Cambiamenti in quarantena: effetti sui pazienti e sui nuclei problematici

 

 

 

Cambiamenti in quarantena:

effetti sui pazienti e sui nuclei problematici

 

 

 

 

 AUTORE: Paolo Breviglieri 

Il periodo di quarantena che si è reso necessario ha avuto diversi impatti sulle persone e sulle famiglie, si è molto discusso di questi effetti che si stanno evidenziando anche attraverso i primi studi di ricerca.  Lavorando in un consultorio familiare in cui afferisce un’utenza molto diversificata con uno spettro di problematicità eterogeno, mi sono immediatamente posto il problema di poter contattare i miei pazienti per poter capire in che misura gli stessi stessero soffrendo di questa condizione. La mia prima preoccupazione si è rivolta alle situazioni di conflittualità familiare, ai giovani fragili e problematici, alle condizioni di disabilità o di malattia.

Iniziando a contattare questi soggetti mi sono accorto in realtà che a fronte di situazioni di criticità e di reale peggioramento delle condizioni emotive, relazionali e psichiche, ve ne erano altre in cui la quarantena produceva alcuni effetti collaterali di tipo positivo. In alcuni di questi devo dire che questa condizione ha favorito un processo di cambiamento. In questo breve contributo vorrei soffermarmi su questi casi e cercare di ipotizzare quali meccanismi psichici e ambientali siano stati attivati in queste fortunate congiunture.

Rifocalizzare le priorità

Il nostro funzionamento psichico dipende in larga misura dagli oggetti che ci rappresentiamo come rilevanti e che per questo guidano il nostro agire e la nostra attività mentale. Un acquisto desiderato, una passione, un conflitto, una sconfitta, possono essere così caricati di investimento da determinare per molto tempo il grado di soddisfazione sperimentato e le energie messe a disposizioni per ottenere quanto pianificato.

La quarantena e l’immersione nella drammatica realtà di una pandemia mondiale, con migliaia di decessi e la minaccia per le economie, ha messo decisamente in secondo piano per molte persone quanto era considerato di primaria importanza poco prima. Nelle crisi familiari ad esempio ho riscontrato in alcune situazioni che il conflitto fosse attenuato e che il pensiero costante relativo alla “lotta” tra ex coniugi o tra partner lasciasse il posto a pensieri più realistici del tipo: “come possiamo fare per limitare gli spostamenti” o “come possiamo tener impegnata la figlia”. In alcune situazioni ho avuto l’impressione che le preoccupazioni contingenti alla pandemia strappassero via le ossessioni così radicati nei pazienti. Quasi senza uno sforzo esplicito, in alcuni casi queste persone si sono ritrovate semplicemente a “pensare ad altro”, a considerare primario qualcosa d’altro.

Il timore di una perdita rinforza l’attaccamento

Un’altra considerazione riguarda il fatto che ho riscontrato come questa pandemia ha posto molti di noi di fronte al problema della morte quasi per la prima volta. La consapevolezza della propria o altrui morte non è un elemento puramente cognitivo, in realtà si tratta di sentire come reale e possibile e quindi anche rappresentabile il fatto di morire. Questo ipotetico evento è divenuto presente e possibile per tutti noi nello scenario cosciente e ha portato ad un senso di insicurezza che ha spinto ad un rinforzamento dei legami di attaccamento che in genere sono orientati alla famiglia. Questo fatto concretamente si è manifestato in forme di maggiore rilevanza dei legami familiari, nella cura reciproca e anche nell’inclusione di figure familiari abitualmente periferiche o addirittura avverse. Una prova di questo nuovo atteggiamento me l’ha offerta una madre separata in acceso conflitto con il suo ex che mostrando un insolito comportamento di collaborazione verso il padre di suo figlio mi ha detto: ”sa dottore ho pensato che io potrei non esserci più, mio figlio deve avere un buon rapporto con suo padre”.

