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Dai bambini non nati ai nativi digitali: i nostri figli ci educano alla libertà I bambini dentro le storie: legami di attaccamento e narrazioni genitoriali.
AUTORE: Dott.ssa Simonetta Longo
I legami di attaccamento
Fin dalla nascita l’essere umano è dotato di un certo numero di sistemi motivazionali a base innata. Questi fondamenti della motivazione possono essere concepiti come sistemi di controllo del comportamento, finalizzati al raggiungimento di una meta. Alcuni sono attivi fin dalla nascita, come per es. il sistema che controlla il comportamento alimentare, altri, invece, richiedono un periodo di maturazione fisiologica, più o meno lungo, per essere pienamente funzionanti. Il sistema che controlla l’attaccamento del bambino a chi lo accudisce è un sistema motivazionale che necessita di un lungo apprendimento e di un adeguato sviluppo cognitivo, che gli consente di entrare in azione intorno al primo anno di vita. L’esperienza della relazione interpersonale all’interno del legame di attaccamento con la figura accudente, generalmente la mamma, è il fattore principale che orienta e plasma lo sviluppo individuale. Essa viene conservata in schemi di memoria riguardanti se stessi e gli altri: gli «Internal Working Models».
Sono gli «Internal Working Models» ad orientare, nel futuro dell’individuo, le relazioni verso linee funzionali o disfunzionali. Entro il primo anno di vita, la maggior parte dei bambini sviluppa una modalità di attaccamento a chi li accudisce che viene definito sicuro. La sicurezza si esprime nella capacità del bambino di CHIEDERE AIUTO quando si trova in situazioni di difficoltà o di pericolo; nelle situazioni in cui non sono presenti motivi di disagio fisico o emotivo, il bambino esplora tranquillamente e liberamente l’ambiente circostante. In un ampio numero di bambini è possibile osservare un comportamento di attaccamento definito «insicuro» che si esplicita attraverso due specifiche modalità: «l’insicuro ambivalente» e «l’insicuro evitante». Nei bimbi insicuri ci sono limitazioni più o meno marcate della capacità esplorativa. Ciò che li differenzia è il comportamento durante le situazioni di difficoltà. Nel bambino ansioso-ambivalente la ricerca della madre non porta ad una riduzione dello stress emotivo. Nel caso del bambino ansioso evitante si osserva una tendenza ad un eccesso di autosufficienza anche quando sono presenti evidenti fattori di stress emozionale a carico del sistema neurovegetativo (sudore, tachicardia). Una certa percentuale di bambini, invece, non riesce a sviluppare un modello di attaccamento organizzato, sicuro o insicuro che sia, mostrando una disorganizzazione del comportamento, dopo una breve separazione dalla figura di attaccamento. Nelle famiglie in difficoltà la percentuale di bambini con attaccamento disorganizzato appare particolarmente elevata, fino all’ 80%.L’attaccamento insicuro comporta la formazione di schemi cognitivi disfunzionali, in cui sé, l’altro e la relazione vengono presentati come caratterizzati da alcuni aspetti negativi. Soprattutto, le esperienze emozionali penose vengono memorizzate come aspetti inevitabili della propria interazione con la realtà esterna. Nello sviluppo, le esperienze interpersonali vengono assimilate ai primi schemi e se non interverranno ripetute esperienze correttive, le informazioni in essi contenute verranno, più volte, confermate fino ad acquisire valore di realtà indubitabili per l’individuo. Il bambino nella sua esperienza reiterata di attaccamento insicuro, costruisce, più o meno consapevolmente, una rappresentazione articolata dei suoi rapporti con gli altri, in cui si percepirà come indegno di attenzione o di affetto, mentre gli altri potranno apparire indisponibili e rifiutanti. Le esperienze successive tenderanno ad essere assimilate a questi schemi originari, con il timore di essere rifiutato dagli altri, per cui le inevitabili esperienze di tensione interpersonale acquisiranno valore di conferma della visione negativa di sé e della realtà. I possibili eventi positivi e gratificanti verranno considerati come marginali eccezioni, senza poter scalfire la solidità della visione negativa.
