e ‘900, in questi istituti dove di fatto venivano deportati i figli degli indigeni, morirono migliaia di giovani indiani a causa dei maltrattamenti, degli abusi, delle malattie, delle violenze subite.

Da tempo sia il Vaticano che la Santa Sede avevano avviato un dialogo al fine di costruire un percorso di perdono e riconciliazione fondato sul riconoscimento della verità storica. Di questo percorso, tappe fondamentali sono state la visita di un’ampia delegazione delle popolazioni originarie canadesi in Vaticano circa un anno fa, poi il viaggio dello stesso pontefice in Canada, e ora la dichiarazione vaticana sulla dottrina della scoperta messa nero su bianco in una Nota congiunta dei dicasteri per la cultura e l’educazione e per il Servizio dello sviluppo umano integrale.

Il papa e gli indios. Il testo da una parte riconosce l’infondatezza della dottrina della scoperta e le responsabilità passate della Chiesa rispetto alle ingiustizie subite dagli indigeni, dall’altra afferma però che le bolle papali oggetto dell’odierna “abiura”, furono manipolate successivamente per i propri scopi dalle potenze coloniali. Una contraddizione che però non sminuisce più di tanto l’importanza della svolta impressa al problema dalla Santa Sede. D’altro canto non poteva essere che papa Francesco, primo pontefice dell’America Latina, a compiere un simile passaggio: Bergoglio, infatti, ha posto sempre l’accento sulla difesa e la valorizzazione delle culture indigene, non come fattore residuale o come motivo puramente di studio antropologico, ma in quanto presenza viva e potatrice di modelli alternativi di convivenza sociale e di tutela degli ecosistemi rispetto al principio capitalistico dello sfruttamento incondizionato e irreversibile delle risorse della Terra. Dunque, la sensibilità specifica di Francesco si è incontrata con le rivendicazioni storiche dei nativi americani, il che non toglie poi che questi ultimi chiedano ulteriori passi in avanti e chiarimenti al Vaticano, ma certo la strada è ormai aperta.

Fra l’altro, questa decisa presa di distanza da posizioni espresse in passato apre scenari inediti per la stessa Chiesa, ponendo problematiche anche teologiche, già emerse quando Giovanni Paolo II pronunciò nel 2000 i celebri “mea culpa” per i peccati commessi dai cattolici, chierici e laici, nel corso dei secoli. La storia della Chiesa in ogni caso ha smesso da tempo, per gli stessi pontefici, di essere una granitica fortezza di verità indiscutibili, ma risente a tutti gli effetti dell’evoluzione storica, dei suoi progressi e passi falsi, delle sue contraddizioni e prese di coscienza.

Terre espropriate. «Il rispetto per i fatti della storia – si legge nella nota – richiede il riconoscimento della debolezza umana e dei fallimenti dei discepoli di Cristo in ogni generazione. Molti cristiani hanno commesso atti malvagi contro le popolazioni indigene per i quali i papi recenti hanno chiesto perdono in numerose occasioni.

Ai nostri giorni, un rinnovato dialogo con i popoli indigeni, soprattutto con quelli che professano la fede cattolica, ha aiutato la Chiesa a comprendere meglio i loro valori e le loro culture». «Con il loro aiuto – prosegue il testo – la Chiesa ha acquisito una maggiore consapevolezza delle loro sofferenze, passate e presenti, dovute all’espropriazione delle loro terre, che considerano un dono sacro di Dio e dei loro antenati, e alle politiche di assimilazione forzata, promosse dalle autorità governative del tempo, volte a eliminare le loro culture indigene». Quindi si afferma: «Come ha sottolineato Papa Francesco, le loro sofferenze costituiscono un forte richiamo ad abbandonare la mentalità colonizzatrice e a camminare con loro fianco a fianco, nel rispetto reciproco e nel dialogo, riconoscendo i diritti e i valori culturali di tutti gli individui e i popoli».

Un concetto giuridico. Di particolare importanza il passaggio nel quale si descrive l’impatto storico avuto dalla dottrina della scoperta sotto il profilo giuridico, uno degli aspetti più critici di tutto il problema per le popolazioni indigene che contestano anche nei tribunali l’appropriazione indebita delle loro terre da parte dei coloni bianchi: «È in questo contesto di ascolto dei popoli indigeni – si legge in proposito – che la Chiesa ha sentito l’importanza di affrontare il concetto denominato “dottrina della scoperta”. Il concetto giuridico di “scoperta” è stato dibattuto dalle potenze coloniali a partire dal XVI secolo e ha trovato particolare espressione nella giurisprudenza ottocentesca dei tribunali di diversi Paesi, secondo cui la scoperta di terre da parte dei coloni concedeva il diritto esclusivo di estinguere, mediante acquisto o conquista, il titolo o il possesso di quelle terre da parte delle popolazioni indigene. Alcuni studiosi hanno sostenuto che la base della suddetta “dottrina” si trova in diversi documenti papali, come le Bolle Dum Diversas (1452), Romanus Pontifex (1455) e Inter Cætera (1493)». Quindi, dopo la condanna della dottrina come non appartenente al magistero della Chiesa, la nota tenta una difesa d’ufficio della Santa Sede, prima ricordando i numerosi pronunciamenti dei papi in favore degli indigeni fin dal XVI secolo, poi affermando la strumentalità dell’uso delle tre bolle pontificie da parte delle monarchie europee. «La Chiesa è anche consapevole del fatto che il contenuto di questi documenti – si spiega nel documento – è stato manipolato a fini politici dalle potenze coloniali in competizione tra loro, per giustificare atti immorali contro le popolazioni indigene, compiuti talvolta senza l’opposizione delle autorità ecclesiastiche. È giusto riconoscere questi errori, riconoscere i terribili effetti delle politiche di assimilazione e il dolore provato dalle popolazioni indigene, e chiedere perdono».

Un’eredità di schiavitù. Di particolare rilievo è anche il commento rilasciato in merito al documento dal card. Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, il quale ha affermato: «Quando abbiamo una eredità di linguaggio di dominazione, asservimento, sottrazione di terre e schiavitù, la prima cosa da fare è dire: sì, questo è stato detto». Quindi ha aggiunto: «Non nasconderlo e non negarlo. La seconda cosa – che è il lavoro prezioso degli storici – è inquadrare queste espressioni nel loro contesto. Se prendi queste parole e vedi come in quell’epoca in altri documenti e decreti della Chiesa si parlava di donne, bambini, ebrei o musulmani, purtroppo dici: ma questo vocabolario era dappertutto! Una serie di concetti antropologici totalmente inaccettabili oggi, alla luce del Vangelo. Ma così era… Niente da fare, se non riconoscere tutto questo. Facciamo tutto ciò non per curiosità storica, ma per riconoscere che questi atteggiamenti, questi passi sfortunati continuano ad avere un loro effetto oggi». Insomma, un atteggiamento di revisione e rilettura del passato è possibile, alla luce del Vangelo in primo luogo e delle mutate sensibilità e circostanze storiche in seconda battuta. In tal senso il documento in questione, capace di riaprire il dialogo con diverse popolazioni indigene e di articolare un percorso di riconciliazione possibile, costituisce un precedente importante.

Una pietra miliare. Anche per questo sono state complessivamente positive, pur con qualche riserva, le reazioni delle comunità indigene. Il capo Willie Littlechild, uno dei leader delle first nations, che aveva accolto e accompagnato papa Francesco nella sua trasferta canadese, ha detto: «È una giornata molto emozionante per me, so che abbiamo ancora molto lavoro da fare. Ma questa è una pietra miliare molto importante nel nostro viaggio insieme verso la riconciliazione». Molta attesa c’è da parte di numerosi leader dei nativi di capire che effetti avrà la dichiarazione vaticana sui tribunali dove sono in corso contenziosi legali sulla proprietà delle terre che le popolazioni originarie considerano gli siano state sottratte ingiustamente facendo leva su artifici legali e storici costruiti sull’inganno di cui, appunto, la dottrina della scoperta è il punto di partenza.

Francesco Peloso              Adista Notizie n° 14      15 aprile 2023

www.adista.it/articolo/69818

CLERICALISMO

Il paradosso del clericalismo. La patologia ecclesiale e le forme storiche della “uscita”.

“…questo nome di clericale è sinonimo di perfetto cattolico, secondo la religione, e di perfetto galantuomo, secondo la civiltà”

(“La Civiltà cattolica”, 1875, I clericali secondo i liberali, 5-20, qui 20)

Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati” (Francesco, Lettera al Card. Ouellet, Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 2016).

www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2016/documents/papa-francesco_20160319_pont-comm-america-latina.html

Che cosa è in gioco nel clericalismo? Direi che la questione oggi più evidente è quella di una chiesa “chiusa in sé” e incapace di “uscita”. Uscita da dove e verso dove? Si tratta per la Chiesa di uscire da sé, o, meglio, di far uscire Cristo da sé, perché possa raggiungere il mondo. Al centro vi è dunque una “sapienza di uscita” che la tradizione ha gestito in modi differenziati e che oggi ci chiede una forma del tutto nuova nel modo di riflettere e di agire. Perché la “differenza di Dio” non si dà più nella differenza di ordini sociali e di soggezioni personali.

 Questa questione culturale e sociale è centrale nel nostro problema. Forse esso consiste proprio nel fatto di non saper più distinguere queste varianti (culturali, sociali, antropologiche) tra due modi diversi di annunciare “la differenza di Dio”. In una paginetta che il futuro papa Francesco ha usato per il suo discorso poco prima di essere eletto, dice che la Chiesa deve ascoltare il “bussare del Signore”, che sta alla porta, ma bussa per uscire, non per entrare: vuole uscire nel mondo! Il clericalismo, potremmo dire, scaturisce dalla “cattura di Dio” nelle chiusure ecclesiali. Si fa coincidere la differenza di Dio con le differenziazioni sociali, burocratiche, formali che la Chiesa ha legittimamente elaborato lungo i secoli, ma che devono essere lette con lucidità, per saper discernere “ciò che non muore e ciò che può morire” (Dante – Paradiso canto 13, vv. 51). Certo, la differenza di Dio non si annuncia nella “indifferenza”. Non tutto è uguale! Il Dio che è “amore all’eccesso” dice una trasgressione e una differenza. Diremmo perciò che la differenza di Dio esige una nuova “non indifferenza”. Ed è qui il punto delicato e dolente. Come facciamo ad essere “non indifferenti” senza essere semplicemente antiquati? Vorrei percorrere una breve traiettoria in cerca di una definizione di questo paradosso. Per farlo, dopo una premessa storica sul sorgere del termine “clericalismo” (§.1), tento un primo chiarimento del termine prima nella storia recente e poi nella storia antica (§.2) arrivando infine alla radice “sacramentale” del clericalismo (§.3) per poi concludere (§.4).

                1. La parola del “nemico” e la difesa della identità clericale. Come si annuncia la differenza di Dio, fino al XVIII secolo? Con la subordinazione a Dio dell’ordine sociale, pensato nella sua differenza insuperabile tra “ordini”, tra “stati”, tra “classi”, tra “gerarchie”. Nel mondo tradizionale, la struttura sociale è immagine di Dio. Si fonda sulla autorità (non sulla libertà) e sulla differenza (non sulla eguaglianza): in questo mondo la fraternità è decisiva per riequilibrare le differenze imposta dalla subordinazione e dalla disuguaglianza. Per questo l’attentato “liberale” e “repubblicano” alla struttura gerarchica e monarchica del mondo è stato percepito (non solo dalla chiesa, ma da tutto il mondo tradizionale) come peccato originale della modernità. Nel “Du pape” di De Maistre questo è chiarissimo. Perciò il termine “clericalismo”, che sorge dopo la metà del XIX secolo, viene coniato dal “nemico” massone e liberale come accusa contro la nostalgia per una concezione della autorità affidata al clero. La parola nasce, perciò, come definizione del cattolicesimo in termini di “resistenza ad oltranza nella difesa del potere temporale”. D’altra parte la parola, nata e percepita come un insulto, viene recuperata in positivo, come qualità inevitabile del buon cattolico e del buon galantuomo (cfr. esergo de La Civiltà Cattolica del 1875). Lo sviluppo del tema subisce, in 150 anni, una grande trasformazione, come attesta D. Menozzi, (Il papato di Francesco in prospettiva storica, 179-191), arrivando ad una svolta, preparata da Paolo VI e da Giovanni Paolo II. Singolare è il fatto che nei 7 anni di pontificato di Benedetto XVI il termine ricorra nei discorsi ufficiali solo una volta, mentre nei primi 7 anni del pontificato di Francesco (fino al 2020) il termine appare già ben 55 volte! Il clericalismo passa così da “difesa dei diritti della autorità ecclesiastica” a “malattia ecclesiale”, da prerogativa della Chiesa verso il mondo a perversione interna alla identità sociale cattolica.

                Si deve dire, tuttavia, che “clericalismo”, anche nella sua accezione peggiore, dice una “apertura al mondo”: un mondo da dominare, da giudicare, da separare, da reggere, ma un mondo significativo e persino decisivo. Non vi è nulla di “autoreferenziale” nel clericalismo della tradizione: questo è il paradosso. Il clericalismo diventa “autoreferenziale” quando diventa difesa dal mondo, chiusura al mondo, separazione dal mondo. Vediamo meglio questa dinamica paradossale.

                2. Il clericalismo “in uscita”. Iniziamo a chiarire l’orizzonte. La “differenza” decisiva è quella tra Dio e uomo. Una differenza che trova sintesi nel Figlio di Dio, vero uomo e vero Dio. La radice seria del clericalismo sta in questa differenza, che viene affermata e difesa attraverso la identificazione con una struttura di ordinamento sociale e culturale. L’”ordo”, ciò che oggi chiamiamo ministero ordinato, è proprio questa forma classica di pensiero della differenza di Dio, che diventa principio di organizzazione sociale della chiesa. La differenza di Dio crea la differenza sociale: alcuni (pochi) sono i custodi di questa differenza per tutti gli altri. Perciò la differenza sociale custodisce la differenza di Dio.

                Questa differenza è storicamente mediata dai “sacerdoti” (ma anche dai re e dai profeti), che garantiscono la differenza e in qualche modo la gestiscono. L’affermarsi di questa soluzione appare chiaramente nella storia della Chiesa cristiana e cattolica in particolare (ma non solo in essa).

                La tendenza anche della Chiesa, soprattutto a partire dal IV e V secolo, è stata quella di elaborare lentamente una “teoria del clero”, dei “chierici”, come soggetti “differenti”, separati, che custodiscono la differenza di Dio. Il “de ecclesiasticis officiis” è stato il manuale di questa formazione alla differenza testimoniale. Tale custodia avveniva su due livelli: quello “sacramentale” (al cui vertice era il prete-sacerdote) e quello “giurisdizionale” (al cui vertice era il vescovo). I due piani sono stati per circa un millennio così separati che potevano essere scissi. Si poteva essere vescovi senza essere preti! Oggi abbiamo dimenticato tutto questo, ma se si legge l’antico Ceræmoniale Episcoporum, si capisce bene di che cosa si tratta!

                Ma la chiesa cristiana ha, nei suoi testi istitutivi, una diversa visione sia del sacerdozio sia del ministero. Vi è un solo sacerdote, che è allo stesso tempo, sacerdote, altare, vittima e Dio, oltre che re e profeta! E i ministeri prendono nomi “laici”, come episcopo, presbitero e diacono, senza assumere come tali determinazioni sacerdotali. La riscoperta di queste originarie verità, che segna la cultura del protestantesimo e poi la cultura comune di tutto il cristianesimo degli ultimi due secoli, mette in crisi la ricostruzione classica e la lettura dell’ordine sociale come “garanzia” di Dio.

La organizzazione della Chiesa in “due ordini” (clero e laici) non è un elemento originario della fede cristiana. Si è però sviluppata nell’alto medioevo ed è arrivata fino al XX secolo

Dopo una ricostruzione nuova della Chiesa, voluta dal Vaticano II, secondo la tripartizione tra profezia, regalità e sacerdozio (le tre differenze a custodia di Dio) riproporre il clero come separatezza strutturale diventa obiettivamente “clericalismo”: potremmo dire che è la riproposizione della “differenza di Dio” nella forma storica di una “differenza di onore”. La storia della Chiesa e la storia della cultura si intrecciano in modo tanto profondo e quasi indissolubile.

