UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
IL TESSITORE
Un’identità in divenire, questioni aperte
p. Alfredo Feretti omi
INTRODUZIONE
Ho percorso strade, in un tempo particolare della mia vita, che sembravano parlare, cantare, a volte imprecare, perfino sudare (anche il sudore emette il suono schiacciato del torchio della vita). Erano gli anni in cui frequentavo amici tessitori, uomini e donne avvezze alla fatica e alla meticolosa costanza di un lavoro faticoso, senza orari, a volte senza interruzione notte e giorno. Li sorprendevo alternarsi tra un telaio e l’altro, avvolti di polvere e di fili, “contenti” di quel rumore assordante che assicurava, con il lavoro, la vita per la famiglia, lo studio dei figli, un po’ di sicurezza per il presente e qualcosa per il futuro.
Ogni “stanzone” (così chiamano nel pistoiese questi luoghi di lavoro) aveva la sua caratteristica, la sua “canzone” assordante. Ognuno produceva un tessuto diverso. Ed era per me stupore e gratitudine seguire le loro mosse, guardare le loro mani riparare centinaia di fili, ripristinare trame interrotte, accarezzare il tessuto finito. E tessendo le stoffe, tessevano i loro amori, le loro famiglie, i loro progetti; si asciugavano di nascosto le lacrime senza mostrare cedimenti, sapevano che, con l’intreccio di quei fili, stavano preparando, di stagione in stagione, il vestito della vita.
Era per me una gioia ascoltare la descrizione di come avviene la tessitura. Non ho, infatti, alcuna preparazione in questo campo.
Mi piace paragonare la nostra Associazione (UCIPEM) ad un grande telaio nel quale vogliamo “tramare un ordito”: vogliamo far passare il filo di trama in mezzo all’ordito. Non si tratta di mettere un pezzo nuovo su un vestito vecchio (perché non c’è nulla da rottamare) ma di continuare la tessitura iniziata più di 40 anni fa, rinforzando i fili dell’ordito che da sempre hanno costituito il piano irrinunciabile di fedeltà nel servizio alla persona, alla coppia e alla famiglia e di rinnovare i fili di trama per dare colore, disegno e consistenza maggiore al tessuto.
Una stoffa che attende solo di coordinarsi con altri telai altrettanto produttivi per confezionare ora un soprabito per ripararsi dalla pioggia, ora una coperta per riscaldare sensazioni di freddo, ora …. e,perché no, un abito da sposa che faccia sorridere per la bellezza di un progetto che si apre a pienezza.
Ma, fuor di metafora, cosa sono nella vita della nostra Unione l’ordito e la trama?
La domanda è legittima perché, pur essendo portatori di una storia e di una tradizione che da Don Liggeri arriva fino a noi, siamo sollecitati dai cambiamenti culturali a vagliare e discernere tra identità costitutiva e modalità attualizzanti.
Prendiamo ad esempio l’acronimo che identifica la nostra Unione (UCIPEM = Unione consultori italiani prematrimoniali e matrimoniali).
Così come è formulato sembrerebbe essere fortemente alternativo(?) rispetto ad una cultura che offre immagini plurali di famiglia. Certamente riflette gli anni della fondazione, quando la valorizzazione dei percorsi prematrimoniali era una attività specifica della nostra unione. La cultura dominante orientava alla formazione di famiglie fondate sul patto stabile tra uomo e donna.
Oggi la famiglia intesa come comunità fondata sulla relazione di una coppia maschio-femmina non è più l’unica istituzione. Ci sono diverse tipologie di famiglie, dove la differenza tra i sessi non è più un principio fondante. E che dire dei cambiamenti che si stanno imponendo derivanti dalla presenza sempre più massiccia di altre culture?àE quando parliamo di matrimonio abbiamo una idea condivisa per la quale i nostri consultori operano? Non si tratta di discriminare, di selezionare o,peggio ancora,di orientare coloro che si rivolgono a noi. Ma è necessario avere un orientamento comune che giustifichi il nostro nome e lo sostanzi di contenuto.
Un’altra sfida che si pone alla nostra identità (sancita dalla Carta costitutiva) proviene dall’antropologia (visione dell’uomo) soggiacente a tante svolte culturali in atto: mi riferisco ai territori dell’affettività, della relazionalità, della sessualità, dell’educazione nonché dei piani valoriali e giuridici.
Dietro tutto questo c’è un’attualità che è stata ampiamente descritta e formulata in varie sedi; non ultimo il sinodo straordinario dei vescovi, da poco concluso,che ha aperto la possibilità di un dialogo franco e responsabile.
