L’esperienza spirituale del cammino dell’uomo

 

 

L’ESPE RI ENZA   S P I RI T U A L E  D E L  C A MM IN O

 DELL’UOMO

 

 Autore: p. Alfredo Feretti, omi

 

 

Il cammino è un’esperienza esistenziale e un’icona del senso della vita. Mi obbliga a camminare “leggero”, scegliendo di portare solamente le cose utili (affetti inclusi) e lasciare quelle che pesano. E poi un passo dopo l’altro per arrivare alla meta… E’ nel cammino che si comprende che si trasforma il mondo solamente con la coscienza di trasformare se stessi.

Questo processo tocca almeno 5 dimensioni spirituali che sono scelte della volontà e del cuore:

  • essenzializzandosi
  • conoscendosi
  • purificandosi
  • abbandonandosi
  • dimenticandosi

… sono queste dimensioni esistenziali – davvero difficili – che permettono il “ritorno a se stessi”. NON TUTTI I CAM MINI SONO IL CAMMINO

Oggi in Occidente va di moda camminare e fare i pellegrinaggi per purificarsi e fare esperienza. E’ bello e aiuta. In altre parti del mondo ci sono invece milioni di persone che camminano per scappare da luoghi di guerra o di carestia, dove manca acqua e cibo.

La letteratura ci aiuta a capire che ci sono diversi modi per camminare e di interpretare l’esperienza del cammino.

Ad esempio il cammino del mitico Narciso che per la sua vanità e insensibilità si innamora di sé e si pietrifica. È il rischio che si corre mentre si diventa uomini. Pensare solo a sé senza pensare agli altri e a Dio.

 

Esiste anche il modo di camminare di Icaro che sfida Dio volando verso il sole. Fuggire da Creta non era un’impresa molto facile. Ma Icaro sceglie di volare come suo padre Dedalo a cui però disobbedisce e va dritto verso il sole, inebriato dalla velocità delle sue grandi ali. È il cammino di chi pensa che invece di obbedire (ob‐ audire, sentire con l’Altro) è meglio sfidare Dio e le sue leggi.

 

 

Pieno di fascino rimane anche il cammino di Ulisse che lotta contro un destino duro e vince molte prove. Non si sceglie di partire e di ritornare nella propria Itaca, nel luogo cioè da cui era partito.

 

 

La sfida è quella di scegliere il cammino di Abramo, quello che chiede di obbedire al comando di uscire dalla propria terra e di andare dove Dio lo conduce. È il cammino degli apostoli che sono chiamati a seguire Cristo fino a Gerusalemme.

 

 

 

TRE TESTI DA MEDITARE.

Ci sono tre testi che ci possono aiutare a comprendere il senso del cammino.

  1. Anzitutto “Il cammino dell’uomo” di Martin Buber.

Questo breve e densissimo libretto parte con una domanda: Dove sei uomo? E si conclude con un’altra domanda a cui il Signore deve rispondere: “Dove abita per te Dio?”.

L’autenticità personale, sociale e politica va ricercata in un cammino verso se stessi. Sembra qualcosa di banale e di troppo semplice ma le violenze e le guerre, le miserie e le tensioni sono esattamente un allontanamento da se stessi.

Ma attenzione: non c’è un cammino unico. Non si devono imitare cammini meravigliosi già fatti da altri: si tratta di cercare e trovare il cammino particolare per me.

Buber sottolinea: “Non ci sarà chiesto perché non sei stato come Mosé?”, ma “Perché non sei stato te stesso?”. La vita non può semplicemente essere un accumulo di esperienze diverse e opposte tra loro, ma occorre fermezza e fedeltà che rendono il cammino personalizzato. Altrimenti si vive da adultescenti, vale a dire persone adulte che vivono come eterni adolescenti, le loro crisi e i loro smarrimenti.

  1. C’è poi un secondo testo che si intitola “Sulla felicità”. Nel 1942, quando Teilhard de Chardin era esiliato in Oriente, scrive una meditazione sulla felicità, tradotta in italiano per la prima volta nel 1970.

Gli uomini si dividono in tre gruppi che partono per scalare una montagna…

“Immaginiamo un gruppo di escursionisti partiti per una vetta difficile (…) possiamo immaginarci il gruppo diviso in tre.

