La relazione madre – bambino

La relazione madre – bambino

 

Autore: Emidio Tribulato

 

La relazione più importante è sicuramente quella che il neonato instaura con la madre. Per la Klein [1]:

“In tutti i miei lavori ho sottolineato l’importanza della prima relazione oggettuale del bambino – il rapporto con il seno materno e con la madre – e sono giunta alla conclusione che se questo oggetto primario, il quale viene introiettato, mette nell’Io radici abbastanza salde, viene posta una base solida per uno sviluppo soddisfacente”.

 

 

Nella fase nella quale non vi è soltanto un “Io” ma qualcosa al di fuori di lui, fase del dualismo, il suo mondo esteriore è fatto quasi esclusivamente di questa figura, con la quale il neonato stabilisce dei rapporti tattili, termici, propriocettivi, cenestesici, sonori, olfattivi, ma anche e soprattutto instaura delle particolari relazioni affettivo – emotive. Pertanto la qualità e la ricchezza della comunicazione tra la madre ed il bambino hanno un’enorme importanza per lo sviluppo psicoaffettivo del neonato[2].

Levy in De Negri e altri[3] definisce la dipendenza del bambino dalla madre con l’espressione: “fame primaria d’amore” in quanto soddisfa i bisogni biologici fondamentali  e si attiva ad alleviare tutti i vari squilibri ricorrenti.

Inizialmente la madre è qualcosa di molto vago, ma ciò non toglie che ben presto questa diventi sicuramente più di un seno che nutre il bambino o delle braccia che lo cullano. Per il neonato la sua mamma diventa qualcosa che conforta, rassicura, fa stare bene, accarezza e procura sensazioni gradevoli, per cui è alla madre che egli chiede cibo, pulizia, benessere fisico e psichico, è con la madre che cerca di adattarsi e di instaurare un legame e un dialogo profondo, intenso e proficuo per entrambi ed è a lei che per prima, dopo la quinta settimana, offre i suoi sorrisi. Tutta la sua prima iniziazione avviene dunque nella tonalità della sicurezza familiare che si sprigiona dalla persona della madre, in quell’atmosfera di tenerezza e di affetto che oggi sappiamo quanto sia indispensabile al bambino, perché essa determina il suo personale sentimento di sicurezza, condizione di ogni successivo progresso[4]

Il periodo dell’allattamento
 
 
 

 

 

Simbolo di questa intimità fisica madre – bambino è il periodo dell’allattamento. “È intorno all’atto della nutrizione che si forma la prima relazione. Il lattante dipende in tutto e per tutto dalla sua nutrice, con la quale stabilisce un legame molto intimo, intenso e significativo. Fin dalle prime poppate, l’alimentazione avviene in un contesto sociale ricco di sensazioni. Sono interessati non solo il gusto e l’olfatto, ma anche il tatto: le labbra del neonato si attaccano al capezzolo, il bambino tocca e stringe il seno materno, la madre sostiene e accarezza il piccolo. Questo contatto ravvicinato crea un clima emotivo al cui interno la suzione, la deglutizione, la digestione e in seguito la masticazione, assumono delle valenze psicologiche che vanno ben al di là del fatto alimentare in sé. Il latte si fonde con il corpo della mamma. Non è solo buono da succhiare, ma anche da immaginare e da sognare. Il suo profumo e il suo gusto si associano a sensazioni di benessere, serenità e affetto”[5].

Per la Klein[6]:

“Sotto il predominio degli impulsi orali, il seno viene percepito istintivamente come la sorgente del nutrimento e perciò, in senso più profondo, della vita stessa. Quando le cose vanno bene, questo contatto, sia fisico che psichico, con il seno gratificante stabilisce, fino ad un certo punto, la perduta unità prenatale con la madre ed il sentimento di sicurezza ad esso connesso […] in questo modo la madre diventa un oggetto d’amore”. E ancora la Klein[7]: “Il seno buono viene introiettato, diviene parte dell’Io; il bambino, un tempo parte della madre, ora ha la madre dentro di sé”.

Con la madre, quindi, il bambino entra inizialmente in contatto intimo soprattutto con la bocca. Quest’organo non è solamente un mezzo per nutrirsi o provare piacere, ma uno strumento che gli permette di mettersi in contatto con il mondo esterno per fare le sue prime esperienze[8]. Ciò capiamo dal comportamento del bambino.

 

La Isaacs[9]così descrive un momento dell’allattamento:

“Ma se la mamma ritrae il seno come cambia velocemente il suo atteggiamento! Il viso del neonato si rabbuia, e arrossisce, strilla per il dolore e per la rabbia, agita i pugni e tutto il corpo esprime dimenandosi la sua protesta. Se gli si restituisce il capezzolo, il suo corpo si rilassa, il viso si distende, il bimbo sospira o borbotta di sollievo e la bocca ricomincia a soddisfare la sua fame di nutrimento e di affetto. Offrire il seno al bambino, nei suoi primi momenti di vita, vuol dire offrigli amore, ritirare o rifiutare il seno vuol dire ritirare o rifiutare l’amore”.

Pertanto il tardare nel dare da mangiare al bambino non significa soltanto lasciarlo per qualche tempo con un po’ di fame ma, altresì, disturbare il fluire delle sue gratificazioni affettive. Egli non piange e protesta solo perché ha fame, ma anche perché si sente privo d’affetto e non gode del piacere di succhiare.

Per quanto riguarda il tipo di allattamento non vi è dubbio che l’allattamento al seno sia da preferire nettamente, non solo per motivi biologici ma soprattutto per motivi psicologici, in quanto come dice Winnicott:[10]

“L’offerta del biberon in luogo del seno o la sostituzione del seno con il biberon durante le prime settimane dell’allattamento rappresenta, in una qualche misura, una barriera che divide il piccolo e la madre piuttosto che un legame che li unisce. Nel complesso il biberon non può sostituire adeguatamente il seno”.

Tuttavia, dopo le prime settimane, il bambino comincia ad abituarsi alla regolarità nella nutrizione e al resto delle cure che gli sono prestate per cui, certo dell’affetto costante e stabile, non ha motivo di abbandonarsi immediatamente all’ansia e alla solitudine[11]. Le madri si accorgono di questa iniziale crescita del bambino in quanto avvertono che egli ora sa attendere di più la soddisfazione dei suoi bisogni. “È più paziente”- dicono.

Anche le braccia della madre non sono solo delle braccia. Se queste sanno sorreggere il bambino e accoglierlo con morbidezza e disponibilità, sono fonte di sensazioni piacevoli e rassicuranti, offrono al bambino qualcosa di molto simile ad un utero o a un nido morbido, caldo e accogliente. Tutte queste sensazioni piacevoli e serene gli permettono di mantenere e far crescere la fiducia in se stesso, ma anche nel mondo nel quale si sta gradualmente inserendo. Ciò permetterà al piccolo essere umano di percorrere la strada che lo porterà alla crescita affettiva e all’indipendenza.

Le attese del lattante

 

Il bambino riconosce la situazione dell’allattamento e si calma appena la madre lo solleva per nutrirlo, in quanto ha rapidamente imparato a collegare le varie sensazioni interne ed esterne. Quando ha fame o è teso e nervoso, si aspetta che la madre lo allatti o lo coccoli, così come quando è sporco o prova fastidio, ha fiducia che la mamma lo pulisca. Quando è stanco di trovarsi nella stessa posizione egli sa che la madre accorrerà per sistemarlo in una posizione più comoda e più idonea al suo riposo. Quando la troppa luce disturba i suoi occhi egli si aspetta che la madre abbassi le tapparelle. Se i comportamenti della madre si modellano in maniera sufficientemente attenta e stabile ai suoi bisogni, aumenta la sua fiducia in lei e quindi nel mondo esterno a lui, mentre contemporaneamente aumenta la stima nelle sue capacità di stabilire relazioni efficaci. Se invece non accade quanto si aspetta, rimane disorientato e angosciato[12] e coltiva sfiducia e stizza sia verso gli altri, in quanto incapaci di ascolto, sia verso se stesso, sentendosi vittima impotente ma anche essere incapace.

Per Ackerman[13]:

“Alla nascita il bambino non è una tabula rasa. Tra un bambino e l’altro vi sono differenze significative di carattere ereditario e congenito. I bambini variano per il tipo fisico, il potenziale intellettuale, il temperamento, il metabolismo, l’affettività, l’attività motoria, le reazioni nervose. Nonostante ciò, l’influenza dell’ambiente nel plasmare in modo definitivo l’espressione di queste potenzialità è enorme..”.

Pertanto le capacità adattative della madre alle diverse qualità e realtà del bambino sono fondamentali.  Per Bowlby[14]:

“Oltre che dalla comprensione intellettuale, che non voglio certo criticare, il modo giusto di allevare un bambino nasce dalla sensibilità della madre alle reazioni del figlio e dalla sua capacità di adeguare intuitivamente il proprio comportamento alle necessità del bambino”

Per Winnicott[15] le “madri sufficientemente buone” nel momento in cui hanno un bambino tra le braccia, per capirlo meglio, per entrare meglio in sintonia con lui, regrediscono e si fanno piccole come il loro bambino. Altre invece, soprattutto oggi, coinvolte negli impegni lavorativi e professionali, spaventate da questa condivisione totale con il loro bambino “… temono questo stato e hanno paura di diventare dei vegetali, con la conseguenza che si aggrappano alle vestigia di una carriera come a una vita preziosa e non si concedono neppure temporaneamente a un coinvolgimento totale”. Si può innescare allora un circolo vizioso tra la madre e il bambino ( reciprocità negativa) che interferirà pesantemente nella differenziazione e nello sviluppo dei due partner.

I messaggi madre – figlio

In questo periodo i genitori ed i familiari, ma soprattutto la madre, inviano continui messaggi al bambino.

Sono messaggi uditivi

 

Le madri, tutte le madri di ogni cultura, razza e nazione, utilizzando un tono e delle parole particolari cercano di cullare, rassicurare, confortare, manifestare comprensione, vicinanza, attenzione, piacere e gioia nei confronti del proprio bambino. Cercano, inoltre, di stabilire delle intese che siano reciprocamente utili e compatibili. Non è raro sentire durante la notte frasi sussurrate del tipo:

“Ho capito… vuoi mangiare, aspetta che io ti prenda. Su…su… non essere impaziente, ecco per te tanto buon latte. È proprio bello il mio tesoruccio, succhia… piano, mi raccomando, non essere ingordo e non fare male alla tua mammina. Adesso facciamo un bello eruttino e ritorniamo a dormire. Non hai voglia di dormire? Ma la tua mamma sì. Come risolviamo questo problema? Aspetta… ti metto accanto a me nel lettone e così tu puoi stare sveglio quanto vuoi mentre la tua mamma continua il suo pisolino…ti va questa soluzione? Sì vedo che è di tuo gusto…ma non mi dare calcetti se no non riesco a riprendere sonno”.

