La terapia familiare

La terapia Familiare

 

 

AUTRICI: Mariangela Musarra e Sebastiana Genovese

Il movimento teorico-clinico che va sotto il nome di terapia familiare nasce dall’esigenza di rivedere i modelli concettuali con cui veniva spiegata e trattata la malattia mentale. Tale necessità si presenta nella prima metà degli anni 50’ in America quando si assiste ad uno sconvolgimento nell’ambito del trattamento delle malattie mentali. Osservando pazienti ex militari che avevano partecipato alla guerra si notò che, molti di essi svilupparono delle problematiche psicologiche che si protraevano anche in seguito ad un trattamento individuale.

 

Si cominciò a capire che era necessario cercare  all’interno del contesto sociale la causa primaria di tali disturbi, si cominciarono a trattare i problemi psichiatrici come espressione di una disfunzione nelle relazioni familiari.

Lo sviluppo delle scienze socio antropologiche spostano l’attenzione sul ruolo che le relazioni familiari sembrano avere sullo sviluppo della personalità. Nasce così una “scienza dei sistemi” che considera ogni fenomeno studiato  nella sua totalità e non come somma di parti componibili (causa-effetto). L’individuo comincia perciò ad essere considerato come uomo sociale in costante comunicazione con gli altri e per il quale è impossibile non comunicare (Watzlawick, 1967). Anche l’idea di malattia, intesa come linguaggio, diventa comprensibile in base al sistema di codifica e di decodifica che si attua. Rilevando il peso delle relazioni familiari nella determinazione del disturbo mentale comincia ad essere considerata la possibilità di incontrare in terapia non solo il paziente “designato” ma anche il contesto in cui il terapeuta è chiamato ad intervenire (Andolfi, 2009).

Finalmente dagli inizi degli anni 60’ la famiglia verrà eletta definitivamente nuova unità di studio e di intervento. Per spiegare la presenza di posizioni teoriche differenti che negli anni hanno costituito lo stile operativo dei diversi terapeuti familiari, Katia Giacometti (1979) propone una classificazione dei modelli di terapia familiare centrata sulla relazione individuo-famiglia.

Una prima posizione definita come Supra-individuale(J. Haley e M. Selvini Palazzoli), vede la famiglia come un sistema di interazioni governato da regole la cui stabilità è mantenuta da meccanismi omeostatici. I terapisti, agenti esterni, annotano, discutono, ed individuano le regole disfunzionali attraverso uno studio “obiettivo” delle sequenze di comportamento che permettono il mantenimento del sintomo.

Queste posizioni, pur differenti in alcuni concetti-chiave, considerano la famiglia il punto da cui partire per impostare diagnosi e terapia.

La Posizione Supra-individuale-Individuale (Maurizio Andolfi e Salvador Minuchin)considera, invece, la famiglia come un sistema aperto in costante trasformazione con propri confini interni ed esterni e capace di autogovernarsi. In terapia l’individuo viene considerato sia in rapporto agli altri componenti della famiglia sia in rapporto ad altre strutture che trovano nei rispettivi membri, un ponte per le transazioni reciproche. Il terapeuta quindi è chiamato a considerare non solo l’individuo ma anche il contesto all’interno del quale si inserisce.

La terza ed ultima posizione viene identificata come posizione Individuale-Supra-Individuale al cui interno rientrano coloro che adottano un linguaggio più vicino al modello psicoanalitico privilegiando maggiormente l’individuo e le sue relazioni interne rispetto al contesto (M. Bowen, Borzomeny-Nagy, C. Whitaker). Nel rapporto individuo-famiglia è dunque l’individuo che mantiene una posizione di primo piano, la famiglia trova nel Sé individuale e nel suo sviluppo il migliore modello di concettualizzazione.

 La  terapia familiare a partire dalle sue origini, evidenzia il susseguirsi di molteplici  concetti teorici che seppur inizialmente slegati erano accomunati dall’interesse  per il trattamento di problematiche psicologiche individuali in un contesto familiare

Con l’espressione “terapia della famiglia” si intende l’insieme di tutti i modelli di intervento che, pur seguendo teorie, prassi e tecniche diverse, si pongono come obiettivo la cura – nel duplice senso di “curare” e “prendersi cura” – di famiglie piuttosto che di individui, lavorando sulle loro interazioni emotive e cognitive (Shazer, 1991).