Gli orientamenti che emergono dalla prassi (o meglio dalle prassi) delle amministrazioni pubbliche sembrano promuovere una cultura della relazione e della famiglia individualisticamente attente più a soddisfare pretese ideologiche che bisogni reali dei cittadini e quindi della società civile.
Il consultorio continua a rappresentare l’unica esperienza di pubblico servizio che abbia come referenti diretti le famiglie, anzi la complessità della rete di relazioni familiari (CF 3)[1].
E questo forse ci differenzia da altri servizi pubblici che hanno come referenti gli individui o gli aggregati sociali e non la famiglia.
Promuovere, tra gli altri, i servizi di consulenza alla famiglia (oltre che al singolo e alla coppia) come specifico dei nostri consultori potrebbe essere un segno distintivo di attenzione particolare.
“In questo senso è richiesta al consultorio, oltre ad una spiccata sensibilità nei confronti dei mutamenti sociali e delle condizioni socio-ambientali riguardanti la famiglia, anche una spiccata capacità creativa e propositiva nell’individuare e organizzare la prevenzione”(CF 7).
O LA PERSONA UMANA
Riprendendo allora la nostra Carta vorrei con voi sottolineare i fili dell’ordito. Sono quei fili di sempre che già costituiscono una proposta alle sfide attuali. E intrecciato ad ogni filo di ordito mettiamo un filo di trama che è la presa in carico e il consolidamento del tessuto.
Alla base della nostra prassi consultoriale c’è un’antropologia, una visione dell’uomo che, appoggiandosi sulla millenaria tradizione biblica e il suo ulteriore sviluppo nel pensiero occidentale, pone la persona umana al centro.
Da sempre, i Fondatori della nostra Unione hanno posto la persona al centro di ogni nostra attenzione, scegliendola come partner in una relazione reciproca che eviti l’identificazione della persona con il problema.
E’ necessario, perciò, dare uno sguardo al mistero della persona umana per cercare di capire (come ha capito prima di tutto Pascal e in seguito più laicamente Schopenauer), qual è la specificità dell’uomo che attraversa le strade delle nostre città e sapere in che modo rapportarsi ad esso.
Molti affermano di operare per difendere e promuovere la «dignità della persona», ma dobbiamo chiederci di quale «dignità» e di quale «persona» si parla, altrimenti saremo sempre nell’equivoco.
Domandiamoci: la persona
- è una macchina desiderante o un insieme informe di pulsioni, senza un centro regolatore e unificatore?
- è pura soggettività, che si esprime nella spontaneità ed autonomia assoluta?à
- è un oggetto in balìa dell’ambiente, delle situazioni, delle mode o dei vari conformismi?à
- è un prodotto sempre modificabile della storia e della cultura?
In queste concezioni non si corre il rischio:
- di confondere lo spontaneo con il razionale, l’immediato con il veritiero, l’istintivo con il logico, il facile con il giusto, il comodo con il buono?
- di mutilare la persona, rinchiudendola nella frammentarietà dell’esperienza per l’esperienza o nella pura sensitività istintiva, negandole ogni apertura alla trascendenza?
- di svuotarla della sua consistenza, nell’illusione di una totale autonomia, che la renderebbe unica norma a se stessa?
- di annullare, in definitiva, ogni discorso etico?
Una prima e laica concezione dell’uomo – che appartiene anche all’uomo contemporaneo – ce lo presenta come essere “Domanda”, “Trasformazione” e “Relazione”. A prima vista possono sembrarci condizioni che poco o per niente ci aiutano a definire la persona, poco o niente hanno a che fare con il concetto classico di persona[2]; condizioni quindi non degne di essere prese in considerazione. Ritengo, invece, che coglierne le implicanze permette di avviare quell’alleanza necessaria intorno alla persona, perché questa non debba trovarsi a pagare il prezzo dell’arroganza della scienza e non debba vedersi ridotta a oggetto del contendere.
Dai tratti della narrazione raccolti nell’esperienza del colloquio di aiuto, emergono, tra le altre, alcune caratteristiche delle persona che, accanto alle definizioni classiche dell’antropologia cristiana, meglio di altre rivelano il carattere “comunionale” della persona in un divenire costante e progressivo verso la piena maturità.
L’uomo è Magna quaestio
La prima caratteristica è quella di un essere DOMANDA. La persona umana si rivela continuamente mancante, non richiudibile in una de-finizione, aperto a sensi e dimensioni “altre” rispetto a quelle già codificate e conosciute. E’ la dimensione che sfida le nostre conoscenze acquisite e apre all’inedito, al rischio imprevedibile di scoprire territori sconosciuti e a bussare verso l’altro e verso l’Alto a questuare (spogliato cioè di ogni presunzione onnipotente) significato e direzione.
