Il primo anno di vita del bambino

Il bambino se ad un mese piange ostinatamente quando ha fame o sta scomodo, senza preoccuparsi minimamente delle esigenze dell’adulto o degli adulti che hanno cura di lui, mentre si tranquillizza solo quando è satollo e soddisfatto di tutto, successivamente comincia a regolare la sua vita ed i suoi bisogni in base alle esigenze della madre. Impara a postergare i suoi bisogni fisiologici: l’alimentazione, il sonno, i bisogni di coccole, in base alle necessità e alle richieste materne. Mostra interesse ed eccitazione al rumore dei passi che si avvicinano, al rumore dell’acqua quando la madre prepara il bagnetto quotidiano o a quello delle pentole quando appronta la pappa. Fra le sei e le dodici settimane sorride regolarmente e indiscriminatamente a tutti i visi umani e persino a illustrazioni o modelli di dimensione reali, purché siano visti di fronte e abbiano qualche movimento (Wolff, 1970. P.16).[1]

Fra i tre ed i sei mesi il sorriso stereotipato diviene selettivo e si rivolge alle personefamiliari. Il bambino diventa capace di rispondere con un sorriso ad uno stimolo ben specifico. Pertanto il sorriso non è più ‹‹…una semplice reazione ad eccitazioni interne od esterne, esso entra ugualmente in un quadro di relazione come metalinguaggio fornito di sottigliezze e tonalità melodiche›› (De Ajuriaguerra, 1993. P.118).[2] Il bambino a questa età riconosce i suoi genitori ed ha delle immagini mentali delle persone familiari (stadio dell’oggetto precursore).

A Cinque – sette mesi distingue la mimica degli adulti e reagisce di conseguenza: ride, vocalizza e fa vari rumori di gioia quando gli altri comunicano con lui. È contento e volge il suo sguardo verso la voce della mamma che gli parla da un’altra stanza. È sensibile e mostra un’evidente rispondenza alle differenti intonazioni emozionali della voce di questa. A partire dai sei – otto mesi ha interesse ai giochi dei quali è fatto partecipe, tipo “Cucù – eccolo” e si riconosce allo specchio. ‹‹Accanto a questi progressi abbastanza vistosi sul piano dei rapporti del bambino con gli adulti, non si può non essere colpiti dalla relativa povertà dei rapporti con i coetanei. Contrariamente a quello che constatiamo nelle età successive, gli altri bambini della stessa età sono praticamente senza interesse per il bambino. Eccetto qualche sorriso e alcuni toccamenti, non presta loro molta attenzione. Egli non li avverte partecipi alle situazioni per lui vitali, tratta i suoi pari come oggetti: li strapazza, li tocca con le mani, strappa loro i giocattoli che lo interessano. Per Spitz, a questa età, compare l’angoscia degli otto mesi. Il bambino avverte paura, se non angoscia, al cospetto di estranei. Teme istintivamente e non si fida delle persone a lui non note. Alla loro vista egli si imbroncia, si nasconde o si mette a piangere, manifestando timidezza.

In questo periodo è importante la comunicazione affettiva che proviene dal volto e dai gesti materni. È da questi segnali che dà la madre che il bambino capisce se chi ha di fronte è una persona amica o nemica. Se con questa persona che si avvicina a lui si può giocare oppure è meglio restare lontani. Se è il caso di lasciarsi andare nelle sue braccia oppure rimanere stretti al collo materno.

Verso i nove mesi circa, il compagno di gioco è preso maggiormente in considerazione soprattutto in funzione delle cose che possiede. Sono frequenti le lotte e i conflitti per avere degli oggetti di interesse reciproco. Bisognerà attendere ancora parecchi mesi perché si stabiliscano contatti diversi da quelli aggressivi (Osterrieth, 1965, p. 59).[3]A questa età già vocalizza liberamente, con significato di comunicazione interpersonale. Grida per attirare l’attenzione della madre e degli altri adulti. Parlotta armoniosamente ripetendo e legando alcune sillabe come ma-ma; pa-pa. Capisce il “no” e fa “ciao” con la manina. A dodici mesi conosce già il proprio nome e si volta se chiamato. Mostra, con movimenti adeguati, che capisce molte parole del lessico familiare. Comprende semplici richieste associate ai gesti ad esempio: ‹‹Dammi››, ‹‹Fa’ ciao››. Distribuisce baci ai genitori e alle persone care.

A mano a mano che il bambino viene riconosciuto educabile, cioè capace di apprendimento, la madre modifica sempre più le sue manifestazioni di tenerezza verso di lui. Se prima vi era il convincimento che il figlio dovesse sempre ricevere il suo aiuto ed il suo sostegno, adesso vuole che impari certe cose, per cui tende a mostrare verso di lui collaborazione e tenerezza come ricompensa quando si comporta bene o impara (Sullivan, 1962, p. 184).[4] Pertanto è la madre la protagonista del primo anno di vita del bambino, non solo perché è lei che lo allatta e successivamente lo imbocca, ha cura di lui, lo pulisce e controlla che non si faccia del male, ma è anche lei il punto di riferimento, la stella polare del bambino quando è ferito, dolorante, triste, spaventato o quando ha bisogno di coccole.

Durante il primo anno inizia anche la comunicazione con il padre. Questo tipo di comunicazione ha strumenti, tempi, obiettivi e finalità diverse rispetto alla comunicazione materna.

La comunicazione paterna tende ad offrire al bambino un esempio più deciso e forte, più sereno e stabile. Per tale motivo questa comunicazione appare più stringata e lineare, più tranquilla e razionale, più ruvida e decisa. È una comunicazione che, priva di fronzoli, con l’uso di pochi e scarni aggettivi, stimola all’azione, al fare e al creare. Il padre con il suo esempio comunica al bambino decisione, agilità, destrezza, irruenza. Con le parole gli dà la forza della razionalità, stimola in lui il controllo delle proprie emozioni, la sicurezza del proprio agire. Con i suoi comportamenti fa sorgere nel figlio il piacere della conquista, e delle rapide decisioni. In definitiva, se la comunicazione materna mette in primo piano il cuore ed i sentimenti, quella paterna mette in primo piano la ragione. Se la comunicazione materna ha lo scopo di sviluppare e confortare l’Io del bambino, quella paterna ha lo scopo di dare slancio, forza, determinazione, coraggio, sicurezza a quest’Io.

Alla fine del primo anno di vita ‹‹Guardando gli occhi, e l’espressione di chi si prende cura di lui, il bambino ottiene informazioni sui suoi stati interni – pensieri, intenzioni, credenze, desideri ed emozioni – e li usa per costruire un collegamento tra quello che potrebbe fare chi lo accudisce e quello che lui stesso progetta di fare. L’accesso ai propri stati interni è ora coordinato con l’accesso a quello di un’altra persona affettivamente significativa›› (Barone, Bacchini, 2009, p. 26).[5]


[1] S. WOLFF, Paure e conflitti nell’infanzia, Op. cit., p. 16.

[2] J. De AJURIAGUERRÁ, Manuale di psichiatria del bambino, Op. cit., p. 118.

[3] Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Op. cit., p. 59.

[4] Cfr. H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Op. cit., p. 184.

[5] L. BARONE – D. BACCHINI, Le emozioni nello sviluppo relazionale e morale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009, p. 26.

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