Nuova percezione di sé

La percezione di noi stessi è un processo complesso che comprende diversi livelli di esperienza. Daniel Kahneman ha suggerito che esiste un primo livello di distinzione tra il cosi detto sé mnemonico e il sé esperienziale. Il primo è costituito dalla rappresentazione che noi abbiamo di noi stessi, della nostra storia, degli eventi salienti della stessa, mentre il secondo è la percezione immediata che abbiamo di noi, di ciò che proviamo ora, del grado di benessere esperito momento per momento. Il sé mnemonico inoltre nel suo configurarsi non può fare a meno di confrontarsi con uno sfondo collettivo in cui si delinea la nostra rappresentazione degli altri e la differenza che esiste tra noi stessi e la maggior parte delle persone; potremmo chiamare questo aspetto la distanza che mi separa dall’essere come sono la maggior parte delle altre persone. Se analizzo i pazienti sulla base di questi concetti, in genere trovo le seguenti costanti: essi si percepiscono come molto più infelici e svantaggiati rispetto alla maggior parte delle altre persone (alta differenza tra sé e gli altri), ritengono di avere una storia e una narrazione di sé complessivamente insoddisfacente (sé mnemonico), questo dato oscura il loro sé esperienziale che è spesso molto più felice e ricco di positività di quanto loro stessi se lo rappresentino.

Possiamo ipotizzare che l’evento della pandemia abbia modificato fortemente questi equilibri: da un lato la distanza tra il sé e gli altri si è radicalmente ridotta in quanto, per molti aspetti siamo un po’ tutti sulla stessa barca e inoltre siamo tutti tenuti alle stesse limitazioni, dall’altro il sé mnemonico ha dovuto temporaneamente restare sospeso in quanto siamo stati messi in una sorta di forzato stand by biografico. In compenso abbiamo potuto esercitare con più libertà e attenzione il nostro sé esperienziale concentrato su quello che facciamo nel qui ed ora.

Queste considerazioni le ho sviluppate parlando con un paziente gravemente ossessionato da un trauma subito; egli considerava intollerabile questo evento, una macchia nella sua storia (sé mnemonico) che gli impediva di apprezzare quanto la vita gli stava comunque offendo. Inoltre riteneva che in fondo ciò che era capitato a lui era un fatto così grave che a nessun altro poteva essere capitata la stessa esperienza (distanza tra sé e gli altri). Esaminando con lui come stesse affrontando la quarantena, mi sono accorto che i suoi pensieri erano molto più legati al sé esperienziale (come aveva passato il tempo, la piacevolezza di alcune esperienze, il contatto con i familiari). Ho avuto la sensazione che la sua mente si fosse improvvisamente liberata dal confronto con gli altri e dal dover far quadrare i conti della sua vita a tutti i costi, e fosse quindi più libero di sentire realmente ciò che provava momento per momento.

La costrizione come luogo in cui ricercare una soluzione relazionale

La convivenza per tutti noi è normalmente una scelta, in genere quando nella convivenza nascono dei problemi tendiamo a limitarla o ad interromperla. Cosa succede invece quando questo non è possibile e la convivenza si estende all’intera giornata senza interruzioni? Verrebbe da pensare che quando ci sono problemi di relazione la convivenza forzata rappresenti una vera e propria bomba che si carica per esplodere. In alcuni casi tuttavia possiamo immaginare che questa condizione spinga le persone a cercare un adattamento più costruttivo e a scoprire aspetti non previsti e positivi dell’altra persona. Talvolta infatti i nostri problemi relazionali sono rinforzati non tanto dalla costrizione quanto piuttosto dalla possibilità di trovare vie di fuga e di evitamento. Pensiamo ad esempio ad una coppia dove la mancanza di intesa li spinge a cercare di stare sempre di più fuori casa, o ad un rapporto di incomprensione che porta le persone ad allontanarsi e così facendo a rendere sempre più intenso e cronica la loro reciproca diffidenza.

Lo stare insieme prolungato e forzato può vincere queste strade e portarci a nuove soluzioni?