E’ la dimensione che ha coscienza del limite come luogo di risorsa, di invocazione, quasi “vuoto spinto” che chiede l’irruzione di Altro. “Potentia”, capacità di accogliere, mai totalmente riempita ed esaurita, mistero esplorato e mai totalmente percorso.
Per accogliere la persona nella sua dimensione di domanda nei nostri consultori è necessario acquisire una cultura consultoriale che parta dalla presa in carico della cura di sé.
Cura di sé significa arrivare a fare la scelta di specchiarsi, di vedere a che punto mi trovo. Per scoprire che la condizione in cui mi trovo è lontana dai miei desideri. E questo è il primo passo: rendermi conto della scissione interiore che vivo e capire che non è quello che voglio.
Il secondo passo è tornare a sentire i propri desideri autentici: da quelli più semplici a quelli più grandi.
Non è detto che questo secondo passo debba essere fatto esclusivamente da soli; in parte è un cammino personale, in parte riguarda anche gli altri con i quali viviamo.
C’è poi un terzo passaggio. Quando ho ritrovato nei miei desideri più veri l’espressione della mia personalità, allora posso risalire al mio desiderio fondamentale, passo cioè dai desideri al desiderio di fondo. Troverò che il desiderio più profondo che vive in me ha qualcosa a che fare con l’essere amato e l’amare, il partecipare a una comunione grande, a un’armonia che mi supera e mi ospita. E’ il desiderio di una vita buona condivisa.
Se nel vedere questo desiderio, non solo lo penso con la ragione, ma lo sento con il cuore, allora è come se avessi trovato il mio centro interiore, la mia prima forza motrice e motivazionale. Ecco che avrò una coscienza di me stesso più fedele a chi sono veramente e avrò nel contempo un’energia orientata, qualitativa, che mi rende capace di affrontare le situazioni del lavoro e mi fa essere positivo nelle relazioni interpersonali.
Il grande nemico del desiderio è la paura, la percezione negativa dell’ambiente intorno a me, degli altri, degli eventi che possono colpirmi, delle delusioni. La paura taglia le gambe al desiderio e gli toglie il respiro.
La forza dei desideri migliori in noi si può sviluppare e avere così una sua continuità solo se abbiamo cura di far crescere la nostra capacità di fiducia.
La fiducia è la luce di ogni relazione: con noi stessi, con gli altri, con la vita, con Dio. La fiducia è l’energia per vivere, il desiderio è l’energia per orientare la vita in una certa direzione di bene e di valore. Possiamo anzitutto verificare se siamo abituati a considerare un atto di fiducia come se fosse niente di più che un’illusione. In tal caso siamo pericolosamente vicini allo scoramento, alla durezza di cuore e al cinismo. Non c’è niente di male se ci siamo messi dentro questo sistema difensivo, il male sta nel restarci, perché se ci restiamo ne saremo soffocati.
Per tornare alla libertà di fidarsi (perché potersi fidare è una delle più grandi libertà dell’uomo) occorre avere un riferimento attendibile, credibile. Di solito non ci basta un’idea, e forse neppure un ideale.Occorre che possiamo guardare con fiducia a una persona: un compagno, un amico, un collega. Forse lo stesso Dio, se si ha questa apertura di fede. Ecco che la fiducia si riacquista nella relazione
Allora, quando il desiderio che abbiamo nel cuore può contare sul senso di sicurezza e sull’incoraggiamento che viene dalla fiducia, questo desiderio ci permette di essere noi stessi nella vita quotidiana e nelle situazioni del lavoro. Anche se le cose non vanno precisamente come vorremmo, anche se ci sono sconfitte e frustrazioni, il desiderio ci ricorda dov’è il nostro cuore e verso quale direzione mettiamo le nostre energie.
Il desiderio di lavorare bene, di essere un riferimento positivo per gli altri, di farci prossimi a chi rischia di restare solo nella sua fragilità e nella sua paura sarà pertanto una forza fondamentale alla radice della nostra competenza professionale.
In tal caso il mio modo di lavorare non sarà lontano dalla mia vocazione.
Oggi si è reticenti ad utilizzare la parola “vocazione” per indicare l’attività che svolgiamo, e si predilige l’uso di “professione”, rendendola quindi simile al termine “occupazione”, ma si perde così il suo senso originale. Com’è noto, infatti, la parola viene dal verbo vocare – chiamare/essere chiamati – per cui la vocazione è innanzitutto quella relazione essenziale tra il nostro cuore e la fonte dell’appello che per noi ha più senso.
