LA CONSULENZA ALLA COPPIA E ALLA FAMIGLIA

 

LA CONSULENZA ALLA COPPIA e ALLA FAMIGLIA

Relazione tenuta al Seminario del Corso Scuola C.I.S. Centro Italiano Sessuologia (Bologna- Castel San Pietro) 18/04/1998

Autrice: Gabriela Moschioni

 

La problematicità incontrata dal sistema famiglia, nella normalità del suo vivere quotidiano, è cosa ormai indiscussa. Sempre più spesso, ciascun membro o la famiglia nella sua interezza, non riuscendo ad intravedere le proprie risorse interne, e quindi ad attivare quelle abilità che le sono proprie, non solo va incontro a delle difficoltà contingenti e temporanee, ma anche a quelle crisi che, per eccessiva durata ed intensità, sono in grado di compromettere, paralizzare o arrestare, sia nel presente che nel futuro, il suo ciclo di vita familiare nonché quello dei suoi singoli componenti.

Il processo di sviluppo che accompagna e coinvolge la famiglia fin dal momento della sua costituzione, impone alla stessa infiniti cambiamenti che mirano a stabilire, o ristabilire, un preciso e personale equilibrio interno (adattamento), attraverso l’attivazione di nuovi processi cognitivi ed affettivi che, interagendo con i fattori interni all’individuo e con la rete di relazioni di cui egli è parte, gli permettono di affrontare la riattivazione, ad un livello di maggiore complessità, dei conflitti già superati in passato, ma anche di evolvere verso una singolare ristrutturazione che risulta essere più consona alla nuova situazione realmente in atto. L’energia psichica utile ad un tale processo, ha una portata non indifferente rispetto all’intero funzionamento  della persona, poiché, se da prima, ne induce una disorganizzazione a livello di struttura personale e relazionale (con relativa perdita dei precedenti punti di riferimento), poi, ne rivitalizza le risorse affinché possa sorgere un nuovo modello di organizzazione che pone fine al conflitto.

 

 

 

Così come esperienze di angoscia e di dolore accompagnano ciascuna crisi che scandisce il ciclo di vita dell’individuo e quello della vita di coppia (tra i due vi è uno stretto rapporto di interferenza/interazione), allo stesso modo è possibile affermare che compiti di sviluppo personali (attinenti alla realizzazione e affermazione di sé come Persona) si inseriscono e interagiscono con i compiti di sviluppo di coppia e familiari e, solo dal soddisfacimento sia degli uni che degli altri, si giunge alla soluzione della crisi nonché della relativa sofferenza sottesa. In caso contrario, il persistere dell’evento critico, e quindi dell’alto costo di energia psichica investita per il funzionamento dell’individuo, secondo lunghi periodi di tempo, determina una cronicità che approda alla patologia.

 

Quando l’incertezza, l’inadeguatezza, l’ambivalenza affettiva non trovano una risoluzione personale, diventano occasioni per un nuovo e più elaborato conflitto che si estende fino a coinvolge il partner: il conflitto da personale, esternalizzandosi, diviene interpersonale (la prole, laddove è presente, non solo non è “immune” al conflitto ma è tacitamente “minacciata” dallo stesso, nel suo sano procedere evolutivo). Dunque, modalità soggettive e personali, e l’incapacità di offrire l’aiuto richiesto dal proprio partner, provocano un arresto evolutivo della coppia e dei suoi singoli membri: una ristrutturazione personale più integrata ed articolata cede il passo ad una più generale e superficiale, l’immagine reale dell’altro viene eclissata dall’invadenza dell’immagine ideale, e la disponibilità, nonché la capacità di ciascuno ad assumersi delle responsabilità viene sempre più affievolendosi.

In risposta ai bisogni reali della famiglia, colta nella sua complessa rete di relazioni, anche quando la richiesta si fa singola, il Consultorio familiare si pone, oggi, come l’unica struttura esistente in Italia che è in grado di offrire, a chi vi si rivolge, quel singolare tipo di aiuto e di sostegno che mira a riconoscere e valorizzare l’unicità e l’unitarietà della Persona, proprio a partire dalla ricomposizione dei suoi bisogni parziali, dalla frammentarietà delle domande in vista di una riorganizzazione, promozione o mantenimento di più equilibrati rapporti interpersonali e familiari.