Durante il giorno le madri parlano con i loro piccoli per comunicare i loro sentimenti, le attese, le emozioni: “Ho capito che hai fame, mangia tranquillo e abbondantemente ma con calma, senza abbuffarti se no non lo digerisci e ti vengono le “colichette”. Fra poco arrivano il tuo papà e la nonna. Dopo che avrai mangiato ti cambierò e così farai bella figura con loro. Lo sai che sei bello? Lo sai che sei il più bel bambino del mondo e che la tua mamma ed il tuo papà ti vogliono tanto bene?”

È facile sentire frasi e discorsi come questi, fatti dalle madri ai loro neonati i quali sicuramente non sono in grado di capire le parole ma il tono e la intenzionalità che sottostanno alle parole, sì.

Quando, invece, le madri hanno un alterato rapporto con il bambino, le frasi che si ascoltano più frequentemente sono di ben altro tenore: “Cos’ha questo bambino? Gli ho dato da mangiare, l’ho lavato, l’ho pulito: perché strilla tanto? Non lo capisco proprio! Ho fatto tutto quello che era possibile per lui e non è mai contento. Uffa! Com’è noioso! Sono sicura che è un tipo capriccioso come suo padre. Tra l’altro con i suoi rigurgiti di latte mi ha sporcata tutta. Che puzza faccio! Non ce la faccio più! Appena viene sua nonna lo lascio a lei e vado fuori”.

Successivamente, con la maturazione delle aree deputate all’interpretazione dei messaggi verbali, la ripetizione delle stesse parole e delle stesse frasi, in occasioni simili, permette al bambino di comprendere il significato verbale.

 

Sono messaggi visivi

Il bambino, mentre succhia il seno materno, si ritrova spesso a guardare il volto della madre che, a sua volta, lo guarda sorridendo, comunicandogli la sua gioia nell’averlo tra le braccia, il suo piacere nel stringerlo al cuore, la gratificazione che prova nel dargli, con il latte, una parte di sé. In definitiva la madre, mentre nutre il corpo del suo bambino, dà nutrimento anche al cuore di lui in quanto, come dice Bartolo [16]: “Il nutrimento affettivo è essenziale allo sviluppo tanto e più del latte che esce dal seno materno”.

Sono messaggi tattili

I genitori utilizzano moltissimo questa tipologia di messaggi: come i baci e le carezze al viso, alle mani, ai piedi, al torace. Per calmare il figlio gli massaggiano il pancino, danno colpetti più decisi e ritmici sul suo sederino. Abbracci e baci hanno non solo lo scopo di calmare ma soprattutto tendono a gratificare, a comunicare gioia, piacere, tenerezza, attenzione, accettazione, vicinanza e fiducia.

Il bambino riceve conferma della sua aspettativa ogni volta che le cose avvengono come al solito. Questo gli dà sicurezza, in quanto ha dei punti di riferimento precisi, per cui la sua globale situazione assume un valore positivo, benefico e rassicurante.

I messaggi figlio – madre

Se sono numerosi i messaggi materni lo sono altrettanto, anche se qualitativamente diversi, i messaggi inviati dal neonato affinché la madre capisca i suoi stadi d’animo: il piacere, l’interesse, la gioia, o al contrario l’angoscia, la rabbia, il disgusto, la paura, la sorpresa.

Sono messaggi visivi del neonato: le espressioni facciali, il colore della pelle, le posture che assume il bambino, i movimenti degli arti.

Sono messaggi uditivi: i mugolii, il pianto, anzi i vari tipi di pianto, i vocalizzi. Per Spiegel in Arieti[17]

“Nelle due prime settimane di vita le sue emissioni vocali non sono correlate in modo riconoscibile con la situazione o con gli stimoli. Tra la seconda e la quinta settimana suoni particolari vengono a corrispondere a disagi particolari e vengono compresi come segni.[…] Nel periodo successivo alla prima infanzia (dai due ai quattro mesi), il bambino si fa più attivo nella comunicazione, e vi partecipa maggiormente sia come ricevente che come emittente”.

Sono messaggi tattili: la temperatura della sua pelle, l’umidità e la consistenza della cute.

Sono messaggi odoriferi:  ‘odore del corpo, del sudore, dell’aria espirata.

È necessario allora che la madre, o chi ha cura del bambino, abbia la possibilità e la capacità di interpretare questi vari tipi di messaggi, dando ad ognuno di essi il significato più appropriato.

 

Mediante questi vari tipi di comunicazione i lattanti non solo fanno conoscere alle madri i loro bisogni ma inviano ad esse anche delle ricompense per quanto si adoperano. Queste ricompense sono fatte di sorrisi, toccamenti, smorfiette, che comunicano alla madre: “Sei stata brava. Mi hai capito. Hai posto rimedio al mio bisogno, al mio fastidio. Grazie per esserti subito attivata!”. Tali ricompense, gratificando la madre, a sua volta, sono in grado di migliorare l’attaccamento di questa verso il piccolo, attivandola maggiormente ai suoi compiti di cura. “In un senso biologico fondamentale, non è vero che l’infante si espande a spese della madre, tranne che in condizioni anormali. Possediamo solide prove per dimostrare che, in condizioni normali, il benessere della madre e quello del bambino sono tutt’uno. Ciò che è bene per il bambino lo è per la madre e viceversa”[18].

Al contrario questi messaggi possono trasmettere rabbia, collera, insoddisfazione, disappunto per le scarse capacità o per il modesto impegno dimostrato dalla madre nei suoi confronti. In questi casi la frustrazione che ne ha la donna può portare, se da questa non è ben compresa e utilizzata per migliorarsi, ad un maggior distacco affettivo nei confronti del bambino ma anche a giudizi negativi su di lui: “Questo bambino mi ha stufato, è cattivo e quindi non si merita molte attenzioni e cure da parte mia”. Si può allora innescare un pericoloso circolo vizioso, con conseguente grave sofferenza per entrambi.

Per la madre, avere buone capacità nella comunicazione implica saper ascoltare e capire i bisogni del figlio espressi dai suoi segnali, per poi adeguarsi alle sue esigenze fornendo risposte corrette, coerenti e valide. Ma significa anche saper godere e sentirsi pienamente soddisfatta dei messaggi positivi inviati a lei dal suo piccolo.

Gli effetti di una buona e corretta comunicazione madre-figlio portano all’apertura e all’accettazione di un luogo al di fuori di lui e quindi all’apertura al mondo esterno, con l’integrazione tra la realtà esterna ed interna.[19] Il bambino assimila la realtà esterna trasformandola, se può, secondo i suoi schemi. Egli tenta di modificare se stesso per assecondare la realtà esterna e di modificare la realtà esterna per adattarla a sé.

Il cucciolo d’uomo allora riesce a distinguere il dall’altro, dall’esterno, e può costruire una membrana delimitante, così da poter dire: “Io sono”. Contemporaneamente, dopo aver acquisito una sua individualità, può veramente far parte di un gruppo. Successivamente, all’interno di questo possono essere raccolte memorie ed esperienze e può essere edificata la struttura infinitamente complessa che è propria dell’Io dell’essere umano, con i suoi numerosi bisogni fisiologici e psicologici. Al contrario, si procura una notevole sofferenza al bambino quando, a causa di errate interpretazioni o di pigrizia e scarsa disponibilità ed impegno, vengono a lui fornite delle risposte non corrispondenti ai suoi bisogni, incomplete o parziali. In questi casi si può avere una sorta di scollamento tra la madre ed il bambino stesso, con notevoli conseguenze sul piano dell’attaccamento reciproco.

 

Decodifiche corrette e risposte coerenti

La comunicazione non produce automaticamente la comprensione. Di ciò ne siamo consapevoli anche noi adulti. Molte volte, parlando con il coniuge o con un caro amico, diciamo la fatidica frase: “Non mi hai capito”. Eppure il nostro maturo e ricco linguaggio di adulti dovrebbe essere estremamente chiaro per il ricevente!

La decodifica corretta dei messaggi richiede alcune indispensabili condizioni:

  1. buone capacità intellettive;
  2. sufficienti capacità empatiche;
  3. corretta educazione e buon tirocinio;
  4. disponibilità all’ascolto;
  5. serenità interiore;
  6. buone capacità e disponibilità nel dare risposte coerenti, stabili, complete e soddisfacenti.

 

 

  1. 1)      Buone capacità intellettive

 Queste capacità permettono la corretta acquisizione, memorizzazione, analisi ed elaborazione dei segnali emessi dal bambino. Morin [20]la chiama : comprensione intellettuale o oggettiva. In tal modo, in ogni momento, la madre o chi ha cura del neonato, può utilizzare delle giuste ed efficaci chiavi di lettura. Modeste o scarse capacità intellettive non permettono di fare ciò, in quanto l’esatta interpretazione di quanto visto, udito, toccato, sfugge ad un esame lacunoso ed incompleto.

2)      Sufficienti capacità empatiche

Accanto a buone capacità intellettive i genitori, ma soprattutto la madre, devono avere buone capacità empatiche. Devono, cioè essere in grado di immedesimarsi e identificarsi nel bambino, fino a cogliere in ogni momento i suoi pensieri ed i suoi stadi d’animo più profondi, senza la necessità di effettuare un’analisi razionale. Queste capacità che oggi alcuni studiosi collegano al buon funzionamento dei neuroni specchio, permettono alla madre di essere “particolarmente recettiva nel cogliere intuitivamente gli stimoli emozionali e corporei del bambino come li vivesse da sé”[21].

3)      Corretta educazione e buon tirocinio

Una buona madre o anche una madre sufficientemente buona possiede, nel suo corredo cromosomico, tutte le potenzialità per una buona interpretazione dei messaggi se ha anche ricevuto un’educazione adeguata. Non basta il cosiddetto istinto materno, se questo non viene costantemente sollecitato, potenziato e sviluppato, mediante l’educazione e l’esperienza. Purtroppo questa preparazione è molto carente nelle moderne società occidentali, in quanto in queste società è valorizzata, sia a scuola sia in famiglia, la preparazione di tipo tecnico – professionale, utile, in parte, solo per una futura attività lavorativa. È invece scarsamente presente l’educazione emotivo – affettiva, che si pone come finalità lo sviluppo di capacità indispensabili per affrontare, nel modo migliore possibile, i futuri ruoli di madre e di padre. Pertanto non sono trasmesse, in maniera adeguata e nei momenti più opportuni, le fondamentali specifiche informazioni e conoscenze riguardanti i bisogni dei bambini, i loro strumenti di comunicazione, l’uso che essi ne fanno, i significati dei segnali da loro emessi.