L’uomo è Meta – morphosis
La seconda condizione della persona è la sua capacità di trasformarsi. In un continuo processo in divenire, l’uomo ha la straordinaria possibilità di “contraddirsi”, non tanto seguendo una ambiguità ipocrita, quanto attingendo a tutte quelle risorse interiori che, riplasmate, possono offrire novità di progettazione e di senso.
Trasformare è qualcosa di diverso da cambiare; nel cambiamento c’è un elemento di violenza, mentre il trasformare è decisamente più dolce. Quando crediamo di dover cambiare e continuamente modificare noi stessi, dietro questa idea sta l’atteggiamento che, così come siamo, non andiamo bene, che dobbiamo renderci diversi, fare di noi una persona diversa. Trasformare, invece, significa che tutto in me può essere, che tutto è buono e ha un senso, che le mie passioni e le mie malattie hanno un senso, anche se talvolta mi tiranneggiano. Trasformazione significa che l’autentico deve aprirsi una breccia nell’inautentico, che la verità deve aprirsi una breccia nell’apparenza. Le mie passioni e le mie malattie reclamano sempre a gran voce un bene prezioso, vogliono portare la mia attenzione sul fatto che, dentro di me, vuole vivere qualcosa a cui non ho ancora concesso di esistere. Se vengono trasformate, proprio nella mia passione e nella mia malattia trovo una nuova qualità della vita, una vitalità e un’autenticità nuove
La trasformazione (metamorfosi) dell’essere umano avviene attraverso l’incontro con l’altro. Ogni incontro ci trasforma. Nell’incontro con una persona scopriamo chi siamo veramente, entriamo in contatto con la nostra natura autentica.
La mia trasformazione modifica la mia relazione e il cambiamento della relazione si ripercuote sul processo della mia maturazione e della mia crescita.
Quella che riceviamo in dono nell’incontro è, in fondo, sempre una trasformazione d’amore. L’incontro risveglia in noi la capacità di amare: mette in moto un processo che noi stessi non siamo in grado di attivare. Abbiamo bisogno dello sguardo amorevole, dell’incontro privo di pregiudizi, per scoprire il tesoro dentro di noi e disseppellirlo. Scopro il mio Io proprio nel Tu. L’incontro con il Tu mi fa riconoscere qual è il mistero più profondo del mio Sé. E ottiene che il mio Sé emerga chiaramente dal caos dei miei pensieri e sentimenti, dalla confusione dei miei ruoli e delle mie maschere, crescendo sempre di più nella sua vera forma.
Martin Buber notava:
“Ogni persona che viene a questo mondo costituisce qualcosa di nuovo, qualcosa che non è mai esistito prima. Ogni uomo deve sapere che non c’è mai stato nel mondo nessuno uguale a lui, perché se ci fosse stato un altro come lui, non sarebbe stato necessario che lui nascesse. Ogni uomo è un essere nuovo nel mondo, chiamato a realizzare la sua particolarità”.
Responsabilità
Il grado di maturazione e di pienezza con cui rispondiamo a questa possibilità è il concretizzarsi del nostro essere o meno responsabili. Il punto di svolta si incontra quando siamo posti di fronte a un senso radicale, che ci riguarda e ci coinvolge nella vita. E’ la responsabilità. Uso tale espressione perché la responsabilità non è una facoltà come le altre, né tanto meno un peso di cui liberarsi quanto prima, ma è uno stile di vita, il solo che possa schiuderci un benessere vero, concreto.
Gli eventi e i fatti della vita sono ovviamente importanti, ma più importanti ancora sono le risposte che diamo a essi. Il nostro profilo interiore e la nostra personalità, prendono forma dal tipo di risposta che diamo alla vita e alle sue situazioni.
Che cosa vuol dire “responsabilità”? E’ la capacità di esserci, di essere presenti alla vita, alla relazione con gli altri, ai compiti che ci attendono, senza scappare, senza delegare. Come accade per il desiderio, così anche per la responsabilità è vero che bisogna attraversare la paura. Chi si fa guidare della paura diventa fatalmente un irresponsabile.
La responsabilità è la giusta risposta generata dal riconoscimento di un valore che, per la nostra professione di operatori consultoriali, sappiamo riconoscere non in concetti astratti, ma nelle persone che si rivolgono a noi.