A questo punto è doveroso e corretto affermare che, anche questa modalità d’azione, ha dei limiti nel suo procedere;  infatti, le competenze plurispecialistiche e la metodologia operativa d’équipe, proprie della struttura consultoriale, non sempre sono in grado di soddisfare le richieste dell’utenza. Nell’eventualità di verifica di questa evenienza, il rimando ad altre specifiche competenze s’impone ma, solo dopo che, il cliente stesso ha preso consapevolezza che abbisogna di un intervento singolare e più adeguato.

 

 

 

CONSULENZA FAMILIARE

 

La consulenza familiare è il servizio offerto dalla struttura consultoriale alla famiglia in crisi affinché questa, portatrice del bisogno, con la minor sofferenza possibile sia in grado di affrontare e superare (là dove è possibile) la crisi, o nel peggiore dei casi, limitare i danni causati dal conflitto stesso sui suoi membri più giovani. Questo tipo di consulenza non è fondato su una risorsa patologica, bensì sulla “normalità” duramente messa alla prova da disfunzioni relazionali ed esistenziali, dalla sofferenza e dalla angoscia di vivere.

Facendo riferimento a quanto l’O.M.S. definisce essere la sanità della persona (concetto complesso ed articolato, la cui risultante è più della somma dello stato di salute goduto dai singoli membri della famiglia, poiché si tiene conto sia delle relazioni che della interdipendenza esistente fra gli stati di salute fisica e mentale degli individui conviventi), risulta lecito affermare che, la consulenza familiare agisce proprio in sintonia con quest’ottica.

 

Ripercorrendo brevemente l’iter legislativo italiano relativo dall’istituzione della struttura consultoriale, di cui è possibile individuare il suo primo motore nell’idea di creare un servizio unificato a favore del soggetto ‘famiglia’ attraverso una zonizzazione del territorio (per favorire una maggiore fruizione del servizio) nella prospettiva di unificare i servizi socio-sanitari, si mette in evidenza come la realtà consultoriale attuale si sia lentamente, ma profondamente modificata ed affinata rispetto a quella dei suoi albori riscontrabili nel 1975 (405/75 Nazionale Istitutiva dei Consultori; 44/76 Regione Lombardia; 76/78 Leggi e Regolamenti Regionali; 194/78 – art.2 Tutela maternità).

Non si può ignorare che, purtroppo, non tutti i servizi socio-sanitari del territorio nazionale hanno recepito lo spirito del legislatore e molti consultori del servizio pubblico hanno riprodotto lo schema sanitario materno – infantile enfatizzandone l’aspetto sanitario.

Il Consultorio è il luogo in cui la persona, la coppia, la famiglia trovano un aiuto specializzato alla risoluzione dei propri problemi in un clima di rispetto e di profonda simpatia umana, poiché è il luogo in cui la persona viene accolta nella globalità dei suoi aspetti, nella situazione concreta del suo vissuto e con un atteggiamento di estrema fiducia nelle sue risorse.

Ritornando alla consulenza familiare, quale uno degli specifici interventi a favore della famiglia offerti dalla struttura consultoriale, così come ogni altro intervento specialistico, anch’essa si avvale di una propria metodologia d’ intervento.

La non direttività, la professionalità, la globalità o meglio l’interdisciplinarità e la relazione, sono i punti cardine della metodologia della consulenza.

Con il concetto di non direttività s’intende riconoscere e garantire il rispetto della Persona (ivi incluse le sue convinzioni etiche), nonché l’esclusione di qualsiasi tipo di pressione da parte del consulente nei confronti del cliente; la professionalità dell’operatore non è considerata qualcosa di acquisito, una volta per tutte con il rilascio del diploma, ma deve continuamente essere aggiornata ed affinata nel tempo (formazione permanente), poiché, è sulla professionalità dell’operatore che viene riposta la fiducia del cliente nell’atto di porre la sua richiesta d’aiuto e, risulterebbe contraddittorio e scorretto, parlare di ‘rispetto della persona’, ‘di fiducia nelle sue risorse e nella sua intrinseca capacità di mobilitarle’, senza tuttavia corrispondere a quest’ultimo, quella stessa fiducia che egli ripone nell’operatore, e che, da parte dell’operatore, parte proprio dalla “padronanza” di una rigorosa professionalità.