I genitori mancano, inoltre, del necessario bagaglio delle più adeguate ed appropriate risposte da dare alle sollecitazioni dei figli piccoli. Tale difficoltà si aggrava anche per la mancanza di un lungo e corretto tirocinio che dovrebbe essere effettuato con i piccoli della sfera familiare: fratelli, cugini, nipoti. Questa carenza è dovuta allo scarso numero delle nascite, ma anche alla modesta composizione della rete familiare. Anche quando sono presenti dei bambini piccoli manca spesso un valido, continuo ed efficiente tutoraggio materno, in quanto i bambini sono affidati sempre più frequentemente ad altre istituzioni come gli asili nido o ad altre mani e cuori come le tate e le baby sitter .

4)      Disponibilità all’ascolto

Per riuscire a comprendere un piccolo essere umano, come un neonato, che utilizza soprattutto messaggi non verbali di difficile interpretazione, è indispensabile che i genitori, e soprattutto la madre, riescano a creare attorno a loro e dentro di loro un notevole silenzio.Intanto riuscire a creare il silenzio esteriore è più facile a dirsi che a farsi. Se nelle società più semplici e povere di oggetti tecnologici questo tipo di raccoglimento è facilitato in quanto l’ambiente di vita lo favorisce, lo accoglie e lo valorizza, nelle società più complesse e più ricche di strumenti di comunicazione come le nostre, il raggiungimento di questo obiettivo è notevolmente arduo e problematico, in quanto gli altri: amici, parenti, colleghi di lavoro ecc., si aspettano, pretendono e vogliono da noi, alcuni tipi di comportamento e non altri. Essi si aspettano che si abbia almeno un cellulare, un televisore, una radio e un computer collegato ad Internet con posta elettronica in cui ricevere le varie E-mail e si meravigliano se non vedono il nostro viso su Facebook. Gli altri pretendono risposte rapide, se non immediate ad ogni messaggio da loro inviato, così come desiderano che il nostro cellulare e gli altri mezzi di comunicazione siano sempre attivi, pronti a ricevere le varie chiamate e i vari messaggi.

In definitiva gli altri si aspettano che noi siamo sempre collegati alla rete di comunicazione globale e costantemente pronti ad interagire con loro. Lo staccarsi da questa rete, anche se temporaneamente, è avvertito e giudicato negativamente: solo un essere originale, antiquato o con scarsa educazione e desiderio di socialità, si comporterebbe così. Pertanto per non essere giudicati male si è costretti ad adeguarsi rapidamente e pienamente all’uso corrente.

 Altrettanto difficile è creare il silenzio interiore. Le attese e le richieste del mondo del lavoro e delle varie amministrazioni, le necessità dell’ambiente sociale, sono tali e tante che è estremamente difficile escludere, per il tempo necessario alla riflessione, le preoccupazioni e gli impegni che, come un rumore di fondo, si agitano dentro di noi, creando confusione, inquietudine e ansia. Pertanto diventa difficile e complesso riuscire a mettersi in ascolto dei delicati, tenui e complessi segnali emessi dal neonato.

Difficile è, inoltre, creare il silenzio interiore quando l’ansia, la depressione o lo stress agitano l’animo di chi soffre di queste problematiche. Lidz[22] aveva evidenziato nelle famiglie dei pazienti schizofrenici “…l’incapacità dei genitori di percepire, comprendere o tollerare ciò che non rientra nel loro rigido sistema di difesa. “Inaccessibile” è un termine che si applica frequentemente alle madri o ai padri dei pazienti schizofrenici per indicare la loro incapacità di percepire i bisogni emotivi del bambino. Il genitore può “udire” ma non “ascoltare” ciò che il bambino dice, ed è ancora più sordo ai richiami muti”.

Nella nostra società super competitiva, di questo tipo di stress soffrono sia gli uomini sia le donne, anzi soprattutto queste ultime, in quanto sono costrette a barcamenarsi tra i tanti ruoli che la moderna società occidentale impone loro, affinché si sentano perfettamente “libere, impegnate ed integrate”. La Sarchielli[23] così descrive questo tipo di donne:

“Sei una donna che ha un’agenda piena di appuntamenti e di cose da fare, che mette lo stesso impegno, entusiasmo e dedizioni nelle piccole e grandi attività a casa e sul lavoro? Nel tuo ambiente di lavoro sei sempre indaffarata in compiti diversi, affrontati anche simultaneamente e trovi in essi la fonte principale della tua identità personale? Ti impongono di gestire al meglio ogni responsabilità, senza compromessi e deleghe e senza mai dire di no? Ti sforzi di ricavare il massimo dai vari ruoli che ricopri come individuo, figlia, fidanzata, moglie, madre, donna in carriera? Vuoi dimostrare di essere sempre migliore degli altri nel lavoro, nella gestione dei figli, in famiglia, nello sport, nella cura dell’aspetto, nelle relazioni affettive, e nella vita sociale? Tendi raramente a staccare la spina, a fermarti per concederti un riposo? Se tutto questo corrisponde al tuo profilo è probabile che tu faccia parte della categoria delle superwomen”.

Questo tipo di superdonne che vogliono fare tutto e bene, si accorgono presto o tardi di fare troppo e male e di essere cadute in una trappola sociale autoimposta [24], in quanto notano ben presto che al loro malessere si associa anche il malessere dei figli e delle persone che sono a loro vicine.

Altra caratteristica che restringe e limita le capacità e possibilità di ascolto, è la personalità in cui è presente un Io ipertrofico. Questo tipo di personalità spesso è portato a riflettere poco, in quanto crede di possedere già tutte le informazioni che servono a capire e a prendere delle decisioni. In questi casi l’eccessiva sicurezza, con conseguente scarsa ponderatezza, impedisce di soffermarsi a controllare sia quanto avvertito dal piccolo bambino, sia la qualità e l’utilità delle risposte date.

 

 

5)      Una sufficiente serenità interiore

Una buona serenità interiore è indispensabile per una corretta e sana comunicazione tra madre e figlio.

Tutte le alterazioni psicologiche provocate dall’ansia, dalla depressione, dall’irritabilità, dalla facile eccitabilità, ma anche dallo stress eccessivo, dall’uso di alcool e droghe di ogni tipo, disturbano più o meno intensamente, più o meno gravemente il dialogo genitore –figlio. Queste alterazioni della psiche incidono soprattutto sulle comunicazioni più delicate e complesse come quelle tra un bambino piccolo e la propria madre.

6)      Buone capacità e disponibilità nel dare risposte coerenti, stabili, complete e soddisfacenti

Non basta ascoltare un messaggio, non basta interpretarlo correttamente, bisogna anche riuscire a dare delle risposte stabili e coerenti nel tempo, complete e soddisfacenti rispetto ai bisogni del lattante. La risposta coerente comporta delle azioni successive che siano in sintonia con la richiesta contenuta nel messaggio. “Ho capito che hai sete e quindi ti do da bere”. La risposta incoerente, al contrario, non tiene conto del messaggio in arrivo: “Ho capito che hai sete ma poiché in questo momento sto discutendo e non ho voglia di alzarmi, faccio finta di non capire e ti dico di stare buono e tranquillo”. Per evitare di dare una risposta coerente si può fare anche di peggio, come accusare il figlio di fare delle richieste inopportune: “Possibile che ogni volta che godo nel chiacchierare con le amiche tu mi debba disturbare con le tue richieste?”

La risposta è stabile nel tempo quando il soggettocontinua ad offrire sempre lo stesso tipo di comportamento positivo. Le risposte sono complete e soddisfacenti quando i bisogni del bambino sono soddisfatti pienamente e non solo in parte.

Decodifiche non corrette e risposte incoerenti

Le difficoltà nella corretta decodifica e nel dare risposte stabili, coerenti, complete e soddisfacenti possono essere causate da:

  1. Scarsa sensibilità nei confronti dei segnali in arrivo.
  2. Errata interpretazione dei segnali.
  3. Giudizi negativi sul figlio.
  4. Presupposti errati o eccessivi.
  5. Visione egocentrica della realtà.
  6. Difficoltà nell’adeguarsi ai bisogni del piccolo.

 

 

  1. Scarsa sensibilità nei confronti dei segnali in arrivo

Vi sono dei genitori che avvertono un segnale dal figlio solo se questo è molto intenso, vigoroso e costante. In caso contrario è come se non esistesse. Si può fare l’esempio dei sordastri i quali si attivano solo quando il segnale che raggiunge l’apparato uditivo è molto forte. Allo stesso modo in alcune persone, a causa di problematiche interiori, ansie, preoccupazioni e stress, la soglia percettiva è più alta della norma, per cui avvertono il messaggio solo se questo ha caratteri eclatanti e supera la barriera dei loro pensieri interiori. Ciò naturalmente irrita il lattante il quale vorrebbe, invece, essere rapidamente capito e soddisfatto nei suoi bisogni essenziali, senza la necessità di piangere a più non posso e disperarsi prima di ottenere quanto gli è dovuto.

2. Errata interpretazione dei segnali

Il segnale o i segnali che il piccolo bambino emette possono arrivare alla nostra coscienza normalmente, ma essere male interpretati. Ad esempio: la madre può pensare erroneamente che il suo bimbo pianga in quanto ha bisogno di essere cullato, mentre in realtà egli vorrebbe soltanto essere cambiato di posizione. Per tale motivo l’esser cullato non solo non raggiunge lo scopo di calmarlo, ma al contrario può farlo innervosire maggiormente, in quanto egli si sente non capito o, peggio, teme di non essere in grado di farsi capire. La stessa cosa avviene quando la madre pensa che il suo strillare sia dovuto alla fame, per cui cerca di dargli da mangiare, mentre il suo pianto era causato da coliche addominali e pertanto il cibo aggiunto non fa che aumentare l’indisposizione del figlio. E ancora: la madre pensa che l’agitarsi nel lettino significhi che lui non ha più sonno e quindi accende la luce e apre le imposte affinché il bebè si svegli completamente, mentre in realtà questi movimenti del bambino sono dovuti alla mancanza di un sonno ristoratore che lo rende inquieto.