    • Alcuni rimpiangono di avere lasciato l’albergo (poi) decidono di tornare indietro.
    • Altri non sono dispiaciuti per la partenza. Il sole brilla, la vista è bella. Ma perché salire più in alto? Non è meglio godersi la montagna dove ci si trova, in mezzo ai prati o nel bosco? E si sdraiano sull’ erba o esplorano i dintorni, aspettando l’ora del pic‐nic.
    • Gli ultimi, infine, i veri scalatori, non staccano gli occhi dalle cime che hanno deciso di raggiungere. E ripartono in avanti.

Degli stanchi, dei buontemponi, degli ardenti. Tre tipi di Uomo, che ciascuno di noi porta in germe nel profondo di se stesso, e fra i quali, da sempre, si divide l’Umanità che ci circonda.

Dopo aver parlato della categoria degli “stanchi” e dei “buontemponi” l’autore parla degli ardenti:

“Qui mi riferisco a quelli per cui la vita è un’ascensione e una scoperta. Per gli uomini che formano questa terza categoria. non solo è meglio essere che non essere, ma c’è sempre la possibilità – ed è l’unica che interessi – di diventare qualcosa di più. Per questi conquistatori appassionati d’avventure, l’essere è inesauribile – non alla maniera di Gide, come un gioiello dalle mille sfaccettature, che si può girare in tutti i versi senza mai stancarsene, ma come un fuoco di calore e di luce, al quale è possibile avvicinarsi sempre più. Si possono canzonare questi uomini, trattarli da ingenui o trovarli noiosi. Ma dopo tutto sono loro che ci hanno fatto, e che preparano la Terra di Domani.

 

 

 

Pessimismo, e ritorno al passato, godimento del presente, slancio verso l’avvenire. Tre atteggiamenti fondamentali, di fronte alla Vita.

E da questo, inevitabilmente, al centro stesso del nostro problema, ecco tre forme contrastanti di felicità.

 

  1. Felicità di tranquillità. Nessuna noia, nessun rischio, nessuno sforzo. Diminuiamo i contatti, limitiamo le necessità – abbassiamo le luci – rientriamo nella nostra conchiglia. L’uomo felice è quello che penserà, sentirà e desidererà di meno.

 

  1. Felicità di piacere, piacere immobile, o più ancora. piacere continuamente rinnovato. Lo scopo della vita non è agire e creare, ma approfittare. Ancora meno sforzo, dunque, o quel tanto necessario per cambiare coppa e liquore. Distendersi il più possibile, come la foglia ai raggi del sole, cambiare posizione a ogni istante per sentire di più: ecco la ricetta della felicità. L’uomo felice è quello che saprà gustare l’istante, che tiene fra le mani nel modo più completo.
  2. Felicità di crescita o di sviluppo. Per questo terzo punto di vista. la felicità non esiste né ha valore per se stessa, cioè come oggetto che possiamo inseguire e di cui possiamo impadronirci, ma non è altro che il segno, l’effetto e come la ricompensa dell’azione convenientemente guidata. «Un sottoprodotto dello sforzo» diceva Aldous Huxley. Non basta, dunque come suggerisce il moderno edonismo, rinnovarsi in un modo qualsiasi, per essere felici. Nessun cambiamento beatifica (rende felici) a meno che non si agisca avanzando e in salita”.

L’uomo felice è dunque colui che, senza cercare direttamente la felicità, trova per di più inevitabilmente la gioia nell’atto di giungere alla pienezza e al punto estremo di se stesso, in avanti”.

IL DISCERNIMENTO PER NON FERMARSI

Il terzo testo è scritto da sant’Ignazio di Loyola. E’ l’antidoto per non bloccare il cammino o addirittura per non farsi assalire dalla nostalgia di ritornare indietro.

 

Scrive S. Ignazio: Similmente, il nemico si comporta come un capo militare: dopo aver piantato la tenda di comando e osservato le postazioni o la posizione di un castello, lo attacca dalla parte più debole. Così il nemico ti osserva da tutte le parti ed esamina tutte le tue virtù teologali, cardinali e morali, e ti attacca e cerca di prenderti dove ti trova più debole (E.S., n. 327).

 

 

 

 

VITA VIA EST! E’ così, la vita è un cammino.

MARTIN BÜBER

IL CAMMINO DELL’UOMO”.

 

Martin Mordechai Buber (Vienna, 8 febbraio 1878 – Gerusalemme, 13 giugno 1965) è stato un filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano.

