L’équipe interdisciplinare del consultorio familiare UCIPEM e la sua supervisione

Nell’esercizio duna professione di aiuto, un singolo professionista (medico, consulente familiare, psicologo, assistente sociale, pedagogista, ecc.), dopo avere accuratamente valutato le problematiche espresse e talvolta inespresse di un singolo utente e/o un nucleo di convivenza, può prendersene cura con modalità diverse cercando le soluzioni più adatte.

La presa in carico è necessariamente un lavoro professionale che richiede una base organizzativa, competenze individuali, programmazione, formazione e aggiornamento, controlli e supervisione.

Le modalità di approccio si configurano in due ordini distinti attuabili anche in modo sequenziale:

  • Il singolo professionista prende in carico il cliente, ne affronta i problemi e, ove non fosse possibile trovare una soluzione, lo invia ad altra struttura che abbia i requisiti e le potenzialità per affrontare quei problemi.
  • La persona è presa in carico da un gruppo di lavoro che se ne prende cura in maniera pluridisciplinare. A titolo di esempio, il Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI) raccomandava nei consultori familiari pubblici “… un organico tale da costituire una risorsa multidisciplinare adeguata per la realizzazione sia dei progetti strategici che di quelli satellite”.

Ci troviamo quindi di fronte a due modalità distinte di presa in carico della persona: una autonoma, quale quella gestita da un singolo professionista che svolge la propria attività nel suo studio, e una che vede numerose figure che collaborano in vario modo in una struttura complessa e organizzata. Nel primo caso parliamo di lavoro monodisciplinare, nel secondo caso di lavoro pluridisciplinare. Sono due diversi livelli di presa in carico che oggi possono interessare il settore della ricerca scientifica come il mondo dell’educazione, della didattica, della sanità, ecc.

In un mondo sottoposto a sempre più rapidi cambiamenti, sviluppi, approfondimenti e specializzazioni delle conoscenze, il paradigma della complessità comporta la necessità di affrontare i problemi da vari punti di vista e prospettive, utilizzando diversi approcci disciplinari specialistici; da qui la necessità di multidisciplinarità sia come principio che come prassi. Per superare i limiti di un sapere proprio del singolo professionista si ricorre alla convergenza su un medesimo ambito di specialisti di più campi del sapere, ossia si passa dalla monodisciplinarità alla pluriprofessionalità propria del gruppo di lavoro.

La pluridisciplinatirà racchiude a sua volta tre diverse modalità di approccio ed è arduo districarsi fra termini e concetti come multidisciplinarità, interdisciplinarità, transdisciplinarità per cui si può generare confusione. Proviamo tuttavia a fare delle distinzioni che non hanno un mero valore speculativo e teorico, ma sostanziale e si traducono in scelte operative diverse. Seguiamo una sorta di percorso evolutivo dalla multidisciplinarità alla interdisciplinarità e alla transdisciplinarità.

MULTIDISCIPLINARITA’

Il cliente viene preso in carico collegialmente da un gruppo di lavoro composto da figure professionali diverse e con diverse specializzazioni che hanno la possibilità di interagire tra loro. Nel lavoro multidisciplinare gli specialisti lavorano su vari aspetti dello stesso problema e collaborano in funzione di uno scopo comune predefinito. Questo approccio presenta tuttavia dei limiti dovuti al fatto che gli operatori appartenenti a diverse discipline sono invitati separatamente a preparare una relazione su un problema che viene poi affrontato a livello globale.

Gli esperti non necessariamente entrano in rapporto gli uni degli altri: ognuno affronta il problema secondo le teorie e i metodi della propria disciplina. Manca il lavoro di integrazione e sintesi delle informazioni che possa consentire, oltre all’acquisizione di una ricchezza e varietà di prospettive e di analisi, una proposta operativa coerente. Il risultato è spesso una giustapposizione di dati o di relazioni cosicché, anche se il problema viene affrontato in modo approfondito dai vari professionisti, manca una reale integrazione tra le diverse prospettive. Da un lato, questo approccio è un superamento dell’approccio monodisciplinare, in quanto quest’ultimo non rivela i molteplici punti di vista che la metodica multidisciplinare è in grado di evidenziare; dall’altro lato, proponendo soltanto una raccolta di diversi punti di vista, questa modalità può ostacolare il raggiungimento di un unico, armonioso risultato. Inoltre, leggendo le relazioni, può capitare di imbattersi in dichiarazioni contraddittorie sulla natura del problema, sulle modalità di approccio, ecc. Sussiste il rischio di trovare un risultato immediato ricco di prospettive e varietà di analisi, ma privo di una proposta operativa coerente.

È necessario un salto di qualità, per cui i professionisti del gruppo di lavoro si rapportano fra di loro in modo stretto, con una apertura allo scambio di contenuti, di metodi e tecniche delle singole discipline, alla ricerca di nuovi percorsi.

INTERDISCIPLINARITA’

L’interdisciplinarità è comunemente intesa come un approccio “orizzontale” tra discipline che permette una comprensione più adeguata di un dato oggetto di studio che per la sua complessità, difficilmente potrebbe essere colto con un singolo metodo disciplinare.

L’ipertrofica specializzazione della conoscenza e la conseguente frammentazione parcellare del sapere inducono i cultori di una data disciplina ad aprirsi al dialogo e a lasciarsi mettere in discussione dai cultori e dai contenuti di altre discipline diventando in questo modo capaci di comprendere in maniera più approfondita il proprio oggetto d’indagine.