                Qui si può ricorrere ad una bella distinzione di Ch. Taylor ( nel suo” Il disagio della modernità”), ossia quella tra “società dell’onore” e “società della dignità”. La prima si basa sulla “differenza”, mentre la seconda sulla “eguaglianza”. Il soggetto è riconosciuto nella prima come “differente”, nella seconda come “uguale”. La questione che si pone alla Chiesa, da 200 anni suona: come annunciare il Vangelo in un mondo in cui la struttura sociale si fonda non su una “differenza”, ma sua una “eguaglianza”? Significa provare a separare la “chiesa” dalla “societas inæqualis”, difesa ancora da Pio X nel 1906 con queste parole: “Ne risulta che la Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali; e che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori.” (Pio X, Vehementer nos)

www.vatican.va/content/pius-x/it/encyclicals/documents/hf_p-x_enc_11021906_vehementer-nos.html

3. Le radici culturali e sacramentali del clericalismo. Tra le forme di sottovalutazione del clericalismo vi sono le considerazioni insufficienti della sua realtà: quasi come se fossero occasionali esagerazioni di una struttura sostanzialmente giustificata e sana. Da quello che ho detto si può desumere, invece, che il clericalismo si annida in concezioni fondamentali (e distorte) della natura della Chiesa. Vediamo le principali forme in cui si incarna la “resistenza” del modello di pensiero che scivola, direi inevitabilmente, nel clericalismo:

a) la costituzione “separata” della cultura ecclesiale. La prima radice del clericalismo è la pretesa (recentissima) con cui la Chiesa interpreta se stessa come “sistema culturale parallelo”. Vi è una buona intenzione: quella di garantire la “differenza di Dio” nel mondo tardo moderno, di difendere la differenza della Parola dalle parole degli uomini. Ma la strada è “clericale” perché pretende di poter identificare la differenza (che resta necessaria e vitale) senza passare attraverso la cultura comune. Esaurendosi in una cultura “intra muros”, la cultura dell’antimodernismo è clericale per vocazione e per destino. E così perde la possibilità di uscire, anzi si afferma proprio nel non dover uscire affatto.

                b) la comprensione della eucaristia come “azione riservata al clero”. La seconda radice, molto più antica, è la cultura clericale (in senso stretto) che riguarda il sacramento della eucaristia. Ossia la teoria secondo cui a “dire messa” è il vescovo o il prete, di fronte ad una assemblea di muti spettatori. Nello sviluppo sacramentale, a partire dall’alto medioevo, di questa separazione “del corpo di Cristo” vi è la seconda radice del clericalismo. A cui si rimedia solo con una diversa teologia del sacramento dell’eucaristia, che faccia della “actuosa participatio” non solo un nuovo orpello cerimoniale, ma un elemento sostanziale della teologia del sacramento.

c) la comprensione del clero come “corpo separato” della chiesa. La terza radice, che alimenta tanto la seconda quanto la prima, è la differenza dell’”ordo”. Che il ministero ecclesiale assuma una forma sociale di “ordo” costituisce la forma ontologica di una differenza di autorità pensata secondo le logiche di una società senza libertà e senza uguaglianza. Questo non significa che la chiesa non possa e non debba avere un ministero sacramentale, ma che le forme da esso assunte hanno assorbito forme culturali e sociali che non riescono a mediare né la libertà né la eguaglianza. Le resistenze con cui si ostacola ogni accesso della donna al ministero ordinato fanno parte di questa idea di homo hierarchicus con cui per secoli si è scambiata una forma culturale con il Vangelo.

                Come si può “uscire” da queste tre radici del clericalismo?

a) il rapporto chiesa-mondo deve essere inteso senza opposizione frontale: elaborare diverse strategie di annuncio della differenza di Dio in Cristo deve tener conto della relazione per cui la Chiesa è salvezza per il mondo, ma il mondo è buona salute per la Chiesa.

b) la eucaristia non è anzitutto azione del sacerdote, ma azione di Cristo e della Chiesa: la “partecipazione attiva” ha qui la sua radice e il suo terreno di elaborazione, che non nega la presidenza, ma non le permette di requisire l’esperienza del sacramento.

c) Una rilettura del ministero ordinato deve avvenire in continuità con i tre doni del battesimo: munus docendi, munus regendi e munus sanctificandi sono qualità di ogni battezzato, oltre che nuovi criteri trasversali di comprensione di ciascuno dei tre gradi del ministero ordinato.

La prospettiva che fa uscire dal “clericalismo” è quella che può riflettere in modo nuovo su chi siano i soggetti dotati di autorità nella Chiesa. Come si deve comporre la “differenza della autorità” con la “eguaglianza nella libertà”? La società dell’onore aveva risposte chiare, ma culturalmente e socialmente superate. La società della dignità è attuale, ma ha risposte ancora faticose, poco elaborate, troppo nette e senza procedure affermate. Su questo oggi occorre lavorare. Sappiamo cosa non dobbiamo più fare. Ma non sappiamo bene che cosa dobbiamo sostituire a ciò che è superato. Qui sta il nostro comprensibile imbarazzo, sul quale dobbiamo agire e pensare, proporre nuovi modelli, lasciandoci ispirare, come dice Gaudium et Spes 46, “alla luce del Vangelo e della esperienza umana”.

4. Conclusioni. Come fa la Chiesa a “uscire da sé”? Con il termine clericalismo si era identificato, 150 anni fa, un antico “metodo di uscita”, allora contestato, ma prima affermato e pacificamente presupposto: esso consisteva nel conservare, a tutti i costi, una autorità diretta, giuridica e amministrativa, sul mondo secolare, che la Chiesa così pensava di continuare ad orientare e a governare. Ancora nelle visite pastorali successive al Concilio di Trento i vescovi facevano gli assistenti sociali, gli amministratori, i giudici, i consulenti finanziari e i commissari di polizia. Questa opzione, che nasceva come una necessaria “apertura al mondo”, e che aveva caratterizzato i secoli a partire dal mondo tardo antico e dal primo medioevo, con il tempo si era trasformata in una chiusura ermetica verso il mondo, che produceva una pericolosa deriva autoreferenziale. Per questo è tanto difficile uscire dal clericalismo: perché per secoli è stato il modo per eccellenza della “chiesa in uscita”. Per abitare il mondo la Chiesa deve oggi pensarlo (e pensarsi) come “societas æqualis”. Dio parla anche nella società della eguaglianza: non nella differenza di status o nella indifferenza del relativismo, ma nella “non indifferenza” della misericordia. Ecco la sfida riformulata profeticamente prima dal Concilio Vaticano II e oggi dal magistero di Francesco. Essa chiede alla teologia di elaborare categorie ecclesiali nuove, anche e forse anzitutto in ambito sacramentale e ministeriale, dove le logiche feudali dell’ordo e del cerimoniale confondono ancora in modo troppo rozzo l’ancien régime con la fede cristiana, la differenza sociale con la trascendenza di Dio e la rappresentazione formale di un solo “sacerdote” con l’azione rituale dell’intero popolo di Dio, inteso come comunità sacerdotale.

Andrea Grillo    blog: Come se non  14 aprile 2023

www.cittadellaeditrice.com/munera/il-paradosso-del-clericalismo-la-patologia-ecclesiale-e-le-forme-storiche-della-uscita

DALLA NAVATA

II Domenica di Pasqua (in Albis)

Atti degli Apostoli                          02, 42. [Quelli che erano stati battezzati] erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere.

Salmo responsoriale                 117, 02. Dica Israele: «Il suo amore è per sempre». Dica la casa di Aronne: «Il suo amore è per sempre». Dicano quelli che temono il Signore: «Il suo amore è per sempre.

1Pietro                                                01, 06. Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui.

Giovanni                                            20, 30. Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Gioire al vedere Gesù

Il capitolo finale del quarto vangelo, Gv 20 (Gv 21 è un’aggiunta posteriore), andrebbe letto interamente, per comprendere in profondità “il primo giorno della settimana” (Gv 20,1.19; cf. 20,26), il terzo giorno dopo la morte di Gesù. Il primo giorno della settimana è il giorno della resurrezione del Signore ma è anche quello in cui il Risorto si rende presente in mezzo ai suoi: è il giorno del Signore, il giorno dell’intervento decisivo di Dio che, risuscitando Gesù, ha vinto la morte. Dal Nuovo Testamento sappiamo inoltre che proprio “il primo giorno della settimana” (At 20,7; 1Cor 16,2) è scelto dai cristiani per essere “nello stesso luogo” (At 1,15; 2,1.44.47, ecc.), quale assemblea di fratelli e sorelle che sperimentano la venuta del Risorto in mezzo a loro.

                Scesa la sera di quel giorno, lo sconforto regna nei cuori dei discepoli che non hanno creduto né alla Maddalena né al discepolo amato. Ma Gesù aveva promesso: “Dopo la mia scomparsa, ‘ancora un poco e mi vedrete’ (Gv 16,16)”, e fedele alla parola data “viene e sta in mezzo”. Gesù è visto dai discepoli in mezzo a loro, al centro della loro assemblea, come colui che crea e dà unità, che “attira tutti a sé” (cf. Gv 12,32).

In quella posizione di Kýrios, di Signore, il Risorto dice: “Pace a voi!”, il saluto messianico, parola efficace che porta pace, vita piena, e scaccia la paura. E affinché le parole siano autenticate dalla sua persona di Maestro, Profeta e Messia conosciuto dai discepoli nella loro vita con lui, Gesù mostra le mani e il fianco che recano ancora i segni della sua passione e morte (cf. Gv 19,34). Gesù è presente con un corpo che non è un cadavere rianimato ma che viene a porte chiuse, non obbedendo alle leggi del tempo e dello spazio: un “corpo di gloria” (Fil 3,21), un “corpo spirituale” (1Cor 15,44.46), nel quale però restano i segni dell’aver sofferto la morte per amore. Sono segni di passione e insieme di gloria, segni dell’amore vissuto “fino alla fine, all’estremo” (Gv 13,1).

“E i discepoli gioirono al vedere il Signore”. Accade ciò che Gesù aveva profetizzato: “Ora siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà rapirvi la vostra gioia” (Gv 16,22). In questa nuova situazione della comunità, il Risorto, che aveva promesso di non lasciarla orfana (cf. Gv 14,18) e di donarle un altro Consolatore (cf. Gv 14,16), si fa manifesta. Ripete il saluto “Pace a voi!” e annuncia: “Come il Padre ha inviato me, anche io invio voi”. I discepoli hanno accolto l’Inviato di Dio, lo hanno seguito e hanno creduto in lui; ora sono inviati in tutto il mondo, per essere come lui, Gesù, è stato in tutta la sua vita: testimoni della verità, della fedeltà di Dio, cioè del suo amore per l’umanità. Con la loro vita devono mostrare che “Dio ha tanto amato il mondo da donargli il suo unico Figlio” (Gv 3,16).

Per essere abilitati a questa missione, devono essere ricreati: occorre un’immersione nello Spirito santo, occorre lo Spirito come nuovo soffio nel cuore di carne (cf. Ez 36,26). Allora Gesù, il Risorto che respira lo Spirito santo, lo effonde sulla sua comunità. Noi cristiani, vasi di creta fragili e peccatori (cf. 2Cor 4,7), per dono di Gesù risorto respiriamo lo Spirito santo che perdona i peccati e ci abilita alla vita eterna nel Regno di Cristo. Siamo dunque il corpo di Cristo, il “tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19). Lo stesso Spirito che ha risuscitato da morte Gesù è datore di vita ai discepoli, e da “compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), diventa compagno inseparabile per ogni cristiano. È lui, presente in ogni discepolo e discepola, che ricorda le parole di Gesù (cf. Gv 14,26), che lo rende presente e testimonia che egli è il Signore (cf. 1Cor 12,3).

Lo Spirito santo, Spirito di Dio e Soffio di Cristo, ci è donato nella nostra condizione di corpo umano, di carne. Non si dimentichi che nel quarto vangelo la carne è il luogo dell’umanizzazione di Dio – “La Parola si è fatta carne” (Gv 1,14) –, il luogo scelto da Dio per stare con noi e in mezzo a noi. La carne è luogo di conoscenza a servizio della Parola di Dio che la abita: ecco la dimora dello Spirito santo. Per questo, come Gesù è stato concepito carne dallo Spirito santo e da una donna, così anche la chiesa è generata da Spirito santo e da umanità, e del soffio dello Spirito fa il suo respiro.

Ma questo ha una ricaduta decisiva nella vita dei cristiani: significa remissione dei peccati, perché l’esperienza della salvezza che possiamo fare sulla terra è proprio la remissione dei peccati. Lo cantiamo ogni mattina nel Benedictus: “… per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati” (Lc 1,77). Ricevere lo Spirito santo è ricevere tale remissione, cioè vivere l’azione del Signore che non solo perdona, ma dimentica i nostri peccati, facendo di noi delle creature nuove. Questa è l’epifania della misericordia di Dio, dell’amore di Dio profondo e infinito che, quando ci raggiunge, ci libera dalle colpe e ci ricrea in una novità che noi non possiamo darci! E si faccia attenzione a non intendere questo testo solo come fondamento del sacramento della riconciliazione. La capacità di liberare dalla colpa e di fare misericordia è data da Gesù a tutti i discepoli: non solo agli Undici, perché nel cenacolo il giorno di Pentecoste ci sono anche le donne, c’è Maria insieme ad altri discepoli e discepole (cf. At 1,13-15; 2,1).

Gesù, “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29), battezzando nello Spirito santo (cf. Gv 1,33) i discepoli, li abilita alla sua missione: perdonare, riconciliare con Dio e con i fratelli e le sorelle. Dalla croce e dalla resurrezione l’umanità è stata riconciliata con Dio, ma tale evento va annunciato a tutti, e i discepoli sono inviati per questo: dove giungono, devono far regnare la misericordia di Dio, devono vivere il comandamento ultimo e definitivo dell’amore reciproco (cf. Gv 13,34; 15,12), devono rimettere i peccati gli uni agli altri, abilitati dunque a chiedere il perdono dei peccati a Dio.

E sia chiaro: le parole di Gesù che accompagnano il gesto del soffiare lo Spirito – “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” – sono espresse attraverso uno stile semitico che si serve di espressioni contrastanti per affermare con più forza una realtà. Non significano un potere che i discepoli potrebbero utilizzare secondo il loro arbitrio; al contrario, esprimono che il loro compito è la remissione dei peccati, il perdono, come lo è stato per Gesù, che in tutta la sua vita non ha mai condannato, ma ha sempre detto di essere venuto non per giudicare e condannare (cf. Gv 8,15; 12,47), ma perché tutti “abbiano la vita in abbondanza” (Gv 10,10). “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”, dove questo “come” rimanda a uno stile: “Come io ho rimesso i peccati, anche voi dovete rimetterli; è con questo compito che vi mando”.

Fatta questa esperienza, i discepoli annunciano a Tommaso, non presente alla prima manifestazione del Risorto: “Abbiamo visto il Signore!”. È l’annuncio pasquale che dovrebbe essere sufficiente per accogliere la fede nel Risorto. Ma Tommaso non crede, quelle parole gli sembrano vaneggiamenti inaffidabili. “Otto giorni dopo”, dunque nel primo giorno della seconda settimana dopo la tomba vuota, ecco Tommaso e gli altri di nuovo insieme. È il primo ma anche l’ottavo giorno, giorno della pienezza, eppure i discepoli hanno ancora paura degli uccisori di Gesù. Dovrebbero portare l’annuncio pasquale a tutta Gerusalemme e invece restano al chiuso, dominati dalla paura. Ma Gesù si rende di nuovo presente: “Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: ‘Pace a voi!’”. Ecco la fedeltà di Gesù, il Veniente tra i suoi anche quando non lo meritano e non sono in sua attesa. Innanzitutto consegna la pace, “la sua, non quella del mondo” (cf. Gv 14,27), poi si rivolge a Tommaso, “detto Didimo”, il “gemello” di ciascuno noi. Tommaso è il gemello nel quale c’è, come in noi, la logica del voler vedere per credere. Tommaso è come noi: quando si profila l’evento della resurrezione, vediamo morte (cf. Gv 11,15-16); quando Gesù annuncia che ci precede, non sappiamo quale sia la via (cf. Gv 14,2-6); quando dobbiamo fidarci della testimonianza dei nostri fratelli e sorelle, vogliamo essere quelli che vedono…

Gesù viene però anche per Tommaso e anche a lui si fa vedere con i segni del suo amore: le stigmate della sua passione impresse per sempre nella sua carne gloriosa. La resurrezione cancella i segni della morte e del peccato ma non i segni dell’amore vissuto, perché l’aver amato ha una forza che trascende la morte. Tutta la cura dei malati che le mani di Gesù hanno praticato, tutte le carezze che egli ha dato, tutto il suo amore vissuto, tutte le forze sprigionate dal suo seno sono visibili anche nel suo corpo risorto. Gesù dunque invita Tommaso ad avvicinarsi e a mettere il suo dito in quelle stigmate.