La visione negativa è anche alla base di strategie protettive finalizzate a limitare le conseguenze negative connesse a tali schemi relazionali. La persona tenderà, dunque, a sviluppare modalità di prevenzione ed evasione da quelle situazioni in cui l’aspettativa di essere rifiutato possa verificarsi, limitando, di conseguenza, la libera esplorazione delle diverse risorse personali e interpersonali. Le strategie adattive di protezione, tuttavia, consentono di raggiungere un equilibrio emotivo sufficientemente stabile, ma quando gli eventi di vita eccedono le capacità di queste strategie di ridurre il disagio emotivo (la relazione con i figli, la rottura di un legame affettivo, la perdita, il fallimento lavorativo) lo schema insicuro riemergerà, prepotentemente, con tutto il suo correlato di emozioni e pensieri automatici negativi.
La richiesta di aiuto
Sono tali eventi eccedenti a condurre le persone alla ricerca di aiuto. Nella richiesta esplicita e, frequentemente, implicita di aiuto c’è l’obiettivo di recuperare una capacità adeguata di riflessione e di comprensione della propria e altrui esperienza emotiva e di relazione. E’ in prossimità degli eventi eccedenti che il consulente incontra le persone. Le assunzioni di vita e le aspettative hanno bisogno di essere ricostruite per ripristinare nelle persone il senso della significatività del mondo e della non casualità della propria vita. Con il crollo del mondo soggettivo della persona, si verifica un’accentuazione del senso di isolamento sociale e il bisogno di reintegrarsi nella comunità. Nel bisogno della reintegrazione si insinua un varco che può preludere all’esperienza sanante di una relazione d’aiuto! E’ a questo punto che si incontrano le storie… narrazioni che svelano «bimbi», nascosti, talvolta, intermittenti, sfocati, a frammenti, sfuggenti, feriti, imbronciati, delusi, andati via per sempre…Sicuri, preoccupati, evitanti, disorganizzati. E’ nelle storie che si evidenzia il legame di attaccamento con cui i «bimbi» hanno sempre convissuto, senza accorgersene e senza sapersene difendere. La natura di tale legame si infiltra nelle relazioni del presente e riacutizza i malesseri del passato. Le narrazioni sono, pertanto, il tramite per il quale si esprime e si ricontatta la relazione con il mondo. Le storie, sovente, sono intrise di sfiducia. Quando si è in difficoltà e si intende cambiare c’è uno sconvolgimento nel mondo interno ed esterno e tali cambiamenti sono difficili da affrontare e controllare. … è necessario capire se si tratta di una sfiducia situazionale, oppure se ci troviamo di fronte ad una sfiducia primaria, che ha a che fare con un particolare legame di attaccamento e che si esprime in un’autodiagnosi:« non c’è niente da fare, nessuno può aiutarmi». Altre volte sembra la diffidenza il timbro delle storie. Essa non è espressa o è negata, allora è il consulente a dovere dubitare, evitando l’errore fatale di sentirsi sollevato a causa della negazione della realtà. Talvolta la diffidenza è presente non come malattia ma come necessità. C’è il momento, infatti, del mettere alla prova, per capire se il consulente può essere utilizzato per le proprie esigenze di supporto. Il consulente ha bisogno di rimanere in contatto con la diffidenza, senza spaventarsene, anzi alleandosi esplicitamente con essa. Spesso i genitori che arrivano in consultorio sono animati da un costante, il più delle volte, espresso sentimento di ansia o di preoccupazione per se stessi e i propri figli. Talvolta nutrono la speranza di una risoluzione magica del problema, motivata da una comprensibile ma pericolosa idealizzazione di un curante magico. E’ necessario contenere l’investimento emotivo su di sé, come oggetto immediato di relazione, perché c’è il rischio di alterare la dimensione della simpatia lucida della relazione d’aiuto. In tale eventualità si tenderà, troppo presto, a eliminare la necessaria distanza di sicurezza che potrebbe spaventare le persone o deluderle nelle aspettative irrealistiche, provocando, talvolta, il fallimento o la sospensione del percorso. L’affidamento immediato è di difficile maneggiamento perché nasconde la compiacenza o rivela un’identità da spugna. In realtà, la relazione d’aiuto ha bisogno di strutturarsi come umile costruzione di una consensualità su aspetti legati alla difficoltà e alla sofferenza. E’ il senso di