UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
Lavorare sul tema del perdono nei gruppi per separati
Esperienze e proposte
Autore: Paolo Breviglieri
Premessa: la nuova dignità psicologica di un concetto dimenticato
Parlare di perdono in ambito psicologico è stato per molto tempo un discorso interdetto e quasi censurato dalla cultura psicoterapeutica presente nel nostro paese. Probabilmente il concetto è sempre stato associato ad una riflessione e pratica religiosa e ha risentito anche di una sorta di ambiguità presente nella sua non facile definizione. Ben diverso è stato invece il lavoro svolto dalla psicologia in ambito anglosassone dove il processo psichico del perdono è stato indagato e teorizzato in modo approfondito. Tra questi lavori non si può non ricordate quello di Robert Enright, uno psicologo nordamericano considerato il pioniere negli studi sul perdono. Ha prodotto uno scritto dal titolo “Il perdono è una scelta” nel quale ha illustrato un modello di processo del perdono basato su venti punti. Questo modello cerca di comprendere gli aspetti cognitivi, comportamentali e affettivi e si estrinseca in alcune fasi che di seguito indichiamo:
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Fase della Scoperta
Consiste nell’ammissione sincera del dolore e nella constatazione che a causa del torto ricevuto si possa aver subìto un cambiamento negativo permanente e una possibile alterazione della “visione del mondo”.
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Fase Decisionale
Consiste nella presa di coscienza che le vecchie strategie di soluzione non funzionano, nella disponibilità a considerare il perdono come un’opzione possibile e, infine, a prendere l’impegno di perdonare chi a inflitto il torto.
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Fase Operativa
Consiste nel mettersi nei panni di chi ha commesso il torto, cercando di provare empatia e compassione nei suoi confronti.
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Fase di Approfondimento
Consiste nel concedere un credito morale a chi ha inflitto il torto ammettendo a se stessi di aver avuto bisogno del perdono da parte di altri in passato.
Anche in Italia si sta recentemente presentando un crescente interesse da parte degli psicologi rispetto al perdono. Questo nuovo vento culturale si accompagna alle prime esperienze cliniche e anche formative o preventive. Tra queste possiamo menzionare un interessante progetto promosso dall’ufficio scolastico della Toscana dal titolo P.E.R.D.O.N.O. (Per Evolvere dalla Rabbia Distruttiva Ossia Non Odiare) rivolto ai bambini della scuola primaria seguendo proprio il modello di Robert Enright.
In questo breve contributo vorrei esporre l’esperienza che ho condotto con un gruppo di persone separate presso il Consultorio Familiare utilizzando proposte e materiale di discussione che ho elaborato partendo da molteplici spunti di riferimento.
L’obiettivo che mi sono posto in accordo con quanto emerso dai partecipanti è quello di favorire una riduzione del risentimento cronico e della voglia di danneggiare l’ex partner che in misura significativa accompagna i vissuti di chi arriva alla separazione.
In analogia con altri processi psichici come ad esempio il lutto, sono partito dall’idea che la trasformazione interna che porta la persona a divenire sempre più capace di adattarsi ai cambiamenti insorti nella realtà, non è dovuta ad un semplice trascorrere del tempo ma a specifiche operazioni mentali e affettive che vanno sperimentate e rinforzate attivamente.
Il percorso di gruppo
Il gruppo era composto da una decina di persone che hanno vissuto la separazione in gran parte
come una vicenda subita o a cui sono giunti dopo eventi che hanno dovuto sopportare a lungo (tradimenti, prepotenze, ecc.).
I componenti erano a prevalenza femminile con un’età oscillante tra i 40 e i 60 anni, tutti con figli di diversa età. Dopo il primo incontro di conoscenza reciproca e di esplicitazione delle aspettative, si è deciso di sviluppare una riflessione attiva ed esperienziale avendo come filo conduttore il tema del perdono.
La scelta è stata suggerita dalla presenza nella maggior parte dei soggetti di sentimenti di rancore, rimorso, tormento rivolto al passato, senso di umiliazione e fallimento.
Questi vissuti disturbavano la qualità della vita e venivano sentiti come ormai “incongrui” e intrusivi rispetto ad una condizione di apparente buon adattamento che la maggior parte delle persone aveva raggiunto dopo la separazione stessa. I vissuti erano quindi in genere associati alla sensazione di essere ancora “prigionieri del proprio passato” e alla difficoltà di poter percepire e godere appieno del presente.
Descriverò le attività proposte nei diversi incontri per offrire uno spunto operativo a chi volesse intraprendere questo tipo di lavoro.
1° incontro: esploriamo e definiamo il concetto di perdono
Il termine perdono si riferisce ad una pluralità di significati che rischiano di rendere piuttosto difficile e confusiva la trattazione e il confronto, per questo è importante partire da una definizione operativa semplice e chiara. Descrivo brevemente i punti principali di questa definizione:
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Il perdono è un processo non semplicemente un atto puntuale concreto o psichico : è difficile scorgervi una conclusione assoluta e definitiva, è più corretto definirlo come un cammino o un « procedere verso ». In questo è analogo ad un altro processo psichico quale l’elaborazione del lutto.
