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Trapianti: scoperto gene che provoca il rigetto.
Aspetti bioetici
Autore: Armando Savignano
E’ stato individuato un gene che provoca il rigetto nei trapianti di organo, secondo quanto emerge dalla pubblicazione sul New England Journal of Medicine. I ricercatori hanno identificato il gene LIMS1 che, quando risulta diverso tra donatore e ricevente, cioè incompatibile, contribuisce a peggiorare la riuscita del trapianto. La scoperta aiuterà sicuramente a migliorare la scelta dei donatori. Nel caso dei trapianti, come è noto, le caratteristiche genetiche dei tessuti svolgono il ruolo più importante, un po’ come i gruppi sanguigni nel caso delle trasfusioni. Sappiamo però che anche nelle condizioni più favorevoli, una certa quota di trapianti comunque viene rigettato a causa di incompatibilità per altre caratteristiche genetiche rilevanti per i trapianti.
Grazie ad un approccio cosiddetto genomico, vale a dire di analisi di migliaia di caratteristiche genetiche di donatori e riceventi di trapianto renale, si è identificata una combinazione genetica che più frequentemente era presente nei riceventi il cui trapianto era stato rigettato. In caso di trapianto di rene che provenga da un donatore con la variante che esprime la proteina LIMS1, i riceventi che geneticamente non la producono possono riconoscerla come estranea ed indirizzare contro di essa una risposta immunitaria di rigetto dell’intero trapianto. Si è infatti dimostrato che i riceventi negativi per la proteina sviluppano – quando trapiantati con reni positivi – anticorpi anti-LIMS1. Una certa quota di trapianti smette di funzionare nel tempo, principalmente perché il sistema immunitario dell’ospite riconosce l’organo trapiantato come diverso e lo rigetta. Per questo motivo il 20% circa di chi attende un trapianto di rene lo sta aspettando per la seconda volta. Di qui l’importanza di migliorare l’abbinamento tra donatore e ricevente, selezionandoli per caratteristiche genetiche compatibili.
Nonostante queste importanti progressi nella ricerca, la donazione di organi in Italia risulta ancora insoddisfacente. In Italia nel 2018 sono stati effettuati 3.718 trapianti. La loro efficacia è indubbia: per chi riceve un trapianto. La probabilità di sopravvivenza è di circa 70% a 5 anni, rispetto ad una prospettiva che senza trapianto non lascerebbe molto spazio. Quella dei trapianti è, pertanto, una cura quasi risolutiva della malattia.
La liceità morale dell’omotrapianto da cadavere implica anzitutto la decisiva questione dell’accertamento della morte dal momento che se il donatore fosse ancora
in qualche modo vivo si tratterebbe di una violazione del comandamento di ‘non uccidere’. Il problema dell’accertamento della morte ha portato negli anni settanta del secolo scorso ad un sostanziale mutamento di prospettiva, poiché si è passati dalla morte cardiaca alla morte cerebrale ed attualmente si tende ad andare ancora oltre in questa direzione grazie alla medicina tecnologica. Si può tuttavia rilevare che, al di là di casi clamorosi quanto eccezionali (risvegli), la morte cerebrale presenta un grado di certezza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi dal punto di vista medico-scientifico.
Una volta accertata la morte, occorre l’autorizzazione all’espianto mediante un consenso valido. A tal proposito è fondamentale anche l’autorizzazione e il consenso da parte dei familiari, purché correttamente informati dal personale medico mediante quella sensibilità adeguata alle particolari circostanze della morte di un congiunto. Anche in Italia, con la legge 91 del 1999, vige la regola del silenzio-assenso, sicché tutti i cittadini maggiorenni comunicano la propria volontà al riguardo e il silenzio (ovvero la mancata comunicazione) equivale al tacito assenso all’espianto.
Quanto alle motivazioni morali per il consenso, in genere si fa appello all’altruismo, alla solidarietà ed al dono gratuito affinché in qualche modo il donatore possa rivivere in un’altra persona. Ma non bisogna farsi soverchie illusioni sul carattere universale della benevolenza umana, sicché alcuni auspicano l’introduzione di forme di incentivazione che tuttavia non possono consistere in compensi monetari che spianerebbero la pericolosa ed illecita via al mercato degli organi, per sottacere delle tragiche situazione di mercato nero di organi col conseguente sfruttamento delle persone più deboli.
Per superare le difficoltà inerenti alle varie forme di consenso, alcuni considerano l’autorizzazione all’espianto alla stregua di una decisione sociale, come peraltro avviene nel caso dell’autopsia. Ma anche a proposito di tale analogia non mancano obiezioni giacché non si tratta, nel caso dell’espianto, di ovviare ad un eventuale male sociale, anche se negare un espianto può configurarsi come un’ingiustizia sociale per un eventuale ricevente.
Il trapianto non implica risvolti etico-antropologici, con speciale riguardo all’identità personale, poiché si tratta piuttosto di problematiche psicologiche dal momento che senza adeguata ed opportuna preparazione, ricevere un organo costituisce indubbiamente un’esperienza che coinvolge nel profondo il vissuto di una persona. Quanto poi allo xenotrapianto, a parte le questioni tecniche tuttora irrisolte, emergono problemi etici specie sulla liceità di uccidere animali a tale scopo. E che dire poi degli ostacoli frapposti anche da concezioni religiose e mistiche come ad esempio la reincarnazione che a volte rappresentano un ostacolo insormontabile al trapianto in paesi caratterizzati da un elevato livello di civiltà?
Armando Savignano