Sottolineo l’espressione “la giusta risposta”: infatti agire responsabilmente significa capire la situazione, la richiesta che mi viene fatta, la condizione di chi me la fa, le capacità e doti che posso attivare. La sintesi di questi elementi porta alla risposta giusta. Una risposta che non sarà né freddamente tecnica, né puramente emotiva, perché piuttosto sarà una risposta che unisce competenza, dedizione e umanità. Non si tratta tanto, come si dice oggi frequentemente, di “metterci la faccia”, ma di metterci tutta la nostra umanità, di impegnare la persona preziosa che siamo.
La responsabilità è la capacità di rispondere personalmente agli eventi della vita, anzitutto all’altro che ha bisogno di me.
Qui mi interessa sottolineare come non solo l’etica professionale, àma anche una spiritualità del servizio sia la condizione fondamentale, senza la quale ogni sistema organizzativo assolutizza se stesso e costringe le persone a una condizione di sottomissione e di alienazione.
Tale spiritualità del servizio implica l’essereper l’altro, il dono di sé, e non essere “semplicemente” portatore di servizi per l’altro, o vedere l’altro come colui che ha continue richieste da farmi. Risvegliarsi alla responsabilità non porta a vedere solo il “tu” che ho dinanzi, ma comporta anche il riconoscimento del “terzo”, cioè potenzialmente di ogni altro con cui entrerò in relazione.
Certo, il carico di impegni da affrontare è gravoso. Sembra un eccesso. Ma questa condizione non va letta come se ci fosse chiesto di diventare onnipotenti, ma ci ricorda che non possiamo fissare a priori il confine della nostra responsabilità, né accettare che altri siano lasciati fuori dai suoi benèfici frutti.
La responsabilità non è una condizione statica. E’ un dinamismo grazie al quale mi rendo presente nell’incontro con gli altri e scopro man mano, proprio grazie a loro, quale sia il mio potenziale di creatività, di cura, di azione positiva.
Il dato che rende concreta e sostenibile questa responsabilità è quello per cui non siamo soli a esercitarla. La devo esercitare in prima persona, senza delegare, ma non da solo. In una struttura comunitaria la responsabilità è sia necessariamente personale, sia d’équipe, comunitaria, e migliorare il mio apporto affinché ci sia un vero gioco di squadra è un impegno che avrà benefiche ricadute anche su di me.
In fondo, l’azione responsabile (perché la responsabilità non è un’idea, ma un’azione in cui ci impegniamo interamente) è la prova più forte e la testimonianza più attendibile del fatto che la vita ha senso e valore nonostante le crisi, le sofferenze.
Per essere responsabili bisogna essere diventate persone libere.
E le persone libere sono quelle che hanno sentito e capito che c’è qualcosa di più importante di mettere se stessi al centro di tutto e di obbedire alla paura: c’è da essere felici di partecipare a una vita sensata.
Un’ultima precisazione su questo punto: diventare liberi e responsabili non significa essere degli eroi o essere perfetti. Significa scegliere, a un certo momento, di agire a favore di altri perché restare inerti o indifferenti sarebbe umiliante e mortificante per noi stessi. Significa capire che il bisogno di aiuto dell’altro è un motivo fondamentale per agire e che non c’è altro bene se non il bene comune, condiviso.
L’uomo è relazione
La persona umana è un punto nodale e focale di relazioni che si auto – comprende nell’intreccio delle sue relazioni. In fondo “persona” è un termine che può declinarsi solo al plurale: si può dire Io sono nell’implicito riconoscimento di un’alterità che l’Io non è. Se penso devo concludere che Tu sei. La realizzazione di me stesso è solo nella relazione dialogica con l’altro, con un Tu. Basta pensare all’origine di ogni uomo: l’uomo viene al mondo abitando in un altro uomo.L’uomo entra nel mondo abitando in un altro uomo, diventa se stesso attraversano il mondo di un altro, diventa Io in luogo di una relazione a un Tu[4].
Solidarietà o la cura del noi (del sociale)
La solidarietà comporta sia l’essere insieme, il sentire e l’agire di concerto, sia il fermarsi ad aiutare chi si trova in difficoltà senza abbandonarlo.
É importante che i due versanti si richiamino l’un l’altro indissolubilmente: non c’è comunanza o reciprocità se non si è disposti all’aiuto, non c’è vero aiuto se non in una prospettiva di possibile reciprocità e di pari dignità.
La solidarietà è un modo di vivere, anzi di convivere, assumendo la propria quota di responsabilità per lo svolgersi della realtà di tutti.