impotenza, il colore scuro delle storie, e trovare un contatto con esso è la sfida della consulenza. Accogliere tale sfida, significa accogliere l’espressione del senso primitivo di colpa e di vergogna che accompagna le narrazioni genitoriali. I «bimbi» sono sopraffatti dal sentimento di insopportabilità che ne deriva, spesso insostenibile. Talvolta, tuttavia, appare un varco insospettabile : l’oppositività. Essa si presenta nelle storie come latente provocazione, insistente puntualizzazione. E’ questo il modo in cui i «bimbi» escono fuori, ed è anche il modo con cui essi riescono ad usufruire di noi e ad allargare il campo dell’osservazione, nei modi specifici di stabilire le relazioni con il mondo. Così come è spesso necessario maneggiare e permettere le reazioni dubbiose: «non so se è proprio così». L’ascolto dell’incertezza, da parte del consulente, è necessario per non scippare l’altro del proprio mondo interiore. Poter vedere la propria narrazione ascoltata con serietà, permette di attenuare la diffidenza verso un operatore magico, che interpreta senza fornire pezze d’appoggio riconoscibili. Soprattutto, lo svelarsi dei «bimbi» dentro le storie avviene all’interno di un altro implicito, nascosto, talvolta, indiretto riformarsi di un altro legame di attaccamento, quello con il consulente, nella relazione d’aiuto. La riattivazione del sistema motivazionale dell’attaccamento permette al consulente di far emergere, per il tramite delle narrazioni, le relazioni costruite dalla persona nel corso della sua storia, con le sue stesse figure di attaccamento. Una delle condizioni che più frequentemente si sperimentano nel lavoro in consultorio è l’incapacità da parte dei genitori di sospendere l’immediatezza dell’esperienza di realtà, sentita come troppo prossima e invischiante per essere elaborata. L’invito alla narrazione di storie diventa lo strumento per ovviare al fallimento della funzione riflessiva e si trasforma, dunque, in espressione e in possibilità di riconoscere la realtà e di metabolizzarla.
Le storie
Le diverse categorie di attaccamento sono in grado di raccontare una storia particolare, una storia che riguarda il modo in cui le emozioni sono regolate, quali esperienze sono potute divenire consapevoli e in che grado la persona riesce a dare un significato al dato di realtà, in rapporto con le sue relazioni primarie. Gli adulti che presentano un attaccamento sicuro hanno una narrazione chiaramente riconoscibile. Sono capaci di narrazione autobiografica, libera, esplorativa con un atteggiamento libero e collaborativo verso il consulente. Essi presentano una visione coerente, indulgente ed equilibrata delle proprie vicissitudini relazionali infantili, riconoscendone l’importanza e l’influenza sulla propria organizzazione mentale attuale. A differenza dei soggetti sicuri, gli adulti insicuri presentano delle narrazioni lacunose e/o poco convincenti della propria storia autobiografica, che testimoniano la difficoltà a integrare in maniera funzionale gli elementi cognitivi e affettivi che concorrono alla regolazione emotiva. Le persone insicure-evitanti tentano di limitare l’influenza dell’attivazione emotiva legata all’attaccamento, in un impegnativo, quanto inconscio, evitamento degli stati mentali propri e altrui connessi a tali tematiche. La narrazione ne risulta impoverita, connotandosi per un racconto evasivo. La regolazione emotiva si caratterizza per un tentativo di disattivazione dell’arousal che organizza la mente, in modo da limitare l’accesso a esperienze e informazioni connotate in senso emotivo. Sono le emozioni ad essere maggiormente penalizzate. Le narrazioni degli insicuri-ambivalenti sono guidate dalle emozioni e invischiate nelle relazioni infantili. Il passato sembra irrompere nel racconto, colorando emotivamente il contesto attuale. In questa condizione, il coinvolgimento emotivo sembra costituire un ostacolo rispetto alla possibilità di prendere un’adeguata distanza dai propri vissuti emotivi e di poter effettuare processi di astrazione che permettano di cogliere il senso complessivo dell’esperienza. Sono i pensieri ad essere maggiormente penalizzati. Nelle narrazioni «disorganizzate» gli elementi della narrazione presentano giustapposizione tra i nessi temporali. Gli elementi narrativi seguono un andamento anarchico. C’è disorganizzazione dei legami tra affetti e