La globalità nell’affrontare i casi e la pluridisciplinarità, intesa come collaborazione collegiale che permette al professionista di porsi nelle diverse angolazioni di lettura, vanno a rinforzare e ad inverare il concetto di ricchezza della persona ove, quindi, trovano accoglienza, nel contempo, le molteplici valenze umane (fisiche, sessuali, emotive, effettive, sociali, relazionali, etiche e morali) che necessitano di essere tenute tutte in considerazione, se si ha intenzione di offrire una sintonica e armonica consulenza. Ciò richiede agli operatori qualità importanti, quali l’umiltà e la professionalità, non la competizione e la rivalsa, poiché insieme debbono essere in grado di integrare i singoli contributi scientifici, in vista del superamento dei limiti e degli ostacoli di ciascuna professione.

Per ultimo, non certo per importanza, la relazione che si instaura tra consulente e cliente, ha una connotazione di aiuto alla Persona (così come è stata intesa poc’anzi), nella prospettiva di ricerca dei propri valori e delle proprie risorse, perché sia la persona stessa a riconoscersi (capire i suoi reali problemi) e a collocarsi nella sua realtà concreta, ma soprattutto sia libera di compiere le proprie scelte con maturità, e quindi con responsabilità; ossia, sia in grado di autodeterminarsi.

Entrando nello specifico, la figura professionale del consulente familiare che, per certi aspetti non è ancora entrata nella normativa, anche se è molto presente nell’immaginario – mass media, barzellette – è così delineabile: l’operatore sociale è colui che professionalmente con metodologie specifiche aiuta i singoli, la coppia e il nucleo familiare nelle dinamiche relazionali a mobilitare le risorse interne ed esterne per le soluzioni possibili, integrando, ove occorre, la sua opera con interventi specialistici. Aspetta quindi al consulente familiare: accogliere la persona creando una certa sintonia personale che si esplica nel mettere a proprio agio la persona, mettersi in relazione con il cliente, ascoltarlo, dargli sicurezza nell’hic et nunc senza mai dimenticare che il problema è l’altro e non l’operatore; accogliere la domanda nel suo aspetto razionale e cognitivo, mediato da una sollecitazione affettiva e guidato dall’intelligenza del cuore (che non è – va dove ti porta il cuore -), cercando, non solo di riconoscere e di non sottacere la richiesta/domanda immediata – prima domanda – ma anche di capire il bisogno reale sottinteso che si esprime attraverso la metacomunicazione e la comprensione più profonda, senza tuttavia affibbiare alla persona i problemi che sono nella mente e nella logica del consulente, sono i compiti specifici di questa professione.

Condividendo pienamente il pensiero rogersiano che “l’amore non guarisce, la relazione sì”, risulta fondamentale per il consulente, lo sviluppo della capacità di ascoltare le emozioni, i sentimenti, i problemi e i limiti, con le orecchie, con gli occhi, con l’intelligenza e con il cuore (relativamente a tre diversi referenti: l’utente, sé stesso e l’équipe), poiché solo ciò, gli permette sia di mettersi in relazione con il cliente, senza appesantirlo con delle problematiche non sue, sia di intraprendere una relazione pulita, cioè priva di preconcetti, soluzioni prefabbricate, pregiudizi, per essere uomini fra gli uomini e, non solo, uno specialista ‘esperto’.

L’approccio all’utente, da parte del consulente familiare, segue gli orientamenti indicati dalla scuola non direttiva di Karl Rogers che, operando una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito terapico (pone l’utente al centro della relazione d’aiuto), e ritenendo imprescindibile, al fine di vivere a fondo, positivamente e autenticamente, il rapporto con la persona in consultazione, porre incondizionatamente e a priori fiducia nelle possibilità del cliente, nella possibilità e necessità di sviluppo dell’empatia, quali premesse ad una partecipazione affettiva e consapevole del rapporto, si fa forte l’idea che la consulenza sia un’esperienza di vita, dalla quale la persona ne esce rinvigorita. A questo punto, è chiaro che un  simile lavoro di consulenza, escluda a priori qualsiasi tecnicismo che cerca asetticamente di formulare una diagnosi sulla base dei sintomi e delle richieste, più o meno nevrotiche, presentate dal cliente, o meglio, intenda sì, formulare una diagnosi, ma nell’accezione del termine così come è stato inteso dal Menninger, ossia che, fare una diagnosi, non debba limitatamente significare la pura classificazione del disagio, bensì la comprensione della persona che vive lo stato di disagio, per poi arrivare a decidere quali interventi risultino atti a modificarlo. Se diagnosticare, equivale ad identificare e conoscere qualcosa della persona in funzione dell’aiuto di cui può avere bisogno, nell’ambito della consulenza, ciò, operativamente, delimita il campo d’indagine del consulente al censimento dei bisogni dell’utente (vissuti sempre diversi rispetto all’esperienza del consulente), e non alla ricerca dei suoi problemi.