Nel lavoro interdisciplinare i membri della équipe provengono da discipline diverse, hanno conoscenze diverse e possono anche riconoscere valori diversi. L’obiettivo è quello di trattare un problema nel suo complesso identificando e integrando tutte le relazioni tra i vari elementi coinvolti, sintetizzando e collegando la conoscenza disciplinare per inserirla in un contesto sistemico più ampio. Nella interdisciplinarità non è sufficiente che un problema venga esaminato dalla prospettiva estesa di molte discipline, è anche indispensabile un coordinamento delle discipline stesse e il lavoro è organizzato in funzione dell’integrazione dell’intervento.

Il coinvolgimento di tutti i professionisti della équipe è necessario sia per la valutazione iniziale dell’utente e l’analisi delle informazioni e dei problemi portati, sia per delineare linee, metodi, procedimenti della presa in carico. Sono necessarie riunioni periodiche per valutare i progressi dell’intervento su cui riflettere insieme. Il confronto di prospettive d’indagine diverse dà luogo ad uno sforzo di mutua interazione, nella consapevolezza della parzialità di ciascuna prospettiva e nello stesso tempo della reciproca indispensabilità per la comprensione di un problema o di una data realtà. Nel lavoro interdisciplinare il requisito fondamentale operante è l’integrazione. Se questa manca non si può parlare di lavoro interdisciplinare.

TRANSDISCIPLINARITA’

Transdisciplinaritàè un termine relativamente recente: è apparso per la prima volta in Francia nel 1970, durante una conferenza dello psicologo svizzero Jean Piaget durante un seminario internazionale. Nel suo contributo Piaget offriva la seguente definizione per il termine

Transdisciplinarità: “… ci auguriamo di vedere in futuro lo sviluppo delle relazioni interdisciplinari verso uno stadio superiore che potrebbe essere indicato come “transdisciplinare”,

che non dovrà essere limitato a riconoscere le interazioni o le reciprocità attraverso le ricerche specializzate, ma che dovrà individuare quei collegamenti all’interno di un sistema totale senza confini stabili tra le discipline stesse”.

La Transdisciplinarità costruisce un proprio contenuto, proprie modalità, una nuova attitudine, un nuovo approccio intellettuale, culturale ed operativo. Essa attraversa e oltrepassa tutte le discipline con l’obiettivo di comprendere la complessità restituendo unitarietà nella diversità.  Questa esigenza è sentita contemporaneamente anche in vari campi del sapere, come ad esempio nel mondo della ricerca fisica. Scrive Sergio Rondinara su “Città Nuova – febbraio 2009”: “Negli ultimi decenni all’interno delle scienze della natura si è affermato un nuovo campo d’indagine che per alcune di esse, le scienze fisiche, è ormai diventato un ampio settore della loro indagine sul mondo. Si tratta della complessità. L’universo appare oggi ai ricercatori scientifici molto lontano da quello presentato da Isaac Newton e Piérre Simon de Laplace. La fisica classica, attraverso l’analisi quantitativa di cui era capace, aveva interpretato il mondo e i suoi fenomeni come semplici accadimenti regolati da leggi deterministiche immutabili. A questo associava la certezza di poter spiegare e prevedere i fenomeni naturali con precisione e rigore metodologico. Molti fatti hanno corroborato una tale impostazione finché gli sviluppi della ricerca hanno prima intaccato e poi demolito tali convinzioni. Si è notato, infatti, come anche nei sistemi ritenuti deterministici si verifichino comportamenti caotici, dipendenti dal caso, per i quali la rigida impostazione determinista non riusciva ad eliminare quelle piccole indeterminazioni che, nello sviluppo temporale del sistema, acquistavano poi grande rilevanza. Questa incapacità della fisica classica ad interpretare correttamente i fenomeni naturali complessi nei quali entrano in gioco un numero elevato di variabili, si è propagata prima ad altri settori delle scienze naturali, poi a quelle sociali”.

In un approccio lavorativo transdisciplinare un team di esperti riflette insieme, tutte le discipline saranno rilevanti ma nessuna avrà un ruolo egemonico sulle altre. Ci si concentrerà sulle connessioni, attraversando il confine radicato delle diverse discipline attraverso lo scambio di idee e di diverse prospettive di osservazione. In una dimensione transdisciplinare, le persone “si trasformano” in una squadra. La transdisciplinarità è intesa non solo come integrazione di conoscenze su un oggetto considerato ma, soprattutto, come assimilazione reciproca di conoscenze. Come in un’orchestra, ognuno suona una parte dello spartito facendo uso dei vari suggerimenti ricevuti dai colleghi e, insieme a loro, cerca di trasmettere consonanza e armonia come in una sinfonia.

A una prima riflessione le differenze tra la multidisciplinarità, la interdisciplinarità e la transdisciplinarità potrebbero apparire come semplici sfumature; in realtà, specialmente nell’ambito consultoriale, le differenze sono sostanziali: la prima consiste in una giustapposizione di varie discipline; la seconda non si accontenta di giustapporre, ma fa interagire più discipline con lo studio di un oggetto, di un campo, di un obiettivo; la terza, più ambiziosa, tenta di estrarre da questa collaborazione un filo conduttore, fino a pervenire ad una filosofia epistemologica completamente nuova.

Fabio Marzocca  in “Mithos ed. 2014” con una metafora vede la multidisciplinarità come “un banchetto dove varie persone portano piatti diversi, tutti successivamente collocati su un tavolo. Il risultato della giustapposizione è puramente accidentale e molte persone potrebbero aver portato lo stesso piatto, mentre il risultato di altri potrebbe essere del cibo completamente inaspettato per quel banchetto. Ci sono tutti i presupposti per un elevato rischio di spreco di risorse e per la mancanza di coerenza.