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Il perdono è un processo che ha almeno due dimensioni distinte e collegate: quella relazionale e quella intrapsichica; la prima non può prescindere dalla seconda ma non è detto che se si raggiunge uno stato di perdono interno possano sussistere le condizioni per offrire automaticamente il perdono a chi ha agito un torto. In genere il perdono relazionale richiede un certo grado di reciprocità che presuppone un’ammissione almeno parziale di colpa. Il punto di partenza della nostra riflessione è stato il processo di perdono intrapsichico da cui discendono sia i comportamenti relazionali e soprattutto gli stati emotivi connessi (rabbia o pacificazione).
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Il perdono è un processo che si può indirizzare almeno verso tre oggetti distinti: perdono dell’altro, perdono di sé e perdono della vita, intendendo in quest’ultima accezione quell’atteggiamento di pacificazione non rancorosa per gli eventi avversi che la vita ci ha riservato indipendentemente da qualsiasi responsabilità personale (ad es. le malattie).
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Il perdono presuppone un “vulnus”, una ferita, uno strappo, un fallimento; esiste un oggetto oscuro che si è introdotto nel quadro della nostra vita e che l’ha sciupata o danneggiata. Il contatto con questo “oggetto” è fonte di sofferenza e di vergogna e ciascuno tende a difendersi da questo vissuto cercando di trovare una riparazione che possa cancellare questa ferita insopportabile. E’ da questa tentativo allucinatorio di annullamento della ferita che nascono tutti i movimenti istintivi di vendetta e di riparazione attraverso un “pareggiare i conti” con chi ci ha ferito.
Per mettere insieme queste diverse componenti e dare un’immagine delle stesse ho proposto al gruppo la seguente metafora: il processo del perdono come una stanza in cui ci muoviamo secondo due direzioni: l’asse verticale del perdono interno e intrapsichico e quello verticale del perdono relazionale e comportamentale. In questa stanza poi ci sono tre possibili “vettori”: il perdono di sé il perdono dell’altro e il perdono verso la vita. Ma in questa stanza c’è anche l’oggetto oscuro, il danno subito che è il grande “intruso” della nostra vita.
I partecipanti sono stati invitati a disegnare la loro “stanza del perdono” posizionandosi al suo interno e cercando di rappresentare quale “vettore” è più attivo e significativo e quale più silente; si è chiesto inoltre di rappresentare qual è la dimensione e l’ingombro di questo oggetto doloroso di cui sono portatori.
2° incontro: prendiamo contatto con il nostro oggetto oscuro interno
Ogni situazione connessa al perdono è un’esperienza che parte con una ferita, una perdita, una rottura, un tradimento, un trauma, un male che abbiamo indicato come “oggetto oscuro”. Ognuno ha il suo, ognuno lo sopporta o lo nasconde, lo sente invasivo o sotterraneo, minaccioso o logorante. Per attivare il processo del perdono bisogna partire da una piena consapevolezza di questa realtà negativa che si abbarbica nelle nostre memorie, occorre accogliere il ricordo di tale esperienza con tutto il suo corredo di emozioni e di immagini ricorrenti. Esprimere il dolore, accettare il dolore per sopravvivere al dolore: questi sono i passaggi che debbono essere incoraggiati. È fondamentale inoltre comprendere come il dolore subito ha cambiato il nostro sé e come ci sta limitando nella nostra espressione umana, Per facilitare questo lavoro abbiamo utilizzato alcune tecniche immaginative: la prima consisteva nel rappresentare il dolore provato come se fosse stato deposto su una foglia che galleggia su un corso d’acqua. La rappresentazione del dolore come di una cosa concreta che è fuori di me e non invade tutta la mia persona è rassicurante e contenitiva. Un’altra tecnica utilizzata è stata quella di pensare al proprio dolore come ad un oggetto che può essere descritto, manipolato, toccato, a cui ci si può rivolgere con le parole, che infine si può consolare come se fosse un bambino.
Questi momenti sono stati molto coinvolgenti ed hanno permesso di scoprire che “la catena dei dolori” che uno porta dentro è molto più complessa e articolata rispetto al trauma principale che uno percepisce. Cogliere questa ridondanza e questo rinforzo reciproco dei diversi aspetti negativi dell’esperienze è molto importante perché porta alla consapevolezza che spesso oltre alla persona che ci ha ferito dobbiamo perdonare alla vita per diverse ferite che ci sono state inferte.
Viene proposto infine un questionario che cerca di mettere in luce quanto siamo propensi in generale a perdonare e a superare gli eventi negativi che possono provenire dagli altri, dalla vita o da noi stessi. Questo questionario (The Heartland Forgiveness Scale) è molto significativo in quanto permette di mettere in luce come l’atteggiamento di rigidità e di non tolleranza è di solito trasversalmente rivolto verso tutti questi tre aspetti specifici (l’altro, il sé e la vita). Tutto ciò rinforza l’idea che il perdono è un percorso che porta in effetti ad una maggiore accettazione della vita, degli altri e di se stessi.