Tra i bisogni dell’utente, rientra anche il suo particolare modo di percepire il problema e la possibilità di essere aiutato (l’indicazione circa l’intervento da intraprendere, deve tener conto anche di tale vissuto) ma, il parlare esclusivamente dei problemi mette l’accento su ciò che nel cliente non funziona e alza le possibilità di rischio circa l’eventualità di  trascurare le risorse, le qualità positive, la disponibilità a vivere esperienze di piacere e la capacità di fare qualcosa per se stesso, escludendo i punti di forza della sua personalità nonché gli stimoli presenti nell’ambiente. La ‘diagnosi’ centrata sui bisogni e sui desideri, considerando anche gli attributi ‘sani’ della persona e le sue valenze positive, che devono essere valorizzate e mobilitate, si prefigge, come meta ultima, l’attivazione, nella sola persona del cliente, di quelle abilità utili a maturare delle proprie scelte in sintonia con le risorse, idee e concetto di felicità personale posseduto.

E’ inevitabile che il rapporto di consulenza parta dal problema più urgente, dal motivo che ha spinto – magari confusamente – la persona a chiedere aiuto (prima domanda) ma, se l’attenzione del consulente familiare non si concentra solo sugli aspetti negativi della persona, e se il consulente è capace di considerare il cliente nel suo potenziale di evoluzione e di crescita, allora, sarà capace di far cosciente la persona che richiede l’aiuto, della propria intrinseca capacità di gestire il disagio e di attingere alle proprie energie per risolvere i suoi problemi.

Nel counseling, anche tecniche di sostegno sono utilizzate con l’obiettivo di ricostruire o stabilizzare il funzionamento della persona, modificandone gli aspetti meno adeguati e rafforzando quelli più positivi ed adattativi.

L’approccio messo in atto è quello dell’incontro da persona a persona, senza collusioni, senza complicazioni, senza false compassioni, senza amichevoli profferte, senza sostituirsi all’altro nel prendere le decisioni, senza altri incoraggiamenti se non quello di non aver paura di guardare senza se stessi e di continuare a cercare, di continuare a comunicare, a sperimentare – utente e consulente – nella relazione, senza rimproverarsi di fronte a tentativi falliti, senza spazientirsi, offrendo soltanto l’incondizionato appoggio di una solidarietà basata sulla comprensione e sulla autenticità del rapporto di consulenza.

Da ultimo è utile ricordare che, nel counseling, i risultati e i loro tempi di espressione, risultano essere abbastanza brevi e in proporzione: al grado di accettazione, congruenza e conoscenza di sé del consulente; alla brevità ed alla essenzialità emotiva degli interventi del consulente; alla capacità del consulente di non dare consigli, né giudizi, né interpretazioni, e alla capacità del consulente di provare e di esprimere autentico calore ed empatia.

Il vantaggio di questo approccio, in relazione ai costi – benefici, consiste nell’apprendimento, da parte del cliente della capacità di gestire qui ed ora, e nel futuro, le proprie risorse, perché all’insorgere di altri momenti di crisi, difficilmente abbia ancora bisogno dell’aiuto del consulente.

 

La consulenza alla coppia

 

 

Partendo dal presupposto che la coppia, fin dal suo primo costituirsi intraprende un proprio cammino evolutivo che trova il suo termine ultimo solo con l’estinzione della stessa, è possibile individuare lungo questa ‘normale’ linea di sviluppo, quali potrebbero essere le problematiche che più mettono in crisi, paralizzano o ostacolano la sua crescita.