E qui, attenzione, non sta scritto che Tommaso mise il suo dito, ma che disse: “Mio Signore e mio Dio!”. Riconoscendo nelle stigmate l’amore vissuto da Gesù, Tommaso fa la confessione di fede più alta e piena in tutti i vangeli: Gesù è il Signore, Gesù è Dio. Ecco perché chi vede Gesù, vede il Padre (cf. Gv 14,9); ecco perché Gesù è l’esegesi del Dio che nessuno ha mai visto né può vedere (cf. Gv 1,18); ecco perché Gesù è “il Vivente” (Lc 24,5) per sempre. Tommaso non è certo un modello, anche se in lui possiamo riconoscerci. Per questo Gesù gli dice: “Beati quelli che, senza avere visto, giungono a credere”. È conoscendo l’amore vissuto dal Crocifisso che si inizia a credere: miracoli e apparizioni non ci fanno accedere alla vera fede. Solo la parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, solo l’amore di Gesù di cui il Vangelo è annuncio e narrazione (“segno scritto”, per dirla con la chiusura del vangelo), solo lo stare nello spazio della comunità dei discepoli del Signore, ci possono portare alla fede, facendoci invocare Gesù quale “nostro Signore e nostro Dio”.

Enzo Bianchi, monaco

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DIRITTI

Al centro i diritti dei bambini

La manifestazione che si è svolta a Milano domenica 19 marzo u.s. aveva lo scopo di esprimere, da un lato, la propria solidarietà al sindaco Beppe Sala, che dal palco del Gay Pride milanese, aveva annunciato di avere sottoscritto personalmente il provvedimento di registrazione dei bambini delle coppie omogenitoriali; e di reagire, dall’altro, nei confronti della circolare del ministro dell’interno Matteo Piantedosi che, bloccando il certificato di filiazione europeo, vietava ai sindaci la trascrizione nei registri comunali dei bambini delle coppie Arcobaleno. Il grande successo della manifestazione milanese cui hanno partecipato circa cinquantamila cittadini – successo che è (forse) andato persino oltre le aspettative degli stessi organizzatori – ha avuto il merito di aprire la discussione su una questione di grande rilevanza morale e civile, quella di tutti i bambini a fruire della parità di diritti, compreso quello di avere, fin dalla nascita, una famiglia in cui crescere.

La circolare del governo ha suscitato (e non poteva che suscitare) vivaci reazioni nell’ambito dell’opinione pubblica e immediate prese di posizione da parte dei partiti politici. Mentre essa ha contribuito, per un verso, ad allargare il dissenso civile nei confronti del diktat governativo – numerosi sono stati (e sono) i sindaci di comuni grandi e piccoli che hanno immediatamente avvallato la possibilità di registrazione dei bambini (tra questi quelli di Roma e di Bari) –; non ha mancato, per altro verso, di ingaggiare, sul fronte del centro-destra, una dura battaglia ideologica (condivisa peraltro anche da una consistente area reazionaria del mondo cattolico); battaglia che è sfociata anche nel ricorso a parole volgari e ad atteggiamenti di stampo fascista e persino razzista.

Una distinzione necessaria. Il rifiuto del centro-destra (da esso si è distanziata in parte Forza Italia) veniva soprattutto motivato con il pretesto che si trattava di un evidente tentativo della maggioranza di spostare l’attenzione dal riconoscimento dei diritti dei bambini delle coppie Arcobaleno alla questione della maternità surrogata, che veniva persino considerata dall’onorevole Federico Morricone, presidente della commissione cultura della Camera, «un reato grave, più grave della pedofilia; siamo di fronte – egli aggiungeva – a persone che vogliono scegliere un figlio come la tinta di casa» (La crociata della destra, «La Stampa», 21 marzo 2023, p. 14). Il rischio di incorrere in questo equivoco in realtà esiste, se si pensa non solo a quanto affermano molti esponenti del centro-destra, i quali non mancano di agitare tale spauracchio, ma che ha trovato anche riscontro in una discussa (e discutibile) sentenza della Cassazione del 2020, sentenza con la quale si vietava il riconoscimento di tali diritti, per il timore che si sarebbe in questo modo aperta la strada alla pratica della maternità surrogata.

Non esiste alcun legame tra le due pratiche. Tale timore non ha, tuttavia, alcuna ragion d’essere. La distinzione tra le due pratiche è netta. Il riconoscimento dei diritti dei bambini è legato al fatto che essi esistono, e che in quanto tali vanno a loro riconosciuti diritti uguali a quelli degli altri bambini – si tratterebbe altrimenti di una sperequazione, che suonerebbe come un grave atto di ingiustizia – e che tale riconoscimento non ha nulla a che fare con il come i bambini sono nati, incluso il ricorso alla maternità surrogata, che nel nostro Paese è un reato penalmente perseguibile. È come dire, in altri termini, che il fatto che il bambino sia venuto al mondo comporta che gli vengano assicurate, fin dall’inizio, tutte le tutele di cui ha diritto, compresa quella di avere due genitori, che si prendano responsabilmente cura di lui.

Le battaglie identitarie non possono essere fatte penalizzando i più piccoli che non hanno alcuna responsabilità a riguardo del modo con cui sono stati fatti nascere. Il rifiuto senza esitazioni della maternità surrogata – è questa anche la nostra posizione, che abbiamo in passato espresso anche sulle pagine di questa rivista – non implica dunque (e non può implicare) il rifiuto del riconoscimento di diritti fondamentali, come quelli qui richiamati di cui tutti devono poter fruire. Lo mette bene in evidenza in un interessante articolo apparso su «La Stampa» Gabriella Luccioli, presidente della prima sezione civile della Cassazione, la quale non manca anzitutto di enunciare, con estrema chiarezza e radicalità, le ragioni del «no» alla maternità surrogata. Con tale pratica – sostiene l’illustre magistrato – ha infatti luogo un atto di grave violazione del corpo della donna, ridotta a incubatrice di una creatura che dovrà lasciare ad altri, nonché di svilimento del senso umano della gravidanza e del parto, pratiche ridotte a semplice «merce». Per queste ragioni ella scrive a proposito della maternità surrogata: «È una pratica che ferisce la dignità della donna, ridotta per contratto a un mero contenitore di una vita destinata a non appartenerle mai, e trasformata in una donna ‘cosa’. E nulla cambia se ciò avviene a titolo oneroso o gratuito, se i committenti sono due uomini o una coppia etero» (cfr. «La Stampa» di martedì 21 marzo 2023, p. 15). E aggiunge (e non si tratta di cosa di poco conto) che tale pratica è destinata ad avere ricadute negative sul figlio, costretto a una brusca e definitiva interruzione del legame simbiotico con chi lo ha generato. La relazione a livello biologico e psicologico che si instaura tra madre e figlio nel lungo periodo di gestazione – ce lo dicono oggi gli studi di psicologia prenatale – riveste infatti un’importante funzione per la costruzione della futura personalità del bambino. L’aperto rifiuto di questa pratica non può (e non deve) tuttavia – afferma, in conclusione, la Luccioli – impedire che si giunga al riconoscimento dei diritti dei bambini nati in famiglie Arcobaleno: diritti che vanno assolutamente riconosciuti e tutelati.

La necessità dell’intervento del parlamento. Le manifestazioni di protesta di molti sindaci, verificatesi in queste ultime settimane, hanno per questo avanzato l’esplicita richiesta dell’avvio di un ampio dibattito parlamentare, volto a colmare con urgenza questo grave vuoto normativo. Si tratta di aprire una discussione serena su alcune proposte di legge, già depositate in parlamento, evitando l’innalzamento di steccati ideologici o di prese di posizione confessionali, in modo di pervenire rapidamente a una soluzione positiva.

Vincere le barriere imposte da normative che penalizzano il bambino è, in definitiva, un importante atto di civiltà. Nella sua radicale fragilità e impotenza il bambino è il soggetto che va più di tutti protetto. La mancata assegnazione del primato a questa istanza, oggi purtroppo spesso (non solo in questo caso) insufficientemente assicurata dalla copertura della legge, rappresenta un grave vulnus non solo giuridico ma prima ancora etico. Un vulnus che va al più presto sanato, se si intende dare pieno corso allo sviluppo della vita democratica.

Giannino Piana                 “Rocca” n 9         1° maggio 2023

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DONNE NELLA (per la ) CHIESA

L’uomo che le vide arrivare

Quando nel 1963, Giovanni XXIII nella Lettera Enciclica Pacem in Terris” parlò dell’ingresso della donna nella vita pubblica e nel lavoro, il Magistero si occupava per la prima volta in modo specifico delle donne e per la prima volta parlava di questo argomento come di un evento storico, come un dato di fatto incontrovertibile. Accostarsi alla «questione femminile» in tal modo gli permise di vederle arrivare. Fu una svolta storica per il Magistero pontificio, svolta che era stata preparata dalle stesse esperienze personali del giovane prete Roncalli allorché, tra il 1910 e il 1920, fu incaricato di occuparsi del movimento femminile cattolico nella diocesi di Bergamo. L’Azione cattolica (Udi) infatti nei primi anni del Novecento ebbe un ruolo fondamentale nel processo di emancipazione delle donne.

Nell’Enciclica, Papa Giovanni identificava nel nuovo protagonismo femminile uno dei tre «segni dei tempi» caratterizzanti l’epoca moderna, assieme all’ascesa economico- sociale delle classi lavoratrici e all’autodeterminazione dei popoli (in relazione alla fine del colonialismo). Il Papa vedeva in questi segni, eventi che stavano trasformando radicalmente il mondo. Quanto alle donne, rilevando il loro arrivo prepotente nella scena pubblica, ne rimarcava il nuovo protagonismo e la loro nuova autoconsapevolezza: «…viene un fatto a tutti noto, e cioè l’ingresso della donna nella vita pubblica: più accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà. Nella donna, infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica.» (Pacem in terris 22).

Una svolta storica e il suo difficile cammino. Questo tipo di approccio nel quale la Chiesa (e un uomo) appare in ascolto dei tempi è diventato un metodo teologico privilegiato dopo il Concilio Vaticano II, sebbene non abbia avuto molto seguito successivamente nel Magistero stesso, almeno in riferimento alla questione delle donne. Già Paolo VI, rivolgendosi alle donne nel Messaggio del 1965 a chiusura del Concilio Vaticano II, pur continuando a parlare della venuta dell’ora delle donne, a far riferimento al momento storico in cui l’umanità stava sperimentando una trasformazione profonda, «l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto», si lascia tuttavia attrarre dall’antica tentazione di parlare del «femminile» dal punto di vista del maschio normante. Non parla infatti delle donne ma del genere femminile («la Donna» al singolare), volendone definire l’essenza e le caratteristiche psicologiche, enfatizzandone per di più le qualità stereotipate della dolcezza, tenerezza, pazienza, umiltà, il ruolo suo strumentale di aiuto agli uomini con una certa enfasi nel valorizzare le donne – argomentazione questa che non lascia mai pensare a nulla di positivo quanto al riconoscimento degli effettivi diritti per le donne concrete.

Quest’ultima linea «dottrinale» sarà quella percorsa anche da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Mulieris Dignitatem del 1988. Pur essendo questo testo magisteriale il primo ad applicare una interpretazione egualitaria al testo di Genesi 1 e ad affermare che in Dio la generazione non ha caratteristiche né «maschili» né «femminili», usa però un tipo di approccio che tende a definire il femminile (e quindi tutte donne) con determinate caratteristiche. Questa ideologia del femminile viene giustificata con un uso della Scrittura «funzionale», ovvero ricorrendo ai testi biblici come «pezza di appoggio» del discorso teologico.

L’antropologia teologica duale formula una sorta di differenza ontologica tra i sessi, che con il ricorso non troppo velato al di balthasariana «» memoria diventa il criterio con cui leggere e interpretare la natura e il ruolo delle donne. Con l’aiuto di una lettura storicistica della storia della salvezza viene riproposto il tradizionale parallelismo Eva-Maria e il «femminile» viene declinato secondo i consueti ruoli di madre, vergine, sposa, ovvero sempre e solo in relazione al maschio, ruoli che tra l’altro non hanno una corrispondenza per il sesso opposto. Benché tale approccio abbia trovato il plauso di un certo tipo di femminismo della differenza, esso appare chiaramente un modo che rende ciechi e sordi di fronte alle effettive realtà messe in atto dalle donne. Esso parte dalle idee (secondo ciò che gli uomini pensano che le donne siano o dovrebbero essere) e pretende di applicarle alla realtà, con l’esito paradossale di ritrovarsi con alcune donne che potrebbero non corrispondere al modello formulato. Se non ci aspettiamo le donne lì dove sono in grado effettivamente di andare, non è un caso che non le vediamo arrivare. Trattare le donne come argomento a parte rispetto all’umanità, appellarle al singolare senza considerare la molteplicità concreta delle differenze tra loro, cercare una definizione aprioristica dell’essenza del femminile pensando di poterla identificare in specifiche qualità psicologiche o in base a funzioni biologiche, significa volerne controllare gli spazi di azione ma determina anche una restrizione di campo nella visione della storia per cui non si immaginano, né si è disposti a riconoscere novità di cammini, talenti, opportunità, poteri e ruoli. Il discorso si limiterà a parlare delle donne in modo funzionale, sempre e solo in relazione ad altro, ovvero in modo sessista.

Anche testi come la “Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna nel mondo

www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20040731_collaboration_it.html

 a firma Card. Ratzinger derivano da metodologie di approccio diametralmente diverse da quella della Pacem in Terris tanto da assumere posizioni critiche rispetto all’emancipazione delle donne, agli studi di genere condotti dalle donne, affrettandosi a ribadire l’esclusione di esse dagli spazi del potere maschile, quasi nella paura che la libertà femminile attenti l’autorità maschile. La differenza tra i due metodi è abissale.

Il primo approccio non può che portare a favorevoli aperture a spazi di novità e libertà per le donne, il secondo ad una determinazione previa di ruoli e spazi determinati che rischiano di diventare gabbie e un destino/iattura ineluttabile per le donne.

Il primo approccio, attento a riconoscere i segni dei tempi, più convinto che Dio si riveli effettivamente nella storia, attende di vedere i germogli di novità che l’oggi presenta («ecco io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia non ve ne accorgete?» Is 43,19). Il secondo norma, dirige, circoscrive in modo difensivo una possibile libera autodeterminazione delle donne, inquadra ciò che esse devono o non devono essere, ciò che (possono o) non possono fare. Questo approccio non potrà che risultare cieco anche di fronte a dati evidenti e indiscutibili, come i segnali che dimostrano che un certo sistema è destinato a produrre e a perpetuare ingiustizie.

Soggettualità delle donne e Pacem in Terris. Sarà già stato ricordato che questa Enciclica è stata scritta all’indomani della grave crisi dei missili di Cuba del 1962 quando l’umanità si ritrovò ad un passo dall’autodistruzione. La crisi rientrò grazie alla buona volontà di singole persone in grado di trovare soluzioni diplomatiche. Il Papa si proponeva così di individuare le condizioni per la pace arrivando ad enumerare tra queste la verità, la giustizia, l’amore e la libertà. Il riferimento inedito e inatteso di Papa Giovanni XXIII al nuovo protagonismo delle donne assume in questa luce un valore in più: indicava il pieno riconoscimento della soggettualità delle donne come uno dei luoghi fondamentali per il perseguimento della pace. La relazione tra uomini e donne è dunque uno dei primi e principali luoghi di quella giustizia che è condizione della pace.

Garantire la pace significa rispettare la persona umana nei suoi diritti. Finché dunque le donne saranno considerate esseri umani di seconda classe (come ha detto recentemente anche Papa Francesco), non ci potrà essere pace. È stato rilevato come Papa Francesco parlando delle donne sia tornato all’approccio storico, senza avere paura di parlare delle «legittime rivendicazioni delle donne» e denunciando come esse soffrano ancora situazioni di esclusione nelle società: «…l’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro messaggio» afferma nella “Fratelli tutti 23”. Giustamente gli è stato fatto notare che forse sarebbe bene iniziare a pensare a partire da casa sua. Il fenomeno degli abusi di potere e sessuali, infatti, parla chiaro rispetto a situazioni perduranti di ingiustizie nella Chiesa cattolica.

Selene Zorzi                                      “Rocca” n. 7       1° aprile 2023

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Sull’uso equivoco di due principi intorno al ministero femminile.