 

Principali opere:

  • Israele: un popolo e un paese
  • La fede dei profeti
  • Mosè
  • Il problema dell’uomo
  • Sette discorsi sull’ebraismo
  • Il problema dell’uomo
  • Confessioni estatiche
  • I racconti dei Chassidim
  • Il Cammino dell’Uomo
  • L’eclissi di Dio
  • La leggenda del Baal‐Shem
  • Due tipi di fede: fede ebraica e fede cristiana
  • Il principio dialogico e altri saggi
  • Le storie di Rabbi Nachman

 

 

 

IL CAMMINO DELL’UOMO

Questo libretto, un’opera molto breve tratta da una conferenza che Buber tenne al Congresso di Woodbrook a Bentveld ad aprile del 1947, contiene un messaggio su l’uomo, e quindi sulla educazione dell’uomo. Martin Buber meditò a lungo e profondamente intorno all’uomo, e quest’opera ci pare fedele al suo proposito: “Non parlo di nulla altro che dell’uomo quale veramente è, di voi e di me, della nostra vita e del nostro mondo, non di un Io in sé stesso o di un Essere in sé stesso”.

 

Buber ci vuole parlare dell’uomo nel suo rapporto con sé stesso, con gli altri uomini, con il mondo e con Dio…L’uomo per la sua crescita e per raggiungere l’autenticità deve innanzitutto tornare a sé stesso, ma anche “va verso te stesso”, quindi ritrovare sé stesso, raggiungere il proprio destino, risalire alla sua fonte. L’uomo deve cioè fare della sua vita un cammino, rispondendo alla domanda: “Dove sei?” senza tentativi di nascondimento o affermazioni di impotenza.

 

Qualunque sia la via scelta, se essa è la propria via e se la si persegue con fedeltà e perseveranza, alla fine si conosce la gioia, la bellezza, la pienezza, e quindi il cammino percorso per aprirsi a Dio. “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo essere, con tutte le tue forze”. (Dt 6,5) Martin Buber muore a Gerusalemme in giorno di sabato, il 13 giugno 1965, a ottantasette anni, sazio di giorni. Sono pagine che non consentono facili evasioni ma interpellano ogni uomo e lo inducono a pensare se la sua vita è divenuta cammino.

 

Hermann Hesse, parlando di questo piccolo libretto, lo definisce “il libro più bello che io abbia mai letto”. Uno scritto che può diventare, per ciascuno di noi, l’occasione per fare il punto sul proprio “cammino”. Un testo illuminato di spiritualità ebraica, che contiene quelle folgoranti intuizioni che ci possono condurre verso la comprensione di noi stessi, verso la nostra autenticità e “unità” interiore.

 

Un percorso in 6 tappe

L’etica è un’ottica

L’itinerario, come suggerisce Buber, parte dalla domanda “Dove sei?” e intende scoprire e distruggere il congegno di nascondimento che ci fa vivere frammentati, feriti e inautentici. La domanda che chiude “il cammino” è “Come fiorire là dove si è?” che significa: dove sta e come attingere a quell’energia vitale capace di rimettere in moto i processi evolutivi bloccati?

 

Durante il percorso esploreremo i tratti essenziali dell’umano:

 

    • l’unicità della persona, la relazionalità,
    • l’apertura alla verità e all’infinito,
    • l’integrità di sé stessi (corpo, cuore, ragione, coscienza, anima, energia vitale),
    • la responsabilità e le sue dinamiche di attuazione,
    • l’adesione all’energia di bene, la condivisione, l’armonizzazione (imparare ad abitare il mondo nella logica della ospitalità).
  1. TAPPA “DOVE SEI?”

 

Rabbi Shneur Zalaman, il Rav della Russia, era stato incarcerato a Pietroburgo perché calunniato. Il capo delle guardie intuì subito la qualità umana del prigioniero e un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, entrò nella sua cella ed iniziò a conversare con lui su varie questioni che si era posto leggendo la Scrittura e gli chiese: “Come bisogna interpretare che Dio onnisciente dica ad Adamo ‘Dove sei?’”.

Credete voi – rispose il Rav – che la scrittura è eterna e abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui?”. “Si, lo credo”, disse “Ebbene – riprese lo Zaddik (che significa “giusto”, il nome dato alle guide delle comunità chassidiche) – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice, per esempio, ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’”. Nell’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del rav ed esclamò: “Bravo!”; ma il cuore gli tremava.