Come abbiamo visto, a volte si attuano dei comportamenti che sono l’esatto opposto di quelli necessari e utili in quel momento. Bisogna però aggiungere che, pur sbagliando, alcune madri imparano rapidamente dagli errori e correggono il tiro, mentre altre, poco flessibili, continuano imperterrite a mantenere gli stessi comportamenti inidonei, per cui la sofferenza del piccolo, fatta anche di rabbia, sarà più intensa e prolungata nel tempo.

  1. Giudizi negativi sul figlio

Alcuni genitori, pur di non ammettere i propri errori di valutazione, mettono sotto accusa il figlio dandogli degli immeritati giudizi negativi: “Questo bambino è cattivo e capriccioso, non sa neppure lui cosa vuole e non fa altro che disturbarmi inutilmente. E allora si arrangi. Pianga e strilli quanto vuole. Io non intendo farmi coinvolgere dai suoi capricci”. Lo stesso comportamento attuano quei genitori che tendono a focalizzare l’attenzione sulla propria persona e pertanto non sono disponibili all’ascolto dei bisogni altrui se non sono in linea con i propri. Questi genitori, se trovano un neonato che si sintonizza rapidamente con i loro bisogni e abitudini così da accettare facilmente i loro orari, per cui dorme quando essi dormono, resta sveglio quando loro sono svegli, mangia quando loro mangiano e così via, riescono ad instaurare con lui un buon rapporto, ma se per caso il piccolino ha ritmi diversi di sonno – veglia o si alimenta in momenti diversi rispetto a quelli che essi avevano programmato, si impuntano e resistono ai suoi richiami. “Per non cedere ai suoi capricci e per ben educarlo!” diranno, mentre in realtà stanno difendendo soltanto i loro bisogni e le loro abitudini.

  1. Presupposti errati o eccessivi

I presupposti errati possono nascere da idee personali, influenzate da preconcetti o da parziali e limitate esperienze. I presupposti errati possono provenire, inoltre, dall’accettazione passiva di una delle tante teorie che circolano sulla rete Internet, nei libri, nei giornali, nelle riviste poco qualificate, alla Tv e alla radio. Questo fenomeno si è notevolmente ampliato oggi in quanto, a differenza che nel passato, siamo costantemente bombardati da una grande massa di informazioni poco attendibili e serie. La grande quantità di ore di trasmissioni e le numerose pagine dei giornali da riempire di contenuti, comportano, da parte dei direttori delle testate radiotelevisive o giornalistiche, la difficoltà di selezionare e verificare accuratamente le informazioni. Pertanto queste risultano spesso poco o per nulla aderenti ad un minimo di verità e serietà scientifica. Tra l’altro, molti strumenti d’informazione, pur di riportare qualcosa di diverso e di non usuale, ricercano e presentano non le notizie più consuete e affidabili, ma quelle che possono colpire maggiormente l’attenzione e la fantasia degli ascoltatori o dei lettori.

Tutto ciò condiziona negativamente i genitori, soprattutto le madri e i padri più fragili, immaturi e ansiosi. Da ciò una notevole varietà di atteggiamenti e comportamenti da un genitore all’altro, in quanto, alcuni accettano una certa teoria e la fanno propria, mentre altri mettono in pratica una teoria molto diversa, se non opposta. Spesso gli stessi genitori, nel tempo, cambiano comportamento e atteggiamento, a seconda della teoria prevalente e di moda in quel momento, o scelgono quella più congeniale ai loro bisogni personali e individuali. In questa babele di informazioni ritroviamo, nel rapporto con i minori, una grande varietà di atteggiamenti e comportamenti. Addirittura, il che è peggio, può avvenire che all’interno della stessa coppia il papà attui una certa linea educativa e la mamma metta in essere un progetto formativo completamente diverso e contrastante. Capita allora, per esempio, che il papà insista a che la mamma allatti il bambino quando egli, con il pianto richieda di mangiare (allattamento a richiesta), mentre la mamma si impunti a che il bambino mangi ad orari ben precisi, in modo da educarlo ad accettare dei tempi fisiologici tra una poppata e l’altra (allattamento ad orario). Allo stesso modo alcuni genitori non volendo che il bambino “si abitui male”, non prendono mai in braccio i propri figli, mentre altri, seguendo l’esempio dei Masai della Tanzania li tengono sempre addosso.

Questa molteplicità di comportamenti e atteggiamenti educativi e di cura, ci appare poco razionale in quanto sappiamo che i bisogni veri e profondi dei minori, non cambiano nel tempo e pertanto le modalità educative non dovrebbero essere eccessivamente diverse da una coppia all’altra o tra una persona e l’altra. L’aver smarrito, in quanto ritenuta erroneamente poco scientifica, la cultura tradizionale filtrata da milioni di esperienze dirette e trasmessa oralmente alle generazioni successive, comporta un danno notevole nella coerenza e nello stile educativo dei nuovi genitori.

  1. Visione egocentrica della realtà

La visione egocentrica della realtà si evidenzia ogni volta che pensiamo che il bambino debba amare, desiderare oppure rifiutare e odiare, ciò che noi amiamo, desideriamo, rifiutiamo o odiamo: “Siccome io sento caldo penso che anche mio figlio debba avvertire caldo”. “Siccome a me piace un certo cibo ritengo che anche al bambino debba necessariamente apprezzare lo stesso alimento”. La visione egocentrica inserisce, come fondamento dei propri comportamenti, le proprie sensazioni, i propri desideri, le proprie emozioni, la personale visione della realtà e non i gusti, i desideri ed i bisogni dell’altro. Questo vedere la realtà con i propri occhi e con il proprio sentire e non con i bisogni altrui, fa accettare con difficoltà altri modi di essere ed altri vissuti. Pertanto, i comportamenti conseguenti seguono questi non corretti parallelismi.

  1. Difficoltà nell’adeguarsi ai bisogni del lattante

Alcune volte i genitori comprendono perfettamente la o le richieste del figlio, ma non hanno energie sufficienti o voglia di soddisfarle: “Capisco che mi chiede di fargli da mangiare ma, in questo momento, nonostante la mia buona volontà, non ho la forza sufficiente per accontentarlo”. “Capisco che vorrebbe essere abbracciato per sentirsi protetto ma, giacché in questo momento mi sento fragile e pertanto sono io che vorrei essere abbracciata, in modo tale da sentirmi sicura e confortata, non riesco ad esaudire il suo desiderio ed il suo bisogno”.

La mancanza di disponibilità, di forze e di energie necessarie a dare al bambino le cure necessarie può essere dovuta:

  •   a numerose condizioni organiche come le malattie debilitanti, i deficit ormonali, l’abuso di alcool, l’uso di droghe o psicofarmaci;
  •   a disturbi psicologici di una certa gravità, come le psicosi (depressione, schizofrenia), i postumi da stress, l’ansia o le gravi e persistenti nevrosi;
  •   ad impegni e attività lavorative eccessive, psicologicamente o fisicamente debilitanti. È una situazione questa oggi molto frequente. La società dei consumi stimola e riesce a convincere molti genitori ad attivarsi in modo eccessivo negli impegni lavorativi, per avere il denaro necessario a soddisfare richieste ed esigenze sempre maggiori ed il più delle volte assolutamente superflue, proposte da parte della pubblicità come essenziali. Pertanto la consapevolezza delle necessità affettive e di cura dei figli si scontra con la necessità di rimpinguare il più possibile il conto in banca.
  •   alla presenza, nei genitori, di un Io pigro o egoisticamente immaturo;
  •   alla mancanza di un profondo legame affettivo nei confronti del figlio. In questi casi di disaffezione è spesso presente una scarsa disponibilità a soddisfare delle richieste, avvertite come occupazioni noiose o eccessive. In questo caso i genitori, pur capendo i bisogni del bambino, preferiscono occuparsi di altre cose ritenute più piacevoli, interessanti e gratificanti;
  •   alla solitudine nell’affrontare le cure ed i compiti educativi. Solitudine dovuta all’assenza fisica o alla scarsa collaborazione dell’altro coniuge e della rete familiare. Anche in questo caso ai figli sono date delle risposte instabili, poco coerenti o non soddisfacenti. Ciò avviene sia quando a guidare la famiglia è solo la madre (famiglia madre – centrica), sia al contrario, quando a guidare la famiglia è solo il padre ( famiglia padre – centrica). È ampiamente dimostrato che le cure più attente ed efficaci si attuano quando sono presenti entrambi i genitori che si relazionano in maniera armonica con aiuto, sostegno e rispetto reciproco.

 

Le conseguenze

Quando i genitori hanno problemi nella comunicazione o non danno risposte coerenti e stabili, complete e soddisfacenti, le conseguenze sono notevolmente gravi:

  • il bambino avverte che è inutile comunicare se non si è ascoltati o se le proprie richieste non sono esaudite.[25]
  • il bambino può immaginare qualcosa di ancora più grave: che è dannoso comunicare se le sue richieste hanno sugli altri dei risvolti negativi. Ad esempio, se fa aumentare la loro ansia, se li porta a scontrarsi, se accentua i loro comportamenti aggressivi e rifiutanti;
  • il bambino può apprendere a non fidarsi nelle possibilità insite nella comunicazione;
  • il bambino può ritenere che non bisogna fare assegnamento sui genitori, sugli adulti e sugli esseri umani in generale. Quando persistono gravi difetti nella comunicazione tra genitori e figlio, la sfiducia verso gli altri può ampliarsi a tutta la realtà esterna e, conseguentemente, si può instaurare una chiusura (autismo) verso il mondo reale. Il bambino in questi casi rimane solo e prigioniero delle sue ansie, delle sue paure, delle fantasie ed elaborazioni mentali.[26]

Queste difficoltà o questo analfabetismo comunicativo e affettivo appare in costante, continuo aumento nel mondo occidentale per vari motivi:

  • la formazione delle coppie genitoriali avviene, nel migliore dei casi, in base al sentimento amoroso, mentre, nei casi peggiori, per iniziare un cammino di coppia a volte è sufficiente il fuoco dell’innamoramento, della passione o dell’attrazione sessuale del momento. Non sono quindi opportunamente valutate, in queste scelte e decisioni, le capacità proprie e dell’altro indispensabili per essere buone madri o buoni padri;
  • l’impegno nei confronti delle acquisizioni culturali è rivolto soprattutto alle nozioni utili per superare dapprima interrogazioni ed esami di tipo scolastico, mentre, successivamente, tale formazione ha spesso come scopo ottenere una buona capacità professionale o peggio solo un ricco curriculum da presentare nei vari concorsi. Nel contempo è sottovalutata la preparazione attinente la comunicazione efficace, necessaria nella relazione con un bambino piccolo;
  • il tirocinio nella cura e nell’ascolto di un lattante è assente o scarsamente presente nella vita sia degli uomini che delle donne;
  • l’aumento di giovani con disturbi psicologici più o meno gravi, incrementa il numero dei casi di genitori che presentano gravi difficoltà nella comunicazione, insieme a scarse possibilità e disponibilità nel dare risposte coerenti, stabili, complete e soddisfacenti.
Le qualità del rapporto madre – bambino

Per Sullivan[27]:

“Ancor prima di apprendere il linguaggio, tutti gli esseri umani, compresi quelli di livello mentale più basso, hanno imparato certi modelli di rapporto con una madre o chi per essa li allevi. Questi primi modelli divengono le fondamenta, completamente sotterranee ma molto solide, sulle quali poi tante cose verranno a sovrapporsi”.