Letture forzate di Von Balthasar e Tommaso d’Aquino

Non è raro che i “princìpi teologici” siano usati con poca attenzione. Essendo “proposizioni generali” essi hanno il vantaggio di orientare verso una sintesi necessaria, ma proprio per questo possono anche dirottare gravemente la interpretazione della tradizione. La cosa più delicata è, in questi casi, la relazione tra il principio e i fatti a cui si applica: spesso si può notare una scarsa considerazione del contesto in cui viene usato un principio. Infatti quando esso manca, ciò impedisce l’uso corretto del medesimo principio. Se i principi entrano in campo in ambiti delicati e in evoluzione, è ovvio che il controllo del loro utilizzo deve essere più accurato. Questo vale in modo speciale quando si affrontano temi nuovi per la tradizione: in questi casi non è raro che un principio funzioni da “copertura” per altri principi, che non si possono più ripetere, ma che vengono in qualche modo supportati da un uso diverso del principio invocato.

Vorrei presentare qui, molto brevemente, due casi di scuola, che prevedono l’utilizzo forzato di un principio, per giustificare la tradizionale esclusione delle donne dal ministero ordinato. Si cerca di trasformare il “fatto” in un “dovere”. E si invoca o un principio ecclesiologico (ossia la dialettica di Von Balthasar tra principio mariano e principio petrino) o un principio di sacramentaria (elaborato da S. Tommaso d’Aquino). Provo ad esporre alcune perplessità sul modo di impiegare questi “princìpi”.

  1. Da tempo accade che, per uscire dall’imbarazzo nel giustificare una tradizione intorno alla rilevanza del sesso nella ordinazione ministeriale, cosa che non trova più una evidenza nella cultura e nella società, si pretende di desumerla dalla tradizione, utilizzando il ricorso ad un “duplice principio” (petrino e mariano) che caratterizzerebbe in modo generale tutta la storia della Chiesa e che dovrebbe perciò essere rispettato normativamente anche oggi. Secondo questa lettura nella Chiesa il principio petrino sarebbe riferito al ruolo degli uomini maschi, mentre il principio mariano sarebbe riferito al ruolo esercitato dalle donne. Provo a mostrare la debolezza di questo ragionamento, in cui si mescolano, inavvertitamente, il piano del giudizio con il piano del pregiudizio.

Illustro prima di tutto la funzione per cui è nata la elaborazione di questi due principi (§.1), ne presento gli usi coerenti e quelli incoerenti (§. 2) e verifico alla fine le possibilità di sviluppo del dibattito attuale (§.3), su basi meno pregiudicate.

§1. La funzione ecclesiale dei due principi. Legato alla difesa apologetica del “primato petrino” nel contesto del dialogo ecumenico (per superare il “complesso antiromano”) la coppia di principi serviva alla teologia di  Hans Urs Von Balthasar [α1905-ω1988] per sottolineare due approcci alla tradizione non incompatibili, e nei quali la sovra ordinazione del rapporto spirituale al rapporto istituzionale permetteva di alimentare la speranza di capovolgere la percezione di un cattolicesimo ridotto alla difesa del “primato di Pietro”. La dialettica tra Maria e Pietro, tra principio spirituale e principio istituzionale, assumeva i nomi, metaforici, di principio mariano e di principio petrino. Perciò è evidente che in origine la differenza tra principio petrino e principio mariano era stata escogitata da Von Balthasar per mettere in luce una tensione originaria tra logica istituzionale petrina e logica carismatica mariana. Questo non ha niente  che fare, in partenza, con la differenza tra maschile e femminile. Se poi anche von Balthasar ha usato il doppio principio come sostegno al pregiudizio di un “essenzialismo” maschile e femminile, addirittura di una “permanente gerarchia dei sessi”, questo resta un elemento secondario. Del principio mariano partecipano sicuramente anche i maschi. Non si vede perché mai del principio petrino non dovrebbero partecipare anche le donne. I due principi non spiegano affatto questo pregiudizio culturale e antropologico.

§2. Lo scivolamento del ragionamento sul piano del sesso. La grande metafora escogitata da Von Balthasar, con la forza del suo pensiero sistematico, correva però fin dal principio un grave rischio: di spostarsi da una argomentazione squisitamente ecclesiologica, ad una forma di antropologia normativa (biblica o magisteriale) del soggetto e del ministero. Come se il principio si spostasse dal piano di una “metafora biblica” della differenza tra chiesa istituzionale e chiesa spirituale ad una logica di genere che uniformava tutte le donne a Maria e tutti gli uomini a Pietro. Qui, come è evidente, è potuto accadere uno scivolamento grave dal piano del legittimo giudizio sistematico al piano dell’illegittimo pregiudizio culturale. Per dirlo meglio: il principio petrino veniva riferito in origine alla mediazione istituzionale del discepolato e dell’apostolato, a differenza del principio mariano, che era riferito invece alla mediazione carismatica e affettiva del discepolato e dell’apostolato. È chiaro che decisivo qui non è il sesso di Pietro e di Maria, ma la forma differenziata della relazione con il Signore e con la tradizione. Un esempio può essere utile per capire meglio questa differenza. Possiamo chiederci: in che senso Pietro è autorevole sul piano del perdono e della misericordia? Se ragioniamo secondo il principio petrino, la risposta è perché ha ricevuto il potere delle chiavi. Se invece pensiamo secondo il principio mariano, dobbiamo rispondere perché ha pianto amaramente dopo aver rinnegato il Signore. I due principi non dipendono dal sesso di chi li incarna, ma dalla forma del rapporto con cui si pongono nella tradizione del discepolato cristiano.

§3. La ripresa della questione in prospettiva La domanda sul ministero femminile non può essere affrontata soltanto rinviando a questa distinzione tra i due principi. Piuttosto, sarebbe utile riferirsi ai due principi per scoprire come, per gli uomini e per le donne, non vi sia soltanto una relazione istituzionale con la tradizione. La differenza tra principio petrino e principio mariano non riguarda, perciò, la legittimità con cui un uomo può incarnare il principio mariano o una donna il principio petrino. Riguarda, invece, la capacità di non esaurire né gli uomini né le donne sul piano della loro “prestazione istituzionale”. Per questa importante distinzione, la elaborazione del duplice principio risulta ancora preziosa. Se invece si pretendesse di usare i due principi, per delimitare lo spazio del maschile e del femminile nella mediazione della salvezza, questa sarebbe una operazione poco lungimirante, perché subordinerebbe il giudizio sistematico sulla chiesa ad un pregiudizio antropologico sulle persone. Si può dire, perciò, che la distinzione tra principio petrino e principio mariano non ha la intenzione originaria, e non è in grado neppure a posteriori, di trasformare un pregiudizio culturale contingente in un giudizio sistematico vincolante.

Altrettanto interessante è esaminare come, già quasi 50 anni fa, l’uso dei “principi” fosse assunto in modo molto disinvolto dal magistero ecclesiale. Ecco una citazione tratta da Inter insigniores” (1976), documento che interviene sul tema della “ordinazione della donna” e che trae il titolo dalla nota espressione formulata da Giovanni XXIII che scopre “tra le note più importanti” del mondo moderno la nuova dignità della donna nello spazio pubblico. Sarà paradossale, ma esemplare, scoprire lo stridente contrasto tra il titolo del documento e il contenuto della argomentazione che vado a presentare. Ecco il testo da esaminare:

«I segni sacramentali–dice S. Tommasorappresentano ciò che significano per una naturale rassomiglianza». Ora, questo criterio di rassomiglianza vale, come per le cose, così per le persone: allorché occorre esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo nell’Eucaristia, non si avrebbe questa « naturale rassomiglianza », che deve esistere tra il Cristo e il suo ministro, se il ruolo del Cristo non fosse tenuto da un uomo: in caso contrario, si vedrebbe difficilmente in chi è ministro l’immagine di Cristo. In effetti, il Cristo stesso fu e resta un uomo.

                Bisogna per lo più diffidare dell’assunzione di un “principio” tratto da un’opera di S. Tommaso, perché frequentemente si tratta di una apparenza di principio, che non corrisponde alla intenzione dell’autore. In questo caso, il documento “Inter insigniores” utilizza un testo di Tommaso, senza approfondirne né la fonte né il contesto. Ad un esame più attento, infatti, risulta facile riconoscere la debolezza della argomentazione magisteriale, che ricorre ad un testo il cui contenuto reale, di fatto, smentisce le premesse stesse del documento magisteriale. Cerco di esporre con semplicità il frutto della mia breve ricerca.

  1. Inter insigniores” appare nel Commentario alle sentenze di Pietro Lombardo (Super Sent., lib. 4 d. 25 q. 2 a. 2 qc. 1 ad 4) ed è parte di una risposta alla discussione, che non riguarda la ordinazione della donna, ma quella dello schiavo (l’articolo 2 si intitola infatti “Se la schiavitù sia impedimento alla ricezione dell’ordine”)! Il testo della citazione integrale, che è molto breve, suona così: “ Ad quartum dicendum, quod signa sacramentalia ex naturali similitudine repræsentant; mulier autem ex natura habet subjectionem, et non servus; et ideo non est simile.” Come è evidente, il riferimento alla “similitudo” non riguarda di per sé la “somiglianza maschile/femminile” rispetto al Signore, ma la somiglianza nella “condizione di schiavitù”, che lo schiavo ha per contratto o per convenzione, mentre la donna ha “per natura”. Per capire meglio questa risposta, tuttavia, bisogna leggere la obiezione cui risponde, che si trova qualche pagina prima; La posizione che viene confutata nel “ad quartum” citato è la seguente, che sostiene la non ordinabilità dello schiavo, che sarebbe caso “più grave” rispetto alla donna: Inter insigniores on potest suscipere sacramentum ratione subjectionis. Sed major subjectio est in servo; quia mulier non datur viro in ancillam, propter quod non est de pedibus sumpta. Ergo et servus sacramentum non suscipit.
  2. Inter insigniores“, ma la somiglianza tra la condizione di schiavo e la condizione di donna. La “similitudo” negata da Tommaso è la relazione tra lo schiavo e la donna circa il “defectus eminentiæ gradus”. E viene contestata proprio per il fatto che la “carenza di autorità” per lo schiavo è reversibile, mentre per la donna non lo è. La natura, per Tommaso, pone la donna in una soggezione insuperabile. La controprova della non pertinenza del presunto principio tomista invocato da “Inter Insigniores” si ha leggendo i testi, che precedono quelli a cui abbiamo fatto riferimento, ossia quelli dell’articolo 1, dedicato specificamente alla questione “Se il sesso femminile sia un impedimento alla ricezione dell’ordine”. In questa parte del commento il principio invocato da “Inter Insigniores” appare in forma diversa, ossia con un ragionamento leggermente più ampio, ma che chiarisce ancora meglio la “mens” di Tommaso e la sua profonda differenza dalla intenzione con cui “Inter Insigniores” lo assume, in una prospettiva profondamente diversa.

Anche in questo caso la citazione utilizza la logica della “similitudo”, allegando anche un esempio, tratto dal sacramento della unzione degli infermi. Leggiamo il passo: “Unde etsi mulieri exhibeantur omnia quæ in ordinibus fiunt, ordinem non suscipit: quia cum sacramentum sit signum, in his quæ in sacramento aguntur, requiritur non m res, sed significatio rei; sicut dictum est, quod in extrema unctione exigitur quod sit infirmus, ut significetur curatione indigens. Cum ergo in sexu femineo non possit significari aliqua eminentia gradus, quia mulier statum subjectionis habet; ideo non potest ordinis sacramentum suscipere.” (Super Sent.,

lib. 4 d. 25 q. 2 a. 1 qc. 1 co.)

Come è evidente dal ragionamento proposto da Tommaso, la domanda non solo della “res”, ma della “significatio rei”, che in qualche modo equivale a quanto sostenuto a proposito della “similitudo” nel caso precedente, viene argomentata esclusivamente in rapporto alla “significatio” della “eminentia gradus”: il sesso femminile è escluso dalla ordinazione perché incapace di “significare ed esercitare la autorità”.

  c. Le note più importanti. È chiaro che la citazione utilizzata da “Inter insigniores” riconduce la argomentazione di Tommaso non alla somiglianza maschile tra il ministro e il Signore, nel suo lato oggettivo e formale, ma alla somiglianza tra rappresentanza della autorità e assenza di schiavitù. Così pare evidente la debolezza della argomentazione, che non fa altro che ribadire, con una petizione di principio, proprio quella impostazione classica che assume la relazione tra uomo e donna segnata non solo da una legittima differenza, ma da una strutturale subordinazione della seconda al primo.

Come accade non raramente, anche in questo caso un testo di Tommaso, sganciato dal suo contesto originario, serve a dare autorevolezza ad una posizione obiettivamente assai debole, e comunque molto diversa da quella sostenuta dal Dottore angelico. Tommaso non utilizza mai nella discussione sugli impedimenti alla ordinazione l’argomento della somiglianza, se non riferendola al “difetto di autorità”. In altri termini, lo schiavo non può essere ordinato perché privo di autorità. Ma lo schiavo può superare questo impedimento, che non gli deriva dalla natura, ma dalla tradizione. Invece la donna “ha la schiavitù per natura” e per questo non può essere ordinata. La ragione della dissomiglianza non è la “forma” o la “struttura” femminile, ma il “defectus eminentiæ gradus”.

Se letta nel suo contesto, quindi, la affermazione sulla “somiglianza” – riproposta dal documento del 1976 – riafferma soltanto la prospettiva che per Tommaso risultava decisiva: ossia la “mancanza di autorità della donna” come principio antropologico e sociologico del suo tempo e che si imponeva anche alla discussione teologica, che si lascia istruire da questa evidenza culturale. Che però noi abbiamo superato persino nel titolo di “Inter Insigniores”.

Essendo “Inter Insigniores” introdotto dalla citazione con cui Papa Giovanni segnala in Pacem in terris la acquisizione della “donna nello spazio pubblico” come “segno dei tempi, sembra davvero paradossale che per dar seguito a questa nuova affermazione, si fondi la soluzione su un testo medievale che conferma precisamente ciò di cui dobbiamo oggi liberarci. Se si ribadisce in premessa che “per natura la donna non può comandare”, ogni discussione teologica risulta superata e senza alcuno spazio.

Una semplice esegesi tomista, condotta nel contesto da cui “Inter Insigniores” trae la affermazione di Tommaso, libera il campo per argomentazioni davvero convincenti, che debbono essere nuove, giacché scaturiscono da un mondo trasformato dalla libertà e dalla eguaglianza. La debolezza obiettiva delle argomentazioni del magistero, di cui il teologo deve fare accurata rassegna, libera il campo per una ricerca di argomentazioni più forti e più convincenti, che rispondano davvero alla questione sollevata da Giovanni XXIII e accettino che, in rapporto al femminile, qualcosa di decisivo è accaduto tra XIX e XX secolo, di cui il XXI secolo deve dar conto, senza ambiguità. La somiglianza richiesta da Tommaso è la “assenza di schiavitù”: possibile per lo schiavo, ma impossibile per la donna. Il suo testo, dunque, assume un orizzonte che non è più il nostro. Le “insigniores notas” che il mondo da 60 anni ci offre, dalle quali la Chiesa dovrebbe disporsi ad imparare qualcosa, e tra le quali sta la partecipazione delle donne alla “cosa pubblica”, esigono dal magistero e dai teologi “insigniores cogitationes”. Non è l’uso equivoco dei principi classici a poter aggirare il compito di elaborare nuovi principi, perché la tradizione rimanga sana.

Andrea Grillo                                   “Come se non”   1° aprile 2023

www.cittadellaeditrice.com/munera/sulluso-equivoco-di-due-principi-intorno-al-ministero-femminile-letture-forzate-di-von-balthasar-e-tommaso-daquino/

ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Assegno unico: Bordignon “ancora troppi nuclei non sono stati raggiunti”.

www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2023/april/documents/20230413-usmi.html

“Secondo i dati dell’Inps per l’assegno unico sono stati distribuiti 16 miliardi sugli oltre 18 stanziati, questo significa due cose: che ancora troppe famiglie non sono state raggiunte da questa misura – ed è una corresponsabilità di tutti – e che c’è un tesoretto che le famiglie devono vedersi assegnare al più presto. Inoltre la misura deve essere potenziata avvicinandola agli oltre 200 euro a figlio tedeschi, e ne va semplificato l’accesso con la eliminazione o la riforma dell’Isee”. Così Adriano Bordignon, presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, commenta i dati contenuti nell’aggiornamento dell’Osservatorio statistico sull’Assegno unico universale, reso noto oggi.