La terapia della famiglia nasce poco dopo il 1950, quando alcuni terapeuti iniziano ad occuparsi di intere famiglie. La tradizione in cui la consulenza matrimoniale, la terapia sessuale e l’assistenza sociale contribuiscono a far crescere l’idea che si può intervenire sulla famiglia.

Le prime terapie si svolgono tra il 1950 e il 1960 sono mirate al trattamento di gravi disturbi psichiatrici come la schizofrenia, e si caratterizzano per una spiccata connotazione scientifica e di ricerca. In questo decennio due sono le tendenze che emergeranno e resteranno come orientamento principale della terapia: i terapeuti orientati verso la terapia della famiglia a partire dalla psichiatria infantile da un lato e le terapie derivanti dalle ricerche sulla schizofreniadall’altro.

 I maggiori  sviluppi della terapia familiare  si hanno dal 1970 al 1980 questi  sono gli anni delle scuole di terapia della famiglia e del lavoro pioneristico degli iniziatori. La famosa legge 180 del 1978, ricordata come “legge Basaglia”, introduce novità fino ad allora impensabili: la sede delle cure psichiatriche è il territorio, l’ospedale psichiatrico viene abolito, ed è sancita la necessità di inserire i pazienti nel loro ambiente.

I pazienti saranno seguiti a casa, in centri diurni e ambulatori, oppure in piccoli reparti collocati all’interno degli ospedali generali ed i giovani psichiatri scoprono ben presto che la loro preparazione è del tutto insufficiente ad affrontare problemi del rapporto con l’ambiente, rivolgendosi perciò in massa ai terapeuti della famiglia che in quegli anni iniziano ad essere presenti in Italia.

 Negli  anni  tra il 1980 e il 1990 aumentano le famiglie ricostituite e quelle monogenitoriali, cresce il numero delle coppie senza figli e delle coppie omosessuali mentre diminuiscono le famiglie nucleari. In America, si assiste, quindi, ad un cambiamento della famiglia-tipo: i genitori, stanchi per l’eccesso di lavoro, lasciano i figli più liberi di pensare a se stessi, e alla crescita del tasso di disoccupazione, aumenta il tasso di violenze nella famiglia. Si assiste ad un ritorno all’assistenza sociale, incentrato per lo più su un tipo di risoluzione farmacologica, considerata più immediata ed efficace della psicoterapia, causata da un ritorno alla concezione biologica dei disturbi, in primis nel campo della schizofrenia. In campo psicologico, la risposta di molti analisti, di contro, è quella di una sempre maggiore disponibilità a leggere lo sviluppo in chiave relazionale.

Nel decennio successivo 1990-2000 la terapia della famiglia subirà un vero e proprio rivolgimento. Saranno favoriti i trattamenti comportamentali, cognitivi e psicoeducativi specie nel lavoro con le famiglie, in un’ottica che tende sempre di più non tanto alla “terapia”, quanto alla “riabilitazione” delle persone cronicamente o irreversibilmente malate. Si assiste ad un proliferare di cure biologiche e dunque ad un largo uso di psicofarmaci, laddove la pratica psicofarmacologica non è più riservata ai gravi disturbi, ma diventa un unguento per le difficoltà esistenziali.

Il trigenerazionale

La  terapia familiare e in particolare la psicologia relazionale familiare si basa su quella che è la prospettiva trigenerazionale. Tale prospettiva si fonda sull’idea che le storie individuali siano fortemente intrecciate con quelle delle generazioni precedenti e che l’individuo non si può comprendere a prescindere da un’osservazione storica e intergenerazionale delle sue relazioni familiari

Si pensa che ogni sistema familiare abbia una propria identità culturale che definisce i propri valori ideo-affettivi, le aspettative sui ruoli, nonché i modi di affrontare determinati eventi significativi. Tale identità viene trasmessa di generazione in generazione, attraverso i miti, le lealtà, i mandati familiari, i copioni, condizionando l’individuo nel suo presente.

Attraverso l’osservazione trigenerazionale si cerca di ricostruire la trama intergenerazionale delle relazioni al fine di comprendere i “nessi impliciti tra comportamenti e vissuti attuali e bisogni insoddisfatti del passato.

L’osservazione relazionale, quindi, non è più limitata alla famiglia nucleare di base ma include almeno tre generazioni.