Perché sia autenticamente vissuta, sino a divenire un tratto tipico di un intero stile di esistenza, la solidarietà deve avere profonde sorgenti interiori nelle persone e, su questa base,deve anche potersi sviluppare come una qualità fondamentale della convivenza sociale. Qui ogni dualismo tra interiorità e situazioni esterne è sbagliato. Perciò l’attenzione che rivolgo al vissuto della solidarietà non va affatto collocata in una prospettiva intimista, che vive solo dentro di me.
Atteggiamento solidale e azione solidale crescono di pari passo e si alimentano a vicenda. Perché, allora, dedicarsi specialmente ai vissuti interiori?
Le dinamiche emotive e affettive permettono di maturare uno stile solidale di esistenza anzitutto efficace per evidenziare che esso può giungere a essere non l’effetto di sforzi morali e sacrifici, ma l’espressione della nostra libertà. Incontrerò la fatica, le rinunce, le difficoltà, le incomprensioni e lo stress, ma se il mio lavoro e il modo di svolgerlo esprimono la mia personalità, anziché mortificarla, io sarò più forte di ogni circostanza negativa e proprio per questo sarò in grado di attuare bene i miei compiti.
Alle radici dell’antica e diffusa resistenza a vivere la solidarietà non ci sono solo lo sviamento delle dinamiche familiari influenti sulla formazione della personalità di ognuno e la miopia particolarista della mentalità egoista. C’è anche un’esigenza reale e legittima. É l’esigenza di salvaguardare l’unicità della persona umana, il suo spazio fisiologico di solitudine, la sua libertà. Per coglierne la profondità basta pensare che l’individualismo – per quanto sia una logica lacerante, dolorosa, dannosa, portatrice di frutti amari e velenosi – riesce a insediarsi stabilmente come atteggiamento di vita per ampie fasce di popolazione proprio perché a suo modo raccoglie l’istanza radicale dell’unicità e della libertà.
Naturalmente questo complica le cose perché si tratta di superare la logica elementare che contrappone socialità a individualità, per imparare piuttosto a tenere insieme prossimità e solitudine, andata verso gli altri e ritorno a sé, solidarietà e unicità personale. É assai più facile adottare lo spirito dell’individualismo, oppure consegnarsi a qualche forma di collettivismo e di passiva subordinazione a una certa macchina organizzativa. Ciò che è difficile è giungere ad un equilibrio armonico tra intimità e relazione con il mondo esterno, ma non per questo estraneo.
Per un verso, infatti, ciascuno è sì persona in virtù della sua originaria dignità e dei suoi costitutivi tratti di umanità, ma del resto diventa veramente persona nella misura in cui con libertà assume, affina, rielabora ed esprime le proprie facoltà umane.
Sottolineo questa struttura dinamica ed evolutiva della condizione di persona per evidenziare in particolare che la solidarietà come atteggiamento permanente, spirito e modo d’essere non è tanto qualcosa di immediato, quanto il frutto di un delicato cammino di maturazione che richiede il superamento delle tendenze legate all’egoismo e lo sviluppo della capacità di decentrarsi per fare spazio agli altri.
Per altro verso, la solidarietà va oltre i confini della singola persona. Essa rispecchia la realtà del legame tra tutti i membri della famiglia umana e anche, per certi aspetti, tra tutti i viventi. Siamo oggettivamente legati gli uni agli altri: la solidarietà è la risposta di libera conferma data a questa condizione universale.
Di fatto la solidarietà è rimasta per lo più un riferimento relegato all’auspicio, all’esortazione, alla rappresentazione di ciò che dovrebbe essere. Di conseguenza, quando si giunge a sperimentarla si realizza una vera e propria scoperta, ha luogo un evento di svolta e di conversione. É come se si uscisse dal mondo noto sino ad allora e poi ci si rientrasse con un cuore e uno sguardo radicalmente rinnovati: ecco il risveglio di cui si parlava all’inizio come nucleo della cura di sé.
Che la solidarietà sia un valore e un ideale è noto. Di solito viene considerata in questa maniera e così, del resto, si tende a ritenere che sia necessario un certo sforzo di volontà per adottare un comportamento solidale nei confronti degli altri. Occorre anche riconoscere che àla solidarietà, oltre alla buona volontà o alla volontà di bene, richiede anche l’esercizio dell’intelligenza, la comprensione di persone e situazioni, la forza dei nostri sentimenti e delle emozioni, la libertà e la responsabilità tipiche della persona umana.
Visione evangelica della persona in contrasto con la laicita’?
La nostra carta recita: L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia.
Quale è il senso di quel “in accordo con la visione evangelica”?