 Dalle caratteristiche del neonato e della madre nasce la complessità di questo rapporto che può essere costituito da incontri e da scontri, da accordi o da disaccordi emotivi, gratificante o frustrante per l’uno e per l’altro [28].

Per la Klein[29]:

“È inevitabile che delusioni ed esperienze piacevoli si presentino insieme e rafforzino il conflitto innato tra amore e odio, e cioè tra gli istinti di vita e di morte; ciò porta il bambino a sentire che esiste un seno buono ed un seno cattivo”.

Poiché tra il bambino e la madre è presente inizialmente un’unione simbiotica, per Ackerman[30]:

“Le facoltà di stabilizzazione della madre, consone con le esigenze di crescita e del cambiamento, devono coprire i bisogni delle due persone che funzionano come una sola. Ogni deficienza o distorsione nelle facoltà omeostatiche della madre si riveleranno immediatamente sotto forma di cattivo funzionamento della complementarità e dell’interscambio tra la madre e il figlio. Ne risulterà un indebolimento dello sviluppo omeostatico dell’infante”.

Per tali motivi vi può essere, agli occhi e al cuore del bambino, una “madre buona” e “una madre cattiva”.

Caratteristiche della madre “buona”

Per un neonato una madre è buona quando:

 sa leggere nel suo animo e nel suo volto i suoi bisogni, le sue necessità, le sue speranze e i suoi desideri. Per Winnicott[31] “una buona madre sa quello di cui il bambino ha bisogno in quel determinato momento”;

  comprende e conosce tutto ciò che gli procura soddisfazione, gioia, serenità e sicurezza ma anche tutto ciò che gli dà ansia, angoscia, paura, tensione, insicurezza. PerSullivan[32] la tensione dovuta a dei bisogni del bambino, induce tensione nella madre. Questa tensione viene vissuta come tenerezza e come impulso ad attività che portino sollievo ai bisogni del bambino;

  rapidamente si adatta e impara a offrire elementi positivi per il suo animo, mentre riesce ad allontanare le cause che procurano emozioni negative. “Questa capacità di adattamento è la cosa più importante per lo sviluppo emotivo del bambino e la madre si adatta alle sue necessità, soprattutto all’inizio, quando egli è in grado di afferrare soltanto le situazioni più semplici”.[33]Le capacità di adattamento sono indispensabili in quanto i bambini sono notevolmente diversi gli uni dagli altri. Non solo, ma cambiano nel tempo i loro bisogni e le loro esigenze;

  •   sa rendere calda e accogliente la sua casa, mediante l’amore. Sa illuminarla con il suo sorriso. Riesce a renderla viva e palpitante con la sua presenza;
  •   è capace di accogliere il figlio tra le sue braccia con naturalezza e spontaneità, trovando facilmente per lui la posizione migliore per allattarlo e per farlo sentire a proprio agio: protetto e sicuro;
  •   con il suo sorriso e con le sue parole, sa offrire al cuore del neonato numerosi segnali di presenza, distensione, comunione e condivisione;
  •   riesce a proteggerlo da tutte le situazioni che potrebbero provocargli traumi o stress eccessivi, paure e ansie: i rumori forti e improvvisi, i bruschi urti e toccamenti, le eccessive variazioni di temperatura, i frequenti cambiamenti della routine quotidiana;
  •   è lieta quando il figlio dorme, ma è altrettanto lieta quando è sveglio e vuole mangiare, giocare e farsi coccolare da lei;
  •   riesce senza sforzo a trarre soddisfazione, gratificazione e gioia dai suoi compiti di cura ed educazione;
  •   è felice quando il suo piccolo vuole stringere le sue mani, vuole toccare le sue braccia, il collo, i capelli ed il seno;
  •   non teme di essere svegliata nel cuore della notte per placare la fame, la sete, le sofferenze e i fastidi del suo piccolo;
  •   si attiva prontamente e con piacere a soddisfare non solo i suoi bisogni fisici ma anche quelli affettivi, come quando il piccolo, per allontanare le ansie e le paure, ha bisogno e desidera la sua presenza, cerca il suo contatto, aspetta le sue coccole, vuole inebriarsi del suo profumo;
  •   non va in crisi per i suoi strilli che sembrano irrefrenabili, in quanto ha fiducia in sé stessa, nelle sue capacità di capire e rispondere adeguatamente ai bisogni del suo piccolo, ma ha anche fiducia e stima nelle capacità del bambino di superare, con il suo aiuto, i momenti di crisi e di sconforto;
  •   non giudica il figlio un piccolo diavoletto pronto a piangere a più non posso pur di mettere in difficoltà lei e gli altri che lo accudiscono. Non lo vede come un crudele tiranno che le impedisce di riposare o dormire quando e come desidera. Non lo sente come un monello capriccioso, mai contento e pago, né come un piccolo essere insubordinato che vuole mangiare, dormire o rimanere sveglio fuori dagli orari canonici;
  •   si diverte insieme a lui in molti momenti della giornata: quando bisogna cambiarlo e il suo pancino, le sue manine, sono là pronti per essere baciati e accarezzati; o quando è l’ora del bagnetto e il piccolo è felice di far sprizzare l’acqua della vaschetta tutt’intorno alla stanza!
  •   la madre buona gioisce, insieme al figlio, delle sue prime “bravate”, come quando finalmente riesce a togliersi le fastidiose scarpette di lana e può agitare i piedini nudi in aria o, ancor meglio, quando questi piedini li può golosamente leccare e succhiare!
  •   anche lei commette degli errori ma, dalle reazioni del figlio, impara presto in che cosa e dove e perché ha sbagliato e si corregge rapidamente;
  •   coerentemente cerca di mantenere nelle cure e negli orari una buona stabilità e continuità in modo tale da evitare gli eventi imprevisti, così odiosi per i bambini piccoli, in quanto fonte di allarme e insicurezza. Per Bowlby[34]: “Abbiamo ampie prove del fatto che gli esseri umani di ogni età sono più sereni e in grado di affinare il proprio ingegno per trarne un maggior profitto, se possono fidare del fatto che al loro fianco ci siano delle persone fidate che verranno loro in aiuto in caso di difficoltà”. La persona fidata, nota anche come figura di attaccamento, può essere considerata come quella che fornisce la sua compagnia assieme a una base sicura da cui operare”;
  •   non prova schifo per i “regali” liquidi e solidi maleodoranti che il suo bambino le elargisce nei momenti meno opportuni e non si arrabbia nel dover pulire il suo sederino mentre, pronta per uscire, ha appena indossato l’abito più elegante e ha messo il profumo più seducente, per fare e far fare bella figura a lui e a se stessa;
  •   Non ha fretta. Non ha fretta quando deve cambiarlo. Non ha fretta quando lui si attacca al seno o al biberon, non ha fretta di farlo addormentare, non ha fretta quando deve pulirlo o fargli il bagnetto. Una buona mamma non ha mai fretta, insomma.
  •   non vede la tv quando lo allatta o con lei vuole giocare, perché giudica spettacoli belli e interessanti il faccino del suo bambino quando, con i suoi splendidi sorrisi la guarda, quando, con le sue smorfiette e i suoi grandi sbadigli, vuole addormentarsi;
  •  
  •   non parla al telefonino quando lui mangia o vuole giocare e comunicare con lei. Sa che se è bello parlare con le amiche o con i propri genitori e parenti, è ancora più bello giocare e parlare con il proprio bambino;
  •   non alza mai la voce, né tanto meno grida. La madre buona parla dolcemente, non si arrabbia ma comprende e dimentica;
  •   non lo trascura o lascia continuamente suo figlio in mani estranee. Né tanto meno mette suo figlio in quei luoghi istituzionali chiamati nidi, ma che nulla hanno del vero nido familiare. Sa che per suo figlio la sicurezza e la serenità sono il suo viso caldo e luminoso, la sua voce tranquillizzante, il suo corpo che odora di latte e di madre.

 

In definitiva una madre è “buona” quando riesce a soddisfare i bisogni fisici e psicoaffettivi del proprio bambino. Le caratteristiche innate presenti nei bambini sono capaci di supplire, almeno in parte, alle deficienze materne, per cui non è assolutamente necessario che una madre sia perfetta. Una madre sufficientemente buona, è già adatta a dare al figlio quanto è necessario per il suo sano sviluppo.