L’interdisciplinarità invece si può assimilare a un banchetto dove varie persone portano piatti diversi, selezionati in maniera indipendente sapendo ciò che gli altri non stanno portando. Per migliorare la presentazione e il gusto del cibo, tutti i piatti sono interamente o parzialmente combinati all’ultimo minuto per comporre nuove portate. Il risultato dell’insieme sta nel lavoro finale della composizione, che è unicamente finalizzata a minimizzare gli sprechi e massimizzare la coerenza.

La transdisciplinarità, infine, è come un banchetto dove diverse persone hanno deciso collettivamente in anticipo cosa cucinare con gli ingredienti e le competenze disponibili, e portano molti piatti preparati in collaborazione. Nessuno dei presenti può dire a chi appartengono i vari elementi né chi li abbia composti: il lavoro di squadra deve essere riconosciuto. Nel banchetto transdisciplinare vi è un uso ottimale delle risorse, in quanto nessun piatto è utilizzato parzialmente, o semplicemente rimasto come eccedenza. C’è una concordanza ottimale di gusti, poiché una grande quantità di tempo viene spesa nel concepire in anticipo i vari piatti proprio in virtù della loro fruizione integrata”.

Uscendo dalla metafora i membri del team acquisiscono nuove competenze attraverso la loro interazione, migliorano la loro capacità di ascolto e imparano che possono produrre un risultato positivo anche se non sono né in possesso di tutte le conoscenze né a conoscenza di tutte le specifiche metodologie. Capiscono che, sebbene ciascuno di loro non stia eseguendo il lavoro nella sua completezza, sono tutti insieme ugualmente partecipi al risultato finale.

La carta dell’UCIPEM

La Carta dell’UCIPEM all’articolo 3 recita:

3 – Il gruppo di lavoro consultoriale

3.1           lI servizio consultoriale è prestato da un gruppo di lavoro, formato da operatori sociali che affrontano la domanda, secondo le metodiche proprie sul consultorio, nella collaborazione interdisciplinare, a partire dalle loro competenze specifiche: educative, sociali, psicologiche, mediche, giuridiche, etiche e di altre scienze umane.

3.2           lI gruppo tiene conto della globalità della domanda anche inespressa e della dinamica delle relazioni vissute, con una presa in carico che si manifesta nell’ascolto, nel dialogo, nel sostegno, nella relazione d’aiuto, volti a favorire nell’utente la presa di coscienza della propria situazione, per la maturazione di scelte autonome e responsabili.

3.3           Il gruppo verifica collegialmente, con l’eventuale supervi­sione di un esperto, la metodologia comune, analizza i casi e i problemi emersi nel rapporto di consulenza, assume la responsabilità delle ipotesi di lavoro e delle possibili soluzioni, in armonia con l’orientamento del Consultorio.

3.4           I membri del gruppo condividono la concezione della persona sopraenunciata, concordano sugli obiettivi e sulla metodologia comuni, operano secondo la deontologia propria della loro professione e nel rispetto dei valori cui la persona fa riferimento.

3.5             Nel gruppo, per l’accoglimento della domanda e per la sua evoluzione, nonché per il coordinamento dei possibili interventi specialistici, assume un ruolo peculiare il consulente coniugale e familiare.

Si evince con chiarezza che nei consultori UCIPEM  la presa in carico dell’utente è affidata a un gruppo di lavoro, questo gruppo di lavoro da sempre è stato l’équipe e la sua modalità di lavoro deve essere di tipo interdisciplinare. Questa modalità di lavoro distingue nettamente il consultorio UCIPEM da un qualsiasi altro consultorio e dalle altre strutture sociosanitarie.

La scelta del lavoro interdisciplinare è stata una grande intuizione dei fondatori dell’UCIPEM. Essi hanno visto in questa modalità di lavoro la possibilità di guardare in maniera interdisciplinare i numerosi aspetti, le sfaccettature delle problematiche della persona mantenendo però intatta l’unitarietà della persona stessa. Vi sono consultori che nel tempo sono andati oltre passando dal metodo interdisciplinare a quello transdisciplinare dimostrando di avere assimilato i principi della Carta dell’UCIPEM.

Purtroppo l’individualismo che pervade oggi l’intera società è oramai penetrato anche nel mondo del volontariato, spingendo verso una modalità il lavoro autonoma e autoreferenziale degli operatori quasi che lavorare in équipe sminuisca la propria professionalità e la propria personalità.

Purtroppo questa tendenza sta penetrando anche nei nostri consultori. Se fino a poco tempo fa si potevano intravedere solo piccoli segnali premonitori, oggi ci sono dati di fatto i quali dimostrano con evidenza la tendenza che fa temere la possibilità di perdita di coerenza e fedeltà ai principi fondamentali dei consultori UCIPEM. In alcuni casi si può verificare che:

  • L’équipe è considerata come un gruppo di lavoro con funzioni puramente organizzative per le numerose attività consultoriali o per l’assegnazione dei casi agli operatori da parte del direttore.
  • Il consultorio è considerato come una struttura poliambulatoriale in cui svolgere la propria professione.