Ciò porta ad una nuova concettualizzazione del tempo familiare, in cui il presente viene inteso come il punto nodale che lega in una successione temporale le esperienze passate e le prospettive future. La storia della famiglia non viene più intesa come il succedersi degli anni, ma come l’intreccio di linee evolutive di un passato antico, unito ai miti tramandati dalle vecchie generazioni, e quelle di un futuro che vive nelle speranze e nei progetti latenti degli anziani verso le nuove generazioni (Andolfi, 1988).

L’individuo, in questa prospettiva, viene inserito nel processo della sua evoluzione temporale, e al suo comportamento si attribuisce un valore alla luce degli eventi precedenti e successivi:

la comprensione dell’individuo e dei suoi processi di sviluppo sembra quindi favorita dalla costruzione di uno schema di osservazione che permetta di vedere i comportamenti attuali come metafore relazionali, ovvero come segnali indiretti di bisogni e coinvolgimenti emotivi del passato che trovano lo spazio e il tempo di manifestarsi concretamente nelle relazioni presenti” (Andolfi, Angelo, 1985, p. 20). La storia di un nucleo familiare, infatti, è un «complesso e singolare intreccio di storie individuali, legami intergenerazionali ed esperienze condivise che si susseguono in un tempo delineato e modellato non tanto dallo scorrere degli anni, ma nel succedersi delle generazioni» (Andolfi, 2003, p. 33).

Gli eventi del passato sono tenuti insieme da “fili invisibili” (Boszormenyi-Nagy, Spark, 1973) che connettono passato, presente e futuro. Essi influenzano le relazioni attuali e creano dei sistemi di aspettative e di ruoli a cui il soggetto deve rispondere più o meno consapevolmente.

Boszormenyi-Nagy sostiene che si creino vincoli di lealtà e di rispetto nei confronti della storia multigenerazionale, la quale influenza ogni relazione all’interno della famiglia. Tali lealtà si trasmettono da una generazione all’altra. Il genitore, dispensando cure ed attenzioni al figlio, diviene creditore di una serie di “debiti” che il giovane dovrà saldare. Difficilmente riuscirà a farlo in un breve arco di tempo e, spesso, il debito viene saldato soltanto quando il figlio diventerà a sua volta genitore.

Le generazioni passate non trasmettono significati in maniera diretta e consapevole, ma tramite la mediazione dei genitori che, attraverso i ricordi, la memoria, le abitudini di vita, danno informazioni sulle passate relazioni e sui valori acquisiti nel corso dell’esistenza, tanto che si può parlare di “identità culturale” di una famiglia, con cui Andolfi intende «un sistema di valori ideologici e affettivi modellato nel tempo da più generazioni e riguardante comportamenti e aspettative che caratterizzano l’esercizio di ruoli (come essere padre, madre, ecc.), nonché il modo di affrontare determinati eventi significativi (lutti, separazioni, nascite, ecc.)» (Andolfi, 2003, p. 36).

 I presupposti teorici sui quali, si fonda la prospettiva storica e intergenerazionale sono: la famiglia come sistema; il contesto come matrice di significato; il sintomo come espressione di un processo multigenerazionale.

 

La famiglia come sistema

La famiglia viene considerata come se fosse un sistema, inteso come “insieme di unità interagenti tra loro” (Miller, 1978).

Ogni sistema, incluso quello della famiglia, viene quindi visto come costituito da diversi sottosistemi, che presentano una struttura gerarchizzata in cui ogni sottosistema (nonni, genitori, fratelli hanno ruoli e funzioni specifiche. La relazione tra i singoli sottosistemi si definisce come conseguenza della distribuzione in livelli distinti, ed è controllata dalla memoria del sistema, che permette la costruzione di una forma che, pur nelle possibili infinite variazioni, consente lo sviluppo di un aspetto strutturale costante (Ambrogi, 1988).

Quest’ultimo  aspetto, legato all’esistenza della memoria del sistema, quindi all’idea che le esperienze pregresse siano alla base della costruzione identitaria del sistema e delle sue parti, è alla base dello sviluppo della prospettiva storica e intergenerazionale della famiglia. (Minuchin, 1976). Questi modelli di relazione, che vengono tramandati nel corso del tempo, fanno si che la famiglia disponga di un sistema di significati, costituiti dall’insieme dei valori, dei miti e delle regole apprese, che orientano ogni comportamento e scelta.