Caratteristiche della madre “cattiva”

Al contrario di quanto abbiano detto sopra, per un neonato una madre è “cattiva” quando:

  •   Si assenta eccessivamente, senza tenere in giusta considerazione le ansie e le paure del figlio. Per questi è nefasta ogni separazione dalla madre[35], in quanto la sua mancanza lo priva di fondamentali e stabili punti di riferimento. Sappiamo che queste ansie e paure spingono il piccolo ad una situazione di sofferenza e caos per cui, in tali situazioni, tendono a prevalere le emozioni negative. Per Bowlby[36], quando la madre si allontana da lui per qualche tempo, il bambino percorre tre fasi. Nella prima fase (fase della protesta), che può durare molti giorni, il bambino protesta per l’assenza della madre chiedendo di lei, piangendo copiosamente ed andando in collera anche per futili motivi. Nella seconda fase (fase della disperazione) il bambino, poiché si accorge che le sue speranze di far tornare la madre non hanno esito positivo, si calma ma si strugge dal desiderio che essa torni. Spesso queste due fasi si alternano. Nella terza fase (fase del distacco), il bambino sembra essersi dimenticato della madre. Appare disinteressato quando si parla di lei e quando lei ricompare può dare segni di non riconoscerla. In ognuna di queste fasi il piccolo è facilmente soggetto ad eccessi d’ira e ad episodi di comportamento distruttivo, spesso di tipo violento[37]. Quando la madre ritorna a casa, per un po’ rimane insensibile e non manifesta alcuna esigenza. Quando crolla si manifestano i suoi sentimenti ambivalenti. Da una parte vi è un aggrapparsi alla madre: quando questa lo lascia anche se per poco tempo, manifesta angoscia e collera intense, dall’altra manifesta verso di lei notevole ira ed aggressività, come a punirla per il suo comportamento. Se però il distacco è stato eccessivo vi è il rischio che il bambino non si leghi più con la madre[38]. Se la cura del bambino è affidata ad una persona con caratteristiche nettamente materne, la scomparsa della madre non viene avvertita prima dei tre mesi, in quanto egli non è consapevole delle persone e degli oggetti come entità distinte da lui, successivamente, ma soprattutto dopo i sette mesi, egli ne soffre moltissimo. Verso i quattro anni, quando il bambino è in una fase egocentrica, può addirittura pensare che la madre sia scomparsa perché lui è stato cattivo[39] o ha avuto in passato dei pensieri negativi nei suoi confronti.
  •   Modifica frequentemente le sue normali abitudini, senza tener conto che i bambini, come tutti i piccoli degli animali, sono esseri abitudinari. Essi avvertono tranquillità e fiducia solo quando attorno a loro gli avvenimenti si svolgono sempre nel medesimo modo. I cambiamenti, specie se repentini e non adeguatamente preparati, li mettono in ansia e li caricano di paure che, agli occhi degli adulti, appaiono strane ed eccessive, mentre in realtà sono solo la logica conseguenza di comportamenti ed atteggiamenti non adeguati.
  •   Compie frequentemente su di lui o fa compiere senza vera necessità dagli altri (medici, terapisti, infermieri, puericultrici ecc.), azioni sgradevoli o dolorose.
  •   Vive il rapporto con il figlio con ansia e paura. Una madre ansiosa si allarma troppo spesso e inutilmente. Si allarma se qualche volta mangia poco, non mangia o mangia troppo. Si inquieta se all’ora consueta non fa, come dovrebbe, la sua “brava cacchina” o ne fa troppa. Ha paura che con il suo seno possa infettarlo e lava e striglia il capezzolo affinché sia perfettamente pulito e sterile, non tenendo conto del desiderio che ha il bambino di soddisfare la sua fame e la sua sete, ma anche di sentire il “sapore e l’odore vero” del corpo di lei. Si angoscia per i motivi più banali: a volte teme che il viso del figlio sia troppo rosso, altre volte che sia troppo pallido. Alcune volte ha paura nel vederlo “troppo sonnolento”, altre volte “troppo sveglio per essere “normale”. La mente inquieta di una madre ansiosa non riesce a distinguere correttamente il confine tra normalità e patologia, tra benessere e malattia, per cui coinvolge il bambino in visite, controlli, terapie e cure assolutamente inutili ma spesso controproducenti per il benessere psicologico suo e del neonato.
  •   Avverte il figlio come un estraneo capriccioso e incontentabile, difficile da capire e soprattutto impossibile da soddisfare. “Cos’altro devo fare per lui: l’ho allattato, l’ho pulito, l’ho cambiato e continua a strillare come un ossesso. Gli do il mio seno e sputa il capezzolo. Gli do il latte e strilla mentre sembra affogarsi. Più lo cullo e più si agita inquieto. No, questo non è un bambino: è un diavolo scatenato”.
  •   Al contrario di quanto abbiamo appena detto, può essere estremamente fredda e imperturbabile. Indifferente a tutto ciò che riguarda il figlio. Sorda ai suoi richiami, continua a leggere il libro che l’entusiasma; insiste a vedere alla tv il programma preferito; continua a chiacchierare con le amiche o con chiunque sia disposta ad ascoltarla. A questo tipo di madre importa poco che il figlio dorma o sia sveglio, sorrida o strilli, si agiti o ammiri tranquillo il mondo che lo circonda. Quando è costretta a dargli da mangiare o da bere, quando deve cullarlo per farlo addormentare, lo fa di malavoglia, come un dovere da adempiere, per evitare di essere disturbata troppo dai suoi strilli o di essere incolpata dalla suocera o dal marito di disinteressarsi del bambino. Il suo momento più felice è quando può depositare il figlio in mani altrui, non importa quali. Possono essere le mani del marito, quelle della madre o della suocera, quelle della baby sitter  o della tata. L’importante è che qualcuno le tolga quel peso e quell’incombenza, così che possa ritornare alle sue occupazioni preferite.
  •   È rigida nelle cure e nella soddisfazione dei bisogni del neonato: “Se il pediatra mi ha detto che devo allattarlo ogni quattro ore, è inutile che lui strilli: se non sono trascorse le quattro ore io il latte non glielo do”. “Il pediatra mi ha raccomandato di tenerlo ben coperto e quindi è inutile che lui scalci infastidito dal caldo, per cercare di togliersi le coperte che gli ho messo addosso; io continuerò a rimetterle”.
  •   Non è capace di leggere i bisogni del figlio, né riesce a comprendere gli oscuri misteri del pianto infantile, per cui non è coerente nei suoi atteggiamenti. Spesso, quando il bambino piange, la madre mette in pratica in maniera altalenante i consigli ricevuti, senza mai essere in grado di capire fino in fondo se ciò che sta facendo sia un bene oppure no, se i suoi comportamenti avranno degli effetti positivi o negativi.
  •   Ha notevoli difficoltà ad apprendere dagli errori, pertanto le indicazioni suggerite dagli atteggiamenti del figlio, ma anche quelle espresse dalle persone che la circondano o dai medici consultati, non modificano o modificano molto poco il suo errato comportamento.
  •   Si chiede ogni giorno: “Cosa ho fatto di male per essere nata donna e quindi dover accudire questo mostriciattolo chiamato bambino?”
  •   Vede la sua realizzazione in tutto ciò che fa o potrebbe fare, piuttosto che nei vissuti affettivi. Più si adopera più si sente capace e forte. Quando non si occupa di qualcosa si sente depressa, triste e spenta. Sente perduto irrimediabilmente il tempo trascorso ad occuparsi di cose “che tutte le donne sono capaci di fare”, proprio per la loro biologia femminile, come mettere al mondo un bambino, allattarlo, pulirlo, vezzeggiarlo. Queste azioni prettamente materne le giudica insulse, oltre che noiose ed indegne di una vera donna.

Se dovessimo sintetizzare, potremmo allora dire che una madre è “cattiva” quando non riesce, vuoi per i suoi limiti, vuoi per sue scelte, a soddisfare e vivere con gioia i bisogni fisici e psicoaffettivi del suo bambino. Pertanto la quantità, la durata e l’intensità delle frustrazioni che gli fa subire sono eccessive.

Da quanto abbiamo detto si può concludere che l’appagamento affettivo del neonato e del lattante non si misura, quindi, solo dalle generiche manifestazioni di simpatia o dalle parole amorose pronunciate nei suoi confronti. La soddisfazione affettiva è fatta di impegno nei confronti dei suoi bisogni fisici e psicologici, impegno continuativo e fattivo, espresso e attuato in un clima d’amore, di gioia, di serenità ed equilibrio[40].

Chi è la madre?

Tutti gli studiosi sono concordi nell’affermare che per la crescita serena di un bambino il rapporto con la madre è il più importante e fondamentale. Ma chi è la madre nei primi giorni e nei primi mesi di vita del nuovo essere umano? Come abbiamo detto, alla nascita il bambino non ha ancora la consapevolezza di qualcosa al di fuori di lui. Non ha ancora lo sviluppo del sé, né ha il concetto di una persona diversa da un’altra. Quando questo qualcosa al di fuori di lui comincia a formarsi e a concretizzarsi (la diade) tutto l’ambiente esterno assume il contorno di ciò che noi chiamiamo “madre”.

Pertanto la madre buona è fatta dal suo seno caldo da cui sgorga il nutrimento ma anche l’appagamento.

La madre buona è il suo ventre morbido e accogliente, sono le sue braccia che accolgono il bambino, lo cullano e lo confortano, quando l’angoscia l’attanaglia.

La madre buona è anche un ambiente pulito e luminoso nel quale non vi sono rumori eccessivi o improvvisi, né tanto meno grida irritate o scoppi di collera.

La madre buona è un papà che sa cullarlo e proteggerlo. Un padre che sa accarezzare il corpo del figlio con dolcezza, sa rendere serena e sicura la sua compagna della vita.

La madre buona è una nonna o un nonno che dolcemente si relaziona con lui, mentre nel contempo, dà consigli e insegna alla puerpera ma anche al nuovo padre, come soddisfare i bisogni del loro figlio, le sue necessità, i suoi desideri, ma anche come sopire i suoi timori e le sue inquietudini. Una madre buona è un nonno o una nonna che si impegna a far capire ai novelli genitori i significati del pianto, che sembra sempre uguale in ogni circostanza ma che a poco a poco si differenzia e quindi uguale non è.

Una madre buona è anche la sensazione che ha il bambino quando tra i genitori vi sono reciproco rispetto, benevolenza e disponibilità unita a una calda, serena intesa. Intesa che egli avverte dalle braccia rilassate e serene che l’accolgono, dal tono della loro voce, dall’attenzione che essi hanno tra di loro.

Allo stesso modo abbiamo il dovere di estendere il concetto di madre cattiva.

Una madre cattiva può avere anche l’aspetto di una nursery dove i bambini sono accuditi in maniera asettica e formale da personale “specializzato”, ma incapace di relazionarsi in maniera calda e accogliente con i piccoli ospiti, mentre alle madri e ai bambini viene sottratto quel momento magico e prezioso nel quale la loro unione, la loro vicinanza e il loro contatto, avrebbero dovuto portare ad un dialogo proficuo, ad una forte intesa e ad uno stretto legame. Legame indispensabile sia alle mamme sia ai bambini per instaurare ed iniziare bene un comune, proficuo cammino.

Una madre cattiva può essere un ambiente ospedaliero o di riabilitazione poco attento ai bisogni psicologici dei piccoli. Per Winnicott[41], in alcuni casi le offese sono attuate anche dai medici, dalle infermiere e dal personale che assiste il bambino nei giorni nei quali si trova in una struttura di ricovero. Questo personale, a volte, è più preoccupato della pulizia, della gestione e dell’organizzazione della struttura, che non delle emozioni e sentimenti che si agitano e vivono nell’animo dei loro piccoli ospiti.

Una madre cattiva può avere l’aspetto di un asilo nido dove il personale che si occupa dei bambini non ha le qualità, le capacità e l’amore materno, ma soprattutto non garantisce al bambino quel dialogo, quella continuità, stabilità e comunione che lui va cercando.