Mi verrebbe da rispondere: “entro certi limiti si”. I limiti a cui sto pensando sono quelli della violenza psicologica e fisica, dell’aggressività, della sopraffazione o della svalutazione. Al di fuori di questi casi gravi in cui la convivenza produce vere “ferite psichiche” intollerabili, è probabile che si apra un ampio territorio in cui le incompatibilità, le rabbie, le incomprensioni, le sfiducie, le pigrizie, possano essere messe in gioco in una sorta di “esperimento sociale” in cui si debba comunque cercare il modo migliore per stare insieme.

Questo “esperimento” lo stanno conducendo alcune coppie conflittuali che ho seguito e che mi hanno riferito che in effetti si sono mobilitate in loro diverse forme di collaborazione, di dialogo e persino di giocosità.

 

Allentare il carico di impegni e rallentare i tempi

Un effetto indiretto di questo periodo di quarantena è senza dubbio la possibilità di avere in genere molto più tempo libero, di essere liberi da impegni di lavoro ecc. In genere l’effetto di questa minor pressione esterna è notevole dal punto di vista del benessere psichico e della possibilità di trovare nuovi adattamenti.

Questo aspetto l’ho visto nella quasi totalità dei miei pazienti che si sono detti comunque sollevati, vuoi dal fatto di avere più tempo per loro, vuoi dal fatto di essere meno sotto lo stress del lavoro o della scuola.

Vien da pensare quindi che forse tanta parte del nostro disagio psicosociale sia anche da attribuire ad un ritmo di vita e a delle richieste sociali che per alcuni sono davvero molto alte. Cito l’esempio di un giovane ragazzo di 22 anni che ha valutato in questo tempo di pausa dal lavoro di riprendere gli studi, o il caso di un ragazzo considerato intrattabile a scuola e quindi diagnosticato con categorie psichiatriche, che in questo periodo è calmo in casa con i genitori, collabora con loro, svolge i compiti assegnati che risultano adeguati ai suoi ritmi.

Al termine di questi spunti di riflessioni mi chiedo che cosa faccia la differenza tra quelle situazioni in cui la quarantena produce crisi importanti sul piano emotivo, relazionale e anche psichiatrico e quelle in cui si creano condizioni per un salto evolutivo o per scoprire nuovi volti nelle relazioni o in se stessi. Forse la risposta è legata al bilancio tra i fattori evolutivi e regressivi che sono presenti nel caso specifico: è probabile che questo salto in avanti sia possibile quando nel bilancio relazionale o psicologico individuale sono presenti comunque delle risorse su cui l’evento limitativo opera come uno stimolo che le mette in gioco.

Credo sia nostro compito come operatori della salute mentale e del benessere familiare, accompagnare questi processi sia per rispecchiare e riuscire a spiegare le evoluzioni positive, sia per prevenire cadute e regressioni che si possono nascondere come insidie in questo difficile momento collettivo.

 

Paolo Breviglieri 

Psicologo consultorio familiare

Suzzara

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ostetrica ai tempi del Covid-19                                                                                                                                                              “Mi chiedo se alla fine i medici e gli infermieri saranno considerati eroi Lloyd”.

“No, sir. Perché non sono eroi, sono professionisti”.

“E perché non lo sarebbero Lloyd?”.

 “Perché gli eroi affrontano il pericolo per la gloria, sir. I professionisti affrontano il pericolo e basta”.   

(da Vita con Lloyd di Simone Tempia)

Essere ostetriche ai tempi del COVID-19 non significa indossare una divisa da super-eroe e iniziare il proprio turno in ospedale carica di ego, tentazione che potrebbe derivare dal bombardamento mediatico che dipinge i sanitari come i salvatori del nuovo millennio. Essere un’ostetrica in tempi di pandemia equivale a essere professionista della vita come lo si è sempre state, a partire da quella vocazione iniziale che spinge a essere presente a ogni nascita: l’accoglienza e la dolcezza di sempre, l’expertice e la dedizione, la prontezza di fronte all’emergenza e lo stupore negli occhi. L’unica differenza è che il sorriso è celato dietro alla mascherina.