Abbiamo più volte segnalato come l’attuale Isee sia un freno notevole all’accesso e uno strumento inappropriato per un’equa assegnazione. Troppe le famiglie che non fanno richiesta, troppe quelle che si accontentano della misura minima per non doversi invischiare nella farraginosità dello strumento Isee”, sottolinea Bordignon sottolineando come l’assegno unico debba essere uno strumento di supporto alle famiglie e di rilancio della natalità. “Bisogna rapidamente darsi da fare – aggiunge il presidente del Forum – non solo perché i 18 miliardi vengano assegnati nella loro interezza ma perché le risorse siano incrementate”. “Lavoriamo insieme anche in vista della riforma fiscale, per mettere le famiglie italiane nella condizione di essere motore per tutto il Paese”, conclude Bordignon.

(A.B.)                                    Agenzia SIR        13 aprile 2023

www.agensir.it/quotidiano/2023/4/13/assegno-unico-bordignon-forum-famiglie-ancora-troppi-nuclei-non-sono-stati-raggiunti-assegnare-al-piu-presto-il-tesoretto-alle-famiglie

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Papa Francesco: all’Usmi, “il Sinodo non è un Parlamento, una raccolta di opinioni”

Per camminare insieme è necessario che ci lasciamo educare dallo Spirito a una mentalità veramente sinodale, entrando con coraggio e libertà di cuore in un processo di conversione, perché la sinodalità rappresenta la strada maestra per la Chiesa, chiamata a rinnovarsi sotto l’azione dello Spirito e grazie all’ascolto della Parola

Ne è convinto il Papa, che ha dedicato una parte del discorso rivolto all’Usmi al cammino sinodale. “Delle volte – ha detto a braccio – mi viene un po’ di paura quando parliamo di spirito sinodale e diciamo: ‘Subito, adesso deve cambiare questo, questo…’, e torniamo a chiuderci in un altro modo”. Il Sinodo, ha spiegato Francesco, “è pregare, ascoltare, è camminare, poi il Signore ci dirà cosa dobbiamo fare. Ho visto in alcune proposte: ‘Adesso dobbiamo prendere questa decisione’. Questo non è cammino sinodale, è Parlamento. Il protagonista del cammino sinodale è lo Spirito Santo, lui è il protagonista. E le donne vanno in questa direzione: costruttori del Regno di Dio in comunione con le altre realtà ecclesiali, prima di tutto con i vostri Pastori, anche quando non vi sentite da loro valorizzate o a volte comprese; disponibili ad ascoltare, a incontrare, a dialogare, a fare progetti insieme”.

Il camino sinodale non è avere risposte e prendere decisioni”, ha ribadito il Papa: “è camminare, ascoltare, sentire e andare avanti. Il Sinodo non è un Parlamento, non è una raccolta di opinioni: è mettersi in ascolto della vita sotto la guida dello Spirito Santo, che è il protagonista del Sinodo. E voi andate su questa strada con rinnovato entusiasmo, donne testimoni del Risorto”.     

(M.N.)                  Agenzia SIR        13 aprile 2023

www.agensir.it/quotidiano/2023/4/13/papa-francesco-allusmi-il-sinodo-non-e-un-parlamento-una-raccolta-di-opinioni

MIGRANTI E RIFUGIATI

Centro Astalli, “Italia non impara da esperienza con ucraini e non esce da logica emergenza

Presentato oggi a Roma il Rapporto annuale 2023 del Centro Astalli: nel 2022 sono stati 18.000 gli utenti degli 8 enti della loro rete territoriale, di cui 10.000 a Roma. Oltre 700 i volontari, 46.313 i pasti distribuiti, 27.855 gli studenti incontrati nell’ambito dei progetti didattici sul diritto d’asilo e il dialogo interreligioso in 18 città italiane. Delle 1.308 persone accolte in totale dalla rete del Centro Astalli, 240 sono stati inseriti in percorsi di semi-autonomia in comunità in collaborazione con congregazioni religiose. Nel 2022 sono arrivati in Italia via mare 105.129 migranti, di cui 13.386 minori non accompagnati. Alla fine dell’anno erano nel circuito dell’accoglienza 107.677 persone. Altri 170.000 sono arrivati dall’Ucraina

                Nel 2022 il numero di persone in fuga nel mondo ha superato la soglia dei 100 milioni ma solo una piccola percentuale di questi cerca una vita migliore in Europa. In Italia sono arrivati via mare 105.129 migranti, di cui 13.386 minori non accompagnati. Alla fine dell’anno erano nel circuito dell’accoglienza 107.677 persone. Altri 170.000 sono arrivati dall’Ucraina, di cui solo il 20% ospitati in strutture d’accoglienza; la maggior parte è stata accolta da familiari e connazionali. L’esperienza positiva con i profughi ucraini, che hanno usufruito della protezione temporanea, di contributi economici e della possibilità di entrare da subito nel mondo del lavoro, non è stata però messa a frutto con tutti gli altri arrivati dal Mediterraneo o dalla rotta balcanica: afgani, siriani, somali, nigeriani, anche loro in fuga da conflitti.

 “Accogliere i rifugiati con dignità è possibile” ma è “una lezione che l’Italia non vuole imparare”:

Non capitalizza l’esperienza ucraina e non riesce a uscire dalla logica dell’emergenza”. Anzi, “è sembrato come se ci fossero due percorsi paralleli: uno per gli ucraini e uno per tutti gli altri. In realtà si tratta di persone che si trovano nella medesima condizione”. È la denuncia contenuta nel Rapporto annuale 2023 del Centro Astalli, il Servizio dei gesuiti per i rifugiati, presentato oggi a Roma al Teatro Argentina, con la presenza del cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei.

“I primi passi del nuovo governo, dopo l’ennesimo braccio di ferro compiuto mentre i migranti erano sulle imbarcazioni in attesa di un porto sicuro – afferma il Centro Astalli -, si sono concentrati su una rinnovata lotta alle ong che si occupano del salvataggio in mare. E neanche le vittime del naufragio di Cutro hanno sortito alcuna reazione politica di umanità, nonostante la società civile abbia chiesto con forza un cambiamento”.

                Nel 2022 sono stati 18.000 gli utenti degli 8 enti della rete del Centro Astalli, di cui 10.000 a Roma. Oltre 700 i volontari, 46.313 i pasti distribuiti, 27.855 gli studenti incontrati nell’ambito dei progetti didattici sul diritto d’asilo e il dialogo interreligioso in 18 città italiane.

                Il Centro Astalli gestisce sia Centri di accoglienza straordinaria (a Trento, Vicenza, Padova) che centri del Sistema accoglienza e integrazione – Sai (a Bologna, Palermo, Roma, Trento), che alla fine del 2022 accoglieva in totale solo 33.848 persone. È il Sai, suggerisce il rapporto, “il sistema da ampliare e su cui investire, affinché a tutti possa essere garantito un efficace supporto all’integrazione, secondo standard nazionali uniformi”. A Roma, Trento, Vicenza, Padova molte congregazioni religiose hanno aperto le porte all’accoglienza di rifugiati.

                Delle 1.308 persone accolte in totale dalla rete del Centro Astalli, 240 rifugiati sono state inseriti in percorsi di semi-autonomia in comunità di ospitalità in collaborazione con ordini religiosi, in cui si sono sperimentate, con buoni risultati, anche forme di co- housing tra studenti universitari rifugiati e italiani.

Aumentano le vulnerabilità dei rifugiati. Nel rapporto si evidenzia anche un aumento delle vulnerabilità fisiche e psicologiche dei rifugiati, a causa di violenze e torture nei Paesi di origine e transito (Libia e Balcani): il 50% delle persone accolte nei centri romani del Centro Astalli si trova in queste condizioni. Molti ospiti soffrono di patologie gravi. Per questo il servizio dei gesuiti auspica la progettazione di “nuove modalità di presa in carico e accoglienza che tengano conto di percorsi e tempi personalizzati e della necessità di professionalità dedicate”.

                Emergenza casa e costo della vita. Per i rifugiati, come per le fasce più deboli della popolazione, è inoltre difficile trovare casa e pagare le bollette, a causa dell’aumento del costo della vita. “Persone rifugiate con contratti di lavoro stabili e processi di integrazione avanzati si trovano di fronte all’impossibilità di poter avere un’abitazione autonoma, senza dover ricorrere a contratti capestro, in nero, alloggi abusivi, subaffitti o soluzioni di fortuna”. Da Trento a Catania, da Bologna a Palermo, il grido d’allarme è lo stesso: “la casa in Italia per i rifugiati è un diritto ancora non esigibile” sottolinea il rapporto. Le famiglie e le donne sole con bambini (un terzo delle persone seguite dal servizio di accompagnamento sociale a Roma) hanno subìto maggiormente gli effetti negativi della crisi economica, come pure i rifugiati che chiedono il ricongiungimento familiare: “Al termine di iter lunghi e costosi, la famiglia ricongiunta si trova di fatto sola ad affrontare una situazione nuova, con pochi strumenti a disposizione”.

Burocrazia italiana e digital divide. Per poter accedere alla protezione internazionale e ai percorsi di integrazione migranti e richiedenti asilo sono costretti a ritardi e percorsi ad ostacoli all’interno della burocrazia italiana. Un terzo degli utenti dei servizi a bassa soglia del Centro Astalli rientra nella categoria “permesso di soggiorno in via di definizione”. Nel 2022 il Centro Astalli, grazie al sostegno dell’Elemosineria Vaticana, ha erogato contributi per il pagamento delle tasse necessarie al rilascio del permesso di soggiorno e titolo di viaggio per 586 rifugiati riconosciuti. Chi ha perso il lavoro ha anche avuto difficoltà ad avere un indirizzo valido di residenza, un requisito fondamentale senza il quale non si può fruire dei diritti sociali e dei percorsi di integrazione. Inoltre l’informatizzazione di tante piattaforme di servizi pubblici e privati sta provocando un divario digitale che rischia di aumentare disuguaglianze sociali e marginalità.

                Il Centro Astalli ricorda che il Terzo settore non può farsi carico da solo per percorsi di inclusione sociale e inserimento nel mondo del lavoro: serve “una cabina di regia pubblica in grado di costruire soluzioni concrete e accessibili”. Anche il Piano nazionale di integrazione scritto lo scorso anno dal Tavolo Asilo e Immigrazione,ad oggi rimane lettera morta”.

Patrizia Caiffa    Agenzia SIR                       13 aprile 2023

www.agensir.it/italia/2023/04/13/migranti-e-rifugiati-centro-astalli-italia-non-impara-da-esperienza-con-ucraini-e-non-esce-da-logica-emergenza

NOI SIAMO CHIESA

Vittorio Bellavite ci ha lasciato ed ha raggiunto la Meta celeste

Stanotte ha spiccato il volo per la Patria celeste il nostro Coordinatore/Portavoce nazionale Vittorio Bellavite di Milano. Lo conoscevamo da molti anni, sempre intelligente, attento, generoso, sincero, uno dei protagonisti del Cattolicesimo conciliare, il principale animatore di “Noi siamo Chiesa” che deve a lui la propria vitalità espressa in questi anni. Sarà dura, ma dovremo continuare e sviluppare l’ispirazione e l’impegno che lui ha profuso, certi che ci assisterà dall’Alto assieme a quanti lo hanno già preceduto nella Comunione dei Santi.

                Nelle scorse ore è morto Vittorio Bellavite, coordinatore e portavoce nazionale di Noi siamo Chiesa recentemente sostituito per ragioni di salute”. Così lo ricorda Giuseppina Perrucci, che afferma: “Bellavite appartiene alla mia vita meneghina, alla parte migliore della mia esperienza ecclesiale a Milano. […] Era un uomo di fede, laico, sposato con 4 figli e vari nipoti, laureato in legge, fine intellettuale e coltivatore di rose”.

                Perrucci ne sottolinea l’impegno per la riforma della Chiesa cattolica e per “una Chiesa cattolica dei poveri”. “Mi insegnò concretamente ad ascoltare le ragioni degli atei… Ed io dell’Azione cattolica imparai nella pratica a ragionare diversamente”. Bellaviteamava e capiva la Chiesa cattolica e si impegnava per modificarla affinché rispondesse meglio all’Evangelo. “Con la morte di Vittorio Bellavite– conclude Perrucci – la Chiesa italiana perde una intelligenza profetica, noi speriamo di essere in grado di raccoglierne l’eredità”.

Vittorio per molti anni ha commentato – scrivendo Documenti molto densi reperibili nel sito www.noisiamochiesa.org – gli eventi ecclesiali più rilevanti. Recentemente, ha rilasciato questa Intervista a Radio Radicale che riprende il contenuto del testo elaborato da noi siamo chiesa e pubblicato nel decennale di Papa Francesco.

www.radioradicale.it/scheda/693260/10-anni-di-pontificato-di-papa-francesco-intervista-a-vittorio-bellavite-del-movimento?i=4556385

17 marzo 2023

www.noisiamochiesa.org/ci-sono-proposte-concreteper-la-pace-in-ucraina-leggile-tutte-sul-dossier-preparato-dallinternational-peace-bureau/

16 marzo 203

Aprile 13, 2023                www.noisiamochiesa.org

OMOFILIA

Dichiarazione di suore Usa in solidarietà con le persone transgender

Nella Giornata internazionale dedicata alla sensibilizzazione contro le discriminazioni delle persone transgender, il 31 marzo scorso, quasi trenta comunità religiose femminili – rappresentative di circa 6mila suore negli Usa e in 18 Paesi di missione – hanno diramato una dichiarazione congiunta in solidarietà con le persone transgender, non binarie e gender-expansive, ancora oggi vittime di discriminazione nella società e nella Chiesa. Sono tutte persone, scrivono le suore, «amate e custodite da Dio».

Ancora oggi le persone trangender subiscono discriminazioni e violenze quotidiane a causa anche dell’«introduzione e l’approvazione di leggi anti-LGBTQ+ in diversi Stati» e per via di «una retorica dannosa da parte di alcune istituzioni cristiane e dei loro leader, tra cui la Chiesa cattolica».

                Le suore parlano di amore universale e inclusivo e lanciano l’appello a «trasformare i nostri cuori, la Chiesa e la politica», per «coltivare una comunità di fede dove tutti, specialmente i nostri fratelli transgender, non-binari e gender-expansive, possano sperimentare un profondo senso d’appartenenza».

La dichiarazione originale (in inglese)

www.newwaysministry.org/2023/03/31/6000-catholic-sisters-issue-statement-of-solidarity-with-transgender-community

La libera traduzione di gionata.org                      redazione Adista                             12 aprile 2023

www.adista.it/articolo/69837

Il dibattito nelle Chiese / Transgender cristiani

Seimila suore statunitensi in difesa dei diritti delle persone trans

Più di venti comunità religiose femminili hanno pubblicato una dichiarazione di solidarietà verso le persone transgender, in un momento in cui le persone trans e non binarie sono sempre più sotto attacco nella società civile e nella Chiesa. La dichiarazione “In Solidarity: Vowed Catholic Religious Honor Trans Day of Visibility” (In solidarietà. Le religiose cattoliche onorano la Giornata della Visibilità Trans) è stata firmata da diverse comunità femminili, che in totale assommano a più di seimila suore in diciotto stati degli Stati Uniti.

                La dichiarazione inizia con l’affermazione “le persone transgender, non binarie e gender-expansive sono amate teneramente da Dio”, e continua: “Come membri del Corpo di Cristo, non possiamo essere un Corpo completo senza la piena inclusione delle persone transgender, non binarie e gender-expansive. In questo momento, negli Stati Uniti, le persone transgender stanno affrontando un enorme dolore per via: dell’approvazione, in molti Stati, di leggi anti-LGBTQ+; della retorica tossica di molte istituzioni cristiane, compresa la Chiesa Cattolica, e dei loro leader; delle discriminazioni e delle violenze quotidiane.

                “Il Vangelo ci chiama a un amore che unisce, e ci invita con forza a interrompere le interazioni dannose nella nostra vita quotidiana, e a smantellare i sistemi che rafforzano le retoriche tossiche e le violenze nella società, in particolare per quanto riguarda le persone di colore ed indigene. Rimarremo sempre oppressori, fino a che noi, religiose cattoliche, non riconosceremo l’esistenza, nelle nostre congregazioni, delle persone LGBTQ+. Vogliamo coltivare una comunità di fede di cui tutti, e in particolare le nostre sorelle e i nostri fratelli transgender, non binari e gender-expansive, possano vivere profondamente l’appartenenza”.