Si è sempre parlato della dimensione laica dei consultori UCIPEM (anche se non si trova nei documenti ufficiali) e a volte si è accentuato a tal punto questa dimensione da considerarla come caratteristica principale di differenziazione rispetto ad altre aggregazioni consultoriali.
Come si accordano questi due elementi: la persona secondo la visione evangelica e la dimensione di laicità che contraddistingue un consultorio?
Partiamo dal secondo elemento: cosa intendiamo per laicità?
Frequentemente si sente parlare nei nostri ambienti di laicità identificandola con l’apertura e l’accoglienza incondizionata di ogni persona senza distinzione alcuna; un’accoglienza che si astiene da ogni preconcetto, dal desiderio di indottrinare, o peggio di sostituirsi alla coscienza dell’altro. Come se ogni operatore di consultorio (al di là del proprio credo religioso) non dovesse avere queste caratteristiche.
Vi è, a volte, anche una visione ideologica della laicità che contrappone, per esempio, laico a cattolico, sottintendendo che il primo è libero ed è fondato su principi razionali e il secondo non è libero perché “condizionato” da una fede… Anziché distinguere in modo relazionale i vari approcci li si oppone in modo antitetico. L’etichettarci per forza come “laici” mi sembra una forzatura che risente in modo stantio ancora della tensione costante tra fede e ragione. Mentre questa tensione potrebbe essere un incontro fertile e arricchente. Il legittimo rispetto dell’autonomia della scienza e della sua metodologia vale anche per la consulenza familiare in quanto strumento di servizio nella relazione di aiuto; e questo può e deve essere vissuto da tutti gli operatori di consultori familiari come fondamento di libertà.
La nostra laicità è la libertà e la possibilità di servire le famiglie senza doversi svestire della propria identità personale, sociale o religiosa.[5]
Il profilo dei nostri operatori di consultorio deve coniugare una competenza qualificata nella specifica disciplina professata, una formazione specifica alla consulenza familiare e una condivisione etica “non solo degli aspetti umanistici ed esistenziali ma anche dei fondamenti antropologici più profondi”.
La visione evangelica dell’uomo, non mortifica in nessun modo il metodo della consulenza, né la forza verso alcuna presa di posizione.“Chi si rivolge ai nostri consultori deve saper che non trova spazi ridotti di libertà personale, o atteggiamenti moralistici di persuasione o di condanna, ma piuttosto stile di accoglienza e competenza più rispondenti alla globalità e all’unità dei valori e alle esigenze della persona umana” (CF17). E’ un vero aiuto alla libertà delle persone.
Ma il fondamento della persona in accordo con la visione evangelica ci domanda di sapere
quale è la visione dell’uomo nel vangelo; sinteticamente potremmo affermare:
– La dignità della persona umanaà
– Fatto a immagine di Dio e di conseguenza:
- Aperto al trascendente
- Unico e irrepetibile
- Relazionale e comunionale
- Fatto di anima e corpo: L’uomo paradossale promontorio sporgente sull’Assoluto (card. Martini).
- Dotato di coscienza
- Libero
Formazione specifica alla consulenza familiare
I nostri consultori vedono coinvolte professionalità diverse e l’offerta dei servizi è molteplice in dialogo e in risposta alle esigenze del territorio nella cui rete siamo inseriti. Ma àciò che unifica l’azione dei vari operatori, promuove una metodologia e un linguaggio comune è lo stile e la cultura consulenziale.
La nostra azione non è primariamente centrata sull’aspetto terapeutico ma, attraverso un rapporto di fiducia e di collaborazione aiuta il cliente a diventare protagonista del superamento delle sua difficoltà, e, qualora ne sorgesse la necessità, ad orientarlo verso un intervento specialistico anche di tipo terapeutico. E’ forse necessario che la nostra Unione promuova autonomamente dei corsi di formazione alla metodologia consulenziale così che anche varie figure professionali che costituiscono il consultorio improntino la loro azione su una linea condivisa e più collegiale. L’evoluzione e la qualificazione dellaàfigura del consulente familiarein questi ultimi anni ha permesso una definizione più chiara del suo ruolo, eàle scuole accreditate dall’AICCeF formano professionisti capaci di rispondere adeguatamente alle richieste dei consultori. Per questo, forse, andrebbe modificato l’articolo della nostra Carta Costitutiva, nel quale, mentre si proclama la centralità del Consulente familiare, lo si relega ad un ruolo ancora secondario. L’Ucipem potrebbe attingere alla professionalità di queste scuole di formazione per organizzare corsi di formazione alla metodologia e alla prassi consulenziale.