Le problematiche più ricorrenti ed emergenti con una maggiore frequenza ai giorni nostri, sono individuabili: nelle difficoltà di ordine sessuale; nella difficoltà a vivere serenamente il rapporto fisico; nella immaturità e nelle disarmonie dei singoli che si evidenziano sia nel momento in cui la coppia si sta strutturando, sia nel momento in cui la stessa dovrebbe entrare in intimità profonda; nella difficoltà ad interagire o per un’apparente difficoltà sul piano dei caratteri, o per immaturità di rapporto con le figure parentali che, inconsapevolmente, si ribaltano sulla figura del partner sia per problemi di identificazione irrisolti nella famiglia d’origine, con conseguenti richieste di risarcimento al partner che spesso ha lo stesso problema, sia per la differente educazione ricevuta e non elaborata; nella difficoltà creata dai pregiudizi posseduti e resistenti, circa la diversa concezione del ruolo maschile e femminile all’interno della coppia e nel diverso iter evolutivo maturato da ciascuno dopo il matrimonio; nella difficoltà di adattamento socioculturale o di realizzazione personale, con relativa richiesta di accoglienza e consolazione nell’ambito familiare saldamente chiuso e ripiegato verso il suo interno; nella difficoltà emergente dalla perdita d’interesse per il partner; nelle difficoltà economiche, di lavoro, di abitazione che, sorgendo all’improvviso, esasperano i normali conflitti evolutivi; nella eccessiva richiesta di gratificazione in risposta a gravi frustrazioni subite nell’ambiente esterno; nelle difficoltà derivanti da concezioni etiche e morali confusamente percepite e malamente espresse; e nelle difficoltà sollevate dai possibili problemi inerenti ai figli che, con tutta la loro impellenza, ripropongono i problemi irrisolti nella coppia, dalla coppia stessa.

Tutte queste problematiche, possono essere espresse e comunicate al consulente, con modalità differenti a seconda della persona che le percepisce. Le più ricorrenti sono: l’accusa e l’elencazione ripetitiva dei torti, delle mancanze, delle colpe sia del partner, sia della sua famiglia, che delle circostanze; l’esplicitazione di accuse forti nel tentativo di istigare il consulente a prendere le difese di sé, nei confronti dell’altro della coppia. L’uso della politica del ‘non provo niente’; l’accettazione e l’abbandono passivo di sé al conflitto; la verbalizzazione della volontà di richiedere la separazione; la denuncia di tradimenti veri o immaginari da parte del partner poiché, risulta più facile ed emotivamente meno costoso.

Si accetta l’abbandono, il tradimento e la sconfitta, piuttosto che rendersi conto di essere concausa e causa della disaffezione del partner, di essere parte integrante di una entità ‘coppia’ che ha dei problemi e di avere problemi personali non risolti.

La metodologia utilizzata nella consultazione di coppia in ambito consultoriale, si rifà al paradigma non direttivo e all’atteggiamento empatico necessari a qualunque relazione che si propone di essere d’aiuto. Il consulente costantemente fa  attenzione non solo al fatto che, a priori, il suo interesse venga equamente distribuito sulle due persone attraverso l’accoglienza, l’espressività, lo sguardo, ma anche a tutto ciò che emerge dalla metacomunicazione (come si presentano; come si interpellano; come si chiamano/non si chiamano l’un l’altro; come si guardano o, più spesso, come non si guardano; come si siedono; chi tra i due prende la parola e chi la concede per poi riprendersela; chi fa credere di non avere potere all’interno della coppia e convince, in qualche modo, l’altro di averlo; e le espressioni di ansia e di paura di ciascuno). Il setting, prima ancora che lo scambio verbale tra i due abbia inizio, fornisce al consulente una serie di informazioni e sensazioni estremamente importanti al lavoro di consulenza con la coppia.