                La dichiarazione si conclude con un invito a “trasformare i nostri cuori, la nostra Chiesa, la nostra politica e il nostro Paese” per far sì che la comunità trans “venga riconosciuta, e coraggiosamente accettata e celebrata”. La dichiarazione contiene un’appendice che elenca varie risorse per studiare, agire, sostenere e valutare ciò che accade nelle comunità; vi si trova anche l’invito a sostenere vari progetti a beneficio delle persone transgender, tra cui New Ways Ministry.

                La dichiarazione è stata redatta dalla federazione statunitense delle Suore di San Giuseppe, dalle Suore della Provvidenza di Saint Mary-of-the-Woods e dall’Ufficio per la Giustizia, la Pace e l’Integrità del Creato delle Suore della carità di Leavenworth.

                Un membro non binario di un ordine religioso ha dichiarato all’agenzia di stampa cattolica Religion News Service che “è ora che le comunità religiose alzino la loro voce contro l’ingiustizia, la violenza e l’esclusione delle persone trans e non binarie”, aggiungendo poi la sua speranza che questa dichiarazione renda tutti consapevoli che anche nelle congregazioni religiose, e non solo fuori da esse, esistono le persone transgender e non binarie.

Religion News Service riporta anche le parole di suor Barbara Battista SP, una degli estensori della dichiarazione, che ricopre il ruolo di promotrice di giustizia delle Suore della Provvidenza di Saint Mary-of-the-Woods: “Suor Barbara Battista e le altre suore che hanno steso la dichiarazione l’hanno fatto dapprima per rispondere all’ondata di proposte di legge che minano i diritti transgender. Quando è stata pubblicata la dichiarazione dei vescovi, le suore hanno rotto gli indugi. “’Credo proprio che sia urgente dire che ci sono moltissimi fedeli cattolici che conoscono una via alternativa […] Dobbiamo trovare le occasioni per alzare la voce e dire: Noi siamo con voi, vi sosteniamo’ [dichiara suor Barbara].

                “Suor Barbara fa notare come molte delle proposte di legge avanzate in vari Stati abbiano a che fare con le prestazioni sanitarie a beneficio delle persone transgender, e che questo la offende particolarmente, essendo un’assistente medico diplomata; suor Barbara descrive il suo lavoro come ‘una partecipazione al ministero di guarigione di Gesù’, che affonda le radici in una ‘fiducia sacra’ tra i pazienti e i professionisti della sanità. “Ma i vescovi cattolici e i politici hanno cercato di ‘immischiarsi nell’ambito, molto privato, molto personale e molto intimo, del dialogo e delle decisioni tra i professionisti della sanità e le persone che essi servono’”.

                Con questa dichiarazione le suore cattoliche si confermano all’avanguardia nell’inclusione delle persone LGBTQ+, protagoniste di “una via alternativa”, nelle parole di suor Barbara Battista, nei confronti di alcuni vescovi statunitensi, che hanno fatto dell’ignorare le questioni relative all’identità di genere un punto fermo della loro missione.

Noi di New Ways Ministry siamo veramente grati per questa dichiarazione, che è un invito e una provocazione per ogni cattolico, e per i decenni spesi dalle religiose nell’attivismo a favore delle persone LGBTQ+.

Robert Shine, direttore associato di New Ways Ministry, per cui lavora dal 2012, e del blog Bondings 2.0.

 È laureato in teologia alla Catholic University of America e alla Boston College School of Theology and Ministry.

Articolo pubblicato sul sito dell’associazione LGBT cattolica New Ways Ministry (Stati Uniti) il 31 marzo 2023, Libera traduzione di Giacomo Tessaro                 · 7 aprile 2023

www.gionata.org/seimila-suore-statunitensi-in-difesa-dei-diritti-delle-persone-trans

Uomini di Chiesa, tra mascolinità e ideale sacerdotale

L’ideale sacerdotale (dal latino sacer: sacro, separato), fondato sulla separazione chierici/laici, ha plasmato e legittimato la mascolinità atipica dei chierici cattolici di rito latino. La Chiesa cattolica romana ha saputo imporlo come modello egemonico di tutte le forme di vita ecclesiastica nell’Europa del XIX e del XX secolo.

Dopo la crisi che avvolge il Concilio Vaticano II (1962-65) questo ideale è parzialmente rimesso in discussione, proprio mentre il numero dei preti dei paesi della “vecchia cristianità” diminuisce drasticamente. La mascolinità sacerdotale appare (oggi) più che mai sospetta, per non dire colpevole, agli occhi delle popolazioni europee. L’imposizione dell’ideale sacerdotale ai preti – o processo di clericalizzazione – inizia con la riforma gregoriana (XI e XII secolo) finendo per imporre il celibato al clero secolare e il divieto del porto d’armi, come già avveniva per i monaci, allo scopo di separare radicalmente i chierici dai laici.

Essa si rinforza nel XVI secolo con la nascita della figura del pastore protestante, sotto l’impulso del Concilio di Trento, che fa del prete prima di tutto l’uomo dell’Eucaristia. Infine detta imposizione si diffonde sotto forma di “democratizzazione” dal basso nel XIX secolo: il reclutamento diventa massicciamente popolare mentre le classi agiate disertano il sacerdozio, tranne nel caso cui esse entrino a far parte degli ordini più prestigiosi come i gesuiti e i domenicani. È l’epoca dei “contadini coronati di mitra” che rappresentano 1/5 dei vescovati francesi nel 1850. Si esalta allora, “il prete semplice”, prendendo come riferimento Jean-Marie Vianney (1786-1859), parroco del villaggio D’Ars, vicino Lione, beatificato e dichiarato “patrono dei preti di Francia” nel 1905 e nel 1929, “patrono celeste di tutti i parroci del mondo cattolico”.

                La diffusione dell’ideale sacerdotale. Per inculcare questo ideale, le Chiese d’Europa sviluppano una vasta rete di seminari ecclesiastici che mappano il territorio e addestrano in collegi per minori, i futuri candidati al sacerdozio, offrendogli una lunga formazione integrale, separata dalla società. Le famiglie si aspettano prestigio e fama per i loro figli e, in cambio, riconoscimento ecclesiale per se stesse. L’ideale sacerdotale si cristallizza in un vero e proprio progetto di genere, costruito in parallelo, ma da intendersi in opposizione ai modelli di mascolinità promossi dalle società borghesi liberali del XIX secolo. Esclusi esplicitamente dai mercati sessuali e matrimoniali, i candidati al sacerdozio lo sono dal campo militare, politico ed economico, spazi per eccellenza di costruzione e legittimizzazione delle mascolinità.

                In virtù dell’ideale sacerdotale, sempre, essi imparano a mettere in pratica i valori codificati all’epoca come tipici della femminilità, come la cura degli altri, o l’umiltà; senza dimenticare l’uso della sottana, i paramenti delle funzioni che la Chiesa impone ai suoi rappresentanti, nel momento in cui i vestiti aperti diventano il segno esclusivo del femminile, in opposizione agli abiti chiusi (come i pantaloni).

                Ora, questo ideale sacerdotale non si diffonde senza incontrare resistenze. Gli anticlericali, soprattutto in Francia e in Italia, lo denunciano in quanto minaccia per lo stato e per gli altri uomini, sul cui fenomeno testimonia in Francia il best-seller di Jules Michelet:Il prete, la donna e la famiglia”, pubblicato nel 1843, o in Inghilterra l’opera romanzesca del pastore Charles Kingsley (1819-1875).

                I preti europei lo vivono in modo molto diverso, combattuti nella tensione tra l’angelismo al quale tale ideale li destina e il loro desiderio di essere uomini del proprio secolo. Il XIX secolo vede così la nascita di preti divenuti promotori di erudizione, come l’abate Cochet (1812-1875), archeologo, autodidatta, nominato ispettore dei Monumenti storici nel 1849 -, o ancora uomini di stato come Vincenzo Gioberti (1801-1852), Primo ministro del regno di Sardegna tra il 1848 e il 1849. Il grande movimento della “giustificazione grazie alle opere” soprattutto, ispirerà inoltre tutta l’Europa urbanizzata. Nato nella Germania del primo XIX secolo, periodo in cui la formazione dei sacerdoti sfugge al controllo dei seminari, esso promuove l’utilità sociale dei preti stessi.

                Così è dell’abate Adolf Kolping (1813-1865), che, ciabattino di professione, prima di abbracciare il sacerdozio, creerà delle associazioni di compagni (Gesellenvereine).

L’ideale sacerdotale a prova di esperienza degli uomini di Chiesa. Se il codice di diritto canonico conferma l’ideale sacerdotale per come si è cristallizzato nel corso del XIX secolo nei seminari, l’esperienza degli uomini di Chiesa del XX secolo rileva una maggiore discrepanza rispetto alla loro missione di evangelizzazione. Preti e seminaristi impegnati nella Grande Guerra – già basiti dallo choc generato dalla separazione tra le Chiese e lo Stato, da parte francese nel 1905 – scoprono nelle trincee un mondo maschile che ignoravano. Riconquistarlo richiede un impegno sociale innanzitutto, poi politico, che deve essere più diretto. Così, a fianco dell’affermazione del laicato militante nel corso del XX secolo, emerge la figura del prete-missionario (o elemosiniere) in opposizione al prete rutinario della civiltà parrocchiale in declino. La traiettoria del Belga Jospeh Cardijn (1882-1967) è un esempio tipico. Semplice vicario di parrocchia, lui fonda la Gioventù Operaia Cristiana (JOC) di cui accompagna la crescita in tutto il mondo.

Il confronto con i totalitarismi, con la II Guerra mondiale e con le guerre di decolonizzazione, crea poi le condizioni di una rieducazione del clero, non senza tensioni, come illustrato dalla traiettoria del gesuita francese Pierre Chaillet (1900-1972). Resistente e fondatore dei Quaderni della testimonianza cristiana, che prendono posizione contro la tortura praticata dall’esercito francese in Indocina e in Algeria, gli viene chiesto rapidamente di ritirarsi dall’impresa.

                L’esperienza dei preti-operai in Francia e in Belgio è il tentativo più audace in questo senso, tanto più perché essa conosce allora una forte eco. Simboleggiata dal rifiuto della sottana a favore del completo blu da lavoro, la scelta del presbitero di andare verso le case popolari, questa esperienza implica uno spostamento negli spazi sociali e politici come pure quello delle mascolinità. La battuta d’arresto dell’esperienza nel 1954 da Papa Pio XII (1939-1958) rinvia brutalmente i preti coinvolti a un sentimento di inutilità sociale.

                L’esclusione imposta dal mondo del lavoro e dal militantismo politico – due scene chiave di espressione delle mascolinità durante le Trenta Gloriose (annate 1945-1975)– provocano crisi personali, che saranno all’origine di un numero considerevole di abbandoni della vita sacerdotale. I cambiamenti culturali degli anni 1960-70 rafforzano questa crisi. Si assiste all’ascesa “del regime” dell’autorità religiosa, ma soprattutto alla delegittimazione profonda della parola sacerdotale sulle questioni sessuali, che la ricezione dell’enciclica Humanæ Vitæ (1968), affossa, in particolar modo per le donne.

                Mentre la sessualità diventa per eccellenza la scena del compimento di sé, i preti ne restano esclusi, e un luogo di potere per eccellenza del prete, da più di un secolo, si sgretola : quello del controllo del corpo delle donne. In questo contesto, la rivendicazione, mossa da un elevato numero di preti e religiosi, di essere sollevati dall’obbligo del celibato – o dalla richiesta di ordinazione anche delle donne – negli anni 1970, appaiono come gli ultimi tentativi di “desacerdotalizzazione” del clero cattolico. L’istituzione resiste.

                Meglio; si assiste a una solennizzazione del celibato consacrato a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005) mentre, allo stesso tempo, esso mette in crisi la Chiesa cattolica nella posizione di grande difensore della neutralità dei sessi, della loro complementarietà, e della vocazione universale degli esseri umani all’eterosessualità, di fronte a Stati europei che abbandonano progressivamente le loro politiche di repressione dell’omosessualità. In questo contesto di tolleranza crescente verso le minoranze sessuali, il coming out ecclesiale entra in crisi: la proporzione di omosessuali presenti nel clero, già strutturalmente più elevata rispetto alla popolazione in genere, aumenta dopo l’abbandono massiccio degli eterosessuali, negli anni 70.

L’omofobia mostrata dall’istituzione camuffa meno di prima la sua omofilia interna. Infine, lo svelamento, dagli anni 2000 degli abusi sessuali e sessisti commessi dai chierici determina la perdita di credibilità dell’ideale sacerdotale e della mascolinità che vi afferisce. Resta solo l’istituzione a soffrire il ripensamento di un clero emancipato da questo ideale, che essa stessa si è imposto e che è diventato la sua firma.

  Segue Bibliografia

Josselin Tricou* pubblicato sul sito dell’EHNE – Encyclopédie d’histoire numérique de l’Europe (Francia) il 22 giugno 2020, liberamente tradotto da Massimo de Il ramo del Mandorlo di Roma

*Josselin Tricou ha conseguito un dottorato in scienze politiche e studi di genere presso l’Università di Paris 8. Ha partecipato alla ricerca Inserm per conto della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica. È docente di sociologia delle religioni e delle nuove spiritualità all’Università di Losanna in Svizzera. La sua tesi dal titolo “Des soutanes et des hommes. Enquête sur la masculinité des prêtres catholiques” (Di tonache e uomini. Indagine sulla mascolinità dei preti cattolici) è stata pubblicata nel 2021 (Parigi, PUF, 471 pagine).

Testo originale: Hommes d’Église, masculinités et idéal sacerdotal

https://ehne.fr/fr/node/12355

www.gionata.org/uomini-di-chiesa-tra-mascolinita-e-ideale-sacerdotale

PACE

Pacem in terris, Bettazzi e i 60 anni di una rivoluzione

Quando Papa Giovanni XXIII , il pontefice del Concilio Vaticano II che ha cambiato la Chiesa cattolica presentò la “Pacem in Terris”, la sua ultima e più nota enciclica, era malato. Da lì a poco, sarebbe morto, e lo sapeva. Ma l’emozione per quel documento, a suo modo rivoluzionario, traspariva dalle sue parole. Era l’11 aprile 1963.

A sessant’anni esatti di distanza, la stessa passione abbiamo potuto leggerla, intatta, negli occhi e nella voce dell’ultimo vescovo europeo vivente che partecipò al Concilio Vaticano II: monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito della diocesi di Ivrea oggi ha 99 anni (sarà centenario il 26 novembre) e vive nel castello vescovile di Albiano di Ivrea, dove dal 1989 è attivo un centro d’accoglienza gestito dalla Fraternità del Cisv.

Il pensiero pacifista e la filosofia della nonviolenza hanno caratterizzato la vita di Bettazzi, che tra i tanti incarichi è stato anche presidente italiano e internazionale dell’organizzazione cattolica per la pace denominata Pax Christi.

L’anniversario della “Pacem in Terris”, rivolta per la prima volta a “tutti gli uomini di buona volontà”, senza distinzioni di fede o confini, ci ha permesso un viaggio del pensiero insieme a monsignor Bettazzi, che dagli anni ’60 arriva fino alle crisi del mondo contemporaneo. Fino alla guerra che sta sconvolgendo l’Ucraina i cui rifugiati, donne e bambini, vivono oggi, anche sotto lo stesso tetto di Luigi Bettazzi, ospiti del Cisv di Albiano                                                                                               youtube.com/watch?v=CJvq0NX5Dwk

Elena Brizzi, Simone Matteis e Paolo Piacenza

PASTORALE

Proposte pastorali per single: l’inchiesta di “Jesus”

Che fine hanno fatto i single? Tanto a livello politico, quanto sul piano pastorale della Chiesa cattolica, ogni proposta sembra riguardare le famiglie, tuttalpiù giovani, bambini o anziani. «Nella Chiesa cattolica ci sono proposte di catechesi per le coppie che si vogliono sposare, per i giovani, per chi fa la Comunione o la Cresima, per chi da adulto si vuole battezzare. C’è posto per tutti, ci sono percorsi di formazione anche per i divorziati e i separati, per i vedovi e le vedove… Ci sono anche gruppi di cristiani Lgbtq+», confermano i paolini annunciando il nuovo numero di Jesus, ora in edicola. Insomma, scrivono, nella Chiesa «mancano proposte specifiche per chi è adulto ed è rimasto solo, per chi non ha (ancora) trovato l’anima gemella…». A far luce su questo pezzo di mondo “dimenticato” ci pensa il mensile dei paolini, che «propone un’inchiesta sul mondo dei single nella

Chiesa e sui primi gruppi che si stanno organizzando per farli ritrovare e per offrire loro una proposta spirituale».