Qual è il significato di questo racconto talmudico? Il saggio Rabbi non fornisce un chiarimento alla sua domanda, ma risponde su un altro livello di senso illuminando la situazione perché mira a fargli comprendere: “Adamo sei tu”, perché Dio interpella l’Uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Quando il comandante capisce la portata dell’interrogativo posto da Dio, allora vacilla perché comprende di essere interrogato personalmente.

“Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo perché ogni uomo è Adamo della situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento […] l’uomo scivola sempre più profondamente, nella falsità […] e cercando di nascondersi a Lui, si nasconde a sé stesso” (Pag. 21‐22)

 

Il cammino dell’uomo inizia quando Adamo riconosce di essere in trappola e confessa: “Mi sono nascosto”.

 

L’uomo per la sua crescita e per raggiungere l’autenticità deve innanzitutto tornare a sé stesso. La domanda biblica che interpella ogni uomo è: Dove sei nel tuo mondo, dove ti trovi? Non si tratta certo di una domanda che mira a sapere il luogo geografico e/o fisico dove Adamo si trovi, perché Dio è l’onnisciente ed è impossibile nascondersi a Lui. Buber ricorda come Dio con questa domanda‐ “dove ti trovi? ‐ vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove il suo peccato lo ha condotto, far nascere in lui il desiderio di venirne fuori. Di fatto si tratta di un rimprovero all’uomo per l’assenza di responsabilità della sua anima, per la mancanza di serietà e per la superficialità con cui egli ha condotto la sua vita fino a quel momento. Fino a quel momento: Dio Padre, infatti, lascia sempre spazio al cambiamento ed offre sempre una possibilità per rialzarsi e ricominciare.

Il rischio, però, è quello di soffocare questa voce, la voce di Dio, che può essere sottile, simile ad un soffio (1Re 19, 11‐13). Il ritorno decisivo a sé stessi è riconoscere che ci si è nascosti ed essere consapevoli che non ci si può nascondere agli occhi di Dio senza nascondersi a sé stessi. Qui, e solo qui, inizia dunque il cammino dell’uomo, il cammino umano. Esiste anche un ritorno a sé stessi sterile, perverso che porta al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole.

  1. TAPPA OGNUNO DI NOI HA UN CAMMINO PARTICOLARE

 

Sorge spontanea la domanda: “E qual è il mio cammino?”. È l’interrogativo che il discepolo rivolge al maestro, al santo e al veggente. Ebbene non può esistere una risposta univoca perché è proprio rispondendo correttamente alla domanda “Dove sei?” che ognuno di noi può trovare il suo proprio cammino, che non può mai essere quello di qualcun altro. La santità non è un valore da ricalcare alla lettera, ma da interpretare in modo unico e personale.

“Per quanto infimo possa essere – se paragonato alle opere dei patriarchi – ciò che noi siamo in grado di realizzare, il suo valore risiede comunque nel fatto che siamo noi a realizzarlo nel modo a noi proprio e con le nostre forze[…] Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico […] Ciascuno è tenuto a sviluppare e a dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro – fosse pure la persona più grande – ha già realizzato” (Pag. 26‐27).

 

Questo insegnamento che si basa sul fatto che “tutti gli uomini sono ineguali per natura e pertanto non bisogna tentare di renderli uguali” è al centro di tutte le tradizioni spirituali. “Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un accesso diverso. È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la più grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità dei cammini che conducono a Lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo” (Pag. 28).

 

Dio non dice: “Questo cammino conduce fino a me, mentre quell’altro no”; dice invece: “Tutto quello che fai può essere un cammino verso di me, a condizione che tu lo faccia in modo tale che ti conduca fino a me”. In questo senso, guardare un altro per cercare di imitarlo, può condurre fuori strada, in errore. Il Baal‐ Shem (fondatore del cassidismo) dice: “Ognuno si comporti conformemente al grado che è il suo. Se non avviene così, e uno si impadronisce del grado del compagno e si lascia sfuggire il proprio, non realizzerà né l’uno né l’altro […] In ognuno di noi c’è qualcosa di prezioso che non c’è in nessun altro” (Pag. 29).,

Ciò che è prezioso dentro di sé l’uomo può scoprirlo solo se coglie il proprio sentimento più profondo, il proprio desiderio fondamentale, ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere.

Il compito più importante è allora cogliere la nostra esigenza o inclinazione più profonda, quel desiderio fondamentale che muove l’aspetto più intimo del nostro essere. “Qualsiasi atto naturale, se santificato, conduce a Dio, e la natura ha bisogno dell’uomo perché compia in lei ciò che nessun angelo può compiere: santificarla” (Pag. 32).