rappresentazioni, difficoltà ad individuare elementi di simbolizzazione. Gli elementi legati al contatto intergenerazionale sono intermittenti, quasi assenti. Il materiale narrativo è disorganizzato. Nei legami insicuri, l’attaccamento non riesce a completare il suo naturale ciclo regolativo (stressor – strategia di regolazione e coping – modulazione del disagio) e si incaglia in una ripetizione circolare in cui l’elemento stressante si ripropone in maniera reiterata.Ciò che è interessante nelle storie è il peculiare modo di elaborare l’informazione affettiva e cognitiva. (Crittenden, 1994). Le narrazioni genitoriali sicure sembrano accedere alle informazioni sia affettive che cognitive ed integrare queste fonti di informazione con flessibilità crescente, per adattarsi, funzionalmente, ai limiti imposti dalle situazioni. In esse l’informazione cognitiva è utilizzata per moderare l’informazione affettiva e quella affettiva per dare forma alla cognitività. La risoluzione delle discrepanze tra le informazioni dipende dalla capacità della mente di percepire e riconoscere la loro qualità. Le narrazioni insicure risolvono le incoerenze, scartando le informazioni. Nelle narrazioni genitoriali ambivalenti vengono rifiutate le informazioni di derivazione cognitiva, mentre quelle evitanti scartano quelle di derivazione affettiva. Le storie sicure trattengono più informazioni e con l’aiuto delle figure di attaccamento le correggono, raggiungendo una comprensione di livello superiore. Nelle narrazioni genitoriali, il disagio dei figli e quello dell’essere stati figli si interseca in un quadro di vulnerabilità. In tali storie, di frequente, vengono escluse informazioni necessarie per l’elaborazione di una risposta adattiva. Nelle narrazioni genitoriali dei preoccupati sembra emergere una ridotta percezione delle condizioni che portano i loro figli ad avvertire la sofferenza. Traspare l’incapacità di trasmettere loro un’organizzazione comportamentale che permetta di influenzarne in modo prevedile il comportamento. Viene comunicata una percezione di se stessi come genitori incapaci. I «bimbi» dentro tali storie appaiono sommersi nell’oscillante vulnerabilità dei loro genitori e di frequente sono dominati dall’ansia…I bambini delle narrazioni distanzianti sono descritti come aventi problemi comportamentali e nel controllo degli impulsi, sembrano avere scarsa autostima, scarsa regolazione emozionale e più difficili relazioni con i pari. Vengono descritti come inclini a comportamenti disturbanti e a iperattività. I bambini delle narrazioni distanzianti sono descritti come aventi problemi comportamentali e nel controllo degli impulsi, sembrano avere scarsa autostima, scarsa regolazione emozionale e più difficili relazioni con i pari. Vengono descritti come inclini a comportamenti disturbanti e a iperattività. La difficoltà a mentalizzare è l’elemento che caratterizza i bimbi delle narrazioni genitoriali insicure. Spesso, infatti, persiste una modalità indifferenziata di rappresentare l’esperienza interna ed esterna. La difficoltà genitoriale di rispecchiamento è, a sua volta, originata da legami di attaccamento insicuri. I «bimbi» di ieri e quelli di oggi manifestano una profonda difficoltà a mentalizzare, ovvero a riflettere sui propri stati interni, uno dei fattori particolarmente protettivi nei confronti del rischio di disagio psicologico. Tale difficoltà è presente a specchio nei resoconti genitoriali come difficoltà a mentalizzare i propri stessi stati interni e ad etichettarli. Il contatto diretto con la narrazione della propria storia, con le rappresentazioni di sé, con l’espressione dei propri sentimenti, aiuta a far diventare trasparenti cose ancora ignote, mobilita il coinvolgimento e la curiosità, attiva l’attenzione, favorisce la riflessione e la formazione di «fantasie generative» ovvero di investimento psichico mentale per riprogettare il futuro. Le restituzioni alle narrazioni hanno bisogno di essere dinamiche. Lo stupore nasce quando si verifica l’incontro con aspetti di sé o della propria storia che non si avevano coscientemente in testa. Il poterne parlare illumina aree ignote di esperienze pregresse che erano state messe via. Ma, indubitabilmente, l’effetto maggiore della condivisione delle storie avviene a livello della regolazione delle relazioni interpersonali e, soprattutto, delle diadi!