Una madre cattiva può essere anche un padre che teme di distogliere attenzione e tempo alle sue mille occupazioni, trascurando in tal modo i suoi compiti specifici di cura nei confronti del figlio.

Una madre cattiva può avere il volto di una nonna o di un nonno i quali, piuttosto che dare il proprio apporto e la propria vicinanza e assistenza ai genitori e al bambino, preferiscono impegnare il proprio tempo in altre occupazioni, privando il nipotino di quella molteplicità di apporti che avrebbero potuto e dovuto arricchirlo e soddisfarlo.

Una madre cattiva può avere l’aspetto di una famiglia o di due genitori nei quali imperversa la conflittualità, la freddezza, lo scontro e la lotta. Una famiglia nella quale gli atteggiamenti aggressivi, la violenza verbale e non, la diffidenza e l’intransigenza sono frequenti e usuali.

Ci sembra giusto quindi ampliare così come hanno fatto molti studiosi prima di noi: Sullivan, Fromm, Horney, Erikson, Haley, il concetto di madre, all’ambiente che circonda il bambino, in quanto è questo ambiente che, in molti casi, condiziona positivamente o negativamente il suo mondo interiore.

Per Lidz[42]:

“La famiglia, naturalmente, non è il solo fattore che influenza l’evoluzione del fanciullo. Tutte le società dipendono da altre istituzioni che, al di fuori della famiglia, provvedono al suo processo di acculturazione, e tale esigenza aumenta nella misura in cui la società diventa più complessa”.

Per tali motivi, ogni volta che un bambino viene danneggiato, dobbiamo sentircene tutti responsabili, individualmente e collettivamente, senza scaricare le colpe solo sulle spalle della madre o del padre. Il bambino cosiddetto “disturbato” non è soltanto il frutto di una madre o un padre con problemi, ma è anche la conseguenza di una società malata che direttamente o indirettamente agisce negativamente sui minori.

Dobbiamo, inoltre, necessariamente specificare che a differenza di noi adulti, il bambino piccolo non fa, almeno inizialmente, della madre buona o cattiva un problema etico o morale. Per il neonato i comportamenti di chi ha cura di lui sono una questione vitale. Se una madre è buona egli ha la possibilità di sopravvivere e crescere bene; se non lo è, vi è il grave rischio che possa essere danneggiato notevolmente nel suo sviluppo fisico e/o psichico.

Bisogna, inoltre, aggiungere che la stessa persona che cura il neonato, lo stesso gruppo familiare, lo stesso ambiente, possono essere buoni o cattivi a seconda delle circostanze o in momenti diversi. Buoni quando il loro comportamento è confacente ai bisogni del neonato, cattivi quando non lo è. Poiché, come dice Sullivan[43], la madre buona è simbolo di soddisfazione imminente, la madre cattiva è simbolo di malessere e di angoscia. Per tale motivo è naturale che il bambino instauri un maggior legame, intesa e disponibilità con la madre buona, mentre reagisce nei confronti della madre cattiva con più irritabilità, inquietudine, aggressività, scarso o modesto legame e dialogo se non con netta chiusura. Per questo motivo, se avverte che al suo richiamo arriva la madre con caratteristiche positive di disponibilità, affettuosità e tenerezza, egli si quieta, ma se arriva la madre “cattiva”, in quanto ansiosa, tesa, irritabile, disattenta o con scarsa disponibilità, egli continua a piangere e si accentua la sua inquietudine. Ciò innesca un circolo vizioso: più la madre trascura o non comprende le necessità del bambino, più il bambino risponde con irrequietezza, pianto, rifiuto dell’alimentazione, disturbi gastrointestinali, diminuzione delle difese immunitarie e quindi con più malattie. Tali malattie e disturbi, a sua volta, mettono in crisi la già scarsa pazienza di questi genitori e familiari, i quali risponderanno con maggiore ansia e nervosismo che si trasmetterà al bambino accentuando i sintomi di malessere.

Le varie tipologie materne.

Abbiamo parlato di madre buona e di madre cattiva. In realtà tra questi due estremi vi sono tutte quelle madri e tutti quegli ambienti familiari nei quali da una parte vi è per il bambino il massimo della gratificazione, del benessere e della serenità, mentre dal lato opposto vi è per lui il massimo della sofferenza e dell’ansia. Pertanto, tra una madre che potremmo dire molto buona e una molto cattiva non vi è una netta separazione, ma un continuum di atteggiamenti e quindi di tipologie “materne” nelle quali l’infante si ritrova a relazionarsi.

I giudizi sul bambino da parte della madre e dell’ambiente di vita

Così come il bambino individua dalle caratteristiche dell’ambiente se questo è adeguato o non ai suoi bisogni e alle sue esigenze, anche le persone che stanno accanto a lui: la madre, il padre, gli altri familiari e l’ambiente sociale nel quale egli vive, danno il proprio giudizio sul neonato e sul lattante, come avevano già dato una propria valutazione ancor prima che egli nascesse, sull’opportunità di questo evento.

Questi giudizi e queste valutazioni hanno dei tratti oggettivi ma hanno anche molti elementi soggettivi legati alle persone che si confrontano con il nuovo essere umano. E così come agli occhi del bambino vi può essere una madre buona o una cattiva, agli occhi dei genitori e degli altri familiari vi può essere un bambino facile o un bambino difficile, in definitiva un bambino buono o un bambino cattivo. Gli elementi che concorrono a designare agli occhi e al cuore delle persone che stanno accanto al piccolo essere umano, una maggiore o minore sottolineatura degli aspetti positivi o negativi e quindi una maggiore o minore accettazione, sono numerosissimi ma anche di difficile valutazione, non solo da parte di chi esamina il problema dall’esterno, ma anche e soprattutto da chi è coinvolto nella relazione.

Per Sullivan[44]: “La personificazione del bambino fatta dalla madre non è il bambino ma bensì un’organizzazione di esperienze in sviluppo che ha luogo nella madre e che comprende molti fattori il cui rapporto con il bambino reale è remotissimo”. Nella personificazione sono comprese caratteristiche di tipo genetico: vi sono neonati che accettano molto più di altri gli errori e le mancanze di attenzione della madre, mentre vi sono bambini che protestano e si arrabbiano per un nonnulla.

Accanto alle peculiarità che il bambino porta nei suoi geni, l’immagine che noi abbiamo del bambino è influenzata da molti altri elementi:

  •   vi è intanto la maggiore o minore desiderabilità dell’evento. Questo bambino è desiderato o no? E da chi è desiderato? Solo dalla madre, solo dal padre, da entrambi? È desiderato dai nonni? Oppure questi ultimi hanno il timore che questa gravidanza, che in qualche modo li coinvolge nell’aiuto e nell’assistenza alla madre e al piccolo, sia inopportuna? Ma anche la società, nel suo complesso, come vede la nascita di un nuovo essere umano? Come un nuovo problema da affrontare, in quanto già prima di nascere questo evento comporta impegni e spese per la comunità, oppure come un dono del quale la società civile può godere?
  •   il secondo elemento, altrettanto importante, è legato alle conseguenze immediate della sua presenza. La sua esistenza, a partire dai primi mesi o giorni della gravidanza, cosa ha provocato? Cosa ha modificato in senso positivo o negativo?

La descrizione di Anna è sintomatica di una buona accoglienza.

“Prima di attendere Mario ero nervosa e irritabile in quanto, fin da piccola, avevo paura di non poter avere dei bambini, ai quali invece tenevo molto. Nel momento in cui, invece, ho saputo di aspettarlo mi sono rasserenata, anzi ero così felice che mi sembrava di poter toccare il cielo con un dito. Anche lui, Giulio, mio marito, era contento e non sapeva cosa fare per farmi capire la sua gioia. Mai avevo avuto da lui tante attenzioni: mi coccolava, mi diceva che ero diventata più bella, più dolce, mi ha fatto subito un regalo importante. Ma anche i suoi genitori sono stati dolcissimi. Prima di sposarci e anche dopo, mi sentivo guardata da loro in modo strano, con sospetto. Come dire: “Vediamo chi è questa qua, vediamo cosa sa fare”. Nel momento in cui ho comunicato loro che aspettavo un bambino, che è stato poi il loro primo nipotino, sono cambiati radicalmente. Mi hanno cominciato a trattare come fossi una regina. Mia suocera mi portava quasi ogni giorno qualcosa di buono da mangiare che lei aveva preparato e hanno subito detto che ci tenevano a regalarci la culla e il passeggino. Per la prima volta nella mia vita ero al centro dell’attenzione di tutti, tranne che del principale del negozio dove lavoro. Ma non mi importava molto di lui! Stavo bene anche perché non ho avuto quei vomiti e quei disturbi di cui si lamentano tante donne.”

  Molto diversa la descrizione di Roberta:

 “Volevo un bambino a tutti i costi. Anche lui, mio marito, lo avrebbe voluto, ma non faceva nulla e non era disposto a fare nessun sacrificio per averlo. Ogni cosa che i medici ci dicevano di fare: esami, terapie, indagini, protestava. Quando poi ci hanno proposto l’inseminazione artificiale ed io ero d’accordo, mi ha presa per pazza. Sono riuscita a convincerlo e abbiamo provato più volte fino a quando sono rimasta incinta. Io ero contenta perché avevo raggiunto quanto desideravo, ma lui e anche i suoi mi facevano il muso. Non capivano che mi stavo sacrificando anche per loro.

Anche durante la gravidanza i problemi non sono mancati. Avevo paura di perdere la bambina e quindi il minimo accenno a qualcosa che non andava per il verso giusto, mi faceva correre dal ginecologo. Lui e anche i suoi mi accusavano di sperperare i soldi per le mie “fisime”. Abbiamo cominciato a litigare. Io lo incolpavo di non voler bene a me e la bambina che aspettavo. Lui mi accusava di essere una pazza nevrotica per aver fatto tutte quelle cose pur di rimanere incinta di Roberta. Avevamo comprato una casa e c’era da pagare il mutuo e lui mi ripeteva che sarebbe stata colpa mia se, non riuscendo a pagare la rata, avessimo perduto anche la casa. Insomma, un inferno che ha raggiunto il culmine quando ho scoperto, dai numerosissimi messaggini del suo telefonino, che mi tradiva con una ragazza molto più giovane di me. Capisce? Mentre io mi sacrificavo nel fare terapie ed esami per rimanere incinta, lui stava con una ragazza che aveva conosciuta al lavoro e di cui era innamoratissimo. Almeno così sembrava dai vari SMS”.