 

Questo è il cammino dell’uomo, un percorso di “santificazione”.

 

Rabbi Sussja in punto di morte esclamo: “Nel mondo futuro non mi si chiederà: ‘perché non sei stato Mosè?’; mi si chiederà invece: ‘Perché non sei stato Sussja?’”. Questa antropologia è ancorata ad una tradizione che ancora oggi rappresenta un fondamento per imparare ad essere sé stessi e iniziare un autentico cammino umano e spirituale.

  1. TAPPA DAL CONFLITTO ALL’UNITÀ

 

Un chassid del Veggente di Lublino decise un giorno di digiunare da un sabato all’altro. Ma il pomeriggio del venerdì fu assalito da una sete così atroce che credette di morire. Individuata una fontana, vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di quella settimana. Non bevve e si allontanò dalla fontana. Se ne andò fiero di aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto disse a sé stesso: ‘È meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio cuore soccomba all’orgoglio’. Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era scomparsa. Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal suo maestro. ‘Un rammendo! esclamò lo Zaddik appena lo vide sulla soglia”.

Il discepolo zelante si impegna al massimo, combatte con tutte le sue forze per realizzare una difficile ascesi. “Come è possibile essere rimproverati per una simile lotta interiore? Non significa esigere troppo dall’uomo?” Il Veggente è così duro perché lo vuole mettere in guardia su una cosa che gli impedirà di raggiungere il grado più elevato a cui lui aspira, di conseguire il suo progetto: “oggetto del biasimo è il fatto di avanzare e poi indietreggiare; è l’andirivieni, il procedere a zigzag dell’azione che è opinabile.

 

L’opposto del “rammendo” è il lavoro fatto di getto. Come realizzare un lavoro in un sol getto? Non in altro modo che con un’anima “unificata”. Nella interpretazione proposta da Büber di questa storiella tradizionale chassidica, il maestro colpisce nel discepolo la mancanza di unità che aveva dimostrato, la sua tendenza ad oscillare tra decisioni diverse e opposte che rendevano la sua azione un “rammendo”, un rattoppo che toglie unità e bellezza al vestito, sintomo di una divisione interiore.

Il comportamento del discepolo rappresenta la condizione di divisione e dispersione interiore in cui spesso ci si trova a vivere, la condizione molteplice, complicata e spesso contraddittoria della nostra interiorità. L’azione che ne deriva non può che essere caratterizzata da una serie di inciampi, impedimenti e tentazioni. Il discepolo “cosa può fare se non, appunto, ogni volta, nel corso dell’azione, ‘riprendersi’ – come si usa dire ‐, cioè raccogliere la propria anima sfilacciata in tutte le direzioni, concentrarla e indirizzarla sempre nuovamente verso la meta […]” (Pag. 36).

 

L’insegnamento contenuto nella saggezza della tradizione ebraica ci fa capire che certamente l’uomo di ogni tempo ha una natura molteplice, complicata, conflittuale e contraddittoria ma “è in grado di agire su di essa per trasformarla, può legare le une e le altre forze in conflitto e fondere insieme gli elementi che tendono a separarsi, è in grado di unificarla. Questa unificazione deve prodursi prima che l’uomo intraprenda un’opera eccezionale. Solo con un’anima unificata sarà in grado di compierla in modo tale che il risultato sia non un rammendo ma un lavoro d’un sol getto” (Pag. 37).

 

Il Veggente, con la sua durezza, rimprovera il discepolo di “aver corso l’azzardo con un’anima non unificata”. E Büber sottolinea il fatto che non è l’ascesi a provocare l’unificazione. La rinuncia, il digiuno, l’ascesi sono pratiche che possono solamente concentrare le forze verso il conseguimento della meta, del risultato.

 

Cosa provoca allora l’unificazione interiore? Il nostro io a patto che si possa postulare in noi un centro direttivo e di governo della persona? Come fa l’io a governare se è esso stesso spesso coinvolto nel conflitto? L’unificazione avviene ad opera del nucleo più intimo della nostra anima. È “la forza divina che giace nelle sue profondità” a fondere le forze, i vettori e la natura delle nostre parti in conflitto.

“C’è tuttavia un aspetto che bisogna tenere ben presente: nessuna unificazione dell’anima è definitiva. Come l’anima più unitaria per nascita è pur tuttavia assalita a volte da difficoltà interiori, così anche l’anima più accanita nella lotta per la propria unità non può mai raggiungerla pienamente” (Pag. 39).