Questo ruolo di osservazione assunto dal consulente, ed il potere che esso gli conferisce, resta presente nel corso del colloquio e l’operatore, ha la possibilità di aiutare, incoraggiare, distrarre l’attenzione dall’uno all’altro, qualora si accorga che le emozioni, le ripetizioni, le sopraffazioni verbali e non, bloccano e appesantiscono eccessivamente la comunicazione. Capire e rendersi conto del perché le emozioni o le sofferenze che emergono dal colloquio disturbano troppo le proprie emozioni (del consulente) e quando il ‘potere’, or ora accennato, viene utilizzato con funzione difensiva dal consulente familiare nei confronti dei propri interlocutori, risulta essere di fondamentale importanza ai fini di una buona consulenza. Condurre e gestire un colloquio congiunto senza arrecare ulteriori danni ai propri clienti, nonché a se stesso, richiede al consulente una precisa ed accurata formazione a monte, che gli permetta di venire a conoscenza e di utilizzare, validi parametri di lettura e non rigide immagini di coppia sclerotizzate, o ancora, inflessibili modelli di riferimento. Infatti, una costante riflessione del consulente su se stesso e sulle modalità di comunicazione di coppia, aumenta ed acuisce il bisogno di conoscere e di capire i propri moti di contro-transfert, sia nei confronti di ciascuno dei due componenti della coppia, sia nei riguardi del ‘Noi’ della coppia che gli sta davanti, ed aumenta l’obbligo di avere chiarito le proprie appartenenze sociali, le sue solidarietà di gruppo, la sua etica, le sue emozioni e i suoi bisogni che spesso rimangono latenti, ma che si liberano in questo particolare ambito del colloquio congiunto nel gruppo-coppia e arrivano a coinvolgere, non solo il rapporto io-tu consulente-utente, ma anche a scatenare dinamiche di offesa/difesa, che spesso, possono indurre il consulente familiare a ‘difendersi’ anziché essere centrato sulla relazione.

Dunque, il lavoro del consulente familiare lo obbliga a venir a conoscenza del proprio vissuto in rapporto alla sua dimensione di coppia e di famiglia, e lo porta ad usare quanto ha studiato ed appreso, e che va studiando ed apprendendo, fuori da modelli rigidi, senza mai chiedersi che coppia gli stia davanti, poiché esiste una sola risposta: è questa coppia.

Fatte salve queste premesse di attenzione – formazione personale, nel colloquio con la coppia, il consulente non può limitarsi ad un atteggiamento relativamente “passivo” perché esso condurrebbe a lasciar fare alla coppia e, quindi, al rinforzo/mantenimento di quello status quo che blocca i rapporti di forza tra i partner (ragione che li ha spinti a chiedere un aiuto al consulente).

In una prima fase del colloquio, o più precisamente quando il colloquio ha inizio, tra i partner comincia a svilupparsi una certa tensione emotiva che, invece di permettere loro di comunicare chiaramente, ciascuno dei due, arroccato sulla propria posizione, formula delle accuse o porta delle giustificazioni all’altro che non gli servono né per capire, né per farsi capire. In questa fase, si verificano continui mutamenti nel livello comunicativo e la capacità metacomunicativa dell’individuo è assente o imbrogliata; se il consulente permette che l’incontro si sviluppi con queste modalità, otterrà semplicemente un riprodursi di un “scena” usuale, che non porta ad alcuna novità alla dinamica della coppia, ma, se permette ai due protagonisti di comunicare, invece rende loro un diverso servizio.

L’atteggiamento del consulente familiare quando lavora con la coppia (perché il suo lavoro risulti essere fecondo), è molto più attivo rispetto a quando lavora con l’individuo, infatti: egli può riprendere la parola e concederla, quando e a chi ne bisogna; deve “salvaguardare” l’area della discussione da inutili e fuorvianti argomentazioni, o dalle molte connotazioni proposte anzitempo, limitando così l’area del dialogo a uno degli aspetti percepiti e scelti tra quanto viene esposto; deve, una volta scelto il tema (non troppo generale, ben delimitato e non eccessivamente carico di angoscia) esporlo con un linguaggio conosciuto ai suoi interlocutori (non è basilare l’uso di un codice semantico tecnicamente corretto che rischia di non essere inteso, o peggio ancora, frainteso), attenervisi in prima persona e fare in modo che anche i partners vi si attengano; può fare memoria storica intorno ai contenuti dei precedenti colloqui, recuperare un tema che ricorre spesso nella seduta oppure un aspetto non evidente, ma che tacitamente soggiace al conflitto, o ancora utilizzare un vero fantasma comune ai due partner.  

In pratica, il lavoro di consulenza con al coppia si snoda in tre fasi non tanto rigide nei tempi di durata quanto nell’ordine in cui devono essere prese in considerazione.