Certo ogni consultorioUCIPEM ha l’équipe strutturata in base alle risorse di cui dispone e ai bisogni del territorio. Anche se l’ideale è una équipe costituita da tutte le figure presenti nel campo sociosanitario, non è detto che queste possano esserci tutte;ciononostante il consultorio rimane una struttura complessa. Per motivi contingenti, ma mai per scelta degli organizzatori, è possibile incontrare équipes con pochissime figure professionali. Per necessità si potrebbe verificare la situazione limite per cui l’équipe di un consultorio familiare è costituita da soli psicologi o da soli consulenti familiari o da soli medici. Dal punto di vista formale in queste eventualità ci troveremmo certamente di fronte a una équipe monodisciplinare e quindi maggiormente esposta a problemi disfunzionali. Se tuttavia gli operatori, pur appartenendo alla stessa disciplina, acquisiscono delle superspecializzazioni e, cosa che più conta, la modalità di lavoro di quella équipe è strutturata in maniera tale che avvenga l’integrazione dei professionisti coinvolti, quella équipe mantiene ugualmente le connotazioni di interdisciplinarità. Nel caso in cui l’integrazione non avvenga si assiste alla regressione della interdisciplinarità, a un tornare verso la monodisciplinarità o peggio ancora, a un andare verso l’autonomia individualistica degli operatori abbassando così il livello qualitativo del consultorio familiare e snaturando un principio fondamentale della Carta dell’UCIPEM.

Certamente un approccio al lavoro di tipo interdisciplinare è faticoso, comporta delle difficoltà, comporta un notevole dispendio di energie; esso però consente di affrontare problemi e di ottenere risultati impensabili. Le strutture complesse quali sono i nostri consultori familiari, servono proprio a questo e le difficoltà organizzative non devono indurre alla ricerca di “scorciatoie”; non devono portare a rassegnazione o a scoraggiamenti. L’approccio interdisciplinare essendo una chiara espressione della Carta dell’UCIPEM, denota un rispetto delle origini. La fedeltà alle origini arricchita dalle nuove conoscenze e dalle nuove prospettive, dalla ricchezza e varietà delle esperienze positive acquisite negli anni e dalla consapevolezza delle nostre grandi potenzialità della interdisciplinarità, offre la possibilità di aiuto alla persona irraggiungibili con altre modalità di lavoro.

La modalità interdisciplinare di lavorare è oggi sempre più diffusa e sono tanti i settori che ne riconoscono la validità: in ambito lavorativo, nell’insegnamento e nella ricerca, in ambito scientifico e umanistico. La metodologia del lavoro interdisciplinare non consiste semplicemente nel mettere a confronto contenuti di diverse discipline, né tantomeno operare una “somma” di conoscenze diverse riguardanti uno stesso oggetto. La metodologia interdisciplinare va vista in un quadro di “scambio di saperi”. Le diverse discipline operano una comune riflessione sui fondamenti delle conoscenze di ogni professionista e sulle modalità con cui tali conoscenze si esprimono, rendendo possibile il loro dialogo.L’interdisciplinarietà non può essere appresa o insegnata, deve essere vissuta.

Per l’Enciclopedia TRECCANI l’interdisciplinarità è “La rete dei rapporti ci complementarità, integrazione e interazione per cui discipline diverse convergono in principi comuni sia nel metodo della ricerca sia nell’ambito della costruzione teorica”.

Per il dizionario (DEVOTO – OLI), l’interdisciplinarità è “l’interazione coordinata di due o più discipline” e, in particolare, della “metodologia dell’insegnamento che cerca di dare una visione globale anziché particolaristica di problemi o argomenti attinenti a varie discipline”.

Per i pedagogisti Scurati e Damiano (1976) si intende: L’interazione fra due o più discipline: tale interazione può andare dalla semplice comunicazione di idee fino all’integrazione reciproca dei concetti direttivi, della teoria della conoscenza, della metodologia, delle procedure, dei dati e dell’organizzazione della ricerca e dell’insegnamento.

Per Piaget (1972), l’interdisciplinarità è la “collaborazione fra discipline diverse o fra settori eterogenei di una stessa scienza per addivenire a interazioni vere e proprie, a reciprocità di scambi, tale da determinare mutui arricchimenti”.

Il professor Boisot definisce poi l’interdisciplinarità ristretta, che “si ha nel caso in cui varie discipline interagiscono in ordine ad un qualche definito obiettivo di ricerca e campo di applicazione”, “definizione che risulta particolarmente adeguata quando si voglia risolvere specifici problemi e dar luogo a relazioni tipicamente orientate al conseguimento di obiettivi precisi” (Scurati, Damiano, 1976).

L’ottica interdisciplinare è in primo luogo una questione di atteggiamento e mentalità” (Ghisla, 2006).

Secondo le pedagogiste A. M. Ronza Flumiani e M. A. Ricchiuto (1977), infine, interdisciplinarità è “convergenza di competenze specifiche; contenutisticamente, studio, conoscenza e comprensione del reale, intesi come volontà e capacità di individuare le situazioni confuse e contraddittorie in partenza e gli elementi più idonei a spiegare i processi di trasformazione dei fenomeni”.

Dalle varie definizioni risalta l’aspetto collaborativo tra le discipline, finalizzato a spiegare determinati fenomeni e a guardarli da un punto di vista olistico. Piaget parla infatti di “mutui arricchimenti”, in quanto un approccio interdisciplinare permette di considerare ogni singolo aspetto in modo più globale.

La metodologia interdisciplinare non è nata nell’era moderna: le sue origini si possono rintracciare già nell’antica Grecia. In Europa e con più forza in Francia, questa metodologia si è affermata nel ventesimo secolo.

Senza peccare di presunzione potremmo dire che in Italia è stato Don Paolo Liggeri a dare un contributo determinante al lavoro interdisciplinare. Quando nel 1948 Don Paolo fondò il primo Consultorio a Milano presso l’Istituto “La Casa”, riunì intorno a sé un gruppo di professionisti per affrontare le problematiche familiari; non chiamò solo psicologi o solo medici o solo avvocati, bensì chiamò persone con professionalità diverse affinché lavorassero insieme. Organizzò un gruppo di lavoro che, nel 1979, quindi molti anni dopo, con la promulgazione della “Carta” dell’UCIPEM, prese il nome di “équipe interdisciplinare”.