  •   le considerazioni sul bambino si accentuano già dopo il parto. Questo evento è stato facile, difficile o chiaramente patologico, per cui sono stati necessari interventi dolorosi e penosi che hanno provocato nella madre ma anche nel padre e nei familiari emozioni negative? La madre ha sofferto di depressione post partum oppure no? E complessivamente quanto hanno inciso sui genitori ed i familiari il dolore, la sofferenza e la paura e quanto la gratificazione e la gioia?
  •   al desiderio o non di avere un bambino, ai problemi vissuti durante la gravidanza, ai rapporti che si sono modificati o non dopo l’inizio di questo evento o anche prima, bisogna aggiungere le attese nei riguardi del sesso. Il nascituro ha il sesso desiderato da uno degli elementi della coppia, da entrambi, o da nessuno dei due? Ha il sesso che i nonni attendevano oppure no?
  •   sul giudizio dei familiari, ma soprattutto della madre assume, inoltre, molta importanza la facilità o la difficoltà di governo e di cura del bambino. Il bambino facile acquista rapidamente le abitudini regolari di sonno, veglia, alimentazione; si adatta facilmente alle abitudini e agli orari e alle necessità dei genitori e della famiglia; piange poco, accetta i nuovi alimenti che gli sono proposti e aumenta regolarmente il suo peso; non si sporca in continuazione. Il bambino difficile, invece, si alimenta male, piange frequentemente, non aumenta di peso come dovrebbe; i suoi momenti di sonno e di veglia non coincidono con le esigenze e le abitudini dei genitori; ha la necessità di essere pulito e cambiato continuamente, perché si sporca facilmente. Accanto al bambino facile e al bambino difficile, vi è purtroppo anche il bambino problematico. La presenza di una malattia o di una disabilità complica ancor più l’immagine che di lui hanno i genitori, con possibili sentimenti di incapacità, delusione, rabbia, colpa e/o accuse reciproche;
  •   sul giudizio dei genitori e dei familiari incide poi l’aspetto esteriore del neonato. Stimolano sentimenti, riflessioni ed emozioni: il suo peso alla nascita, il colore dei capelli e della pelle, i tratti del viso, i particolari del corpo. Intanto vi è il gioco, che non è proprio un gioco in quanto le sue conseguenze possono essere rilevanti, sulle sue somiglianze: “Somiglia a mio marito che amo o a mia suocera che non sopporto?” “Somiglia al bambino che avevo sempre immaginato oppure è molto diverso, addirittura è l’opposto a quello sognato?” “È un bambino giudicato bello dagli altri, oppure le persone che vengono a farmi visita lo guardano con mal celato disappunto?” Per Debray e Belot[45]: “L’appropriarsi del neonato da parte del padre e della madre è generalmente facilitato se l’uno o l’altro si possono riconoscere nella sua apparenza fisica. Poter trovare somiglianze con se stessi o con i propri congiunti riduce il sentimento di estraneità e integra il nuovo venuto in seno alla famiglia allargata”. Queste ed altre mille domande non sono ininfluenti nel momento in cui si instaurano i primi rapporti con il figlio. Le conseguenze possono essere notevoli. Poiché, spesso, noi troviamo negli altri quello che cerchiamo, se pensiamo che quel bambino che abbiamo in braccio debba essere buono come suo padre, quel bambino sarà buono come il padre. Ma se immaginiamo che debba essere una “peste” come il nonno, la nonna o lo zio al quale somiglia, egli con molte probabilità ci apparirà, e forse lo diventerà veramente, un bambino “pestifero”. Sarà il bambino cattivo che “non mi fa dormire nelle ore in cui sono abituata a riposare”. Sarà il bambino che provoca problemi: “Non si attacca bene al seno e mi costringe a usare il fastidioso tiralatte”. Sarà il bambino aggressivo: “Gioca a graffiarmi e farmi male, mordendomi i capezzoli”. Sarà il bambino capace di generare ansia perché ”non aumenta di peso e vomita quanto ingerito”. In seguito sarà il bambino capriccioso che “piange continuamente e continuamente si ammala e mi costringe a rinunziare a tutti i piccoli piaceri della vita”.

Da quanto abbiamo detto si può dedurre facilmente che così come per il bambino vi sono una madre molto buona e una molto cattiva e tra queste due categorie vi sono tutti gli altri tipi di madri, il giudizio sul bambino potrà oscillare tra un bambino molto buono e uno molto cattivo e tra questi due estremi vi potranno essere molti altri giudizi intermedi. Se nei confronti del bambino buono i genitori si sentono gratificati e soddisfatti, lo stesso non avviene nei confronti del bambino cattivo, difficile o problematico verso il quale essi possono avvertire risentimento, aggressività, sensi di colpa, ma anche sentimenti di impotenza.

 I giudizi su se stessi

Altrettanto importante è il modo con il quale i genitori ed il bambino giudicano se stessi. Il giudizio di sé nasce dalla relazione e condiziona la relazione stessa. “Se io, madre, non riesco a tranquillizzare il bambino sarà per colpa sua o per colpa mia?” Lo stesso potrà dire il bambino: “Se io faccio disperare la mamma, può darsi che sia per colpa sua ma può darsi che sia colpa mia, perché io, come a volte lei dice, sono un bambino monello e cattivo”.

Gli effetti di una valutazione positiva di se stessi li conosciamo bene: “Se io sono bello, buono e bravo, sicuramente rendo contenti mamma e papà, gli altri familiari, e tutti quelli che si avvicinano a me e, quindi, io valgo molto”. Una buona valutazione di sé rafforza l’Io, stimola la maturazione, fortifica il piacere del rapporto e della collaborazione con gli altri, aumenta la sensazione di serenità, calma e pace interiore. Inoltre migliorano le capacità e la disponibilità verso tutti gli apprendimenti: linguaggio, motilità, autonomia ecc.

Se invece vi è una valutazione negativa di se stessi, è come se il bambino dicesse: “Io sono uno che fa soffrire, sono cattivo, sono brutto, valgo poco, per cui non sono uno da stimare, non sono uno d’amare e da avvicinare ma da allontanare”. In questi casi la sofferenza che il bambino immagina di trasmettere agli altri, si rivolge come in uno specchio verso se stesso. Aumentano l’ansia, la paura degli altri e del mondo; aumenta la chiusura, diminuiscono le capacità relazionali, si altera il rapporto con la realtà, peggiorano le capacità di apprendimento.



[1] Klein M., (1969), Invidia e gratitudine, Firenze, G. Martinelli Editore, p. 13.

[2] De Negri M. et al., (1970), Neuropsichiatria infantile, Genova, Fratelli Bozzi Editori, p. 126.

[3] De Negri M. et al., (1970), Neuropsichiatria infantile, Genova, Fratelli Bozzi Editori, p. 127.

[4] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 58.

[5] Ferraris  A. O., (2006), “Il ricatto della pappa”, Mente e cervello, n. 19, gennaio – febbraio, p. 40.

[6] Klein M., (1969), Invidia e gratitudine, Firenze, G. Martinelli Editore, pp. 13-14.

[7] Klein M., (1969), Invidia e gratitudine, Firenze, G. Martinelli Editore, p. 14.

[8] Isaacs S., (1995), La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anniFigli e genitori, Roma, Newton, p. 32.

[9] Isaacs S., (1995), La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anniFigli e genitori, Roma, Newton, p. 33.

[10] Winnicott D.W., (1973), Il bambino e la famiglia, Firenze, Giunti e Barbera, p. 156.

[11] Isaacs S., (1995), La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anniFigli e genitori, Roma, Newton, p. 40.

[12] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 50.

[13] Ackerman N.W., (1970), Psicodinamica della vita familiare, Torino, Boringhieri, p. 69.

[14] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 18.

[15] Winnicott D.W., (1987), I bambini e le loro madri, Milano, Cortina Raffaello, p. 93.

 

[16] Bartolo G.V., (2003), “L’amore che fa crescere il figlio”, Famiglia oggi, p. 27.

[17] Arieti S., (1970), Manuale di psichiatria, Torino, Boringhieri, p. 2116.

[18] Ackerman N.W., (1970), Psicodinamica della vita familiare, Torino, Boringhieri, p. 102.

[19] Winnicott D.W., (1987), I bambini e le loro madri, Milano, Cortina Raffaello, p. 18.

[20] Morin, E., (2001), I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 98.

[21] Fornaro M., (2010), “L’empatia e le sue basi neurologiche”, Psicologia contemporanea, settembre-ottobre, p. 10.

 

[22] Lidz T., (1977), Famiglia e problemi di adattamento, Torino, Editore Boringhieri, p.105.

 

[23] Sarchielli, G., (2010), “Diventare superwoman- Una trappola sociale”, Psicologia contemporanea, settembre-ottobre, p. 68.

[24] Sarchielli, G.,     (2010), “Diventare superwoman- Una trappola sociale”, Psicologia contemporanea, settembre-ottobre, p. 69.

 

[25] Lidz T., (1977), Famiglia e problemi di adattamento, Torino, Editore Boringhieri, p.115.

[26] Winnicott D.W., (1973), Il bambino e la famiglia, Firenze, Giunti e Barbera, p. 7.

 

[27] Sullivan H.S.,     (1962), Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, p. 22.

[28] De Negri M. et al., (1970), Neuropsichiatria infantile, Genova, Fratelli Bozzi Editori, p. 127.

[29] Klein M., (1969), Invidia e gratitudine, Firenze, G. Martinelli Editore, p. 15.

[30] Ackerman N.W., (1970), Psicodinamica della vita familiare, Torino, Boringhieri, p. 101.

[31] Winnicott D.W., (1987), I bambini e le loro madri, Milano, Cortina Raffaello, p. 93.

[32] Sullivan H.S.,     (1962), Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, p. 58.

[33] Winnicott D.W., (1973), Il bambino e il mondo esterno, Firenze, Giunti e Barbera, p. 143.

 

[34] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, 109.

 

[35] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 55.

[36] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 51.

[37] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 52.

[38] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 52.

[39] Wolff S., (1969), Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando – Armando Editore, p. 8.

 

[40] De Negri M. et al., (1970), Neuropsichiatria infantile, Genova, Fratelli Bozzi Editori, p. 143.

 

[41] Winnicott D.W., (1987), I bambini e le loro madri, Milano, Cortina Raffaello, p. 75.

[42] Lidz T., (1977), Famiglia e problemi di adattamento, Torino, Editore Boringhieri, p. 28.

 

[43] Sullivan H.S.,     (1962), Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, p. 110.

 

[44] Sullivan H.S.,     (1962), Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, p. 135.

 

[45] Debray R. e Belot, A., (2009), Psicosomatica della prima infanzia, Roma, Casa editrice Astrolabio, p. 36.

 

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