Però ogni opera che compio con un’anima unificata agisce di rimando sulla mia anima, agisce nel senso di una nuova e più elevata unificazione; ognuna di queste opere mi conduce, anche se con diverse deviazioni, a un’entità più costante di quella più precedente. Alla fine si giunge così a un punto a cui ci si può affidare alla propria anima perché il suo grado di unità è ormai così elevato che essa supera la contraddizione come per gioco. Anche allora, naturalmente, è opportuno restare vigilanti, ma è una vigilanza serena” (Pag. 38).

Un aneddoto racconta che un giorno Rabbi Nahum colse gli studenti che giocavano a dama che quando lo video smisero di giocare: “Vi dirò io le leggi del gioco della dama. Primo: non è permesso fare due passi alla volta. Secondo: è permesso andare solo avanti. Terzo: quando si è arrivati in alto si può andare dove si vuole”. Il termine “Anima” per Büber significa “uomo intero” nel quale corpo e spirito sono unificati. “L’anima è realmente unificata solo a condizione che tutte le forze, tutte le membra del corpo lo siano anch’esse […] Quando l’uomo diventa una simile unità di corpo e di spirito, allora la sua opera è opera d’un sol getto” (Pap. 40).

 

 

IL CONFLITTO – LA RISOLUTEZZA

Qual è l’origine di ogni conflitto?

Cominciare da sé stessi: superare il conflitto interiore prima di provare a trasformare il mondo.

 

Nel terzo capitolo, incontriamo la terza tappa del cammino che è la risolutezza. Si tratta di cogliere in sé ciò che può impedire di realizzare il proprio progetto. Uno può possedere un’anima unificata per natura o per grazia, oppure un’anima molteplice, complicata, contraddittoria, che naturalmente determina la sua azione: gli impedimenti e gli inciampi dell’agire dipendono dagli impedimenti e gli inciampi dell’anima. Un uomo di questo genere si deve sforzare di superare le tentazioni che gli si presentano sul cammino verso la meta prefissata raccogliendo la propria anima sfilacciata in tutte le direzioni, concentrarla e indirizzarla sempre nuovamente verso la meta. Egli non è ridotto all’impotenza: il nucleo più intimo della sua anima – la forza divina che giace nelle sue profondità – è in grado di agire su di essa e trasformarla, può legare le une e le altre forze in conflitto e fondere insieme gli elementi che tendono a separarsi, unificandola. Nessuna unificazione dell’anima è definitiva poiché essa è assalita, a volte, da difficoltà interiori, ma ogni opera che compio con l’anima unificata, agisce nel senso di una nuova e più elevata unificazione; ognuna di queste opere mi conduce, anche se con diverse deviazioni, ad una unità più costante di quella antecedente, finché l’anima supera la contraddizione come per gioco, necessitando solo una vigilanza serena. L’anima è realmente unificata a condizione che tutte le forze, tutte le membra lo siano. Bisogna comprendere, dunque, che è fondamentale fare la propria parte fino in fondo, cioè essere consapevoli che “tutto dipende da me” perché ogni altra posizione può intaccare la risolutezza e distogliere dal cammino.

A questo può ricongiungersi uno dei problemi più profondi e più seri della nostra vita: il problema della vera origine del conflitto tra gli uomini.

Secondo l’aspetto pratico l’uomo è sollecitato a “rimettersi in sesto”. Bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenze di situazioni conflittuali presenti nell’anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, e allacciare con loro relazioni nuove

trasformate. L’uomo è invitato a cercare la pace in sé stesso. Quando l’uomo ha trovato la pace in sé stesso, può mettersi a cercarla nel mondo intero. Inoltre, il conflitto interiore consiste fra tre principi nell’essere e nella vita dell’uomo: il principio del pensiero, il principio della parola e il principio dell’azione. Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva da fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico. Per uscirne dunque l’autore indica due strade: capire la svolta – tutto dipende da me – e volere la svolta – voglio rimettermi in sesto. Per questo

compito innanzitutto bisogna raggiungere il vero sé, il sé profondo della persona che vive nel mondo.

  1. TAPPA COMINCIARE DA SÉ STESSI

 

Cura di sé e cura dell’altro: quali pratiche di vita autentica?

 

Anche l’insegnamento chassidico, come in fondo tutti gli insegnamenti delle tradizioni spirituali, mette in luce come il confitto tra gli uomini vada ricondotto al di là dei motivi esteriori e coscienti delle loro dispute, dei processi oggettivi che stanno alla base di questi conflitti.