Ma perché un gruppo, un’équipe e non dei singoli professionisti e perché con modalità interdisciplinare?

Anche in Medicina stiamo assistendo in questi ultimi anni a una rivalutazione della centralità della persona nella sua unicità e unitarietà, persona che viene posta al centro mentre in passato era più la malattia ad essere posta al centro dell’attenzione medica. In corsia non si parlava della persona ma si faceva riferimento al caso clinico, quando addirittura per parlare di una persona ammalata si faceva riferimento al numero del letto e all’organo malato.  Oggi si parla di “medicina narrativa”, di “medicina integrata”; nascono gruppi multidisciplinari per affrontare determinate patologie e discipline complesse come la psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI). 

L’utente che giunge al Consultorio, spesso dopo altri percorsi, altre consultazioni, con il suo fardello, con la sua complessità, dovrebbe trovare delle risposte più soddisfacenti, più ampie, più articolate di quelle che ha trovato in precedenza. L’utente nel Consultorio trova un’équipe, un organismo complesso, che si prende cura della sua complessità.

Ad una domanda complessa è necessario dare una risposta complessa.

La domanda dell’utente, anche quando sembra essere una domanda semplice, è una domanda complessa: ciascuno porta in consulenza non solo sé stesso ma anche la sua famiglia attuale o passata, reale o internalizzata.

Pensiamo anche a tutte quelle volte che, nella nostra esperienza consultoriale, ci è capitato di vedere che un utente giunge in consulenza con una certa domanda di aiuto, a cui poi nel corso degli incontri se ne aggiungono altre inizialmente inespresse.

L’unitarietà e unicità della persona richiede che la risposta alla sua richiesta di aiuto non sia frammentata bensì integrata in una visione d’insieme.  Dunque è molto difficile se non impossibile che un solo operatore consultoriale o più operatori non interconnessi fra loro diano le risposte attese.

Questo non toglie il valore dell’attività che un singolo professionista può svolgere in autonomia. Un consultorio familiare UCIPEM è però una struttura di livello superiore e, in quanto tale, ha l’équipe come organo fondamentale in grado di dare risposte complesse e integrate.

Un medico, un legale, un consulente familiare, qualsiasi professionista che lavora da solo, può magari consultarsi con altri colleghi o inviare il paziente ad altri professionisti; nel caso del medico se il caso è molto complesso il medico potrà decidere di far ricoverare il paziente in un presidio ospedaliero dove sarà presente un team di professionisti.  

Cambiando ambito pensiamo ad un cantante: un cantante può cantare anche da solo, magari accompagnandosi con un pianoforte o un altro strumento; se tuttavia lo stesso cantante armonizzerà la sua melodia con altre voci e le diverse voci saranno accompagnate da un’orchestra il risultato sarà certamente diverso.

Nel corso dell’incontro che abbiamo tenuto a Riano nel giugno u. s. abbiamo ascoltato un brano cantato da Caruso e uno da Pavarotti dove ciascuno dei due cantanti era accompagnato dall’orchestra; essi erano talmente bravi che avrebbero potuto eseguire i due brani anche da soli e sarebbero stati comunque bellissimi ma non avrebbero potuto raggiungere il livello qualitativo riconosciuto da tutti se quella musica non fosse stata adeguatamente armonizzata con l’accompagnamento di un’orchestra. Abbiamo anche ascoltato un brano polifonico di Palestrina, di cui abbiamo potuto apprezzare la melodia affidata ai soprani, ma è stata l’armonia, la sovrapposizione ordinata delle altre voci che ce lo ha fatto gustare appieno. Questo è avvenuto perché ogni voce è entrata al tempo giusto, con la giusta tonalità, con il giusto volume, senza perdere la propria identità e la propria importanza: i bassi sono rimasti bassi, i soprani sono rimasti soprani, i contralti sono rimasti contralti ed i tenori sono rimasti tenori.

Per rimanere in un ambito musicale, nello svolgimento di una riunione d’équipe interdisciplinare ogni membro dovrebbe sapere e sentire quale è il momento giusto per intervenire, dovrebbe farlo con la modalità appropriata e col giusto tono, consapevole che il contributo di ciascuno è fondamentale per il risultato finale.

Sfide:

Ci sono delle sfide da affrontare:

  • Il riconoscimento da parte di ogni membro delle altre discipline: è indispensabile che per comunicare meglio ciascuno acquisisca la capacità di far comprendere agli altri il proprio modello concettuale, il proprio linguaggio e impari a comprendere quello degli altri, cogliendo differenze, similitudini e complementarietà.
  • I membri del team devono crescere, non solo curando il proprio aggiornamento professionale, ma anche imparando a stare insieme, a lavorare insieme, fare squadra, aprirsi alla diversità, per trovare insieme le migliori soluzioni. È un processo di apprendimento continuo.

Occorre precisare però che anche in una prospettiva interdisciplinare si possono incontrare alcune insidie che possono ostacolare e a volte vanificare il lavoro:

  • Quando si pensa che basti riunire intorno ad un tavolo esponenti di varie discipline per risolvere i problemi. 
  • Quando gli esperti scambiano informazioni solo per trovare un accordo finale sul confine in cui ciascuno potrà muoversi. In tal modo ci troveremo di fronte solo a una collezione di pareri multidisciplinari con una conseguente regressione verso la multidisciplinarità.

In realtà, per realizzare un processo di reale integrazione fra i saperi, bisogna che si realizzi una apertura conoscitiva in modo tale da trasformare il percorso lavorativo da mera strategia metodologica ad una apertura sapienziale su diversi livelli di intelligibilità.