Noi ospedalieri siamo chiamati a una missione quotidiana al di là e a prescindere da questo periodo difficile. Scegliamo di essere accanto al paziente e di operare per la sua salute a prescindere dai ringraziamenti e dagli elogi.

Non nascondo che quando la gratitudine arriva inaspettata, la gioia che si prova è indescrivibile; ma non è questo l’obiettivo per cui doniamo noi stessi e la nostra professionalità in tempi di COVID-19. Ammetto che tra le corsie dell’ospedale e anche tra le sale parto, si è insinuato il terrore del contagio e della malattia, generando molta tensione.

Credo che ognuna di noi abbia avuto paura per i propri cari e per se stessa, ma senza mai venir meno ai doveri assistenziali.

Un’ostetrica, di questi tempi, cerca come meglio può di rassicurare e di ascoltare le donne che incontra. Per via della situazione le gestanti sono particolarmente cariche di ansia, paure, incertezze, nonché di un certo senso di abbandono dal momento che per esempio molti ginecologi hanno dovuto interrompere l’attività di libera professione.

Questo compito è reso ancora più difficile dal fatto che si hanno poche certezze sia a livello istituzionale che in merito alla prevenzione: i servizi offerti, specie quelli ambulatoriali, mutano in continuazione e perciò a volte è difficile dare risposte concrete.

La parte più difficile, forse, è nascondere quel senso di paura che umanamente coglie anche noi. La mascherina aiuta anche in quello, nonostante gli occhi siano lo specchio dell’anima e le emozioni traspaiano.

Mantenere forte la speranza ed essere contagiose con pensieri positivi, questa è la vera missione delle ostetriche ai tempi del COVID-19.

 

                                                                                             

 

 

 

 

 

 

 

 

Federica Cestaro

                                                                                          Ostetrica Sala Parto

Ospedale “Carlo Poma

Il servizio pastorale nei reparti Covid

 

 

 

 

Testimonianza di don Paolo Gibelli

Da circa un mese, insieme ad altri quattro preti della nostra diocesi che sono presenti a Mantova, Asola, Castiglione delle Stiviere e Pieve di Coriano, svolgo il servizio di cappellano straordinario nei due reparti covid dell’ospedale di Suzzara. Quando il vescovo ha chiesto chi fosse disponibile per questo servizio, ho accettato in modo quasi naturale, come medico e prete. Poi al momento di iniziare ad entrare nei reparti mi sono accorto che era necessario un certo lavoro interiore perché affiorava un po’ di paura di rimanere contagiati e magari di diffondere il contagio agli altri preti della parrocchia: non è che vai a cercarti dei guai? Non potevi startene al sicuro con tante altre cose che ci sono da fare? La paura è provvidenziale perché ci aiuta ad approfondire le motivazioni più vere e ci rende più attenti e responsabili nell’utilizzo dei dispositivi di protezione. Sono molto grato e riconoscente verso alcune infermiere che all’inizio del mio servizio mi hanno aiutato in modo molto concreto nella complicata operazione della vestizione e protezione. Nell’ospedale di Suzzara non ci sono letti di terapia intensiva. I pazienti qui ricoverati provengono da altri ospedali (Mantova, Pieve di Coriano, Oglio Po) e nella maggior parte dei casi hanno già superato la fase più critica della malattia. Vi sono però anche alcuni anziani che provengono dalle RSA della zona le cui condizioni a volte peggiorano fino a causare il decesso. Essendo pazienti che da settimane sono isolati e che non hanno contatti, se non telefonici, con i familiari, gradiscono molto la visita del cappellano, al di là della pratica religiosa. Alcuni confidano la loro preoccupazione per sé e per i loro cari: come usciremo da questa crisi? Ci sarà lavoro per i nostri figli o nipoti? Altri manifestano il dolore e l’angoscia per amici o conoscenti che non ce l’hanno fatta a guarire e sono morti. Per ovvie ragioni di sicurezza, non ci si può avvicinare più di tanto, ma si comunica attraverso lo sguardo e la parola. Alla domanda se desiderano pregare, nella quasi totalità c’è stata una risposta positiva: di solito propongo il “Padre nostro” e noto che molti pregano con intensità e raccoglimento. Qualcuno, di sua iniziativa, mi ha invitato a pregare per i più gravi e per i defunti. Quando mi accosto a persone in gravi condizioni, spesso sedate o non più coscienti, chiedo al personale sanitario di contattare i familiari per sapere se gradiscono la celebrazione dell’unzione degli infermi e, nel caso di risposta affermativa celebro il sacramento. A volte ho notato che anche qualche infermiere e una dottoressa si erano fermate a pregare. La chiesa nell’attuale situazione di emergenza, per i malati e per il personale sanitario a servizio in questi reparti ha concesso la possibilità di celebrare il rito della riconciliazione di più penitenti con l’assoluzione generale: ciascuno chiede perdono nel proprio cuore e il sacerdote impartisce l’assoluzione generale. Prima di Pasqua ho fatto presente ai pazienti anche questa possibilità ed alcuni l’hanno accettata volentieri e celebrata con commozione. Al termine della visita nel reparto mi fermo nella guardiola degli infermieri per salutare e chiedere come va e noto che di solito ringraziano e chiedono di ritornare. La domenica di Pasqua ho ricevuto un messaggio da parte di una caposala nel quale ringraziava per la mia presenza e raccontava della morte di un paziente avvenuta in quel giorno in un momento in cui non era presente il cappellano: le infermiere si erano raccolte in preghiera e avevano segnato una croce sulla fronte della persona appena spirata. Una notizia pasquale che mi ha commosso!