 

Tale insegnamento “ha di mira l’uomo intero” e si fonda sulla consapevolezza che “solo la comprensione della totalità in quanto tale può comportare una trasformazione reale, una vera guarigione, innanzitutto dell’individuo e poi del rapporto tra questi e i suoi simili. Nessun fenomeno dell’anima va preso isolatamente, messo al centro dell’esame. È invece indispensabile considerare tutti i punti, e non in modo separato, ma proprio nella loro connessione vitale […] Bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate” (Pag. 44).

 

“Cominciare da sé stessi: ecco l’unica cosa che conta […] Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. Se invece pongo due punti di appoggio, uno qui nella mia anima e l’altro là, nell’anima del mio simile in conflitto con me, quell’unico punto sul quale mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente” (Pag. 45).

 

“Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico”. Si tratta del conflitto di tre aspetti nell’uomo: “il pensiero, la parola e l’azione”. Siamo per natura esseri contradditori cercano continuamente di nascondersi a sé stessi proiettando le proprie incongruenze interiori sugli altri. Per uscirne e diventare uomini autentici, unificati, è importante volere la svolta e capirne la portata. “Ma per essere all’altezza di questo grande compito, l’uomo deve innanzitutto, al di là della farragine di cose senza valore che ingombra la sua vita, raggiungere il suo sé, deve trovare sé stesso, non l’io ovvio dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che vive con il mondo […] (Pag. 47).

 

Il passo successivo porta in sé una domanda: a che scopo ritornare in me stesso, a che scopo abbracciare il mio cammino personale, a che scopo portare a unità il mio essere? La risposta che emerge al discepolo: “Non per me”. Cominciare da sé stessi, ma non finire con sé stessi, prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. Per comprendere questo pensiero bisogna guardare al significato che il termine “ritorno” rappresenta nella concezione ebraica: Ha il potere di rinnovare l’uomo all’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio, al punto che l’uomo del ritorno viene innalzato. Qui Buber vuole sottolineare che l’uomo che si è smarrito nel caos dell’egoismo – in cui era sempre lui stesso la meta prefissata – trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare.

Vattene! – Vai verso te stesso ‐ Go in – go out (in ebraico) Lech ‐ lecha

  1. TAPPA

 

NON PREOCCUPARSI DI SÉ

A che scopo tornare a sé stessi? Qual è il fine dell’unificazione interiore? Perché portare ad unità il mio essere? Ebbene la risposta è: “Non per me!”. Lo scopo dell’abbracciare un cammino di evoluzione e integrazione personale se è vero che deve cominciare da sé stessi, non deve finire con sé stessi; “prendersi non come meta, ma solamente come punto di partenza; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé” (Pag. 50).

 

Quando Rabbi Hajim di Zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e disse: “O suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete ho barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza”. “Ah, suocero – gli rispose Rabbi Eleazaro – voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!”.

 

Il racconto ci presenta uno zaddik, un uomo pio e caritatevole che, giunto alla vecchiaia, confessa di non aver compiuto l’autentico ritorno il quale si sente dire dal suocero “Invece di tormentarti incessantemente per le colpe commesse, devi applicare la forza d’animo utilizzata per questa autoaccusa all’azione che sei chiamato a esercitare sul mondo. Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare!” (Pag. 51).

 

Nella concezione ebraica del cammino dell’uomo il ritorno ha un significato che va ben al di là della penitenza. Il ritorno è il cammino che va dal caos in cui l’uomo si è smarrito verso il bene, “attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare” (Pag. 52).

 

Il pentimento è solo l’impulso “che fa scattare questa virata attiva”, ma non un esercizio di auto fustigazione che rende lo spirito rozzo e il cuore duro. “Hai agito male? Contrapponi al male un’azione buona” e quindi “occupati del mondo” afferma il rabbino.

 

“Bisogna dimenticare sé stessi e pensare al mondo. Il fatto di fissare come scopo la salvezza della propria anima è considerato qui solo come la forma più sublime di egocentrismo” (Pag. 54).

Nell’ebraismo ogni anima umana è al servizio della creazione per cui non è fissato un fine all’interno di sé stessa, nella propria salvezza individuale. Se è vero che ognuno di noi deve giungere alla sua pienezza, salvezza e purificazione questo cammino non è mai a vantaggio di sé stessi, della propria felicità terrena, ma ha senso lo all’interno della creazione, cioè del progetto di Dio.