Il “bimbo” del consulente
Perché tutto ciò avvenga è necessario comprendere ciò che accade al «bimbo» del consulente stesso. Ascoltare e parlare sono gli attrezzi del lavoro del consulente, che tutti sanno più o meno utilizzare, ma che il consulente deve saper fare in modo consapevole e preciso, adeguato ed efficace. Nella relazione con le persone è di fondamentale importanza la capacità di registrare tutti i messaggi, cogliendone senso e significato. Il consulente dovrà, contemporaneamente, progredire nella gestione dello scambio ovvero dovrà ascoltare e leggere i messaggi dell’altro, nel contempo, dovrà preparare i propri atteggiamenti comunicativi in risposta alle informazioni e ai contenuti espressi nonché alla postura, alle parole, al tono della voce, in forme calibrate ed efficaci. E’ la gestione della complessa contemporaneità delle azioni della relazione d’aiuto che caratterizza l’abilità del consulente. Quanto più il consulente saprà conservare una piena e presente coscienza di sé, tanto più saprà cogliere la congruenza o non dei contenuti e delle emozioni espresse, della qualità del contatto instaurata e della relazione. In altre parole, egli dovrà essere in grado di percepire coscientemente, nel qui ed ora del colloquio, cosa sta realmente accadendo, in se stesso e nell’altro. Soprattutto, dovrà essere in contatto con il suo «bambino», conduttore privilegiato dell’energia psichica profonda per l’empatia. Ma cosa permette al consulente di provare empatia, in sintesi, cosa prova il «bambino» del consulente a contatto con le storie degli altri? E’ evidente che nell’ascolto delle narrazioni, il consulente ricontatta la sua storia, il suo stesso legame di attaccamento, il modo di elaborare le informazioni, le ferite, le strategie di coping…le sue stesse fantasie generative…Le ricerche sottolineano che una determinante per l’empatia è il grado di sicurezza nell’attaccamento che avverte il consulente in quel momento con le persone. (Giovannini 1994° e 1994b; Mucciarelli et al., 2002; Mikulincer et al., 2005). Il grado di sicurezza percepito dal consulente influenza, infatti, sia il livello di empatia mostrato verso chi è in consultorio, sia le probabilità di aiutarlo in maniera efficace. Quando le persone si sentono particolarmente sicure circa il proprio attaccamento, hanno maggiori capacità di provare empatia per gli altri. Ma in che cosa consiste la sicurezza del consulente? Essa è la capacità di non sottrarsi dalla relazione nonostante le ferite proprie, è la capacità di accorgersi di sé e dell’altro e di orientare le energie psichiche verso la crescita. È vivere il tempo come possibilità. La sicurezza del consulente è la segreta e preziosa condivisione con la persona del suo stesso modo di accogliere la sofferenza e di ridarla all’altro come conoscenza di sé. Il consulente è lì, con le sue stesse ferite, ma capace di ascolto. Non è alla prese con le «misure di sicurezza» ma è pronto ad accogliere, ascoltare e sentire le ferite dell’altro, anche se tale comprensione, talvolta, passa proprio attraverso l’esperienza dei suoi stessi sanguinamenti interni. Anche per il consulente, pertanto, è necessario il ricorso a quella capacità squisitamente umana che è la metacognizione e che si manifesta come auto-riflessività su ciò che si vive a livello emotivo e cognitivo e che apre la possibilità di distanziarsi, auto-osservare, riflettere e regolare i propri stati mentali. Perché, dunque, il consulente possa provare empatia deve sentire di essere riconciliato con se stesso e con la sua storia e, nel contempo, avvertire il bisogno dell’altro, aver caro il benessere di quella persona e soprattutto assumerne la prospettiva. (Batson et al., 2007). Ciò ha maggiori probabilità di accadere quando il consulente non nega le sue stesse ferite, anzi mostra di saperle accogliere e riconoscere nel qui ed ora della relazione. E’ la metacognizione, quindi, questa straordinaria capacità umana di auto-osservarsi, auto- sentirsi ed auto-monitorarsi ad essere la guida anche del consulente: strada di umile condivisione della comune vulnerabilità umana, presupposto ineludibile di un’autentica professionalità.
Simonetta Longo
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