Anche perché parliamo di una realtà grande e in costante crescita. «Tra i credenti, spesso, è una condizione non cercata e non desiderata», percepita a volte anche come un fallimento personale. Jesus passa in rassegna le esperienze e i percorsi comunitari dedicati ai single, ad Assisi, Milano, Roma, incontra persone che frequentano gruppi, operatori pastorali. «Il punto per tutti è uno solo», conclude: «In questa strana avventura che è la vita, chi perde è solo chi non gioca. Questo è fare la propria parte: vivere sempre, affacciarsi al mistero, mettersi in gioco, donarsi agli altri».

Redazione Jesus    12 aprile 2023

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RESURREZIONE

Gesù sotto altra forma L’enigma del risorto

Nel XXII libro della Città di Dio, Agostino tratta della resurrezione dei corpi e si interroga sulla forma che essi assumeranno, per concludere che ciascuno risorgerà nell’aspetto che aveva (o avrebbe avuto, nel caso fossero intervenute menomazioni) all’incirca a trent’anni, l’età di Cristo, il primogenito dei risorti secondo Paolo (Colossesi 1,18), al momento della morte. Le dimensioni, invece, risulteranno un po’ maggiori, dato che Dio, come un artigiano che riplasma l’argilla di un vaso, riunirà nei corpi tutti gli elementi dispersi nel corso del tempo, dalle unghie ai capelli, dando ad essi una perfezione e un equilibrio che sulla terra non avevano appieno (Agostino, da fine psicologo quale era, si sente in dovere di rassicurare al riguardo magri e grassi, che finalmente si sentiranno in forma).

Si tratta di una visione estremamente fisicista, che ha condizionato la teologia e l’immaginario del cristianesimo occidentale sino a oggi. C’è da domandarsi quanto essa corrisponda alla fede delle prime generazioni cristiane e alla percezione del corpo risorto di Cristo, così come testimoniata dalla letteratura neotestamentaria. Il volume “Era irriconoscibile” (Edb) di Enrico Mazza, sacerdote e a lungo docente all’Università Cattolica di Milano, è una preziosa guida per tentare una risposta. Egli prende le mosse da quella che viene considerata la più antica formula di fede cristiana, riportata da Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, 15,3-5: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e si fece vedere a Cefa e poi ai Dodici». Paolo aggiunge un elenco di altri testimoni del Gesù risorto, che si conclude con il suo nome, a cui Cristo si è reso visibile «come a un aborto».

Nei racconti evangelici del «rendersi visibile» di Gesù, si accompagna però un elemento del tutto contraddittorio: egli viene visto sotto un aspetto pienamente umano, e dunque corporeo, ma non viene riconosciuto, almeno in un primo momento. Il racconto più antico di questo genere è conservato nel Vangelo di Marco, 16, 12-13: «Dopo questo, si fece vedere in altra forma a due di loro, mentre erano in cammino verso la campagna». Il celebre episodio dei discepoli di Emmaus costituisce uno sviluppo di questo primo racconto; anche nel loro caso, Gesù appare in una forma corporea, che scompare al momento del riconoscimento. All’origine, dunque, la fede nel Cristo risorto si fonda sulla visibilità del suo corpo, accompagnata però dalla difficoltà a riconoscerlo, perché «in altra forma».

Nella ricostruzione di Mazza i racconti del sepolcro vuoto con gli angeli che annunciano la resurrezione di Gesù costituiscono uno sviluppo successivo, per superare la contraddizione presente nel credo originario. Tuttavia, anche nel più tardo racconto di Giovanni, ritorna il tema del mancato riconoscimento: la Maddalena, dopo aver ricevuto dagli angeli l’annuncio della resurrezione, si volge e scambia Gesù per il custode del giardino; anche qui il risorto le appare «in altra forma».

Solo quando ne ode la voce, lo riconosce, così come Paolo comprende chi gli si è manifestato sotto forma di luce abbagliante sulla via di Damasco ascoltandone la voce. Il riemergere costante, in tutti i racconti, della contraddizione tra la visione del Cristo risorto e il suo mancato riconoscimento depone a favore dell’autenticità storica del credo originario, giacché, se non fosse questo il caso, la contraddizione sarebbe stata eliminata dalle rielaborazioni successive.

Nella testimonianza e nella fede delle prime comunità cristiane, quindi, il Cristo risorto si è reso visibile in un corpo umano a tutti gli effetti (come sottolineano ad esempio le richieste che egli fa di mangiare o di essere toccato), però «in altra forma» rispetto alla figura che Gesù aveva nella condizione precedente. Paolo, sintetizzando tutti questi elementi, parla di un «corpo spirituale», senza aggiungere altro, se non che anche i defunti saranno a immagine di Cristo: «E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste», che è il corpo del Cristo risorto (Prima Lettera ai Corinzi, 15,49).

Marco Rizzi (α1962). Insegna Letteratura cristiana antica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano  Lettura” 9 aprile 2023

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SINODO SULLA SINODALITÀ

Conclusa la “tappa continentale” del Sinodo. Sotto l’occhio vigile del Vaticano

Si è conclusa ufficialmente la “Tappa continentale” del Sinodo, la seconda delle tre tappe del processo sinodale; e con essa anche la consultazione su larga scala del “Popolo di Dio” (definizione che include vescovi, preti, religiosi, suore, laiche e laici). Dopo la Tappa diocesana e nazionale, terminata nel 2022, da inizio febbraio e fino a fine marzo 2023 si sono svolte sette assemblee continentali (America del Nord, Europa, Asia, Medio Oriente, America Latina e Caraibi, Africa e Madagascar, Oceania) rappresentative del Popolo di Dio, con l’obiettivo di rispondere alle questioni contenute nel Documento di Lavoro pubblicato il 27 ottobre 2022. In particolare, alle assemblee era stato chiesto di evidenziare tensioni o divergenze sostanziali con il documento di Lavoro, nella prospettiva continentale; ma anche sollevare gli interrogativi, le priorità, i temi e le azioni che possono essere condivisi con le altre Chiese locali e portate alla prima sessione dell’assemblea del sinodo dei vescovi di ottobre (4-29 ottobre 2023). Il frutto delle discussioni continentali è stato sintetizzato nel Documento Finale che ogni Assemblea ha prodotto quale contributo per i lavori di ottobre.

Come spiega il comunicato diffuso dalla Segreteria Generale del Sinodo il 31 marzo scorso, «seguendo il principio della sussidiarietà, l’organizzazione di questa parte del processo e le rispettive assemblee sinodali continentali sono state affidate ai Comitati Organizzatori locali (o Task Forces) facenti capo, per lo più, alle Riunioni Internazionali delle Conferenze Episcopali o delle Chiese Cattoliche Orientali». Una speciale task force della Segreteria Generale del Sinodo ha tuttavia accompagnato il loro lavoro. I responsabili della Segreteria Generale del Sinodo e il Relatore Generale della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi hanno assicurato la presenza di almeno uno di loro in ogni assemblea continentale a testimonianza della vicinanza e del desiderio della Santa Sede di ascoltare le Chiese particolari». Insomma, le assemblee sono state sì organizzate e gestite a livello locale, ma la “presenza” (e il peso?) del Vaticano non ha mancato di farsi sentire in nessuna delle assise.

Clericalismo, laici, donne. Solo due dei documenti finali delle assemblee sinodali nel momento in cui andiamo in stampa sono stati pubblicati. In essi (consultabili all’indirizzo bit.ly/40PsSyi) emergono alcune questioni ricorrenti. Ad esempio quello del clericalismo e della scarsa partecipazione dei laici e delle donne ai processi decisionali. Recita il documento finale del Sinodo dell’Asia:

«La Chiesa è composta da persone di ogni stato di vita (clero, consacrati e laici); eppure sembra esserci una sorta di “divisione” all’interno della Chiesa – tra clero e laici, vescovi e preti/congregazioni religiose, gruppi e movimenti ecclesiali, diocesi e conferenze e persino fuori – tra la Chiesa e le autorità politiche e anche tra le religioni».

«La sfida a diventare più partecipativi è spesso ostacolata da stili di leadership che impediscono (a volte anche escludere) altri dal vivere la loro chiamata battesimale ad essere autentici discepoli».

«Si è notato che in alcuni contesti che manca responsabilità collaborativa nel discernimento e nella presa di decisioni, spesso lasciato solo a sacerdoti o vescovi. Le voci della minoranza e anche i laici non sono considerati in questo processo».

Poi la questione dei ministeri ordinati. Nel documento finale del Sinodo dell’America Latina e dei Caraibi si legge che «è stata considerata favorevolmente la possibilità dell’ordinazione presbiterale dei diaconi permanenti, così come alcuni hanno sollevato “il servizio e inclusione dei sacerdoti sposati e dei membri della vita consacrata che hanno lasciato i loro istituti” (Cono Sud)».

Molto dettagliato anche il modo con cui L’America Latina propone l’attuazione di una riforma in senso davvero sinodale della Chiesa: «Le consultazioni regionali menzionano la priorità dell’obbligatorietà la costituzione delle varie assemblee promosse dal Vaticano II: i consigli presbiterali, quelli per gli affari economici (diocesani e parrocchiali) ei consigli pastorali (diocesani e parrocchiali)». Chiedono che tali assemblee «siano uno spazio di inclusione, dialogo, trasparenza e discernimento non solo a livello nazionale e regionale, ma anche nelle comunità di base, nelle parrocchie e diocesi, prelature e vicariati, seguendo il cammino della comunione e della partecipazione». Una «attuazione formale non è sufficiente. A ciascuno è chiesto di “non essere uno spazio solo consultivo, ma che assicuriamo che abbia un peso nelle decisioni sul modo di governo e cambiamento di strutture” (Camex-Centroamerica e Messico)». «Una Chiesa strutturata attorno a una rete di consigli permetterebbe di stabilire procedure istituzionali di responsabilità e trasparenza che partano dalle comunità e aiutino a sradicare gli abusi coscienza, potere, spirituale, psicologico, sessuale, economico. Ciò richiede la creazione di istanze e protocolli per la prevenzione, la riparazione e giustizia. Così si risponderebbe alle voci che vedono “una tensione tra il desiderio di una Chiesa più trasparente e una cultura del segreto” (Cono Sud), e che chiedano un maggiore “impegno per la cura e l’ascolto delle vittime di abusi” (Camex). Questo e altri aspetti richiederanno “l’apertura al possibile modifiche al diritto canonico che danno forma giuridica alla prassi sinodale; specialmente che le istituzioni sinodali sono riconosciute dal diritto e che il giusto aiuta a garantire e promuovere una maggiore trasparenza” (Cono Sud)».

Una volta che saranno tutti pubblicati, i 7 documenti continentali saranno alla base dell’Instrumentum Laboris, il documento di lavoro per la prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Che si svolgerà in due momenti, ossia in due sessioni, distanziate tra loro di un anno: una si svolgerà dal 4 al 29 ottobre 2023; l’altra nell’ottobre 2024. Spetterà ora alla Commissione Preparatoria, istituita dalla Segreteria Generale del Sinodo, organizzare il gruppo di lavoro chiamato a elaborare l’Instrumentum per l’assise di quest’anno.

Valerio Gigante                  Adista Notizie n° 14   15 aprile               2023

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Al via i lavori per il documento di lavoro a base dell’assemblea del prossimo ottobre

È iniziato ieri, presso la Segreteria del Sinodo, in Vaticano, e durerà fino al giorno 19 un incontro per riflettere sulla elaborazione dell’Instrumentum laboris, il documento sul quale discuteranno i vescovi all’assemblea sinodale del prossimo ottobre (dal 4 al 29).

Un gruppo di esperti, provenienti dai cinque continenti e che hanno preso parte a vario titolo al processo sinodale, lavoreranno sull’insieme della Tappa Continentale del Sinodo e sui sette documenti finali delle Assemblee conclusesi entro marzo. Tali documenti, scrive Vatican News (12/4), «frutto del discernimento comunitario del Popolo di Dio, saranno analizzati minuziosamente al fine di evidenziare tensioni e priorità da approfondire nel corso dell’assemblea di ottobre».

I partecipanti all’incontro sono: i cardinali Mario Grech e Jean-Claude Hollerich, monsignor Luis Marin de San Martín, suor Nathalie Becquart, monsignor Timothy Costelloe, monsignor Lucio Andrice Muandula, monsignor Daniel Flores, monsignor Pierangelo Sequeri, monsignor Piero Coda, monsignor Tomasz Trafny, padre Giacomo Costa, don Dario Vitali, suor Shizue Hirota, don Giuseppe Bonfrate, le professoresse Myriam Wylens e Anna Rowlands, don Pasquale Bua, suor Marie-Kolbe Zamora, Paolo Foglizzo, Thierry Bonaventura, Susan Pascoe in modalità online così come Mauricio Lopez Oropeza.

A chiusura dell’incontro, una conferenza stampa informerà sul lavoro svolto.

Redazione di Adista                       13 aprile 2023

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L’attesa di un futuro diverso per la Chiesa

A distanza di un anno e mezzo dall’inizio del cammino sinodale voluto da papa Francesco, possiamo abbozzare una lettura di ciò che si è vissuto. Da più parti si riconosce che questo cammino è una grazia straordinaria per la comunità cristiana, una consultazione storica senza precedenti nella storia della Chiesa, una forma di dialogo ecclesiale inedita e urgente. Ma, nello stesso tempo, si prende atto della fatica che il cammino sinodale comporta per la presenza di chi l’osteggia e di chi resta scettico, non interessato ed estraneo. E va detto con chiarezza che questi atteggiamenti contraddittori nei confronti del Sinodo si riscontrano in vescovi, sovente in presbiteri stanchi e disillusi, e in porzioni di fedeli che non avvertono il bisogno di appartenenza e corresponsabilità nella comunità cristiana. Per questi ultimi è sufficiente che la Chiesa permanga come luogo che assicura i sacramenti, come celebrazioni della festa per segnare le diverse tappe della vita.

Chi, invece, ha deciso di partecipare all’esperienza del cammino Sinodale ne è stato soddisfatto e  ha cominciato ad assaporare la ricchezza del confronto, dell’ascolto reciproco, dell’esercizio della fraternità cristiana. Tuttavia, se si seguono gli eventi sinodali, se si presta attenzione alle parole che risuonano nelle Chiese locali e nella Curia romana, che dev’essere al servizio del Papa e dei vescovi tutti, si percepisce l’urgenza di adottare alcuni atteggiamenti senza i quali non ci può essere fecondità sinodale.

Innanzitutto la parresìa, una parola franca nella libertà, che esclude non solo la doppiezza ma anche ogni forma di strategia. Il Sinodo non è una battaglia tra schieramenti contrapposti, ma una Pentecoste nella quale lo Spirito santo scende per essere il Signore della Chiesa e nella Chiesa. Chi prende parte a un sinodo deve usare il linguaggio del «sì, sì; no, no» (Mt 5,37), come ha chiesto Gesù nel Vangelo. Libertà di esprimersi senza sentirsi giudicato, senza sentirsi additato come avversario. Invece si ha l’impressione che non sempre questo avvenga, che a volte si parli per rimarcare la contrapposizione all’altro attraverso interviste o interventi fuori dal contesto sinodale. Viene da chiedersi: manca il coraggio di un confronto limpido? O del palesare con responsabilità la propria opinione?

Questo modus operandi non è dei discepoli di Gesù che, come mostrano gli Atti degli apostoli e soprattutto Paolo, sanno vivere le conflittualità spiegando la propria posizione e arrivando a un confronto diretto, sincero, leale, paziente, gli uni di fronte agli altri. Come si può “camminare insieme” se non ci si ascolta insieme, faccia a faccia?

Unita alla parresìa vi è poi sempre la pazienza: non la pazienza di Giobbe, ma l’hypomonè, l’essere capaci di “mettersi sotto, stare sotto”, reggere una situazione. Si tratta di una disposizione verso i fratelli e le sorelle: attenderli, cercare di comprenderne le ragioni, saper accettare le debolezze e soprattutto riconoscere che possono avere una parola sapiente e frutto di discernimento anche per noi. Nella comunità del Signore la comunione è sempre comunione di differenze, nella diversità, plurale. Oggi è urgente comprendere che le differenze, le diversità non sempre implicano divisione, ma possono essere una ricchezza che, certo, rende faticosa la vita delle comunità, ma che riflette nella chiesa la policroma sapienza di Dio! Dobbiamo imparare, anche in base alla gerarchia delle verità come ricorda il Vaticano II, che ci sono differenze che possono essere riconciliate, tenute le une accanto alle altre senza una smentita l’una dell’altra. Questo non solo nella spiritualità, nella liturgia e nelle forme del vivere della comunità cristiana, ma anche nella fede.