Il contesto come matrice di significato

 il comportamento dell’individuo è comprensibile solo alla luce del contesto e dell’organizzazione del sistema di relazioni in cui è inserito. Il contesto è stato definito come luogo sociale in cui si verifica una certa relazione. Icomportamenti assumono significato in rapporto alla situazione, cioè alle circostanze che in un dato momento possono influenzare  il comportamento di una persona.

Il contesto non è visto solo come lo spazio fisico che delimita la relazione ma è, anche inteso come il riflesso dell’aspetto di relazione che qualifica la comunicazione non verbale e definisce il livello di contenuto (ibidem).

Andolfi (1988) definisce il contesto come copione relazionale, una sorta di espressione interiorizzata della complessa rete di relazionali familiari, e dunque come l’espressione di un sistema di assunti che si formano nell’interazione tra i membri della famiglia e che ne definiscono la natura dei loro rapporti: “Al pari di una bussola, struttura di riferimento modificabile ma ineliminabile, tale copione relazionale consentirebbe all’individuo di sapere sempre dove si trova rispetto agli altri e cosa egli sia. I significati del copione relazionale costituiscono quindi il contesto entro il quale si definisce l’identità dell’individuo” (ibidem, p. 126).

Il sintomo letto come espressione di un processo multigenerazionale

 il sintomo acquista un  nuovo significato; non è più la manifestazione di un disagio individuale, ma è l’espressione di un malessere che si collega ad un’organizzazione disfunzionale del sistema nella sua totalità. La sua comprensione necessita di ampliarne l’osservazione, estendendo l’indagine dalla persona che ne è portatrice alle sue relazioni significative. L’osservazione di tali relazioni, però, richiede un’ottica trigenerazionale, che amplia l’osservazione delle dinamiche relazionali dalla famiglia nucleare alla famiglia estesa ad almeno tre generazioni (Andolfi, 1988). Il presupposto di tale affermazione è l’idea che il sintomo, come qualsiasi altro comportamento, sia il risultato di un processo multigenerazionale, postulando l’esistenza di forze transgenerazionali capaci di esercitare un’influenza sulle relazioni attuali (Bowen (1979)

Andolfi (1987) parla a proposito di “stampo del bisogno” per spiegare gli effetti che le relazioni precedenti  hanno su quelle attuali; lo definisce come la forma specifica che viene ad assumere in ogni persona  la mancata soddisfazione di particolari bisogni di relazione con le figure familiari maggiormente significative. Questa mancata soddisfazione fa sì che la richiesta resti sempre attuale e ricerchi continue risposte nelle relazioni attuali. In questa prospettiva il sintomo, al pari di qualsiasi comportamento, viene letto come una metafora relazionale, ovvero come l’espressione indiretta di bisogni e coinvolgimenti emotivi del passato che trovano lo spazio e il tempo di manifestarsi concretamente nelle relazioni presenti (Andolfi, Angelo, 1985).

Il  tempo familiare :l’intreccio tra passato, presente e futuro

Lo studio del ciclo di vita familiare colloca lo sviluppo di ogni nucleo all’interno di una prospettiva spazio-temporale caratterizzata da specifiche fasi evolutive.  La storia di ogni famiglia si distingue così dal susseguirsi temporale di nascite, morti, unioni, separazioni dei diversi componenti che generano combinazioni strutturali specifiche per ogni famiglia.

La dimensione di regolarità temporale delle fasi del ciclo vitale assicura alla famiglia una condizione di normalità o anomalia, valutandone la sua collocazione come “fuori tempo” o “nel tempo” rispetto al suo ciclo vitale ed evidenziando i tempi (ritardi ed accelerazioni) dovuti alla richiesta interna da parte dei componenti di ristrutturazioni e cambiamenti evolutivi (Andolfi, 1988).

In passato, le teorie familiari davano maggior risalto alla dimensione dello spazio, come principale parametro di osservazione, mentre la dimensione temporale veniva presa in considerazione soltanto nella porzione del presente. L’unico tempo con cui si associava la storia di un individuo e delle sue relazioni era il presente, senza considerare le influenze del passato e le possibili ripercussioni nel futuro (ibidem).