Si possono rischiare o eccessive generalizzazioni e semplificazioni confusive o eccessive frammentazioni. Un singolo errore di un membro dell’équipe può ripercuotersi su tutto il team. L’incompetenza di uno o più operatori, se da un lato può essere corretta dalla competenza degli altri membri dell’équipe, può anche imporsi con conseguente scoraggiamento e allontanamento degli altri.

È necessario che ogni membro si dimentichi delle proprie vanità e interessi personali a beneficio del gruppo, è necessario conoscere e rispettare le necessità di ciascuno, lo spazio di ogni operatore, con i suoi diritti e doveri.

Formare una équipe è il primo passo, ma a niente servirebbe se ogni membro agisse individualmente, senza preoccuparsi di tutti gli altri componenti del team e senza reali scambi.

Sono necessarie e fondamentali competenze di base nella comunicazione, nella gestione positiva delle emozioni e dei conflitti. Ciò richiede consapevolezza di sé e autodisciplina. Nello spirito di squadra ogni membro del team riconosce che il suo successo personale dipende da quello dei suoi compagni, riconosce l’interdipendenza legata ai ruoli, alle risorse (condivisione della logistica, del tempo, delle fonti di informazione, degli obbiettivi) fino al punto di riconoscere che il merito del successo non è personale ma è dell’intera squadra. Ci devono essere apprezzamento reciproco, sostegno reciproco, condivisione delle risorse, critica costruttiva.

Il lavoro interdisciplinare può dare luogo ad aree di integrazione nuove, discipline nuove con nuovi concetti, metodi, esperti. Questo può avvenire nella medicina, nella ricerca scientifica come nel lavoro consultoriale. Vedi in medicina lo sviluppo della Psiconeuroendocrinoimmunologia, vedi in ambito sociale lo sviluppo della interculturalità, ecc. 

C’è tuttavia un’altra possibile evoluzione che è quella verso la transdisciplinarità.

Difficoltà e vantaggi del lavoro interdisciplinare.

Lavorare insieme in un team interdisciplinare è molto difficile e complesso.

Ogni professionista naturalmente tende, nella presa in carico dell’utente, a fare riferimento alle proprie mappe cognitive, alle proprie conoscenze, al proprio linguaggio e metodo di lavoro, attraverso cui osserva, valuta, analizza e interpreta la realtà e da cui derivano i propri obiettivi in termini di risultati attesi, i propri processi decisionali di cui si assume anche in prima persona le responsabilità.

Dunque ogni professionista ha un suo punto di vista, che è importantissimo, ha un grande valore, ma nel nostro caso non è sufficiente. Nell’équipe interdisciplinare ogni professionista si può confrontare con altri professionisti della stessa categoria e di categorie diverse per uno scambio e arricchimento reciproco; questo non è facile ma è molto utile per la propria crescita professionale e umana. Pensiamo alle diverse competenze psicologiche, ai diversi indirizzi e specializzazioni delle varie discipline.  Il confronto è sicuramente costruttivo, arricchente e mette al riparo da tentazioni di autoreferenzialità e onnipotenza.

Lavorare in équipe interdisciplinare non è facile, non è scontato. È un cammino, un percorso, un allenamento continuo. Aprirsi a punti di vista diversi vuol dire apparentemente “perdere” qualcosa delle proprie certezze, delle proprie sicurezze, vuol dire accogliere l’altro professionista, rispettarlo, valorizzarlo, dargli spazio. Quando il lavoro di équipe “funziona” ogni professionista si dovrebbe sentire valorizzato e confermato nella propria unicità, più consapevole delle proprie competenze e del proprio ruolo, ma contemporaneamente arricchito della unicità dell’altro.

Il lavoro di équipe presenta difficoltà e rischi di varia natura, ma anche vantaggi.

Proviamo ad esaminarne alcuni.

Lavorare in équipe può portare a conflitti. I conflitti in un team sono da considerare fisiologici o addirittura stimolanti se sono costruttivi e riguardano aspetti di contenuto, aspetti professionali.

Quando i conflitti sono di tipo relazionale, magari per il desiderio di qualcuno di acquisire una sorta di supremazia, di prevalenza su un altro o su altri, il conflitto è solo negativo. Spesso questo conflitto negativo avviene attraverso comunicazioni non verbali. Le conflittualità, più o meno latenti, possono sfociare in conflitti aperti o anche in atteggiamenti di evitamento, isolamento, fino all’abbandono. L’équipe si potrebbe definire un “incastro autosostenente”; se un pezzo viene a mancare si può innescare un processo destabilizzante e distruttivo.

In una équipe ci può anche essere in rischio di quella che qualcuno ha definito “deresponsabilizzazione parassitaria”; questo avviene anche quando all’interno dell’équipe alcune persone tendono a non coinvolgersi direttamente, a non essere attivamente partecipi.

Un’altra difficoltà può essere rappresentata dalla “polarizzazione”, un fenomeno per il quale all’interno del gruppo si creano sottogruppi di “maggioranza”, a più alta intensità espressiva, che tendono ad inibire la “minoranza” non allineata. Questo porta a far perdere al gruppo punti di vista diversi e questo aumenta il rischio di errori valutativi e decisionali.

C’è poi un altro possibile rischio: il gruppo può dare ai suoi membri un falso senso di sicurezza, per cui possono essere prese dal gruppo decisioni non sufficientemente ponderate e valutate, non sufficientemente prudenti.