Basta con la paura della differenza che ci ha avvelenato l’anima spingendoci a escludere, a condannare, a non riconoscere più i nostri fratelli e sorelle nella fede! Non è, forse, il cammino sinodale lo strumento adatto per farci uscire dalle strettoie del nostro piccolo spazio, per fornirci uno sguardo capace di sentire e pensare in grande? Per questo cammino sinodale è urgente che non venga meno l’attesa di un futuro diverso per la Chiesa. Senz’altro, il futuro solo il Signore lo conosce, ma è importante che noi oggi, qui e ora, con la nostra povertà, debolezza e fede, ci sentiamo il piccolo gregge al quale Gesù ha detto di non temere (cf Lc 12,32).

Il cardinale Matteo Maria Zuppi, il 23 gennaio scorso, nella prolusione al Consiglio permanente Cei, ha ricordato le parole profetiche di Benedetto XVI: «Avremo dei preti ridotti ad assistenti sociali, il messaggio della fede ridotto a messaggio socio-politico.[…] Tutto sembrerà perduto, ma al momento opportuno, nella fase più traumatica della crisi, la Chiesa rinascerà. Sarà più piccola, più povera, quasi catacombale. La rinascita sarà opera di un piccolo resto apparentemente insignificante, eppure indomito, che è passato attraverso un processo di purificazione. Perché è così che opera Dio! Contro il male resisterà un piccolo gregge».

Dunque, anche Zuppi intravvede come orizzonte del cristianesimo una minoranza creativa, che non sia solo espressione di una progressiva riduzione, ma di una volontà autentica di vivere il Vangelo. E contro ogni interpretazione elitaria, ricorda che la minoranza efficace non è in contraddizione con una Chiesa di popolo, non è autoreferenziale con tentazioni settarie, ma è una realtà che non innalza muri, e apre la porta a tutti senza contare chi è dentro, sulla soglia o fuori.

Anche nel guardare alla Chiesa dobbiamo imparare dal Vangelo: attorno a Gesù c’erano una ventina di uomini e donne che vivevano con lui. Poi c’erano dei discepoli che frequentavano Gesù assiduamente, ma continuando ad abitare in casa loro. Infine, c’erano quelli che hanno incontrato occasionalmente Gesù, lo ascoltavano, erano curati e guariti e poi tornavano sulla loro strada. Perché non impariamo da lui e continuiamo con i nostri schemi: praticanti/non praticanti, credenti/non credenti, quelli dentro e quelli fuori?

Noi Chiesa siamo un piccolo gregge. In una società di minoranze, se c’è una Chiesa aperta, piccola ma luogo di comunione, è una grande speranza per tutti. Il Sinodo è l’occasione per attuarla.

I cardinali Grech e Hollerich, rispettivamente segretario e relatore generale del Sinodo, hanno indirizzato una lettera a tutti i vescovi. Essa risuona come un memorandum offerto con dolcezza ma anche con fermezza a quanti, con occhio censorio, in questo cammino sinodale presumono di conoscere le conclusioni e a quelli che vorrebbero condizionarne i risultati. I due cardinali ricordano che il Sinodo è un processo, nel quale è stata prevista la consultazione del popolo di Dio, poi il discernimento dei vescovi e, infine, una conclusione che mostrerà come la voce dello Spirito santo sia stata ascoltata dal Papa ai vescovi ai fedeli. Questo Sinodo nella sua novità rappresenta un apprendistato alla sinodalità, perché da episodio diventi una prassi. Con la lettera dei cardinali viene ribadito che il Sinodo è un cammino aperto e non predeterminato, un cammino nei confronti del quale nutrire speranza e non timori, una convocazione che deve muoversi su una rotta comune.

Sì, una grande sfida, che è sempre una sfida tra comunione e divisione, tra riconciliazione e conflittualità, tra autoreferenzialità e ascolto reciproco, tra le parole del Vangelo e le nostre sempre misere parole.

Enzo Bianchi                                     Vita Pastorale  marzo 2023

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TESTIMONI

L’irrefrenabile radicalismo evangelico di Don Tonino Bello

 Trent’anni fa, il 20 aprile 1993, moriva don Tonino Bello,(α1935-ω1993), vescovo di Molfetta (Ba), presidente di Pax Christi. La pace, l’antimilitarismo, il disarmo, la giustizia sociale e la scelta di schierarsi accanto agli oppressi sono state le “stelle polari” del ministero e dell’azione pastorale e sociale di don Tonino. Battaglie condotte con una radicalità che più volte lo hanno fatto scontrare duramente con alcuni settori del mondo politico – sulle questioni della guerra, degli armamenti, dell’obiezione di coscienza al servizio militare, degli immigrati che all’inizio degli anni ‘90 iniziavano ad arrivare sulle coste italiane e pugliesi in particolare – e delle gerarchie ecclesiastiche, che non condividevano le posizioni “estreme”, in realtà solo profondamente fedeli al Vangelo e al Concilio Vaticano II, del vescovo di Molfetta.

Salentino di Alessano (Le), dove nasce nel 1935, Tonino Bello viene ordinato prete nel 1957. Negli anni ‘60 accompagna spesso a Roma il suo vescovo, impegnato nei lavori del Concilio Vaticano II, partecipando con entusiasmo alle istanze di rinnovamento e di aggiornamento radicale della vita della Chiesa. Diventa parroco, prima ad Ugento, poi a Tricase, dove il suo impegno comincia a delinearsi: fonda la Caritas, promuove l’Osservatorio sulle povertà, organizza incontri sul Concilio e sui temi della giustizia e della pace. Nel 1982 viene ordinato vescovo della diocesi di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi. La sua è la «Chiesa del grembiule», una delle immagini più efficaci coniate da don Tonino Bello, insieme a quella della «convivialità delle differenze». «L’accostamento della stola con il grembiule a qualcuno potrà apparire un sacrilegio», scriveva. «Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato nel Vangelo che, per la “messa solenne” celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il maestro si cinse ai fianchi» per lavare i piedi ai discepoli. È la traduzione plastica della «Chiesa povera e dei poveri» sognata dal Concilio e da Giovanni XXIII e subito archiviata dai suoi successori.

Bello “da paura”. Il vescovo di Molfetta sceglie la pace e il disarmo, diventa presto uno dei punti di riferimento del movimento pacifista italiano, sia della componente cattolica – nel 1985 viene nominato presidente di Pax Christi, al posto di mons. Luigi Bettazzi, che ha concluso il mandato – che laica: interviene contro la militarizzazione della Puglia – dal mega poligono di tiro che avrebbe sottratto migliaia di ettari di terra ai contadini e agli allevatori della Murgia barese, all’installazione degli F16 a Gioia del Colle, convincendo anche gli altri vescovi pugliesi a scrivere un documento contro i cacciabombardieri – e marcia a Comiso contro gli euromissili; attacca le politiche di riarmo del governo Craxi (incassando anche un severo richiamo da parte del presidente della Cei, il card. Ugo Poletti) e sostiene la campagna “Contro i mercanti di morte” che porterà all’approvazione nel 1990 della legge 185 che regola il commercio di armi; nella sua diocesi accompagna le lotte dei cassintegrati, dei disoccupati e degli sfrattati, che spesso accoglie nel palazzo vescovile. Quando interviene alle assemblee della Cei, gli altri vescovi lo ascoltano con sorrisetti di compiacenza e mormorii di dissenso. Ma arrivano anche i richiami formali. «Mi dicono che sei stato rimproverato», gli scrive in una lettera p. David Turoldo, «a maggior ragione intervieni, intervieni sempre di più, e insieme di’ che sei stato richiamato, dillo pubblicamente, perché di questo hanno paura».

Nel 1991 scoppia la prima guerra del Golfo: l’Iraq di Saddam Hussein invade il Kuwait e gli Usa, insieme agli alleati occidentali, bombardano Baghdad, in diretta televisiva. Tonino Bello scrive ai parlamentari perché non approvino l’intervento armato e paventa la possibilità di «dover esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la propria coscienza l’enorme gravità morale dell’uso delle armi». Ripeterà l’appello davanti alle telecamere di “Samarcanda”, la trasmissione televisiva di Michele Santoro, che lo invita a moderare i toni e a non incitare alla diserzione. Nei giorni successivi arrivano puntuali i rimproveri – ma anche gli attestati di solidarietà – da parte della gerarchia ecclesiastica militarista e dei politici patriottici. Ma tira dritto e anzi l’anno dopo polemizza con il presidente della Repubblica Francesco Cossiga che, il giorno prima di sciogliere il Parlamento, rinvia alle Camere la nuova legge sull’obiezione di coscienza (un nuovo testo verrà approvato solo nel 1998). Intanto in Puglia approdano le prime navi con migliaia di albanesi, che il governo rinchiude nello stadio di Bari, e don Tonino è in prima linea, sui moli, ad organizzare l’accoglienza.

Don Tonino si ammala di tumore allo stomaco. Riesce però ad andare a Sarajevo, dove piovono le bombe, nella prima guerra europea degli anni ‘90. Nel dicembre 1992, insieme ad altri cinquecento pacifisti riesce a raggiungere la capitale della Bosnia, dove la sera dell’11 dicembre si svolge una marcia della pace attraverso la città promossa dai Beati i costruttori di pace. La strada per la pace è la «nonviolenza attiva, gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati», disse allora in un cinema di Sarajevo illuminato da fiaccole e candele perché mancava l’elettricità. Saranno fra le sue ultime parole: pochi mesi dopo, il 20 aprile del 1993, il tumore lo ucciderà.

Luca Kocci          Adista notizie   09 aprile 2023

Tonino Bello, vescovo laico che ha insegnato la pace alla Chiesa.

Per approfondire la figura di don Tonino Bello trent’anni dopo la sua morte, Adista ha intervistato Rosa Siciliano, che ha conosciuto don Tonino e che attualmente è direttrice editoriale di” Mosaico di pace”, rivista promossa da Pax Christi proprio per volontà del suo ex presidente.

Rosa, raccontaci il tuo incontro con don Tonino Bello

                Ho incrociato le strade di don Tonino solo negli ultimi anni della sua vita, sui sentieri di Pax Christi e nelle vie colorate dei pacifisti. Subito dopo ho intercettato la forza dirompente e la novità della sua proposta – capace di coniugare Vangelo e attivismo, contemplazione e azione, politica e nonviolenza – nelle persone che ne hanno raccolto il testimone e che per me sono stati veri maestri di vita. Sono amici che hanno vissuto con don Tonino il suo impegno, tutt’altro che facile o irenico, per costruire la pace. Erano gli anni Novanta. Il movimento per la pace in Puglia fioriva nei territori dell’Alta Murgia, in difesa dell’ambiente minacciato dalle esercitazioni militari in una zona protetta, nelle marce per la pace e nelle delegazioni nonviolente in zone in guerra. Erano gli anni della guerra in Iraq, in cui la base di Gioia del Colle con i suoi F16 era protagonista, e della guerra in Bosnia, della marcia nonviolenta dei cinquecento 500 a Sarajevo. Ed erano anche i primi anni di vita di Mosaico di pace, creatura voluta da don Tonino come spazio plurale di informazione e di incontro tra culture e persone diverse. «Rivista di strada», così era definita nel primo editoriale del settembre 1990, «costruita sulla capacità di ascoltare i segni della realtà e i suoi testimoni, di provocare reazioni, di sollecitare progetti per fare entrare sempre più nella chiesa e nella società i fermenti del Regno».

                In tempi di guerra come quelli che stiamo vivendo ora, il messaggio di pace e nonviolenza di don Tonino è ancora più attuale. In cosa consiste?

Don Tonino apriva un capitolo nuovo della e nella Chiesa, e non solo in essa. Portava la Chiesa fuori dalle sagrestie e il pacifismo dentro la Chiesa. Non è un’icona, non è un santino. La forza e l’attualità di don Tonino era ed è nella proposta di un percorso, una strada, che parte e nello stesso tempo conduce a un “sogno”, un “altro mondo possibile” avremmo detto anni dopo. La pace, di fatto sinonimo di nonviolenza, è radicale, senza se e senza ma. È feriale, fatta di protesta, di denuncia e di sogno, di azione, tiene insieme le persone e i loro volti con i diritti e l’accoglienza e passa per la politica. Ma la vera novità della profezia di don Tonino era nell’essersi posto nel solco della nonviolenza, che allora non apparteneva alla tradizione e al patrimonio dei cattolici. Era un vescovo laico, nonviolento: rigettava la violenza, condannava la guerra come di mezzo risoluzione dei conflitti, denunciava il riarmo. Provocava la politica e rilanciava una proposta che partiva dai popoli e dai poveri, veri protagonisti del cambiamento. Uno dei suoi scritti più intensi è nel diario di Sarajevo, scritto il 13 dicembre 1992, pochi mesi prima di morire: «Poi rimango solo e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. […] Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? È possibile cambiare il mondo con il gesto semplice dei disarmati?». Come non sentire l’attualità delle sue inquietudini e dei suoi interrogativi, ma anche la potenza della sua proposta nonviolenta? Le cose cambieranno «se i poveri lo vogliono». La bellezza e la forza della disobbedienza civile nonviolenta la vediamo in Iran, ad esempio, nella forza coraggiosa delle donne che scendono in piazza e che disattendono il sistema di potere che le opprime pagandone in prima persona un prezzo alto. La vediamo in Afghanistan nei movimenti di resistenza ai talebani. Quello che i “poveri” costruiscono nel silenzio dei media ha la potenza dirompente della nonviolenza. E lo vediamo nelle azioni pazienti e solide del nostro pacifismo, connesso, certo talvolta frammentato, ma lungimirante, anch’esso tutt’altro che irenico.

                Una ricerca della pace che deve passare attraverso la politica…

                In don Tonino c’era la ferma convinzione che la pace passa per la politica. Giustizia-pace-salvaguardia del creato vanno a braccetto e trovano piena attuazione se la politica saprà aprire le porte. La nonviolenza, quella di don Tonino ma anche quella in crediamo noi oggi, quella che ha accompagnato i partecipanti nelle cinque carovane di “Stop the war now” in Ucraina, bussa alle porte della politica. Perché le istanze ideali di risoluzione dei conflitti senza armi né violenze, di riduzione delle spese militari, di sostenibilità ambientale passano dalle vie della politica. Perché la pace deve giungere «sino ai terminali più periferici della società». E come? Con la protesta, ci dice don Tonino, con solide “sporgenze utopiche”, con l’attenzione massima al bene comune. Suo erede? Papa Francesco con la sua meravigliosa Laudato si’.

Qual è stato l’impegno di don Tonino per il disarmo?

                Il progetto di pace e nonviolenza è un tutt’uno. È uno sguardo circolare sul mondo e sulla vita, in cui fini e mezzi sono coerenti, obiettivi e strategie coesi. Tutto si tiene, se si guarda alla giustizia globale, alla restituzione dei diritti negati ai popoli ultimi della storia, alla tutela dell’ambiente. Al mare che sia «arca di pace» e non «arco di guerra», che sia incontro di popoli e non cimitero, come succede nel Mediterraneo. La pace “trinitaria”, che è al cuore della pastorale e dell’azione di don Tonino, non lascia posto alcuno alle armi, alla violenza armata, alla guerra. A tutti diciamo, scriveva, «deponete le armi, sottraetevi all’oppressione dei mercanti della guerra». E di lì, a seguire, un impegno fermo per la riconversione dell’industria bellica, per la riduzione delle spese militari passando per l’obiezione fiscale, per la pace passando per l’obiezione di coscienza e persino per la diserzione. Insomma il mondo lo vedeva da sud. Forse in questo dovremmo riprendere uno sguardo diverso anche noi, meno eurocentrico. Capaci di guardare la complessità della Storia con altri occhi e da altre prospettive.

Don Tonino pensava globalmente e agiva localmente: come?

È un invito a vivere appieno il tempo e lo spazio in cui siamo, a non perdere mai la visione globale sulle cose e sul mondo e ad aver cura, nello stesso tempo, di seminare un cambiamento possibile qui e ora, agendo nel locale, nei territori, con le persone. La sua voce rivolta allora ai giovani risuona a noi tutti e tutte: attraversare questa vita in modo audace e propositivo, con sporgenze utopiche cui attaccarsi. «Meno male – diceva – che ci sono dei pazzi da slegare, da mettere in circolazione perché vadano a parlare di grandi utopie. Quello che è pericoloso, è che le grandi utopie si raffreddino nel cuore dei giovani. Io vi voglio augurare che non abbiate a perdere la dimensione della quotidianità e del sogno».

Luca Kocci  Adista Notizie n° 14                                 15 aprile 2023

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