Testimonianza di don Stefano Menegollo

Svolgo da più di tre anni il mio servizio sacerdotale come cappellano all’ospedale di Mantova. Pensavo ormai di aver preso dimestichezza con questo ambiente. Invece la novità e l’imprevedibilità di questo virus hanno scombussolato buona parte delle abitudini e delle modalità relazionali che avevo consolidato nel corso di questi anni.

Prima di tutto sono cambiate le modalità di incontro con le persone ricoverate.

La raccomandazione di ridurre al minimo i tempi di permanenza nelle stanze dei malati e la necessaria distanza di sicurezza da tenere nei confronti di chi può essere causa di contagio (con la conseguente impossibilità di una “terapeutica” stretta di mano), mi costringono spesso a limitare la comunicazione al solo contatto visivo, appannato e oscurato da mascherine e respiratori. E’ facile cogliere, sul volto delle persone ricoverate, uno sguardo di domanda, di timore (e qualche volta di terrore) di fronte alle imprevedibili conseguenze di questo contagio. Spero che i malati possano cogliere in me una “silenziosa presenza consolatrice”.

Quando invece è possibile scambiare qualche parola, quasi mai il discorso si riduce a superficiali considerazioni. Il silenzio, la solitudine, la sofferenza costringono il malato a riflettere su aspetti della vita fino ad ora lasciati in secondo piano. Più volte mi è stato chiesto se non ho paura di essere contagiato. E’ stata questa l’occasione per dare una semplice e convinta testimonianza sul tema della morte e del Paradiso che ci aspetta.

Mi sono trovato più volte a fare da intermediario tra il ricoverato e la famiglia. Spesso l’impossibilità di contattare direttamente i propri cari diventa per il malato una fonte di inquietudine. Anche ai familiari, ricevere qualche messaggio da parte dei propri cari, è servito per sollevare la tensione accumulata nel corso di questi giorni.

Con il personale sanitario si è instaurata una buona sintonia e cooperazione. Dopo una iniziale incertezza sull’opportunità della mia presenza nei reparti Covid, mi accorgo adesso di non essere più visto come un “intruso”. La grande croce che disegno ogni giorno sul camice mi permettere di essere riconoscibile nel mio particolare compito di “medico delle anime”. Più volte mi è stata chiesta una benedizione del reparto e degli operatori sanitari ivi presenti. Spesso sono gli stessi medici e infermieri a chiedere una parola di conforto e di consolazione.

 

 

 

 

 

 

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