Nella prima fase, il consulente da’ la parola ad uno dei due, perché esprima brevemente e con chiarezza quanto ha da dire, e prima che il secondo tenti di rispondere, il consulente gli si rivolge chiedendogli di riferire soltanto quello che ha ‘udito’ del discorso dell’altro (ciò deve rigorosamente avvenire prima di qualsiasi commento), e poi, solo in un secondo momento, gli chiede di ripetere soltanto ciò che ha ‘detto’ l’altro. Questo secondo partner, interpellato, è tentato di rispondere su questioni più profonde, ancor prima di aver compreso il messaggio del primo, ed ecco perché risulta utile che il consulente faccia ripetere al primo le sue parole, in modo che l’oggetto dell’argomentazione in corso sia ad entrambi chiaro.

Una volta concluso questo primo lavoro, ha inizio la seconda fase in cui il consulente si rivolge nuovamente al secondo partner chiedendogli – ancora una volta prima che risponda alle questioni di fondo -, di esplicitare verbalmente/non verbalmente come ha soggettivamente percepito le emozioni e gli affetti che le parole del primo hanno suscitato in lui. La coppia a questa sollecitazione cercherà di utilizzare tutti i mezzi in suo possesso per esprimersi, ed è a queste stesse modalità in atto (mimica, clima ed emozioni scatenate) che il consulente familiare, servendosi delle proprie risorse umane, dovrà prestare la sua massima attenzione.

In una terza e ultima fase, il secondo partner è finalmente invitato a rispondere al contenuto oggettivo delle argomentazioni, e il compito del consulente sarà quello di fare in modo che egli possa esprimersi chiaramente e da solo, senza che venga interrotto da proteste o interpretazioni del primo. Soltanto dopo che il secondo partner si sarà fatto chiaramente capire, il consulente chiederà al primo se ha ben ‘udito’, come percepisce emotivamente e soggettivamente la risposta del secondo, e solo in un terzo momento, gli chiederà se deve dare una nuova risposta, una giustificazione, una interpretazione ecc.; allora, si darà nuovamente la parola con le stesse condizioni: in primo luogo ciò che ha udito, in secondo luogo come lo ha vissuto, in terzo luogo qual è la risposta sulla questione in sé.

Da quanto detto, è facile capire come sia impegnativo un simile lavoro per il consulente familiare, sia perché di sovente ha a che fare con partner che da lungo tempo discutono e gridano invano, spendendo principalmente il loro tempo a definire implicitamente la loro relazione reciproca e riproponendo interazioni simmetriche o complementari senza accorgersene, sia perché, talvolta, uno dei due o tutti e due, tentano di deviare il consulente e di riportarlo su un altro terreno (meno angosciante per sé), prima che si sia chiarita la questione su cui si va discutendo.

Più sinteticamente, i compiti del consulente nella seduta congiunta, sono così identificabili: chiarire la comunicazione, permettere ai partner d’intendersi, fare in modo che comprendano reciprocamente quello che sentono nei loro scambi (compito prioritario rispetto a quello di trovare un accordo su un problema).

La neutralità di atteggiamento del consulente, deve accompagnare ogni momento della seduta e ciò, a maggior ragione, deve essere osservata quando uno dei due partner gli risulta più simpatico dell’altro (utile invece è capire il perché ciò si verifica), o gli richiede spiegazioni o interpretazioni intorno alle domande poste. Spesso, accade anche che la coppia lo interpelli come arbitro, ma il consulente non deve farsi disturbare da ciò, e perseguire imperterrito l’obiettivo che, con tale lavoro, intende raggiungere, cercando quindi di reimmettere nella comunicazione tra i due le richieste che gli vengono esplicitamente rivolte, cosicché sia proprio il soggetto richiedente a darne l’interpretazione. In tal modo, il consulente non sarà più costretto ad esprimere le proprie posizioni personali, poiché di fatto, non si sta parlando di lui in prima persona, ma dei singoli individui componenti la coppia.

Se i partners imparano ad intendersi, a comprendersi, a comunicare in maniera più chiara, potranno in seguito, al di fuori delle sedute, determinare quale conclusione debba avere quello specifico problema che si sono posti.

La coppia aiutata a capirsi, spesso impara a comunicare; talvolta la comunicazione è strumentale ad una scelta, talvolta può progressivamente aumentare fino a raggiungere livelli tanto profondi che il consulente sente quasi di violare la loro intimità con la propria presenza. A questo punto, il suo lavoro è veramente concluso.

 

 

Giovanna Bartholini

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