Verifica collegiale
Un aspetto che merita una riflessione particolare è la figura di colui che viene chiamato, a mio avviso impropriamente, supervisore del consultorio. Ho detto impropriamente perché il lavoro di supervisione è soprattutto legato all’attività del professionista e alle ripercussioni su se stesso. Mentre la verifica collegiale sulla vita di un consultorio Ucipem e sulle dinamiche dell’equipe è altra cosa e deve essere fatta da chi ha concretamente un’esperienza pluriennale di lavoro in equipe. Sovente si chiamano professionisti della relazione d’aiuto o anche consulenti familiari esperimentati, anche ottimi, ma che non hanno esperienza di lavoro in equipe consultoriale e di un consultorio Ucipem. Questi possono fare un lavoro di supervisione personale ma non hanno l’altra competenza che è molto specifica e domanda una formazione e un’esperienza particolare. Potremmo preparare e formare, come Unione, degli operatori che svolgano questo ruolo e facilitino la crescita di una equipe?
CONCLUSIONE
Il progetto che i nostri consultori perseguono è quello di essere luogo di “Umanizzazione” che, nella rete dei servizi alla persona sparsi sul territorio, si specifica per lo specifico approccio consulenziale, l’attenzione al ruolo protagonista della persona, usando come strumento privilegiato la relazione e, nella pluralità delle sue professionalità, trova nel lavoro in equipe la metodologia per superare quella egoità di cui soffre l’uomo d’oggi e propone con il proprio servizio un’immagine di un “noi” attento, professionale ed efficace.
Ma non vorrei dimenticare anche l’esperienza e la promozione della gratuità, come valore espressivo e ricchezza della persona, che si libera e guarisce dalla ricerca del possesso, aprendola all’incontro interpersonale empatico e dotando l’indispensabile professionalità di un supplemento di umanità.
Il tessuto che in questi anni è uscito dai nostri telai ha rivestito di dignità tante storie ferite o spogliate di armonia e ha ridato bellezza a chi, piegato nella ricerca di senso, ha trovato il coraggio di auto trascendersi e rialzarsi e, nella trasparenza della relazione d’aiuto, ha ripreso la fierezza di lavorare ostinatamente come artigiano nel mestiere di uomo.
Il compito della persona–scrive nel suo Diario EttyHillesum, una giovane donna ebrea morta in campo di concentramento – è allora quello di “dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità, fintanto che si sia in grado d’irraggiarla anche sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato”. Questo lo possiamo certamente dire anche dei nostri consultori.
[1] CEI, Consultori familiari sul territorio e nella comunità, 1991. D’ora in poi CF.
[2]Boezio, ad esempio, riconosce come costitutivi della persona la sua irripetibilità (individua substantia) e la sua razionalità. San Tommaso, da parte sua, accoglie la definizione boeziana integrandola (“omnesubsistens in natura rationalivelintellectuali est persona“. Contra Gentiles, IV, c. 35) e ponendo le premesse per riconoscere alla persona tutte le proprietà che, con accentuazioni differenti, le attribuirà il pensiero moderno e contemporaneo: l’autocoscienza, la libertà, la comunicazione ecc.
[3] Per la trama di questi tre punti devo ringraziare Fabiola Falappa, docente di ermeneutica Filosofica all’università di Macerata, da sempre attenta alle tematiche della persona e della relazione.
[4]Nella contemporaneità si confrontano/scontrano, in altri termini, due idee di uomo e di persona, due modelli antropologici che si trovano inevitabilmente in contrasto: gli individuali e i relazionali. Per il primo modello la libertà e la felicità dell’essere umano sta essenzialmente nella “libertà da”, nell’assenza di vincoli, nella possibilità di poter scegliere in ogni momento cosa fare, senza impedimenti di alcun genere; per il secondo la libertà e la felicità dell’essere umano sta invece proprio nella disponibilità di legami buoni, nella capacità di condividere, nell’esperienza dell’appartenenza e della interdipendenza. Per gli individuali il nemico principale è il legame, qualunque tipo di legame, per i relazionali è invece la solitudine. Evidentemente i progetti di famiglia e di educazione generati dall’uno o dall’altro modello antropologico saranno radicalmente diversi in funzione del valore che verrà attribuito ai “legami”. La questione della relazionalità è quindi strettamente legata al concetto di libertà. C’è un uomo contemporaneo che prima di tutto vuole vivere “libero da”, non “libero di”, né “libero con”, né tantomeno “libero per”.
[5] Trovo bizzarro che in molti consultori si esiti a far riferimento ai valori cristiani e invece non si esiti a presentare frammenti di dottrine religiose orientali e a farne citazione oltre che strumento di intere giornate di lavoro!