Soltanto successivamente, all’interno della prospettiva relazionale, la dimensione temporale assume un ordine non più rettilineo, ma ciascuna delle tre dimensioni – presente, passato e futuro – si completa nelle altre due, acquisendo circolarità e ricorsività (Bertrando, 1993, in Andolfi, 1988).  In tale processo circolare, il tempo collega, attraverso un susseguirsi dinamico, il prima (esperienze passate) e il dopo (prospettive future). Osservando una relazione, ci si ritroverà perciò a spostarsi in avanti e indietro nel tempo, secondo la significatività dei nessi che si stabiliscono tra passato e futuro. La dimensione temporale, non avrà quindi soltanto un valore cronologico rispetto alla datazione dei singoli eventi o nel riferirsi al contesto osservato nel presente, ma – creando coesione e significatività tra passato, presente e futuro – legherà le diverse generazioni di una stessa famiglia in maniera indissolubile. In tal modo, anche gli elementi personali e soggettivi di un tempo vissuto individualmente (ricordi, aspettative, intenzioni) acquisteranno un comune significato (ibidem).

Le coordinate familiari e i tre assi relazionali

L’approccio trigenerazionale si delinea come uno dei possibili orientamenti, all’interno dell’ottica sistemico-relazionale, che tiene conto della dimensione storica ed evolutiva di una famiglia, attraverso l’osservazione di una rete relazionale, non più esaminata secondo una dimensione orizzontale, ma elaborata su tre dimensioni generazionali lungo due assi: uno orizzontale, che riflette gli scambi tra individui della stessa generazione, e uno asse verticale, in cui ogni individuo è impegnato in relazioni con membri di generazioni differenti.

Quindi, questa prospettiva permette di osservare le relazioni attuali attraverso i triangoli trigenerazionali, in cui “le persone coinvolte si trovano collocate su tre livelli generazionali diversi” (Andolfi, Angelo, 1987, p. 208).

Il rapporto tra un padre e un figlio contiene, dunque, alcuni aspetti impliciti e complementari che ci informano del rapporto tra un genitore e il proprio padre; in tal modo, ci si sposta ad un livello superiore,  attingendo alle immagini culturali proprie di ciascun contesto familiare, che alle volte assumono il valore di veri e propri codici di comportamento (Andolfi, Angelo, 1981).

La possibilità di unire padri, figli e nonni all’interno delle generazioni, ha reso possibile la creazione di nuovi spazi d’incontro e di confronto, prima invisibili, permettendo alla terza generazione di confrontarsi con valori, mitologie, credenze che rappresentano le basi su cui si formano i legami successivi (ibidem).

Una metafora spesso utilizzata in questo campo è quella della casa a tre piani, dove la coppia genitoriale abita il piano mediano, i figli si trovano al piano inferiore e le famiglie d’origine in quello superiore (Andolfi, 2003). Esplorando i diversi piani e la distribuzione degli spazi, l’angolo di osservazione si allargherà e l’attenzione verrà spostata da un piano all’altro per arrivare a formulare una diagnosi relazionale.

La famiglia d’origine e le precedenti generazioni influenzano le successive modalità relazionali, comportamentali, emozionali e razionali dei singoli individui che la compongono. Trame e forze transgenerazionali nascoste, infatti, esercitano un’influenza tale sulle relazioni intime che i nodi conflittuali intrapsichici e relazionali dei genitori vengono riproposti dai figli nelle loro relazioni attuali, proprio nel tentativo di trovare una soluzione agli aspetti problematici di partenza (Baldascini, 1999).

Framo (1996) scriveva, a tal proposito, che: “le difficoltà che una persona, nel presente, ha nella coppia, nella famiglia o con se stessa, possono essere viste fondamentalmente come sforzi riparativi” per correggere, controllare, difendersi e cancellare vecchi paradigmi relazionali appartenenti alla famiglia d’origine, dal momento che la maggior parte delle persone non riesce a “vedere” i coniugi, i figli o comunque i partner così come sono, perché si frappongono vecchi fantasmi.

Ciascun individuo partecipa perciò inevitabilmente alla stesura di questa storia ritrovandosi, in modo più o meno consapevole, a rispondere ad aspettative e a ruoli, e sottostando ai processi che dirigono la trasmissione di norme, valori, comportamenti legati alla famiglia (Scabini, 1995, in Andolfi, 2003).

Una trasmissione intergenerazionale funzionale si realizza attraverso un equilibrio tra vincoli e risorse. 

  

 

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