Dunque ci sono difficoltà ma anche vantaggi. Vediamone alcuni. Vantaggi di tipo:

  • Cognitivo – conoscitivo: C’è un arricchimento di conoscenze, un allargamento dei propri confini, una possibilità diversa di elaborazione.
  • Relazionale: nel senso di riconoscere l’altro, il collega di équipe, dargli spazi, accoglierlo, amarlo, rispettarlo. Con lui condividiamo dei principi, dei valori di fondo, delle scelte etiche, ideologiche, la comune appartenenza alla “famiglia” dell’Ucipem, la comune mission e vision. Tutto nella reciprocità.
  • Organizzativo – decisionale: Il confronto deve portare anche a delle decisioni, anche rispetto all’utente, alla scelta di priorità di intervento, di percorsi da proporre, con assunzione di responsabilità da parte di ciascuno e di tutti.

Lavorare insieme in un’équipe interdisciplinare significa lavorare in armonia; significa valorizzare tutte le professionalità e tutti i professionisti allo stesso modo.

Chi può garantire, vigilare, sostenere l’équipe nel suo difficile compito?

Ogni singolo membro dell’équipe, anzitutto. Poi un direttore e un supervisore.

Certamente anche il singolo membro può fare una sorta di autovalutazione della qualità delle relazioni e comunicazioni all’interno del gruppo, in un gioco di reciprocità.  Ad es. ognuno dovrebbe sentire di ricevere/dare in uno scambio reciproco con gli altri membri: solidarietà, incoraggiamento, supporto, valorizzazione, fiducia, stima, rispetto. Ancora, ognuno dovrebbe sentire, rispetto alla “pesantezza” dei casi che deve affrontare, riduzione, sollievo dalla tensione, alleggerimento, distensione.

Ognuno dovrebbe ricevere/dare comunicazioni positive: ascolto, comprensione empatica, suggerimenti, idee, opinioni, pareri. Ognuno dovrebbe sentirsi libero di esprimere sentimenti, desideri, opinioni, pareri, vissuti, di chiedere chiarimenti, delucidazioni, ulteriori informazioni.

Dovrebbero essere evitate comunicazioni improntate alla negatività: disapprovazione, rifiuto, evitamento, tensione, svalutazione, attacco, critica distruttiva, competizione, aggressività più o meno celata, imposizioni, prevaricazioni, dipendenza, passività, adulazione, autoritarismi, pregiudizi.

Vigilare su queste distorsioni della comunicazione all’interno dell’équipe è compito  del direttore, ma anche di ciascun membro dell’équipe, che deve fare costantemente una riflessione, una autovalutazione, un automonitoraggio.

Ad es. un professionista dell’équipe deve riflettere e interrogarsi se durante le équipe gli capita di sentirsi spesso annoiato, prevaricato, ignorato, sottovalutato, svalorizzato bloccato, confuso, frustrato, mortificato, condizionato, passivo. Ma anche il professionista rifletterà se si sente a proprio agio, gratificato, soddisfatto, vigile, curioso, stimolato, arricchito, rilassato, attivo, libero, incoraggiato.

Ancora il professionista potrà riflettere sugli incontri di équipe: se ha la sensazione che siano troppo lunghi o all’opposto troppo brevi, se il clima percepito è amicale o teso, se le decisioni sono condivise, se vi sono blocchi, impasse, vuoti, se gli incontri sembrano inconcludenti.

 Il miglioramento del clima interno dipende anche dall’impegno di ciascuno. Ciascuno si deve sentire responsabile di dare o ricevere chiarimenti quando ci sono delle incomprensioni, di dare ascolto attento agli altri, di essere sincero e rispettoso nell’evidenziare atteggiamenti che non condivide o che gli creano disagio. Si cresce anche così, con una “correzione fraterna”.

Il Direttore.

Come un’orchestra e un coro polifonico hanno bisogno di un direttore, così anche l’équipe. Si potrebbe dire che il Direttore è il garante della qualità dell’interazione del gruppo, dell’armonia del gruppo, della soddisfazione degli operatori nel lavorare insieme.

Bisogna tenere sotto controllo una serie di funzioni, che si potrebbero ripartire in tre assi:

  1. In rapporto ai contenuti degli incontri. Il tema oggetto di discussione deve essere ben esposto, con chiarezza; le informazioni devono essere sufficienti, l’argomento o gli argomenti all’ordine del giorno rispettati e ben approfonditi senza digressioni, superficialità nell’affrontare i temi o incoerenza. Si devono individuare e condividere obietti e percorsi per raggiungerli.
  2. In rapporto ai partecipanti. Il direttore vigila che gli interventi siano ordinati e disciplinati, che non ci siano persone troppo silenziose e altre troppo loquaci, che ognuno si senta libero di esprimere il proprio pensiero, che tutti siano interessati e coinvolti, che ciascuno senta valorizzato il proprio ruolo e rispetti quello dell’altro.
  3. In rapporto all’organizzazione e clima del gruppo: gli scambi comunicativi dovrebbero essere fluidi, amichevoli, coordinati anziché caotici, bloccati, incoerenti, conflittuali.

Il Supervisore

Nell’Enciclopedia Treccani è riportato che la parola supervisione deriva dall’inglese “supervision” che propriamente significa sovrintendenza. In cinematografia, la direzione generale (artistica, tecnica o economica) di un film. Con significato più ampio, l’attività di chi sovrintende alla realizzazione di qualsiasi opera, controllando e revisionando il lavoro altrui. In definitiva: l’attività di chi dirige e controlla l’esecuzione di un lavoro.

Russel Anderson e Mc Laughlin (1963) affermano che la supervisione è essenzialmente una esperienza di apprendimento nella quale una persona divide con un collega i frutti della propria esperienza clinica.