 

Una volta Rabbi Mendel di Kozk, disse alla comunità riunita: “Cosa chiedo a ciascuno di voi? Tre cose soltanto: non sbirciare fuori di sé, non sbirciare dentro agli altri, non pensare a sé stessi”.

“Il che significa: primo, che ciascuno deve custodire e santificare la propria anima nel modo e nel luogo a lui propri, senza invidiare il modo e il luogo degli altri; secondo, che ciascuno deve rispettare il mistero dell’anima del suo simile e astenersi dal penetrarvi con un’indiscrezione impudente e dall’utilizzarlo per i propri fini; terzo, che ciascuno deve, nella vita con sé stesso e nella vita con il mondo, guardarsi dal prendere sé stesso come fine (Pag. 56).

  1. TAPPA

 

IL TESORO È DOVE CI SI TROVA

Rabbi Eisik, dopo anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, ricevette in sogno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Quando il sogno si ripete per la terza volta, Eisik si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le

mattine, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Eisik gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin ìi dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: “E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch’io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Eisik figlio di Jekel, ma scherzi? Eisik torno a casa sua e dissotterrò il tesoro.

Questa storia è antica ed è presente in tutte le tradizioni popolari e il suo significato è che c’è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure la puoi trovare esattamente dove ti trovi.

 

“C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui si trova” (Pag. 50).

 

Siamo sempre mossi a cercare altrove, ovunque tranne che là dove siamo, là dove siamo stati posti, “ma è proprio la e da nessun’altra parte, che si trova il tesoro. Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno, in quello che la vita quotidiana mi richiede. “È sotto la stufa di casa nostra che è sepolto il nostro tesoro”.

Un giorno Rabbi Mendel di Kozk chiese ai suoi ospiti a bruciapelo “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui ma il Rabbi diede lui stesso la risposta: “Dio abita dove lo si lascia entrare”.

Ecco il mistero della nostra esistenza, l’opportunità sovraumana del genere umano: “Dio vuole entrare nel mondo che è suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo”.

 

 

FIORIRE DOVE SI E’

Come vivere tutte le situazioni in modo evolutivo? Il cammino compiuto e nuovi sentieri da tracciare.

 

Un ultimo passaggio nell’itinerario proposto da Buber è la scoperta di dove abita Dio. C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova. Buber afferma che è nel luogo in cui ci troviamo, che si tratta di far risplendere la luce della vita divina nascosta. Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno, in quello che la vita mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell’esistenza messo alla mia portata. Buber riporta un insegnamento di Baal‐Shem che reputa profondamente vero. Secondo questo maestro, nessun incontro – con una persona o una cosa – che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un significato segreto e concorre al compimento dell’esistenza di ciascuno.

Gli uomini con i quali viviamo o che incrociamo in ogni momento, gli animali che ci aiutano nel lavoro, il terreno che coltiviamo, i prodotti della natura che trasformiamo, gli attrezzi di cui ci serviamo, tutto racchiude un’essenza spirituale che ha bisogno di noi per raggiungere la sua forma perfetta, il suo compimento. Buber ritiene che se non teniamo conto di questa essenza spirituale inviata sul nostro cammino, se – trascurando di stabilire un rapporto autentico con gli esseri e le cose alla cui vita siamo tenuti a partecipare come essi partecipano alla nostra – pensiamo solo agli scopi che ci prefiggiamo, allora anche noi ci lasciamo sfuggire l’esistenza autentica, compiuta. Nell’ebraismo quello che un uomo fa nella santità qui e ora non è meno importante né meno autentico della vita del mondo futuro. I due mondi per Israele sono uno solo. Devono ridiventare l’unità che sono nella loro verità intima, e l’uomo è stato creato proprio perché riunisca i due mondi. Egli opera a favore di questa unità mediante una vita santa con il mondo in cui è stato posto, nel luogo in cui si trova. Dio vuole entrare nel mondo che è suo, ma lo vuole farlo attraverso l’uomo: ecco il mistero della nostra esistenza, l’opportunità sovrumana del genere umano. Dunque, Dio abita dove lo si lascia entrare.

Ecco ciò che conta in ultima analisi secondo Buber: lasciare entrare Dio. Ma lo si può lasciare entrare solo là dove ci si trova, e dove ci trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica.

Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a compimento, allora prepariamo

 

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