3° incontro: scoprire il proprio personale “grazie alla vita”
Questo incontro si colloca come speculare al precedente e porta i partecipanti a cogliere attivamente i motivi di gratitudine che possono nutrire verso la vita e ciò che le altre persone hanno fatto verso di loro. Il punto di partenza è l’ascolto della canzone cilena Grazias a la vida; ognuno è invitato a scrivere alcune strofe di una sua personale canzone di ringraziamento alla vita. L’aspetto più interessante di quest’esperienza è che per diversi partecipanti questa è stata un’occasione per riconoscere anche le cose positive portate dalla persona che le ha ferite così profondamente. Riconoscere che il partner è stato in una certa fase valido e fonte di una realizzazione personale (se non altro per il semplice fatto che ha permesso al soggetto di divenire padre o madre), è un gradino importante da affrontare per avvicinarsi al perdono.
4° incontro: collocare il proprio vissuto all’interno di un continuum che va dalla vendetta al perdono.
Viene presentata una scheda in cui vengono rappresentate su due estremi le modalità psicologiche del perdono e della vendetta rispetto ai sentimenti, alle emozioni provate, alla visione della realtà e alla tendenza ad agire. Ogni partecipante è invitato a posizionarsi su questa scheda in modo da poter esaminare le proprie modalità di percezione e di vissuto.
Lo scopo di questa attività è quello di poter fare un bilancio di quanto è distante la modalità psichica del perdono nel soggetto e di quanto invece sia preso da modalità tipiche della vendetta. Di solito questo termine viene rifiutato e considerato estraneo ai soggetti, analizzando tuttavia le dimensioni psichiche ad esso connesso ci si rende conto che esso è molto più familiare a ciascuno di noi. Altro scopo di questo momento è quello di portare alla consapevolezza che la modalità “vendetta” non è una soluzione e non lo potrà mai essere perché presuppone una visione del danno subito come eliminabile attraverso un agito compensatorio e quindi ci ricaccia nella fissità di un dolore inconsolabile e tormentoso. Al termine di questo incontro dovrebbe maturare la convinzione che occorre muoversi verso il perdono non solo per rispondere a principi etici o religiosi, o per sentirci superiori e migliori degli altri, ma soprattutto per trovare pace e liberarsi dall’oggetto oscuro che è entrato in noi dalla ferita subita.
5° incontro: i passi da intraprendere sulla strada del perdono
Dopo aver collocato se stessi nello schema precedente, in questo incontro si cerca di individuare quali sono per ciascun partecipante i passi necessari per procedere verso lo stato psichico del perdono. Per alcuni potrà essere correggere la modalità totalmente accusatoria verso l’altra persona e riuscire a vedere anche degli aspetti positivi nella stessa, per altri il punto più importante è liberarsi dai pensieri ossessivi rispetto al danno subito, per altri ancora riuscire ad attenuare stati d’animo di rabbia o vergona. Ogni persona è invitata a indicare tre passi che sente di dover compiere e a specificare quali attività, comportamenti o scelte possono facilitare il raggiungimento di quel gradino evolutivo.
6° incontro: verifica del percorso.
Dopo un mese dall’ultimo incontro si propone una verifica che permetta di capire come e in che misura il piano individuale precedentemente definito è stato raggiunto o ha avuto degli arresti e delle difficoltà.
Il confronto reciproco permette di trovare nuovi aggiustamenti e di condividere sia i successi che i problemi incontrati in un clima di sostegno e di accettazione reciproca.
Al termine viene consegnata una lista di frasi sul perdono scritte da pensatori o letterati, si chiede ai partecipanti di sceglierne una che sentono particolarmente utile e rispecchiante la propria esperienza.
Conclusioni e bilancio dell’esperienza
Il lavoro proposto è stato seguito dai partecipanti con molta attenzione e con un profondo coinvolgimento emotivo. Il dato più trasversale che mi sembra si sia raggiunto è la consapevolezza che il perdono non è un imperativo morale o un precetto ma è soprattutto un modo per liberarsi dalla “tirannia” del male che è stato posto dentro di noi.
Un percorso che non segue nessuna scorciatoia illusoria: la scorciatoia della vendetta, la scorciatoia dell’oblio o del nascondimento dei propri sentimenti, la scorciatoia della superficiale giustificazione dell’altro e della negazione del male subito. La via del perdono risulta una via trasformativa perché ci porta a collocare la nostra esperienza in un quadro più ampio in cui il male subito è parte di quel male universale, di quella fragilità umana che è in misura diversa presente in ognuno. Da questa consapevolezza riuscire a tollerare questo affronto senza rispondere con la vendetta ma offrendo una nuova possibilità di ripartenza è un modo formidabile per sperimentare la propria umanità e con fiducia riaprirsi alla vita.
Paolo Breviglieri
Psicologo e psicoterapeuta
Consultorio Familiare di Suzzara