La nostra supervisione si differenzia da altre esperienze già consolidate, perché diversa è la nostra realtà, diversa e ben caratterizzata.

In psicoanalisi si parla di supervisione ad es. quando un analista esperto e ben formato aiuta un aspirante analista a realizzare una funzione della mente in grado di tollerare, elaborare quanto in lui sollecitano i pazienti con il loro transfert.  Esistono anche seminari teorico- clinici di supervisione di gruppo.

La supervisione è anche necessaria in contesti di cura della salute mentale, come le comunità psichiatriche; oppure all’interno di contesti psicopedagogici come scuole e asili.

Vediamo anzitutto quello che non è un supervisore. Non è un esperto di procedure e tecniche, non è il supervisore dell’operatore e delle dinamiche degli operatori.

Si richiede che il supervisore sia un professionista motivato, appassionato, attento, curioso ed aperto alle novità, che abbia qualità di franchezza, autenticità e che sia capace di facilitare nel gruppo la possibilità di esprimere liberamente e spontaneamente opinioni, preoccupazioni, riflessioni, idee, sentimenti, vissuti. Il supervisore dovrebbe essere il facilitatore di occasioni di scambio e confronto sull’identità professionale, su strumenti e metodologie, sul senso delle scelte e delle azioni.

Caratteristiche specifiche della supervisione all’interno del Consultorio.

La supervisione è uno strumento di lavoro.

La supervisione è un incontro fra colleghi con diverse esperienze. La supervisione, a differenza degli altri momenti di équipe, è quella di essere un incontro condotto da un professionista esterno agli operatori che quotidianamente/periodicamente o comunque abitualmente, lavorano insieme. Questo consente un gioco dinamico di distanziamento e appartenenza. L’operatore non impara dal supervisore ma dalla esperienza di supervisione.

Altra caratteristica è la tipologia di confronto all’interno del gruppo degli operatori, che di solito è diversa durante la supervisione poiché non si pone primariamente il compito di offrire soluzioni ma di costruire insieme una nuova possibilità di guardare alla situazione oggetto di discussione, con la possibilità di trovare insieme possibilità nuove e creative.

Gli incontri di supervisione devono avere un clima accettante, a- valutativo, partecipativo.

Vantaggi della supervisione.

 Gli operatori delle professioni di aiuto utilizzano la propria persona in relazione con le altre persone come strumento di lavoro. Persone in condizioni di disagio o bisogno si aprono ad una domanda e l’operatore offre un aiuto. Ma l’operatore ha a sua volta bisogno di aiuto.  L’obiettivo finale della supervisione è in definitiva garantire al meglio la capacità dei membri dell’équipe singolarmente e come gruppo di rispondere alla domanda di aiuto.

Il fatto che in un servizio si faccia supervisione è indice di qualità e mette al riparo da disfunzioni e sfaldamenti dell’équipe.

La supervisione riduce la resistenza al cambiamento. La supervisione risponde all’esigenza di interrogarsi rispetto alle proprie prassi operative consolidate, potenziando le competenze di osservazione e analisi e consentendo di rielaborare la propria esperienza all’interno dell’équipe e di aprirsi ad ipotesi nuove.

Già il solo fatto di dover “mettere insieme le idee” per presentare una situazione o un modo di lavorare ad una persona che conosce il modello di lavoro, ma non vivendo abitualmente in quel contesto, permette ai membri dell’équipe di fermarsi a riflettere e dare rilievo ed importanza ad aspetti che nella routine del lavoro possono talvolta essere dati per scontati.

Avvalersi di uno spazio più ampio di pensiero condiviso e di confronto è particolarmente necessario quando si opera in contesti di complessità. La supervisione offre un luogo e uno spazio di riflessione e di analisi, con spirito di ricerca, per ampliare lo sguardo, dal qui e ora, per fare nuove scoperte.

La supervisione garantisce un setting in cui si può sospendere l’azione e intrecciare connessioni fra teorie, motivazioni, obiettivi, scelte, dubbi, vissuti.

La supervisione può diventare anche un momento di formazione, non solo come acquisizione di nozioni teoriche ma anche di nozioni pratiche di prassi operative acquisite da altri contesti di intervento.

Definirei la supervisione come uno spazio di ricerca che ha il sapore dell’esplorazione di nuove possibilità e di apertura di nuovo orizzonti.

Io credo che non ci sia una prassi codificabile, è una prassi da trovare.

Ogni supervisione è “una” supervisione, non “la” supervisione.

La supervisione può rendere più fluido il contesto dell’équipe, ottimizzare la comunicazione fra i vari componenti, facilitare il compito comune del gruppo.

La richiesta di supervisione.

Abbiamo cercato di illustrare le caratteristiche generali della supervisione, gli obiettivi e i vantaggi. Ma c’è un’altra questione.

La supervisione dovrebbe nascere da una domanda, da una esigenza del Consultorio, che deve essere espressa chiaramente e condivisa da tutti.

La supervisione, come ho cercato di illustrare, va vista come una opportunità, una occasione di arricchimento.

Non necessariamente la supervisione deve essere richiesta per problemi di un certo rilievo, come divergenze importanti all’interno dell’équipe, situazioni di impasse, criticità inaspettate, scarsità o eccesso di richieste di utenza in relazione alle disponibilità, cali di motivazione, problemi di organizzazione, difficoltà nel rapporto con gli utenti o con le altre realtà del territorio, ecc.

La supervisione può essere semplicemente richiesta per un arricchimento e una occasione di crescita e apertura di nuovi orizzonti.

Rimane la questione della periodicità: se questa debba essere regolare o occasionale. Ogni consultorio avrà modo di fare le opportune valutazioni ma io penso che ci debba essere continuità.

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